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Sovrappopolazione e sottosviluppo.

La Conferenza del Cairo

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Comandè Marco

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Capitolo 4

Quale futuro

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s) Globalizzazione delle culture o scontro tra civiltà ?

 

Quattro modelli di società, quattro filosofie di vita

Nella preistoria, gli uomini erano divisi in piccole comunità in lotta fra di loro e con la natura. Per questa epoca non si può parlare di civiltà, perché gli interessi di queste comunità non vanno oltre il procacciamento delle risorse e la difesa dei membri della propria tribù. Questi uomini non hanno una coscienza sviluppata, pertanto le loro credenze religiose non si spingono oltre il timore per gli dei della natura, il sole, il fulmine, il fuoco, il vulcano.
Con la scoperta dell'agricoltura, le cose cambiano. La necessità di coltivare i campi spinge gli uomini a creare delle comunità più ampie, che vivono in un territorio ben preciso da difendere; questo territorio diventa, di conseguenza, sacro ("la Terra promessa da Dio"). Le comunità, siano esse delle signorie, dei latifondi, dei feudi, delle dittature, degli Imperi, hanno bisogno di una base sociale atta a garantire lo scopo primario del mantenimento e della riproduzione degli individui ("crescete e moltiplicatevi"). Le condizioni ambientali non offrono molte opzioni, in questo senso: le carestie, pestilenze e guerre costringono le varie comunità a stabilire una serie di regole inviolabili (la "Legge sacra").
La comunità può funzionare solo se tutti i membri sacrificano il proprio interesse in nome del bene collettivo ("credere, obbedire, combattere"). Per assicurarsi il controllo delle attività individuali, queste ultime diventano ereditarie e la mobilità sociale si fa lenta e difficile (il villaggio rurale circoscrive i legami alla sola parentela). L'unico criterio per accedere ai vertici del potere aristocratico è la virtù, e questo è uno dei motivi per cui nasce la religione. La religione nasce anche per giustificare la superiorità della propria comunità rispetto alle altre (la "razza eletta").
L'idea di perfezione razziale si spinge fino a negare il concetto di patologie ereditarie; se uno muore, la colpa è degli altri. Forse un esempio attuale chiarisce: un giovane si droga, la colpa è della modernità che gli ha dato troppa libertà, degli stranieri che producono la droga (non ha importanza se lo fanno perché sono poveri, il dogma economista è negato in maniera totale), dei mafiosi che portano la droga in Occidente, e dei comunisti che vogliono l'antiproibizionismo. In nessun caso il giovane è già predisposto a drogarsi, a meno che non sia un comunista egli stesso, e quindi un parassita.
La cosa più curiosa di questa presa di posizione è che i progressi medico-scientifici hanno ridotto i tassi di mortalità, quindi se in passato si moriva, la colpa non poteva essere di nessun altro che di se stessi: questo non lo ammetterà nessun nazionalista. E comunque anche se oggi si muore di meno, "si stava meglio quando si stava peggio" perché il progresso avrebbe portato vizi e lussi. In realtà, se la gente vive il doppio che in passato si può dubitare che abbia conosciuto questi vizi. Ma forse si voleva che molti morissero perché viziosi: in questo caso, attribuire all'"altro" il ruolo di "untore" è schizofrenia pura.
Ogni straniero è un nemico, perché - sottinteso - ragiona come te e utilizza lo strumento della guerra per conquistare le tue terre. Per difendersi dal nemico esistono due sole armi: il primo è la "purezza della razza", cioè l'alta prolificità e la subordinazione della donna, essere geneticamente inferiore all'uomo ovvero "angelo del focolare"; il secondo è la scienza al servizio della guerra.
Tra parentesi, se lo straniero ragiona come te e può batterti se utilizza la tua stessa tecnologia, come fa ad essere geneticamente inferiore? Scientificamente non è dimostrato. Ed infatti, se fino al '700 possiamo parlare di scontro tra civiltà è perché le varie civiltà combattevano ad armi pari. Secondo Huntington (vedere più avanti), la globalizzazione ripristina la parità negli scontri.
Per evitare, inoltre, che la struttura piramidale del potere venga a meno, si cerca di mantenere immutate le condizioni che hanno permesso la conquista del potere medesimo (staticità del sistema), ed ecco il perché dell'avversione per le novità. L'odio verso la novità spinge ad un'attenzione quasi maniacale verso tutti i riti e i simboli della comunità: la barba e il velo islamici, la foto del dittatore in ogni abitazione, l'iscrizione obbligatoria al Partito, il saluto nazista.
Tutte le comunità del passato, e molte del presente, ragionano secondo questo schema. Riportiamo qui l'esempio del nazismo, perché è stato il più discusso e il più controverso; i postulati fondamentali della dottrina della razza ariana si possono sintetizzare in breve così:
1) Ogni progresso sociale avviene attraverso una lotta per la vita, in cui i più capaci sono selezionati mentre i più deboli soccombono. Questa lotta avviene nell'ambito di una razza, dando così origine ad una élite naturale, ed anche tra le razze e le culture che esprimono le nature particolari delle razze diverse ("la guerra come sola igiene del mondo").
2) L'ibridizzazione che avviene attraverso la commistione di due razze porta sempre alla degenerazione di quella superiore. Questi ibridismi razziali provocano la decadenza culturale, sociale e politica, ma una razza può purificarsi per il fatto che gli ibridi tendono a scomparire rapidamente.
3) Sebbene la cultura e le istituzioni sociali esprimano direttamente le capacità creative proprie della razza, tutte le altre civiltà o le culture di rilievo sono creazione di una sola razza o al massimo di poche. Specificamente le razze si possono dividere in tre tipi: la razza creatrice di cultura o ariana; le razze portatrici di cultura che possono adottare ed adattare la cultura altrui ma non crearne una propria; la razza distruttrice della cultura e cioè la razza ebraica (il fantomatico complotto giudaico-massonico-cristiano). La razza creatrice esige degli "ausiliari" nella forma di lavoro o servizi compiuti da razze-suddite o di qualità inferiore.
4) Nella razza creatrice, l'ariana, l'autoconservazione si è trasformata da egoismo in cura della comunità. Il pieno senso del dovere e l'idealismo (l'onore), più che l'intelligenza, sono le qualità morali preminenti della razza ariana. (Sabine, p. 696)
Implicito in questa analisi è il richiamo sentimentale ("romantico") ad un vagheggiato Impero medioevale, che sarebbe esistito "molto prima che il continente americano fosse scoperto", e che sarebbe decaduto in seguito alla contaminazione con le "razze inferiori". Tutti i riti, i simboli e le leggi approvate dal nazismo sarebbero già esistiti nell'antico Impero, e sarebbero stati ripristinati in senso di devozione verso i progenitori, ma anche per conservare la purezza della nazione, per salvaguardare l'apparenza di staticità e per imporre le vere e sacrosante regole di vita che porterebbero al successo. (Sabine, p. 702)
Gli effetti pratici della dottrina razziale sulla politica nazista sono stati triplici. In primo luogo essa ha portato ad una politica generale d'incoraggiamento dell'aumento della popolazione e, in particolare, degli elementi ariani, attraverso sussidi matrimoniali e familiari, anche se nello stesso tempo si è insistito sulla necessità d'espandersi territorialmente perché la Germania è diventata sovrappopolata (lo "spazio vitale": Marx, par. e). Questa politica è giunta ad un virtuale incoraggiamento dei rapporti sessuali irregolari e della nascita illegittima.
In secondo luogo, la dottrina razziale ha condotto alla legislazione eugenistica del 1933. Dichiaratamente questa è diretta a prevenire la trasmissione di malattie ereditarie, ma in pratica è stata una politica generale di sterilizzazione e di sterminio dei deficienti mentali. Questa politica è stata seguita palesemente con barbara severità.
In terzo luogo, la dottrina razziale ha prodotto la legislazione antisemita del 1935 e del 1938. Anche questa legislazione afferma di mirare all'accrescimento o alla conservazione della purezza della razza. Attraverso di essa sono stati messi fuori legge i matrimoni fra tedeschi e persone con un quarto (o più) di sangue ebraico; i beni degli ebrei sono stati confiscati; gli ebrei sono stati esclusi dalle professioni e dagli affari, sono stati ridotti ad uno stato di inferiorità civile più propria di "sudditi dello Stato" che di cittadini. Queste misure hanno raggiunto il culmine nella politica di totale sterminio durante la seconda guerra mondiale, e nella costituzione degli ebrei sopravvissuti al lavoro forzato. (Sabine, p. 698-699)
Il sistema patriarcale non è l'unico possibile: ve ne sono due in alternativa, quello borghese e quello comunista. Entrambi si assomigliano quanto allo scopo prefissato, quello di garantire il benessere dell'umanità, ma si differenziano quanto ai mezzi: il denaro nel primo caso, la dittatura del proletariato nel secondo. Per comprendere la filosofia borghese, prendiamo come modello il fumetto di Topolino, che non a caso è nato nella patria per eccellenza della borghesia (gli Stati Uniti). (Topolino)
Uno dei personaggi più importanti è Paperon de Paperoni, il papero più ricco del mondo. È lui la formica parsimoniosa, che ha accumulato soldi a poco a poco: il suo primo centesimo (portafortuna) come lustrascarpe a 5 anni (o giù di lì) nel Klondike, una regione nordamericana ricchissima di oro. Con il guadagno derivato dall'attività di lustrascarpe, si procura il materiale per cercare l'oro (il suo primo investimento); grazie al suo fiuto (leggendario) per il denaro e i metalli preziosi, lo trova facilmente.
Diventato proprietario di alcune delle miniere più ricche del mondo, fa investimenti ovunque possa trarre qualche guadagno, così arriva a costruirsi il suo Impero economico. L'unico limite che incontra Paperone, nei suoi affari, è il rispetto per l'ambiente: il significato sottinteso è che il denaro è utile, ma molto più importante è la legge base della natura, cioè il mantenimento e la riproduzione degli individui.
Al contrario, la cicala spendacciona è uno dei suoi nipoti: Paperino. Costui preferisce la bella vita al denaro, ed a furia di spendere finisce sommerso dai debiti: qualunque negoziante ha un credito con lui, ma il suo primo creditore è lo zio, che finisce così per ipersfruttarlo ogni volta che lo ritiene opportuno.
Paperino ha a sua volta tre nipotini, Qui, Quo e Qua, tre ragazzini di volta in volta intelligentissimi o ignorantoni, ottime prede del consumismo sfrenato (e pertanto clienti ideali del mercato capitalista). La fidanzata di Paperino si chiama Paperina, ed è una donna gelosissima, pettegola, dominatrice, amante delle telenovele strappalacrime: esattamente come tutte le femmine protagoniste del fumetto. La parità uomo-donna spinta all'eccesso, fino a questo punto arriva la visione capitalistica della società! Per di più, il matrimonio è tabù: nessuno si sposa, il fidanzamento è eterno. Al massimo si può favoleggiare.
Un altro personaggio su cui vale la pena soffermarci è Archimede Pitagorico, il più illustre scienziato del mondo: ci serve per comprendere lo stretto legame tra capitalismo e scienza. I Bassotti sono ladri di professione, che sognano di rubare il denaro a Paperone per farsi la bella vita; il guadagno onesto non fa per loro perché le virtù gli ripugnano, il lavoro, la carità, l'educazione: ecco le "pecore nere" della famiglia dei Paperi.
Paperopoli e Topolinia sono le città dove vivono i personaggi: l'habitat è per l'appunto urbano, l'ideale per una famiglia borghese, che può così dispiegare al meglio le proprie risorse umane, politiche, economiche. I sindaci delle due città sono raffigurati come maiali: un modo conformista per dare l'idea dell'ingordigia dei politici, che però sono utili lo stesso perché hanno l'autorità sui cittadini, cioè sui clienti del mercato capitalista. I cittadini di tanto in tanto, quando non sono soddisfatti, manifestano apertamente la loro insoddisfazione, anche con qualche piccola rivoluzione (un richiamo alle rivoluzioni borghesi?).
Tutti i personaggi del fumetto non hanno una personalità ben precisa, ad ogni storia cambiano carattere: a volte irascibili, a volte pazienti, a volte prudenti, a volte temerari. È l'ambiguità tipica della società borghese: siccome ogni persona può tirare fuori il meglio e il peggio di sé, le indagini statistiche e sociologiche non riescono ad imbrigliare queste personalità dietro modelli ben precisi.
Tuttavia, una cosa in comune questi personaggi ce l'hanno: la curiosità verso tutto quello che è estraneo al loro mondo. Molte storie sono ambientate all'esterno: un'isola tropicale dove vivono indigeni bonari, creduloni, primitivi, intelligenti, o anche violenti, fanatici, assetati di denaro; uno Stato dove le consuetudini patriarcali sono rimaste inalterate; un popolo diventato capitalista che fa affari o intrattiene relazioni diplomatiche con Paperopoli e Topolinia.
Ogni volta, i personaggi del fumetto si mostrano affascinati dalle culture locali, solidali e desiderosi di apprendere: non come il religioso che giudica lo straniero come un "diverso", o un essere inferiore, o un infedele, oppure qualcuno da convertire a forza. Ed infatti né Paperone, né Paperino, né Paperina, né gli altri hanno una loro religione essendo dei tipi molto pratici; ragionamento borghese: non escludiamo che un Dio possa esistere, ma se esiste non può non aver costruito il mondo su basi materiali, ed è quello che conta; qualunque cosa può andar bene, purché scientificamente dimostrata.
La filosofia comunista è ben sintetizzata nella Repubblica di Platone. "Uno Stato si organizza perché nessuno di noi è autosufficiente, anzi ognuno ha molti bisogni. Un uomo si mette insieme ad un altro per un bisogno, e a un altro ancora per un ulteriore bisogno, perché entrambi ne hanno molti. Così, riunendosi parecchie persone in un'unica sede per ottenere compagnia e soccorso, si forma quella comunità a cui diamo il nome di Stato". (Platone, p. 129)
Il guaio è che, come ammette lo stesso Platone, questo Stato perfetto finora si è rivelato utopico, "è fondato solo nelle nostre parole, perché penso che al mondo non si trovi da nessuna parte. (…) Ma forse esiste il suo modello in cielo per chi sia disposto a vederlo e a fondare se stesso su di lui" (Platone, p. 761). Per questo la filosofia comunista, in questi secoli, è stata una filosofia negativa o fallimentare, che si caratterizza più per la contestazione dell'ordine esistente (nologo, noglobal) che per la costruzione di un ordine positivo.
Ma vi è qualcosa di più in questo tipo di contestazione, qualcosa di patologico. Dal 1688 al 1917, sarebbe stata contestata la società preindustriale in nome della democrazia industriale. Dal 1917 al 1990, sarebbe stata contestata la democrazia industriale in nome del comunismo iperindustrializzato. Dal 1990 in poi, sarebbe stata contestata la democrazia industriale in nome della società preindustriale. Queste contraddizioni, secondo alcuni, sarebbero la prova della buona fede e dell'ingenuità di amici sinceri di cui ti puoi fidare; secondo altri dimostrerebbero l'ipocrisia del pensiero vetero-comunista e disfattista.
Ecco la tabella riepilogativa:

  Società tribale Società patriarcale Società borghese Società comunista
Struttura politica  Tribalismo  Religione  Politica  Dittatura
Struttura economica  Caccia  Agricoltura  Industria  Industria
Struttura sociale  Nomadismo  Tradizione  Modernità  Comunità
Tipo di famiglia  Comunitaria  Estesa  Nucleare  Aperta
Habitat  Caverne Villaggio rurale  Città Oscillazione tra villaggio rurale e città
Valori fondanti Prestigio, virilità, autonomia Eroismo, moralità, staticità Individualismo, responsabilità, dinamismo Liberté, égalité, fraternité
Limiti Sopravvivenza, infanticidio femminile Carestie, pestilenze, guerre Patologie ereditarie, inquinamento Carestie, pestilenze, instabilità

All'interno di questa tabella, ci sembra molto istruttivo, per il proseguimento della lettura, puntare la lente d'ingrandimento sulle morali patriarcale e borghese:

Morale patriarcale

Morale borghese
Chi sgarra va al rogo Nessuno è perfetto
Bisogna essere virtuosi La virtù è roba di pochi
La virtù è roba nostra Chi ha virtù fa carriera
I vizi vanno puniti Bisogna frenare l'istinto
Hai scelto il male e non puoi più pentirtene Ogni famiglia ha le sue pecore nere
Bisogna inventarsi uno scopo (così nasce la religione) Lo scopo di tutte le comunità è il mantenimento e la riproduzione degli individui
La natura è malvagia in quanto fenomeno materiale e non spirituale La legge di natura dice che ogni specie vivente accudisce i propri figli

La morale patriarcale spesso si dimostra a doppio senso, e se spinta all'eccesso può diventare inquisitoria. Per esempio, si dice che "la virtù premia"; in realtà, siccome la virtù è roba di pochi, allora diventa una scusa per governare. Che cosa si intenda poi per virtù, la risposta veritiera e taciuta è "quello che piace a noi". Si osanna tanto la tradizione, ma si tralascia di studiare le tradizioni altrui perché, se lo si facesse, verrebbe a meno l'idea dello straniero come immorale (anche lo straniero rispetta le tradizioni).
I criteri guida della società patriarcale sono la santità e l'eroismo; l'altra metà del discorso è che tutti gli altri muoiono. Psicologicamente, è il desiderio di dominare riducendo la gente in schiavitù, "la vile plebe". Infatti "il vizio viene sempre punito"; in realtà, prima si lascia libero sfogo agli istinti per dimostrare che quella persona è viziosa, così dopo si ha la scusa per punire tutti i vizi che vuole. Si prenda il ragionamento opposto della morale borghese e platonica: frena i tuoi istinti, solo così potrai costruirti una vita armonica. Infine, le donne sono caste e pure; in realtà, possono solo fare figli e nient'altro.
L'inquisizione impera sempre sotto i sistemi patriarcali, "si tratta della forma di falsità più diffusa, quella veramente sotterranea, che esista sulla faccia della terra" (Nietzsche, af. 9: l'aforisma, che abbiamo già citato nel paragrafo e, inizia con "A questo istinto di teologo muovo guerra"). Sono quattro i modi con cui si manifesta la volontà inquisitoria:
1) nega il diritto alla conoscenza del bene e del male, ed impone così la censura (ricordiamo che educazione è sinonimo di libertinaggio);
2) nega il diritto a mettere in gioco la propria vita, in una scommessa con la morte (la morale del gregge, si veda Nietzsche, Crepuscolo…, "I "miglioratori" dell'umanità");
3) fa attribuire anche ai figli le colpe dei padri; vi è una differenza molto sottile nel lessico dei processi inquisitori e in quelli moderni ("borghesi"): nel primo caso si puniscono le "persone", così i figli, in quanto figli della persona, ne subiscono le conseguenze; nel secondo caso si puniscono le "azioni", così i figli non possono aver commesso quelle azioni e non vengono puniti;
4) insegna il gusto della vendetta: occhio per occhio, dente per dente (da dove si crede che trovino alimento le guerre?).
Per il futuro della cultura e della società, le opinioni sono discordanti. Con la fine della Guerra fredda, gli opinionisti si sono divisi in due schiere: gli apocalittici e gli integrati. I primi affermano che il mondo si sta autodistruggendo: inquinamento, integralismo, guerre tribali, corruzione. I secondi, più ottimisti, affermano che il mondo si sta avviando verso l'integrazione di tutte le nazioni, le culture, le economie, permettendo il raggiungimento di livelli di benessere e di stabilità mai raggiunti finora.
Naturalmente le posizioni non sono così estreme, però esprimono bene i punti di vista. Nelle prossime pagine esponiamo tre opinioni tra le tante: quella noglobal e quella - testuale - degli studiosi Huntington e Fukuyama. La scelta delle opinioni non è casuale: i noglobal sono l'espressione concreta della filosofia comunista del mondo; Huntington ha scritto "Lo scontro delle civiltà", un libro pessimista che ricalca (volontariamente o meno) la filosofia patriarcale; Fukuyama, con il suo ottimistico "La fine della storia", ricalca invece la filosofia borghese. Alla fine, per concludere, faremo qualche riflessione polemica.

Nologo, noglobal

Senza pretendere di ergerci a ermeneutica sicuri del pensiero comunista, ci pare di poterne individuare tre punti cardine. Il primo è il deficit di democrazia che i noglobal riscontrano nella globalizzazione e nelle istituzioni che, di fatto, la guidano e dovrebbero governarla. Innanzitutto l'espropriazione della sovranità dello Stato nazionale che sarebbe, invece, la sede vera della sovranità e della democrazia rappresentativa.
Poiché le decisioni che possono incidere sulle cause e sugli effetti della globalizzazione avvengono al di fuori degli Stati nazionali (FMI, BM, OMC e ONU dominati dai rappresentanti del G8, che secondo i noglobal non ha alcuna rappresentatività democratica), esse espropriano di fatto la loro sede naturale e, quindi, i cittadini che hanno democraticamente eletto i loro rappresentanti. È quindi necessario pensare a forme di governo appropriate a quelle politiche globali. Forse un vero e proprio governo globale.
Il secondo punto è la dinamica con la quale è avvenuta tale progressiva espropriazione illegittima e antidemocratica. Essa è legata alla logica del mercato e agli interessi delle multinazionali. Il potere di queste ultime sovrasta il potere delle politiche nazionali e la logica di mercato sovrasta la logica del governo umano, che deve invece farsi carico anche dei più deboli.
Tutto è piegato agli interessi del mercato e tutto si spiega in questo modo: dall'eccesso di ozono nell'atmosfera agli organismi geneticamente modificati, alle liberalizzazioni del commercio ad opera della OMC (Organizzazione mondiale del commercio), alle ricette di risanamento imposte dal FMI e dalla BM, alla distruzione delle identità culturali deboli ad opera delle multinazionali dell'audiovisivo, all'abbandono dei Paesi in via di sviluppo alla loro povertà, all'impossibilità di curare le malattie infettive (HIV/AIDS in testa) per le logiche esclusivamente mercantili che guidano la ricerca e la produzione farmaceutica, alla negazione dei diritti dei lavoratori. E via di questo passo.
Il terzo punto contiene le conclusioni. Occorre fermare tale logica di mercato e i suoi maggiori artefici: le multinazionali da una parte e le istituzioni che operano nella loro logica - FMI, BM, OMC - dall'altra. Fermando queste ultime, o intralciandole, si può pensare di mettere in difficoltà anche ciò che esse promuovono (mercato e multinazionali), indebolire il loro potere e, quindi, riconoscere altre priorità: un altro ethos globale dettato dai noglobal stessi, il quale rappresenterebbe, quello sì, i più autentici valori dell'uomo esprimendo il patrimonio comune di tutta l'umanità. Nel frattempo queste istituzioni, in particolare l'OMC, devono occuparsi di diritti del lavoro e di ambiente piegando la loro opera, i loro regolamenti e la loro "giurisdizione" a quei valori. (Del Debbio, p. 7-9)

Huntington e lo scontro delle civiltà

"La storia umana è la storia delle civiltà. È impossibile pensare allo sviluppo dell'umanità in termini diversi da questi, uno sviluppo che percorre intere generazioni di civiltà: nel corso della storia, le civiltà hanno rappresentato per l'uomo la più importante fonte di identificazione. (Huntington, p. 43)
Esiste una ragionevole convergenza di opinioni sull'esistenza di almeno dodici grandi civiltà, di cui sette ormai estinte (mesopotamica, egiziana, cretese, classica, bizantina, centroamericana, andina) e cinque ancora esistenti (cinese, giapponese, indiana, islamica e occidentale). A queste sei civiltà del mondo contemporaneo sembra utile, ai fini dell'analisi, aggiungere quella latinoamericana e forse anche quella africana. (Huntington, p. 51)
I rapporti tra le civiltà hanno attraversato due fasi, ed oggi ne stanno vivendo una terza. Per oltre tremila anni successivi alla nascita delle prime civiltà, i contatti tra esse sono stati, salvo alcune eccezioni, o del tutto inesistenti, o limitati, oppure intermittenti ed intensi. Le civiltà erano, infatti, distanti nel tempo e nello spazio. (Huntington, p. 56-57)
Il cristianesimo europeo ha iniziato ad emergere come civiltà a sé stante nell'VIII e IX secolo. Dopo essersi assicurati il controllo sull'intera Europa, i vari Stati hanno cominciato, a partire dal 1500, a conquistare i territori d'oltremare, fino a raggiungere la massima espansione nel periodo tra le due guerre mondiali. Tra le possibili cause di un così drammatico e straordinario sviluppo, sono stati inclusi: il pluralismo sociale, ovvero la creazione di varie istituzioni preposte alla difesa degli interessi corporativi; l'individualismo; la separazione tra Stato e Chiesa; il progresso tecnologico, che ha permesso il potenziamento dell'apparato economico e militare. (Huntington, p. 61)
Con il processo di decolonizzazione, i rapporti tra le varie civiltà sono passati da una fase caratterizzata dall'influenza unidirezionale di una civiltà su tutte le altre, a una serie di interazioni variegate e multidirezionali tra tutte le civiltà. Dall'unico mondo (occidentale) del 1920, si è passati agli oltre sei mondi degli anni '90. (Huntington, p. 64-65)
Gli Stati nazionali restano gli attori principali della scena internazionale. Le loro azioni sono ispirate come in passato dal perseguimento del potere e della ricchezza, ma anche da preferenze, comunanze e differenze culturali. I principali raggruppamenti di Stati non sono più i tre blocchi creati dalla Guerra fredda, ma le sette o otto maggiori civiltà del globo. Le società non occidentali, particolarmente in Asia orientale, stanno sviluppando le loro potenzialità economiche e creano le basi per l'acquisizione di una maggiore potenza militare e influenza politica. Via via che acquisiscono sempre maggiore potere e sicurezza di sé, le società non occidentali tendono a difendere sempre più strenuamente i propri valori culturali e a rifiutare quelli imposti loro dall'Occidente. (Huntington, p. 16-17)
Nella prima metà del XX secolo, le élite intellettuali hanno di norma creduto che la modernizzazione economica e sociale dovesse portare alla scomparsa della religione quale elemento significativo dell'esistenza umana. La seconda metà del secolo ha dimostrato l'infondatezza di questa tesi. La modernizzazione economica e sociale ha raggiunto dimensioni mondiali, eppure al tempo stesso si è verificata una generale rinascita religiosa. (Huntington, p. 131)
È venuto alla luce un nuovo approccio religioso, volto non più a un adeguamento ai valori laici, bensì al recupero della sacralità invece come fondamento dell'organizzazione della società, se necessario anche attraverso un cambiamento della società stessa. Questa posizione, variamente articolata, invoca il distacco da un modernismo rivelatosi fallace nel momento in cui ha voluto allontanarsi da Dio.
Cristianesimo, islamismo, ebraismo, induismo, buddismo, ortodossia hanno goduto tutte di un rinnovato impulso in termini di adesione e partecipazione popolare. All'interno di ciascuna di queste religioni sono sorti movimenti fondamentalisti dediti alla purificazione delle proprie dottrine e istituzioni, nonché a una riconfigurazione dei comportamenti individuali, sociali e pubblici in accordo con i dogmi religiosi. (Huntington, p. 132)
Non è un caso che il fondamentalismo sia sorto in Paesi in cui la pressione demografica rende impossibile, per gran parte della popolazione, il perpetuarsi del vecchio modello del villaggio, ed in cui le comunicazioni di massa, imperniate su uno stile di vita urbano, penetrando nei villaggi hanno iniziato a corrodere una tradizione di vita agreste vecchia di secoli. (Huntington, p. 136)
I protagonisti della rinascita religiosa provengono da tutte le classi sociali, ma in particolare da due ceti, entrambi di estrazione urbana ed entrambi socialmente mobili. Gli elementi di fresca urbanizzazione hanno generalmente bisogno di sostegno e guida emotiva, sociale e materiale, tutte cose che i gruppi religiosi offrono più di chiunque altro. L'altro ceto è la nuova classe media: nei Paesi musulmani come altrove, la rinascita religiosa è un fenomeno urbano e coinvolge persone di mentalità moderna, istruite, impegnate in carriere di successo in ambito professionale, statale e commerciale.
La rinascita delle religioni non occidentali è la più possente manifestazione di antioccidentalismo esibita dalle società non occidentali. Non costituisce un rifiuto della modernità: è un rifiuto dell'Occidente e della cultura laica, relativista e degenerata ad esso associata. È un rifiuto di quella che è stata definita l'"intossicazione occidentale" delle società non occidentali. È una dichiarazione di indipendenza culturale dall'Occidente, la fiera dichiarazione che "saremo moderni, ma non saremo come voi". (Huntington, p. 140-142)
La rinascita delle culture locali è ulteriormente favorita dal paradosso della democrazia: l'adozione di istituzioni democratiche occidentali da parte delle società non occidentali consente lo sviluppo e finanche l'avvento al potere di movimenti politici antioccidentali. Negli anni '60 e '70 del Novecento, i governi occidentalizzati e filooccidentali di vari Paesi in via di sviluppo sono stati minacciati da rivoluzioni e colpi di Stato; negli anni '80 e '90 hanno corso, e corrono tuttora, il rischio sempre maggiore di essere rimossi in seguito ad elezioni politiche.
La democratizzazione fa a pugni con l'occidentalizzazione, e quello democratico è per sua natura un processo di provincializzazione anziché d'internazionalizzazione. Gli esponenti politici delle società non occidentali non vincono le elezioni facendo vedere a tutti quanto sono occidentali. Al contrario, la competizione elettorale li induce ad abbracciare quelli che considerano i valori prevalenti nel Paese, e questi hanno solitamente un carattere etnico, nazionalista e religioso. (Huntington, p. 129)
Nel mondo che sta nascendo, i rapporti tra Stati e gruppi appartenenti a civiltà diverse non saranno stretti e avranno spesso carattere antagonista, come dimostra la rinnovata competizione nel campo degli armamenti (in particolare le armi di distruzione di massa). Le cause di conflittualità tra Stati e gruppi appartenenti a civiltà diverse sono, in larga parte, le stesse di quelle che da sempre hanno generato conflitti tra i popoli: controllo sulla popolazione, territorio, ricchezza, risorse e potere relativo, vale a dire la possibilità di imporre i propri valori, istituzioni e canoni culturali a un altro gruppo e impedire che tale gruppo faccia lo stesso. (Huntington, p. 183)
La conflittualità tra gruppi di diversa cultura può anche investire questioni di carattere, appunto, culturale. Le differenze ideologiche tra marxismo-leninismo e democrazia liberale possono quanto meno essere discusse, se non risolte. Le vertenze di carattere materiale possono essere negoziate e spesso risolte mediante un compromesso. Nessuna di tali soluzioni è invece possibile con i problemi di natura culturale. È poco probabile che indù e musulmani possano risolvere la disputa se ad Ayodhya debba essere costruito un tempio o una moschea costruendo entrambi, oppure né l'uno né l'altra, oppure erigendo un edificio sincretico che funga al contempo da tempio e da moschea. (Huntington, p. 184)
L'Occidente occupa oggi una posizione dominante e resterà il numero uno in termini di potere e influenza per buona parte del XXI secoli. Nel contempo, tuttavia, si sta verificando un graduale, inesorabile e fondamentale mutamento nei rapporti di forza tra le varie civiltà, e il potere dell'Occidente in rapporto a quello di altre civiltà continuerà a declinare. Via via che il primato dell'Occidente si riduce, buona parte del suo attuale potere finirà semplicemente con lo svanire, e quella restante verrà distribuita su base regionale tra le altre grandi civiltà. (Huntington, p. 111)
Asiatici e musulmani proclamano entrambi la superiorità della propria cultura rispetto a quella occidentale. Per contro, i popoli di altre civiltà non occidentali - indù, ortodossa, latinoamericana, africana - pur rivendicando il carattere distintivo della propria cultura, quantomeno fino a metà anni '90 esitavano a proclamare la propria superiorità su quella occidentale. Asia e Islam sono dunque sole, e a volte alleate, nella loro sfida all'Occidente.
Dietro queste sfide vi sono motivi correlati ma diversi. Il desiderio di affermazione asiatico si fonda sulla crescita economica; quello musulmano scaturisce in considerevole misura dalla mobilità sociale e dallo sviluppo demografico. Entrambe le sfide hanno - e continueranno ad avere nel XXI secolo - conseguenze fortemente destabilizzanti sul quadro politico mondiale. La natura di tali conseguenze, tuttavia, differisce in modo significativo.
Lo sviluppo economico dell'Asia e la sempre maggiore autostima delle società asiatiche stanno disgregando l'ordine politico internazionale in almeno tre modi:
1) Lo sviluppo economico consente agli Stati asiatici di espandere il proprio potenziale militare, genera incertezza sui rapporti futuri tra quei Paesi e porta alla luce vertenze (specialmente territoriali: confini ed isole) e rivalità rimaste sopite durante la Guerra fredda, accrescendo così la probabilità di conflitti e di instabilità nella regione. La sola Asia orientale è il crogiolo di sei civiltà: giapponese, sinica, ortodossa, buddista, musulmana ed occidentale, cui l'Asia meridionale aggiunge l'induismo.
2) Lo sviluppo economico accresce l'intensità dei conflitti tra le società asiatiche e l'Occidente, Stati Uniti in testa, ed aumenta le possibilità per le società asiatiche di prevalere. Ad esempio il Giappone, rivale economico, sta cominciando a rendersi autonomo sul piano diplomatico; inoltre la questione dei diritti umani in Asia rimane irrisolta, malgrado le pressioni occidentali.
3) La crescita economica della maggiore potenza asiatica, la Cina, rafforza l'influenza cinese nella regione e la probabilità che la Repubblica popolare riaffermi la propria tradizionale egemonia in Asia orientale, costringendo così altre nazioni o ad "allinearsi" e adattarsi a tali sviluppi in nome della comune cultura, oppure a fare da "contrappeso" e tentare di contenere l'influenza cinese. (Huntington, p. 320)
Quanto all'Islam, la conflittualità con l'Occidente è aumentata per una combinazione di vari fattori:
1) La crescita della popolazione musulmana ha prodotto un altissimo numero di giovani disoccupati ed esasperati che abbracciano la causa islamista, premono sulle società confinanti ed emigrano in Occidente.
2) La rinascita dell'Islam ha dato ai musulmani nuova fiducia nella superiorità della propria civiltà e dei propri valori rispetto a quelli dell'Occidente.
3) I paralleli tentativi dell'Occidente di universalizzare i propri valori e le proprie istituzioni, di mantenere la propria superiorità militare ed economica e di intervenire nei conflitti del mondo islamico provocano nei musulmani un forte risentimento.
4) Il crollo del comunismo ha eliminato un nemico comune dell'Islam e dell'Occidente, rendendo più acuta in entrambi la percezione della reciproca minaccia.
5) I sempre maggiori contatti e rapporti tra musulmani ed occidentali stimolano in ciascuna delle due parti un senso tutto nuovo della propria identità e delle differenze che le separano. Tanto nelle società musulmane quanto in quelle cristiane, negli anni '80 e '90 la tolleranza ha registrato un netto declino. (Huntington, p. 309-310)
Le civiltà meridionali - africana e latinoamericana - sono relativamente deboli dal punto di vista militare ed economico. È probabile che per quanto attiene ai rapporti con l'Occidente esse imboccheranno direzioni opposte. Il matrimonio tra la civiltà latinoamericana e quella occidentale non sarà facile da realizzare, i preparativi procederanno probabilmente con grande lentezza per buona parte del XXI secolo, e potrebbe anche non consumarsi mai. E tuttavia le differenze tra Occidente e America Latina restano di poco conto rispetto a quelle che dividono l'Occidente dalle altre civiltà.
In Africa, è possibile che il governo sudafricano decida di realizzare un nuovo arsenale nucleare per assicurarsi il ruolo di Stato guida dell'Africa e scoraggiare l'Occidente dall'intervenire negli affari africani. Diritti umani, immigrazione, economia e terrorismo sono altri temi di confronto tra Africa ed Occidente. Sembra che oggi sia in atto in Africa un processo a lungo termine di de-occidentalizzazione: riduzione degli interessi e dell'influenza occidentale, autoaffermazione della cultura indigena, subordinazione in Sudafrica degli elementi di cultura afrikaner-inglesi alla prevalente cultura africana.
Se l'America Latina sta diventando più occidentale, l'Africa lo sta diventando sempre meno. Entrambe, tuttavia, restano - seppur in modi diversi - dipendenti dall'Occidente e incapaci, voto alle Nazioni Unite a parte, di influenzare in modo decisivo l'equilibrio tra l'Occidente e i suoi sfidanti. (Huntington, p. 355-357)
In un futuro dominato dagli scontri tra civiltà, l'Occidente dovrebbe rispondere rivendicando la propria cultura e sfruttando il proprio potenziale militare ed economico. Nel primo caso, bisognerebbe smettere di proclamare l'universalità dei valori occidentali ed anche il pluralismo culturale degli Stati Uniti, con la correlativa rinuncia alle radici storiche comuni con l'Europa, perché ciò disgregherebbe l'Occidente proprio mentre le altre civiltà acquistano sempre più potere nel mondo. (Huntington, p. 454-459)
Nel secondo caso, il rischio che i conflitti locali si allarghino, fino a divenire guerre di civiltà, dovrebbe indurre ad evitare i richiami pacifisti volti allo smantellamento delle armi, ma anche a rispolverare il famoso detto "la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi", vale a dire ad utilizzare gli strumenti della diplomazia per contenere il conflitto a livello esclusivamente locale, astenendosi dall'intervenire militarmente, o quantomeno procurarsi degli alleati fuori dai confini dell'Occidente nel caso il conflitto si allargasse. (Huntington, p. 472)
Se l'uomo riuscirà mai a sviluppare una civiltà universale, questa emergerà gradualmente mediante l'esplorazione e l'espansione di valori comuni. E dunque, in aggiunta alla regola dell'astensione e a quella della mediazione congiunta, la terza regola per il mantenimento della pace in un mondo di civiltà composite è la regola delle comunanze: i popoli di tutte le civiltà dovrebbero cercare di trasmettere i valori, le istituzioni e le usanze condivise da popoli di altre civiltà". (Huntington, p. 477)

Fukuyama e la fine della storia

"Si può affermare con sicurezza che il secolo XX ci ha reso tutti profondamente pessimisti riguardo alla storia. Le esperienze del secolo hanno reso molto problematica la concezione di un progresso basato sulla scienza e sulla tecnologia. La capacità della tecnologia di migliorare la vita umana è infatti decisamente dipendente da un parallelo progresso morale dell'uomo. Senza quest'ultimo la potenza della tecnologia verrà sicuramente utilizzata a scopi malvagi, e l'umanità starà peggio di quanto si prevedeva in passato.
Le guerre totali non sarebbero state possibili senza le conquiste fondamentali della rivoluzione industriale: ferro, acciaio, motore a combustione interna ed aeroplano. E da Hiroshima in poi l'umanità è vissuta sotto la minaccia della conquista tecnologica più terribile di tutte, quella delle armi nucleari. La fantastica crescita economica resa possibile dalla scienza moderna ha un lato negativo, perché in molte parti del pianeta essa ha portato ad un grave degrado ambientale ed ha fatto sorgere addirittura la possibilità di una catastrofe ecologica globale. (Fukuyama, p. 28-29)
Nonostante questo, però, gli avvenimenti in questi decenni hanno preso un'altra piega. La più grande delle sorprese è stata il crollo del comunismo in gran parte del mondo, verificatosi alla fine degli anni '80; a questo va aggiunta la crisi dell'autoritarismo, di destra come di sinistra. In alcuni casi il crollo ha portato all'instaurazione di democrazie liberali stabili e prosperose; in altri casi all'autoritarismo è successa l'instabilità, o un'altra forma di dittatura. Ma, al di là di un eventuale successo finale della democrazia, gli autoritarismi di ogni genere sono piombati in una grave crisi praticamente in ogni parte del globo. (Fukuyama, p. 34)
La debolezza dei governi autoritari della destra sta nel loro controllo incompleto della società civile. Andando al potere con un preciso mandato di ristabilire l'ordine o di imporre una "disciplina economica", molti si sono trovati a non avere più successo dei loro predecessori democratici quanto a stimolare lo sviluppo economico od a creare nella società un senso dell'ordine. E coloro che non hanno avuto successo hanno finito per rimanere presi nelle proprie reti. Questo perché le società alla cui sommità essi sedevano, man mano che in esse aumentavano l'istruzione, il benessere e le dimensioni della classe media, diventavano per loro un vestito sempre più largo. Inoltre, con lo svanire del ricordo dell'emergenza specifica che aveva giustificato i governi forti, queste società hanno finito con l'essere sempre meno disposte a tollerare regimi militari. (Fukuyama, p. 60)
I governi totalitari della sinistra hanno cercato di evitare questi problemi assoggettando al loro controllo l'intera società civile, ivi compreso quello che i loro cittadini potevano pensare. Ma un autentico sistema di questo genere poteva essere tenuto in piedi unicamente attraverso un terrore che minacciasse gli stessi reggitori del sistema. Solo che l'attenuarsi di questo terrore ha messo in moto un lungo processo di degenerazione, in cui lo Stato è venuto e perdere il controllo di certi aspetti chiave della società civile. Cosa quanto mai grave, lo Stato ha perso il controllo del sistema delle credenze. E siccome la formula socialista per lo sviluppo economico non ha funzionato, lo Stato non ha potuto impedire che i suoi cittadini prendessero atto di questo fatto e ne traessero le loro conclusioni. (Fukuyama, p. 61)
Oltre alla crisi dell'autoritarismo politico, è proseguita nel campo dell'economia una rivoluzione più silenziosa ma non meno rilevante. Avvenimento ad un tempo rivelatore e causa di questa rivoluzione è stato il fenomenale sviluppo dell'economia nell'Asia orientale, dopo la seconda guerra mondiale. Uno sviluppo che non si è limitato solo a Paesi di più antica modernizzazione come il Giappone, ma che ha finito per includere praticamente tutti i Paesi asiatici disposti ad adottare l'economia di mercato e ad integrarsi nel sistema capitalistico mondiale. I risultati da essi ottenuti hanno portato a pensare che anche dei Paesi poveri, senza altre risorse che le loro laboriose popolazioni, potevano trarre vantaggi dall'apertura del sistema economico internazionale e a creare quantità impensate di nuova ricchezza, colmando rapidamente il gap con le più radicate potenze capitaliste dell'Europa e dell'America settentrionale. (Fukuyama, p. 63)
Naturalmente non si può escludere che un giorno non verremo sorpresi da una nuova irruzione proveniente da una fonte che non era stata individuata preventivamente (l'attentato dell'11 settembre - la parentesi non è di Fukuyama: sia lui che Huntington hanno scritto i rispettivi libri prima di quella data). Ma le eventuali battute d'arresto e le delusioni che indubbiamente puntelleranno il processo di democratizzazione, oppure il fatto che non tutte le economie di mercato prospereranno, non devono farci perdere di vista il disegno più vasto che sta prendendo forma nella storia mondiale, cioè la democrazia. In altre parole, esce vittoriosa non tanto la prassi quanto l'idea liberale, in mancanza di altri concorrenti validi. (Fukuyama, p. 66)
La tesi che fossimo alla "fine della storia", ossia che non c'erano alternative praticabili alla democrazia liberale, ha suscitato una quantità di repliche irritate da parte di persone che indicavano come alternative il fondamentalismo islamico, il nazionalismo, il fascismo e un certo numero di altre possibilità. Nessuno di questi critici ritiene tuttavia che queste alternative siano superiori alla democrazia liberale, e nessuno - per quanto se ne sappia - ha suggerito una forma alternativa di organizzazione sociale ritenuta personalmente migliore. (Fukuyama, p. 360)
L'irreversibilità del processo è dimostrata anche dallo sviluppo della scienza moderna. La scienza conferisce un vantaggio militare decisivo a quelle società che sono in grado di sviluppare, produrre e dispiegare tecnologia nella maniera più efficiente. La possibilità della guerra è una forte pressione che spinge alla razionalizzazione delle società, ed alla creazione di strutture sociali uniformi tra le varie culture. Ogni Stato che voglia conservare la propria autonomia politica è costretto ad adottare la tecnologia dei suoi nemici, e a ristrutturare il proprio sistema sociale.
Ad esempio, per competere con i propri vicini gli Stati devono essere di una certa dimensione, il che costituisce un potente incentivo all'unità nazionale; devono essere in grado di mobilitare risorse a livello nazionale, il che richiede la creazione di un forte Stato centralizzato capace di imporre tasse e regulation; devono rompere vincoli regionali, religiosi e parentali che potrebbero ostacolare l'unità nazionale; devono aumentare il livello della pubblica istruzione in modo da preparare un'élite capace di produrre tecnologia; devono tenersi al corrente degli sviluppi che hanno luogo al di là dei loro confini; e dopo l'introduzione, con le guerre napoleoniche, degli eserciti di massa, devono cominciare a concedere il diritto di voto anche alle classi più povere delle loro società se vogliono essere capaci di una mobilitazione totale. (Fukuyama, p. 93)
Nessuno può sottrarsi a questa evoluzione, e le eccezioni sono poche: se uno vive in un territorio isolato o poco attraente, può anche sottrarsi alla razionalizzazione tecnologica. Oppure ci possono essere dei Paesi fortunati: l'Iran islamico ha potuto scagliarsi contro il razionalismo occidentale che produce armi potenti solo perché poteva comprarsele con i proventi del petrolio.
Il secondo modo in cui le scienze moderne possono arrivare a produrre cambiamenti storici direzionali è attraverso la conquista progressiva della natura, fatta per soddisfare i desideri umani, un progetto altrimenti noto come sviluppo economico. Lo sviluppo economico ha prodotto in tutte le società certe trasformazioni sociali uniformi, indipendentemente dalle loro precedenti strutture sociali. (Fukuyama, p. 96)
Le società industriali devono essere prevalentemente urbane, perché solo nelle città è possibile trovare un'offerta adeguata di manodopera qualificata qual è quella che richiedono le industrie moderne, e perché solo le città hanno le infrastrutture ed i servizi capaci di supportare imprese grandi ed altamente specializzate.
I lavoratori non possono rimanere legati permanentemente ad un lavoro particolare, ad un luogo particolare od a determinati rapporti sociali, ma devono essere liberi di spostarsi, devono imparare lavori e tecnologie nuove e vendere la loro forza lavoro al miglior offerente. Tutto questo provoca effetti sconvolgenti in gruppi sociali tradizionali come le tribù, i clan, le famiglie allargate, le sette religiose, e così via. (Fukuyama, p. 97)
L'industrializzazione coronata da successo produce società di ceti medi, e le società di ceti medi esigono la partecipazione politica e l'eguaglianza dei diritti. Nonostante le disparità nella distribuzione del reddito che si verificano frequentemente nelle prime fasi dell'industrializzazione, lo sviluppo economico tende in definitiva a promuovere un'ampia eguaglianza di condizioni in quanto questa crea un'enorme domanda di forza lavoro numerosa ed istruita. E questa ampia eguaglianza di condizioni predisporrebbe la gente ad opporsi a sistemi politici che non rispettano tale eguaglianza o non permettono alla gente di partecipare alla vita politica su basi di parità. (Fukuyama, p. 134-135)
Capita spesso che la democrazia, una volta al potere, non rimanga stabile. La ragione sta, in definitiva, nell'imperfetta concordanza tra popoli e Stati. Gli Stati sono creazioni politiche con un determinato scopo, mentre i popoli sono comunità morali preesistenti. I popoli sono cioè comunità che, a proposito del bene e del male o del sacro e del profano, hanno credenze comuni, che possono risalire ad una fondazione voluta in un lontano passato ma che ora esistono come tradizione. (Fukuyama, p. 228)
Quello degli Stati è il regno della politica, la sfera della scelta autocoscienze circa il modo opportuno di governare. Quello dei popoli è invece un regno subpolitico: è il regno della cultura e della società, le cui regole raramente sono esplicite o riconosciute autocoscientemente perfino da quelli che ne fanno parte. Gli Stati si impongono ai popoli. A volte essi li formano, come nel caso di Romolo o della costituzione statunitense. Ma in molti casi gli Stati hanno con i loro popoli rapporti tesi, ed a volte so potrebbe dire che sono addirittura in guerra con i medesimi. (Fukuyama, p. 229)
Così la cultura nel senso antropologico, quando si oppone alla trasformazione di certi valori tradizionali in valori democratici, può costituire un ostacolo alla democratizzazione. I fattori culturali che ostacolano l'instaurazione di stabili democrazie liberali appartengono a diverse categorie.
La prima ha a che fare con il grado e la natura della coscienza nazionale, etnica e razziale di un Paese. Tra il nazionalismo ed il liberalismo non c'è niente di intrinsecamente incompatibile: nel secolo XIX tutti e due sono stati stretti alleati nelle lotte per l'unità nazionale dell'Italia e della Germania. D'altro canto, è difficile che una democrazia possa sorgere in un Paese dove il nazionalismo o l'etnicità dei gruppi che lo compongono sono così forti da impedire il sorgere di un sentimento dell'unità nazionale e del riconoscimento dei diritti degli altri, ed è il caso - in particolare - dell'ex-Unione Sovietica. (Fukuyama, p. 231)
Il secondo ostacolo culturale alla democrazia ha a che fare con la religione. Come per il nazionalismo, anche tra religione e democrazie liberale non c'è un conflitto intrinseco, salvo il caso in cui la religione cessa di essere tollerante ed egualitaria. Huntington suggerisce che il gran numero di Paesi cattolici che partecipano all'attuale "terza ondata" di democratizzazione la rende in un certo senso un fenomeno cattolico, collegato al mutamento della coscienza cattolica in direzione più democratica ed ugualitaria avvenuto nel corso degli anni '60. Vi è certamente qualcosa di vero in questa argomentazione, ma a sua volta essa pone una nuova questione: perché la coscienza cattolica sia cambiata proprio allora. (Fukuyama, p. 392)
Di per sé la religione non crea società libere. In un certo senso il cristianesimo ha dovuto, attraverso la secolarizzazione dei suoi fini, rinnegare se stesso prima che potesse emergere il liberalismo. Ma anche altre religioni si sono adattate ad un analogo processo di secolarizzazione: ad esempio il buddismo e lo scintoismo, ora confinati al campo del culto privato incentrato nella famiglia. L'eredità dell'indusismo e del confucianesimo è mista: mentre come dottrine sono tutte e due relativamente permissive, la sostanza del loro insegnamento è gerarchica ed in egualitaria. Al contrario, l'ebraismo ortodosso e l'Islam fondamentalista sono religioni totalistiche che cercano di regolamentare ogni aspetto della vita umana, sia pubblica che privata, ivi compreso il campo della politica: la sola democrazia esistente nel mondo islamico contemporaneo è la Turchia, l'unico Paese rimasto fedele al rigetto esplicito dell'eredità islamica proclamata agli inizi del secolo XX, quando ebbe inizio il suo processo di laicizzazione. (Fukuyama, p. 232)
L'attuale revival del fondamentalismo islamico, che praticamente tocca ogni Paese del mondo con una consistente popolazione musulmana, può essere visto come una reazione al fatto che in genere le società musulmane non riescono a conservare la propria dignità di fronte all'Occidente non musulmano. (Fukuyama, p. 251)
Il revival del fondamentalismo islamico venuto alla ribalta con la rivoluzione iraniana del 1978-79 non è però un caso di sopravvivenza in età moderna di "valori tradizionali". Questi valori, corrotti e latitudinari, erano già stati sonoramente sconfitti nel corso dei cento anni precedenti. Il revival islamico è piuttosto la riaffermazione di una serie di valori più antichi e più puri, che si dice fossero esistiti in un lontano passato, e che non sono né i discreditati "valori tradizionali" del passato recente né i valori occidentali trapiantati così malamente nel Medio Oriente.
Sotto questo aspetto il fondamentalismo islamico assomiglia al fascismo europeo in maniera tutt'altro che superficiale. E, come nel caso del fascismo, non desta meraviglia che il revival fondamentalista colpisca più duramente i Paesi apparentemente più moderni, perché le loro culture sono state quelle più minacciate dall'importazione di valori occidentali. (Fukuyama, p. 252)
Oggi la sfida più rilevante all'universalismo liberale delle rivoluzioni americana e francese non viene dal mondo comunista, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti, ma da quelle società dell'Asia che combinano le economie liberali con una specie di autoritarismo paternalistico. L'inaudito successo economico dell'Asia ha evidenziato sempre più come esso non fosse dovuto solamente alla perfetta imitazione dei modelli occidentali, ma anche al fatto che le società asiatiche conservassero certe caratteristiche tradizionali delle loro culture, come la forte etica del lavoro e la superiorità del gruppo sull'individuo, e le integrassero in un moderno ambiente economico. (Fukuyama, p. 254)
Se gli asiatici si convincono che i loro successi sono dovuti più a loro stessi che alle culture alle quali alle quali hanno attinto, se in America ed in Europa la crescita economica vacilla rispetto a quella dell'Estremo Oriente, se le società occidentali continuano a sperimentare un sempre maggiore sgretolamento di istituzioni sociali basilari come la famiglia, allora è possibile che in Estremo Oriente guadagni terreno un'alternativa sistematica illiberale e non democratica, che combina il razionalismo economico tecnocratico con l'autoritarismo paternalistico. (Fukuyama, p. 259)
Nel mondo contemporaneo noi vediamo un curioso, duplice fenomeno: la vittoria dello Stato universale ed omogeneo, e la persistenza dei popoli. Da una parte vi è una crescente omogeneizzazione del genere umano prodotta dall'economia e dalla tecnologia moderne, e dalla diffusione dell'idea del riconoscimento razionale quale unica base legittima di governo in tutto il mondo. Dall'altra vi è dappertutto una resistenza a questa omogeneizzazione, ed insieme una riaffermazione, in gran parte a livello subpolitico, di identità culturali che finiscono col rafforzare le barriere esistenti tra popoli e nazioni. (Fukuyama, p. 260)
Secondo molti - in particolare Huntington -, si sta arrivando ad un sistema "multipolare", in cui la potenza è distribuita tra un numero maggiore di nazioni, con conseguente aumento del rischio di nuovi conflitti perché le varie civiltà si organizzerebbero secondo l'ottica della massima potenza, attraverso il rafforzamento dell'apparato militare.
Nelle società aristocratiche - che fino a due secoli fa costituivano la grande maggioranza delle società umane - le guerre di conquista per l'ingrandimento territoriale o le guerre di religione erano ritenute un'aspirazione normale, anche se qualche moralista e qualche scrittore condannavano il loro impatto distruttivo. (Fukuyama, p. 274)
Con la formazione dello Stato liberale ed il diffondersi dell'eguaglianza sociale, però, si sono verificati cambiamenti importanti anche nell'economia di guerra. Prima della rivoluzione industriale, la ricchezza nazionale doveva essere tirata fuori dai piccoli surplus sudati dalle masse di contadini che vivevano al livello di sussistenza o appena sopra di esso in società quasi totalmente agricole. Un principe ambizioso poteva aumentare la propria ricchezza solo requisendo le terre ed i contadini a qualcun altro, o conquistando nel Nuovo Mondo territori ricchi d'oro e d'argento.
Ma dopo la rivoluzione industriale l'importanza della terra, della popolazione e delle risorse naturali in quanto fonti di ricchezza è diminuta fortemente rispetto alla tecnologia, all'istruzione ed all'organizzazione razionale del lavoro. L'enorme aumento della produttività del lavoro che questi ultimi fattori consentono si è rivelato di gran lunga più importante e sicuro dei guadagni realizzati con le conquiste territoriali. Paesi come il Giappone, Singapore ed Hong Kong, con poca terra, popolazioni limitate e senza risorse naturali si sono trovati in una posizione economicamente invidiabile, non dovendo ricorrere all'imperialismo per aumentare la propria ricchezza.
Come dimostra il tentativo fatto dall'Irak di occupare il Kuwait, il controllo di certe risorse naturali come il petrolio dà la possibilità di grandi vantaggi economici. Sembra però che le conseguenze di questa invasione non siano tali da invogliare altri a seguire in futuro un simile metodo per assicurarsi delle risorse. Dato che l'accesso a queste risorse si può ottenere pacificamente attraverso un sistema globale di libero scambio, la guerra ha economicamente molto meno senso che non due o tre secoli addietro. Nello stesso tempo i costi economici della guerra hanno subito, con i progressi della tecnologia, aumenti esponenziali. (Fukuyama, p. 276-277)
Coloro che scorgono nel nazionalismo una forza troppo elementare e potente per poter essere vinta da una combinazione di liberalismo ed interesse economico personale, dovrebbero pensare al destino delle religioni organizzate, il veicolo per il riconoscimento che ha preceduto il nazionalismo. C'è stato un tempo in cui la religione ha avuto un ruolo enorme nella politica europea, con protestanti e cattolici che, organizzati in fazioni politiche, si sono combattuti fino a dissanguare il continente. Dopo un confronto secolare con il liberalismo, la religione ha finito col diventare tollerante. (Fukuyama, p. 286)
Le recenti manifestazioni del nazionalismo vanno inquadrate nella giusta prospettiva. Sostituendo le barriere di classe con quelle nazionali e creando entità centralizzate e linguisticamente omogenee, le forze economiche hanno incoraggiato il nazionalismo. Ma queste stesse forze economiche sono quelle che ora, con la creazione di un mercato mondiale unico ed integrato, incoraggiano la rottura delle barriere nazionali. Ed il fatto che la neutralizzazione definitiva del nazionalismo non possa aver luogo in questa o nella prossima generazione non cambia niente: la sua fine è ormai segnata. (Fukuyama, p. 290)
Ancora una volta, facciamo un confronto con l'Europa: il fascismo in Italia e il nazismo in Germania sono sorti in quanto questi due Paesi sono stati, nell'Europa occidentale, gli ultimi ad industrializzarsi ed a raggiungere l'unità nazionale. (Fukuyama, p. 285)
Le possibilità di conflitti però non cesseranno totalmente. Ci saranno diversi assi lungo i quali le varie civiltà potranno entrare in collisione: il petrolio, l'ambiente e l'immigrazione. Per prevenire le future guerre, le democrazie mature avranno un interesse comune sia a difendersi dalle minacce esterne che a promuovere la causa della democrazia in Paesi dove essa ora non esiste". (Fukuyama, p. 293)


Qualche riflessione polemica

Il tema di questo libro è la popolazione. Tuttavia, non si può parlare di popolazione senza conoscere anche il contesto socio-culturale in cui opera il meccanismo demografico. Popolazione significa anche procreare un figlio, accudirlo ed educarlo; orbene, questi tre fattori - procreazione, mantenimento, educazione - variano notevolmente perché sono influenzati da una miriade di altre variabili - il tipo di territorio, le risorse, le malattie, le guerre, le tradizioni, ecc. Per questo almeno la metà del libro è dedicata ad argomenti diversi da quello della popolazione, ma ad essa strettamente connessi.
La cultura è legata alla demografia in tanti modi. Quello più semplice, che abbiamo schematizzato nel paragrafo a, è: nomadismo-infanticidio femminile, tradizione-alta prolificità, modernità-pianificazione familiare. I problemi nascono con il passo successivo, che consiste nel chiedersi se sia stata la variabile popolazione ad influenzare la variabile cultura o viceversa.
Il percorso storico da noi seguito è marxista, nel senso del determinismo storico. La successione dei fatti riscontrata è la seguente:
 In principio era il nomadismo  - tribalismo, caccia, sopravvivenza
 Con l'agricoltura nasce la tradizione  - Dio, patria, famiglia
 La tradizione è uguale per tutti  - bianchi, neri, gialli
 Ed è un sistema imperfetto  - carestie, pestilenze, guerre
 Cede il passo alla modernità  - denaro, educazione, divertimento
 Il passaggio è violento  - rivoluzioni, colonialismo
 La transizione non è conclusa  - globalizzazione


Il risultato temporaneo è lacunoso - patologie ereditarie, inquinamento
Mentre è relativamente facile affermare che sono stati il nomadismo e la modernità a portare - rispettivamente - alla bassa natalità, per il passato patriarcale permangono ostruzionismi. Soltanto dopo che l'agricoltura si è affermata come modello di sviluppo, la gente ha cominciato a fare tanti figli; e soltanto dopo questo processo di adattamento, la cultura ha tracciato le sue linee filosofiche per giustificare sia l'ambiente difficile sia l'alta prolificità. Il guaio è che, nel tracciare queste linee, la cultura patriarcale ha mescolato le carte ed ha stravolto la successione dei fatti.
Prima sarebbe stata creata la "razza eletta", solo dopo - e logicamente - i membri avrebbero dovuto garantire la purezza della razza attraverso l'alta prolificità. Prima sarebbe stata creata la morale del sacrificio (per l'appunto "la guerra come sola igiene del mondo"), solo dopo il Dio (anche il Dio ariano) avrebbe voluto che l'habitat ideale per l'uomo fosse il villaggio rurale ("uomo, tu lavorerai con il sangue e il sudore della fronte, donna tu partorirai con dolore").
Il fine di queste "sacre menzogne", di questo rovesciamento dei valori, è stato la conservazione della razza eletta secondo le regole di vita che il Dio avrebbe imposto ai primi antenati ("i dieci Comandamenti"). Nelle parole di Nietzsche: "L'autorità della legge ha la sua base nella tesi: è stato Dio a darla, sono stati gli antenati a viverla. - La superiore logica di un simile procedimento risiede nell'intenzione di reprimere, passo su passo, la coscienza della vita che si è riconosciuta giusta (vale a dire dimostrata mediante un'esperienza enorme e finemente vagliata): in modo da raggiungere il completo automatismo dell'istinto - premessa, questa, per ogni genere di maestria, per ogni sorta di perfettibilità nell'arte di vivere. Fissare un codice alla maniera di Manu vuol dire consentire da quel momento ad un popolo di divenire maestro, di divenire perfetto - di ambire alla massima arte vitale. A tal fine esso deve esser reso incosciente: questo lo scopo d'ogni santa bugia". (Nietzsche, af. 57)
I lettori avranno capito come, fin dalle prime pagine del libro, non si sia andati molto per il sottile nel criticare la morale patriarcale, rischiando anche di abbandonare la parvenza di imparzialità necessaria per un saggio d'attualità. Sinceramente ne avremmo volentieri fatto a meno, se non fosse per le conseguenze nefaste che questa morale ha apportato al corso della storia, e continua ad apportare. Ne avremmo fatto a meno perché, dopotutto, i vincoli e le virtù tradizionali sono serviti a difendere le varie comunità in tempi difficili. Per limitare i danni, diciamo allora che non critichiamo la morale patriarcale in sé, ma gli eccessi che la trasformano in morale inquisitoria. Fossimo vissuti nel medioevo, la cosa più intelligente da fare sarebbe stata ragionare come Hitler.
La morale patriarcale, ponendo la razza eletta al centro del mondo, è egocentrica; questo la porta a divenire cieca nei confronti dei vari mutamenti della storia. Gli europei d'oggi vivono in un sistema borghese, dove prevalgono le virtù capitaliste, il denaro, la tolleranza, l'ambizione. Ma i discorsi che si sentono nei circoli politici di destra sono di questo tipo:
1) il passato patriarcale era il regno delle virtù, la solidarietà in famiglia, il rispetto per gli anziani, l'onestà dei governanti, lo spirito eroico dei contadini e dei soldati, mentre gli insuccessi dei nostri antenati erano dovuti alla furia bestiale dei "barbari alle porte", dei libertini che odiavano le virtù religiose, dei capitalisti che volevano sostituire il "Regno dei Cieli" con il Paradiso in terra;
2) la modernità, con la complicità degli infidi alleati comunisti, ha corrotto la società, disgregato le famiglie, marginalizzato gli anziani, insegnato ai giovani a rinunciare alle virtù religiose per inseguire la chimera dei soldi facili anche attraverso la corruzione, indebolito la nazione con la scarsa natalità - che perciò mette tutti alla mercé degli stranieri altamente prolifici;
3) la cultura occidentale antica ha permesso al continente europeo di sfruttare tutti i ritrovati tecnologici per rafforzarsi nei confronti delle altre culture plebee, e pertanto è stato lecito colonizzare i territori d'oltremare nei secoli addietro, così come è lecito oggi inculcare i nostri valori attraverso l'arma della globalizzazione.
Al di là della dubbia efficacia propagandistica, questi tre discorsi non hanno alcun senso, ma servono soltanto per gettare benzina sul fuoco dello scontro con i nemici islamici, per bloccare il flusso di immigrati, per ripristinare le leggi sulla censura e sull'alta prolificità. Le critiche alla morale patriarcale che abbiamo sviluppato fin dai primi paragrafi dovrebbero essere convincenti:
1) Le virtù patriarcali non erano una nostra prerogativa; tutte le civiltà del passato hanno dovuto adottare le regole della mitica Tradizione (culto degli antenati, alta prolificità, guerre di conquista, gerarchia del potere), se volevano garantire lo scopo del "mantenimento, cioè la riproduzione degli individui". Ed infatti è anche per questo che abbiamo insistito nello spiegare come le guerre balcaniche, il conflitto in Afghanistan e questione palestinese si svolgono secondo i criteri tipici della tradizione. O credevamo davvero che "la guerra come sola igiene del mondo" fosse un'esclusiva occidentale?
2) La domanda più importante, come evitare le guerre, si trasforma (per l'appunto) in: come riservarci l'esclusiva della guerra. Il problema è che conosciamo già gli esiti di quest'ultima domanda: le due guerre mondiali stanno lì a testimoniarlo. Sono state queste guerre a provocare la decadenza dell'Europa occidentale ed il conseguente predominio degli americani "capitalisti, moderni e plutocratici", non certo il fantomatico complotto massonico. E qualcuno osa ancora dire che la decadenza occidentale è dovuta alla modernità corruttrice? A proposito del complotto massonico, ci sono molte analogie con il pensiero borghese: entrambi volevano mutare le strutture patriarcali per instaurare un ordine mondiale fondato sul denaro. Con il senno del poi, la parola "complotto" andrebbe mutata in "salutare prospettiva per l'umanità", visti gli indubbi benefici della modernità.
3) L'alta prolificità è un motivo valido per applicare le guerre di conquista a scapito delle altre civiltà. Solo che quando capitava ai nostri antenati di fare tanti figli, e conquistare nuovi territori, si trattava di un dovere morale - l'Impero romano, le crociate, l'imperialismo -, ma quando capitava, e capita tutt'oggi, alle civiltà nemiche, si tratterebbe di una violazione delle leggi di natura e di Dio, un sacrilegio, un'empietà - i barbari che posero fine all'Impero romano, gli untori medioevali, i mongoli, gli arabi nel loro massimo rigoglio, gli altri Paesi europei stessi durante tutte le guerre intestine, dalla Guerra dei Cent'anni alle due guerre mondiali, gli immigrati attuali.
4) Per evitare che l'alta prolificità diventi un problema, quali soluzioni sarebbero possibili? Qui la confusione, nei partiti di destra, è massima. Il buon senso direbbe: se noi facessimo tanti figli, invoglieremmo le altre civiltà a fare altrettanto, e se loro facessero tanti figli - come già fanno - invoglierebbero noi a fare altrettanto, quindi non resta che scoraggiare le nascite qui e lì, attraverso la modernizzazione dei costumi (globalizzazione). Un imprenditore che vota destra sarebbe d'accordo, ma gli altri?
5) Prendiamo un postfascista: "Noi siamo diventati egoisti perché facciamo pochi figli, ne dobbiamo fare di più. Mettiamo la museruola ai comunisti che si mangiano i bambini e incoraggiano la bassa prolificità, la promiscuità sessuale e l'aborto omicida… Come dite? Gli stranieri? Ma come si permettono di fare tanti figli? Sterilizziamoli tutti, anzi no mettiamogli loro una bella bomba atomica, anzi no, non aiutiamoli affatto così questi bambini moriranno, anzi no la colpa è dei comunisti che fanno propaganda prolifica lì per far venire qui una marea di immigrati e uccidere così la cultura occidentale! La Cina comunista applica la politica del figlio unico? Quale Cina? I comunisti cinesi sono degli arrivisti senza scrupoli che hanno ridotto alla fame la popolazione, e faranno la stessa cosa da noi se arriveranno al potere, bisogna impedirglielo!". Insomma, quali sono i veri comunisti? Quelli che incoraggiano la denatalità in tutto il mondo, o quelli che vogliono seppellire i valori dell'Occidente con l'alta prolificità globale?
6) Nel paragrafo r avevamo fatto l'esempio delle risorse limitate: 5 risorse, 10 persone. Orbene, se le risorse bastassero per 5 figli e la comunità ne facesse 10, per non parlare degli stranieri, allora è già dato per scontato che qualcuno morirà: così "la guerra come sola igiene del mondo" è soltanto un mezzo per apportare questa selezione mortale senza rinunciare all'alta prolificità ed alla purezza della "razza eletta".
7) Quando oggi si critica il consumismo e la tolleranza che affiacchirebbero il fisico, si prende il mondo islamico come modello da imitare (perché loro hanno conservato le loro tradizioni: es., i supplizi contro i ladri, i pedofili, gli omosessuali); ma quando bisogna parlare dell'Islam in sé, si dice che sono violenti, fanatici, intolleranti.
8) Prendiamo qualche caso di cronaca: una quindicenne italiana uccide a coltellate madre e fratellino, la colpa è della modernità cattiva, un immigrato marocchino uccide un giovane italiano dopo una rissa al bar, la colpa è della tradizione araba violenta; soluzione: noi occidentali torniamo alla nostra tradizione, gli arabi - e gli stranieri in generale - prendono la nostra modernità (attraverso la globalizzazione). In base a quali presupposti la tradizione da noi sarebbe buona e da loro cattiva, mentre la modernità da noi sarebbe cattiva e da loro buona, non si capisce.
Resta qualcosa da dire a proposito del futuro dell'umanità. Huntington fonderebbe la sua ipotesi di "scontro delle civiltà" sul fatto che la democrazia, il pluralismo associazionistico, la secolarizzazione dei costumi, il capitalismo sarebbero valori esclusivamente occidentali, e che pertanto sarebbe assurdo volerli imporre alle altre civiltà - islamica ed asiatica in primis - con il rischio di degenerare in qualche conflitto mondiale.
Altro presupposto dello "scontro delle civiltà" sarebbe che le civiltà emergenti ragionerebbero secondo gli schemi della tradizione: per questo la Russia, la Cina, l'India, l'Islam, l'Africa e il Sudamerica prima o poi potrebbero entrare in guerra tra di loro e con l'Occidente per conquistare nuovi territori o imporre i propri valori.
Il problema è che questi due presupposti non sono affatto dimostrati. Huntington potrebbe benissimo essere elogiato da uno di destra per l'intelligenza e il realismo delle sue analisi, ma sarebbe una barzelletta se il simpatizzante di destra elogiasse anche la democrazia, il pluralismo associazionistico, la secolarizzazione dei costumi e il capitalismo come santuari della cultura occidentale, quando invece Mussolini, Hitler e gli altri dittatori europei del passato spiegavano la cultura occidentale in termini di dittatura (predominanza dei doveri sui diritti), Partito unico al potere (suddivisione per classi, gerarchia del potere), famiglia patriarcale (rispetto per gli anziani, famiglia estesa, matrimonio combinato, subordinazione della donna) e commistione sacro-profano (concezione religiosa della vita).
Un musulmano direbbe: "L'Occidente è capitalismo, corruzione, pornografia; noi arabi dobbiamo conservare la purezza delle tradizioni patriarcali". Ma di sicuro un nazionalista europeo non si riconoscerebbe in questa descrizione dell'Occidente.
In realtà i valori della modernità sono valori borghesi, secondo la più classica teoria della lotta di classe, valori che si sono sostituiti a poco a poco a quelli della tradizione. E se davvero è la nuova classe borghese emergente nel Terzo mondo a governare, allora quello che sta accadendo laggiù non è il rafforzamento di civiltà diverse dalla nostra, civiltà che entrerebbero prima o poi in conflitto, ma una guerra civile strisciante tra valori tradizionali in via d'estinzione e valori borghesi trionfanti. Laddove la tradizione è ancora salda, il conflitto è più violento: nei Balcani, in Islam, in Africa. Per convincercene, seguiamo la successione dei fatti storici dal punto di vista della lotta di classe (par, e, g):
10.000 a.C.-1688 d.C.: ogni comunità cerca di rafforzare se stessa, formando Stati ed Imperi, e pertanto feudatari e borghesi sono alleati nel consolidare il prestigio interno della comunità, ed entrano in conflitto con altre comunità composte a loro volta da feudatari e borghesi.
1688-1873: dalla rivoluzione inglese alla Grande depressione, in Occidente la borghesia vuole sovvertire l'ordine del mondo, fondato ancora secondo le regole della tradizione (il complotto giudaico-massonico-cristiano). Inizia l'era delle rivoluzioni e delle guerre civili, mentre il resto del mondo comincia a non avere più storia. Non si pensa più alla gloria patria, ma alla creazione del mercato mondiale. L'imperialismo non è più "guerra di conquista" ma "accaparramento materie prime" per le fabbriche.
1873-1945: la prima crisi di sovrapproduzione rende il mercato mondiale impossibile da realizzarsi, almeno nell'immediato. Dall'altro lato, la nascita dello Stato-nazione e la necessità di grossi capitali e di concentrazioni economiche per investire nell'industria pesante (la seconda rivoluzione industriale), modifica il quadro. Feudatari (che adesso si chiamano politici) e borghesi sono concordi nell'obiettivo di rafforzare lo Stato, a spese delle potenze rivali: abbiamo così le leggi protezioniste e le politiche di incoraggiamento della prolificità (più soldati, più credenti e più operai per le fabbriche), l'imperialismo diventa un connubio tra "guerra di conquista" e "accaparramento materie prime". Si arriva alle due guerre mondiali. Tra parentesi, per dimenticare le grandi rivoluzioni del precedente periodo si inventa un'altra "sacra menzogna": che le rivoluzioni siano state degli incidenti di percorso, ed i vari Stati siano tornati alla situazione esistente nel medioevo, con la stessa forza e lo stesso prestigio; in altri termini, che i nostri avi avrebbero vissuto allo stesso modo.
1945-1990: le guerre mondiali hanno screditato l'ideologia patriarcale, favorendo la diffusione del modello americano (il consumismo di massa); dall'altro lato, la Guerra fredda costringe a seppellire i vecchi rancori tra gli Stati dell'Europa e dell'Asia sud-orientale. Così la borghesia sembra trionfare definitivamente in Occidente. La decolonizzazione, dall'altro lato, favorisce l'emergere di un ceto dirigente nel Terzo mondo; ma i rapporti tra feudatari e borghesi locali sono amichevoli per via della Guerra fredda. Qui si impone un'altra parentesi: gli Stati Uniti, nel dopoguerra, stavano già progettando la creazione di un mercato mondiale all'insegna della globalizzazione, ma l'Urss ha bloccato il progetto. Fosse stato anticipato questo mercato, non avrebbe incontrato i problemi che incontra ora, e cioè sovrappopolazione, deforestazione, fondamentalismo religioso, collasso dell'Africa. Purtroppo i noglobal questa lezione non la impareranno mai.
1990-…: la fine della Guerra fredda ha modificato la situazione. Sono terminate le guerre per procura, anche se alcune vivono ancora di vita propria, senza il sostegno delle superpotenze. In molti casi è diminuita la motivazione ideologica dei conflitti, che si basano ora sull'identità (cioè, come ha detto Huntington, sulla cultura), identità che si esprime attraverso vari elementi tradizionali (cioè patriarcali): religione, origine etnica, nazionalità, razza, clan, lingua o regione di appartenenza. In molti di questi conflitti sono sottesi gli interessi economici di uno o più dei belligeranti. Quanto ai rapporti tra baroni politici e borghesi locali, la situazione nei Paesi in via di sviluppo si è sbloccata. Adesso si tratta di scegliere, o la modernità e la subordinazione agli Stati Uniti, oppure la salvaguardia della tradizione:
- Per il Sudamerica non ci dovrebbero essere alternative all'americanizzazione del sistema. Da notare che questo subcontinente è caratterizzato dalla multietnicità, fattore che teoricamente dovrebbe essere foriero di nuovi conflitti interni ai vari Stati. Ma quando le diverse razze si sono stanziate a poco a poco nel territorio, hanno modificato profondamente il significato di "tradizione", che è diventato - come in Europa - "cultura", cioè un fattore strettamente personale, legato alla pura sopravvivenza del singolo o della comunità, e non è più un qualcosa da imporre all'"altro".
- Per l'Africa subsahariana, la possibilità di creare una civiltà a sé stante significherebbe fronteggiare da soli la minaccia islamica e il problema dell'HIV/AIDS, per cui bloccare la modernità sarebbe suicida; certo, vi è il problema delle guerre tribali e delle multinazionali che le finanziano, ma la situazione non si risolve con meno globalizzazione quanto con più globalizzazione.
- Per i Paesi asiatici e la Russia, come ha fatto notare Fukuyama, un ritorno alla tradizione vorrebbe dire anche un ritorno alle guerre di conquista, ma i costi economici della guerra sono molto alti, per cui sarebbe molto meglio starsene quieti a godere dei frutti della mondializzazione del capitale: questo non impedirà all'alleanza tra baroni politici e borghesi di rompersi in futuro, ma le probabilità sono inferiori a quelle preventivate da Huntington, perché rispolverare la tradizione dovrebbe significare anche alta prolificità, "accaparramento materie prime" con la guerra, censura totale del consumismo americano. In altre parole, i futuri tiranni dovrebbero cercare l'alleanza della classe imprenditoriale locale: ma se i costi economici della guerra sono alti, la cosa dovrebbe essere impossibile (il famoso detto "mai dire mai" ci costringe alla prudenza nell'uso dei tempi: condizionale e non futuro).
- Per i balcani, la questione dovrebbe essere risolta con la cacciata di Milosevic.
- Per il Medio Oriente la questione è ben lungi dall'essere risolta, solo che Huntington immagina che la Cina comunista e l'Islam potrebbero scatenare una terza guerra mondiale, in modo che le altre civiltà sarebbero costrette ad allearsi e trovare dei valori in comune (vedere Huntington, p. 466-471). Il fatto è che, secondo il modello che abbiamo adottato noi, prima che scoppi questa guerra, Sudamerica, Africa e Russia dovrebbero già essersi americanizzati, in modo da scoraggiare il Giappone e l'India dal rendersi neutrali o tradire l'Occidente. Per l'alta prolificità del mondo arabo, valgono gli stessi ragionamenti sviluppati antecedentemente: che siano loro a fare meno figli. Se fossimo noi occidentali a farne di più, saremmo noi ad entrare in conflitto con le altre civiltà, e sorgerebbe spontanea la domanda: perché i musulmani non hanno il diritto di scontrarsi con le altre civiltà, mentre noi si?
Il punto di vista della lotta di classe è più ampio rispetto a quello delle civiltà perché, mentre Huntington generalizza i conflitti riconducendoli tutti (o quasi) al sistema patriarcale, noi possiamo catalogare le guerre tra guerre tribali per il più elementare soddisfacimento dei bisogni (che hanno poco a che fare con la civiltà: l'Africa), guerre patriarcali fondate sulle regole descritte all'inizio del paragrafo (che, queste si, possono far scoppiare un conflitto mondiale, e guarda caso coinvolgono soprattutto musulmani) e guerre moderne per l'instaurazione di un ordine sociale (cioè ovunque ci sia una guerriglia marxista, guerriglia che altrimenti non troverebbe seguito ove la popolazione fosse compatta nel seguire la tradizione: si può cogliere la differenza tra guerra del Golfo e guerra in Colombia o in Nepal).
Lo scontro tra civiltà è più probabile che si verificherà se le condizioni economiche ed ambientali nel mondo tenderanno a peggiorare, o se scoppierà qualche pestilenza incontrollabile, ma per questo - torniamo a ripeterlo - ci vuole più globalizzazione e non meno. Un merito, però, Huntington ce l'ha: cioè quello di prevedere i rischi di nuovi conflitti a seconda che i contendenti appartengano o meno a delle determinate civiltà.
Ecco la tabella che spiega la dinamica dei fatti connessa alla lotta di classe (per l'Occidente si prende il secolo XX, per l'Oriente il secolo XXI):

   Occidente - secolo XX  Oriente - secolo XXI
 Tradizione  Due guerre mondiali  Scontro tra civiltà
 Modernità  Cultura occidentale  Americanizzazione

Curiosamente, secondo Huntington e di Fukuyama la globalizzazione favorisce l'emergere di culture locali che l'imperialismo occidentale dei secoli passati aveva seppellito. Secondo i noglobal, la globalizzazione censura le culture locali. Il problema, dal punto di vista della lotta di classe, sta nell'esatto concetto di "cultura", perché vi è una differenza fra questo termine e il termine "tradizione". I noglobal fanno confusione tra capitalismo e cultura occidentale: affermano che il capitalismo sta diffondendo la cultura occidentale in maniera imperialistica.
Secondo la lotta di classe, la cultura occidentale vera è meglio definibile con "tradizione occidentale", quella che ha portato alle due guerre mondiali. Subito dopo il capitalismo ha imposto i propri valori, e la "tradizione" è divenuta "cultura". La stessa cosa sta avvenendo nel Terzo mondo: la "tradizione" orientale rischia di portare allo scontro tra civiltà, pertanto la globalizzazione modifica il significato della parola "tradizione", che diventa "cultura".
Concludiamo dicendo che il nostro punto di vista, pur se simile a quello di Fukuyama e contrastante con quello dei noglobal e di Huntington, non è un dogma: possiamo anche sbagliare, in maniera più o meno grave. Per questo abbiamo ritenuto riportare sinteticamente il pensiero dei noglobal, di Huntington e di Fukuyama, in modo da permettere ai lettori di riconoscersi nel punto di vista ritenuto migliore. Non siamo come gli inquisitori (di nuovo loro, ahinoi!) che censurano: come avrà detto certamente qualche filosofo, noi abbiamo una sete inesprimibile di sapere e sapere sempre di più, perché è quello che si conviene a delle persone intelligenti.

Bibliografia:
AAVV., Il libro nero del Capitalismo, Marco Troppa Editore '99
Angela Piero e Pinna Lorenzo, Atmosfera: istruzioni per l'uso, Mondadori-De Agostini Libri '94.
Bosio Roberto e Moro Riccardo, Pagare con la vita, Editrice Missionaria Italiana '00.
Ehrlich P. R. e Holdren J., Impact of Population Growth, in "Science" 171: 1212-1217, 1971.
Eurostat, Europe in figures, Lussemburgo '92, citato in Sori, p. 49.
King Hubbert M., The Energy Resources of the Earth, in "Scientific American", settembre 1975, citato in Rifkin, p. 31.
Livi Bacci Massimo, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino '02
Rifkin Jeremy, Economia all'idrogeno, Mondadori '02.
Sori Ercole, Il rovescio della produzione, Il Mulino '99.
Unfpa, Lo stato della popolazione nel mondo 2001, edizione italiana a cura di AIDOS
Volpi Franco, Introduzione all'economia dello sviluppo, FrancoAngeli '99
Wilkinson Richard, Poverty and Progress, Praeger '73, citato in Rifkin, p. 83.

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