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Sovrappopolazione e sottosviluppo.

La Conferenza del Cairo

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Comandè Marco

Capitolo 1

Uno sguardo al passato

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c) La rivoluzione del Neolitico: la scoperta dell'agricoltura

Con il neolitico cambiava il panorama socio-economico. L'uomo non era più un nomade che cacciava per sopravvivere, ma era diventato agricoltore. Il suo punto di riferimento non era più la preda da uccidere, ma la terra da coltivare.
La scoperta dell'agricoltura è ancora un mistero per gli studiosi. Non è d'interesse ai fini del libro, ma è da sottolineare che una delle cause ipotetiche della rivoluzione agricola è l'aumento della popolazione: l'esplosione anagrafica era stimata nel Paleolitico medio (70.000/50.000 anni a.C.) circa un milione di persone per raggiungere all'inizio del Neolitico (10.000 anni a.C.) oltre nove milioni di individui concentrati in aree relativamente ristrette.
Trova ampio riscontro il fatto che il passaggio dalla raccolta del cibo alla sua produzione determinava un notevole aumento del numero di persone che una data regione poteva nutrire o, per usare un'espressione ecologica, della capacità biologica della regione.
Facendo riferimento ai documenti etnografici, gli studiosi Ammermann e Cavalli-Sforza hanno scoperto che, nonostante una considerevole variabilità, le densità delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori erano generalmente molto inferiori a quelle raggiunte dalle popolazioni di agricoltori: infatti, con l'eccezione dei pescatori delle coste del pacifico nord-occidentale, le prime raggiungevano densità che si collocavano perlopiù fra 0,1 e 1 abitante per chilometro quadrato, mentre le popolazioni di agricoltori presentavano densità dai 3 ai 288 abitanti circa per chilometro quadrato. Normalmente si ritiene che la transizione neolitica abbia prodotto a lungo andare un aumento di cento volte nelle densità di popolazione. (Ammerman, p. 85)
Due sono le teorie che si contrappongono per spiegare tale aumento.
La teoria "classica" riposa su un semplice ma convincente ragionamento. L'insediamento e l'inizio della coltivazione e della domesticazione, permettevano un approvvigionamento più regolare, e proteggevano le popolazioni che vivevano dei frutti dell'ecosistema dallo stress nutritivo connesso con l'instabilità del clima e l'alternanza delle stagioni. La coltivazione di grano, orzo, miglio, mais o riso - cereali altamente nutrienti e facilmente conservabili - accresceva grandemente le disponibilità alimentari e aiutava a superare i periodi di penuria. Salute e sopravvivenza miglioravano, la mortalità si abbassava, la capacità di crescita si rafforzava e si stabilizzava.
Negli ultimi decenni questa teoria è stata rimessa in discussione rovesciandone i termini: nelle popolazioni agricole sedentarie sia la mortalità, sia la fecondità si accrescevano, ma la seconda più della prima e questo spiegava l'accelerazione demografica.
Perché la mortalità avrebbe dovuto essere più elevata tra gli agricoltori che non tra i cacciatori? Ciò sarebbe avvenuto, in sostanza, per due ordini di cause. Il primo sarebbe connesso col fatto che il livello nutritivo, dal punto di vista della qualità (e secondo alcuni anche della quantità) sarebbe peggiorato con la transizione all'agricoltura. L'alimentazione di cacciatori e raccoglitori, fatta di radici, erbe, bacche, frutti, animali, sarebbe stata assai più completa di quella degli agricoltori sedentari, con un'alimentazione calorica sufficiente ma povera e monotona per la grande prevalenza dei cereali. La prova di questo si troverebbe (par. b) negli esami dei reperti scheletrici. (Livi Bacci, p. 54)
Il secondo sostegno della teoria è diverso, ma forse più convincente. Con l'insediamento stabile si ponevano le condizioni per l'insorgenza, la diffusione e la conservazione di malattie infettive e parassitarie sconosciute o più rare in popolazioni mobili e a bassa densità. La più alta concentrazione demografica faceva da "serbatoio" agli agenti patogeni, che rimanevano allo stato latente in attesa delle occasioni favorevoli per risvegliarsi. Malattie che si trasmettevano per contatto si avvantaggiavano, nella loro diffusione, della accresciuta densità. Questa, d'altro canto, aumentava la contaminazione del suolo e dell'acqua, facilitando la reinfezione.
La sostituzione di alloggi permanenti ai ricoveri occasionali o mobili propri delle popolazioni nomadi favoriva il contatto con parassiti e altri vettori di malattie infettive. La sedentarietà, inoltre, aumentava anche la trasmissibilità di quelle infezioni provocate da vettori il cui ciclo di vita era interrotto da frequenti spostamenti umani, come avveniva per le pulci le cui larve si riproducevano in nidi, giacigli o alloggi piuttosto che sul corpo di animali o persone.
Con la sedentarietà, molti animali, addomesticati e no, venivano attirati stabilmente nella nicchia ecologica dell'uomo, potendo infettarlo con agenti patogeni specifici degli animali e, comunque, aumentando l'incidenza del parassitismo. Certe tecniche agricole sarebbero state responsabili della diffusione di determinate patologie come, ad esempio, la malaria, alimentata dallo sviluppo dell'irrigazione e dalla creazione artificiale di depositi di acqua stagnante. (Livi Bacci, p. 55-56)
Entrambe le teorie concordano riguardo all'aumento della fecondità: tale aumento trova fondamento nelle modificazioni dell'assetto sociale che erano intervenute nelle società rese sedentarie dallo sviluppo dell'agricoltura. Nelle comunità di cacciatori e raccoglitori, una nuova nascita avveniva solo quando il precedente nato era capace di badare a se stesso (par. b). In una società stabilmente insediata questa necessità verrebbe meno, il "costo" dei figli, in termini di investimento parentale, sarebbe minore e il loro apporto economico per i lavori nella casa, nei campi, nella guardia degli animali, maggiore. (Livi Bacci, p. 57)
Può ben essere, inoltre, che il livello di nutrizione fosse assai meno influente sulla mortalità di quanto si ipotizza, poiché solo in casi di forte penuria e di marcata denutrizione si accrescono i rischi di contrarre alcune malattie infettive o di esserne vittime. (Livi Bacci, p. 60)
La coltivazione aveva finito con l'inchiodare l'uomo laddove aveva seminato, almeno per il tempo necessario alla maturazione del raccolto. Così la vita si faceva più comunitaria, più associata, più organizzata. La produzione di cibo veniva programmata e dominata dall'uomo, il clan si dilatava nella tribù, la grotta o la caverna veniva abbandonata per la capanna nel villaggio contadino. Nasceva la civiltà rurale, che avrebbe fatto storia fino ai giorni nostri nei quali convive con quella cittadina. (Pasquarelli, p. 83)
Spinte demografiche irresistibili portavano a ricorrenti intensificazioni della produzione. Queste si risolvevano sempre in un esaurimento delle risorse ambientali, che generalmente dava luogo a nuovi sistemi di produzione ciascuno con una forma caratteristica di violenza istituzionalizzata, di lavoro penoso, di sfruttamento o di crudeltà.
L'intensificazione - lo sfruttamento di terra, acqua, minerali o energia per unità di tempo e di spazio - era, ed è ancora, una risposta ricorrente alle minacce contro il tenore di vita. Nei tempi antichi queste minacce sorgevano principalmente da mutamenti climatici e migrazioni di popolazioni di animali (par. b). Nelle epoche più recenti lo stimolo principale divenne la competizione fra gli Stati (par. e). Con il colonialismo, lo stimolo fu l'accaparramento di materie prime necessarie all'industria (cap. 3). Oggi si parla di un neocolonialismo delle multinazionali (par. r).
Al di là delle sue cause immediate, l'intensificazione è sempre controproducente. In assenza di mutamenti tecnologici, porta inevitabilmente all'impoverimento dell'ambiente e alla riduzione dell'efficienza della produzione in quanto quest'ulteriore sforzo prima o poi deve essere applicato ad animali, piante, terreni, minerali e fonti di energie più remote, meno sicure e meno abbondanti. Una minore efficienza, a sua volta, porta ad una riduzione dei livelli di vita, ovvero esattamente all'opposto del risultato desiderato.
L'esempio più famoso è la desertificazione del Sahara, un tempo foresta rigogliosa. La conoscenza del terreno era scarsa, pertanto anche il modo di coltivazione era arretrato, il cosiddetto taglia e brucia, che impoveriva il terreno subito dopo i primi raccolti, con la conseguenza che le prime popolazioni agricole erano costrette a spostarsi frequentemente, ma sempre ripristinando il taglia e brucia. Soltanto a poco a poco, e grazie all'esperienza, si svilupparono le tecniche agricole moderne.

Bibliografia:

Ammerman A., Cavalli-Sforza L., La Transizione Neolitica e la Genetica di Popolazioni in

Europa, Boringhieri '86.

Livi Bacci Massimo, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino '02.

Pasquarelli Gianni, Preistoria del potere, Rusconi '83.

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