L’eclissi dell’autore in Verga

 

La storia dell’opera verghiana è anche la storia della ricerca di una tecnica narrativa nuova, di un atteggiamento nuovo del narratore rispetto alla materia narrata.

Nella fase pre-verista, il patto narrativo è sempre tale per cui il narratore è interno alla vicenda narrata (ne è partecipe o testimone): in Una peccatrice (1866) finge di ricostruire una storia su lettere e documenti di personaggi da lui conosciuti (1); poi c’è il romanzo epistolare (Storia di una capinera, 1871), dove, ovviamente, la voce narrante è quella di Maria, la fanciulla costretta al convento, che scrive lettere ad un’amica (l’autore non chiarisce bene come abbia acquisito tali lettere); in Eva ci sono due narratori in prima persona, uno interno all’altro (il primo narratore, uno scrittore catanese che soggiorna a Firenze, cede la parola ad Enrico Lanti, suo vecchio compagno di scuola, incontrato ad un veglione; quindi costui racconta la propria vicenda in prima persona); in Tigre reale (1873) il narratore è ancora un testimone diretto dei fatti, che narra in prima persona (anche se, per la maggior parte del romanzo, si comporta come un narratore esterno ai fatti).

C’è poi Nedda (1874), con un narratore tutto esterno ai fatti, che infatti non appartengono al mondo, sociale e culturale, di Verga: la convenzione è che il narratore, che fuma il sigaro in poltrona davanti al caminetto, ricorda un altro fuoco, attorno a cui ballavano le raccoglitrici di olive (e quindi comincia a narrare, senza dirci chiaramente come egli conosca la storia); questo comporta un atteggiamento di superiorità (paternalistico) nei confronti di quel mondo, che si esplica in commenti, giudizi moralistici (magari attraverso un aggettivo, un’esclamazione, una descrizione) ed un sottinteso rapporto di complicità con il lettore, implicitamente riconosciuto delle stesso livello del narratore, e chiamato a provarne gli stessi sentimenti.

La vera novità è l’eclissi dell’autore, ed è attuata nel 1878 con Rosso Malpelo: attraverso il discorso indiretto libero.

In Fantasticheria (1878-79) torna la convenzione del narratore esterno.

 

Rosso malpelo

 

Merito di Luperini è avere notato che questa novella è stata pubblicata nell’agosto del 1878 (a puntate, sul quotidiano romano "Fanfulla"); quindi precede le altre di Vita dei campi (tranne Fantasticheria, della cui stesura si ha notizia nel febbraio del 1878). E merito di Baldi è avere indicato nell’ "artificio della regressione" (ovvero, nella focalizzazione rigorosamente impersonale; ovvero, nell’eclisse dell’autore) (2) l’originalità narrativa della novella.

La regressione consiste nell’adozione di un punto di vista che non coincide con quello dell’autore, ma è interno al mondo rappresentato (è il punto di vista di un anonimo narratore, dello stesso livello sociale e mentale dei personaggi che agiscono nella vicenda) (3). L’effetto, di straordinaria efficacia, è dato dall’attrito fra tale punto di vista (che è quello fatalistico e rassegnato degli sfruttati stessi, che accettano come naturale lo sfruttamento) e l’oggettività stessa dei fatti (che è la negazione in atto di quei valori che dovrebbero governare una società umana: affetti domestici, pietas filiale, amicizia, solidarietà). E questo ci introduce all’altra radicale novità, rilevata da Asor Rosa: la scomparsa del populismo.

Il mondo rappresentato (quello infimo dei cavatori di rena) non è un mondo di buoni sentimenti: è un mondo sub-umano, governato dalla lotta per la sopravvivenza, e quindi dalla legge del più forte; la condizione sociale è accettata come una dato naturale (la violenza e la sopraffazione sono leggi di natura); non solo la ribellione è inconcepibile, ma manca anche ogni elementare solidarietà fra gli sfruttati (si veda come i compagni di lavoro - e valga per tutti zio Mommu, lo sciancato - non solo maltrattino Malpelo, ma anche deridano mastro Misciu, "Bestia").

A questa scuola cresce Malpelo: la violenza la subisce sia alla cava che in famiglia, dalla madre (che "non aveva mai avuta una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai") e dalla sorella ( che, nel dubbio che Malpelo sottraesse qualche soldo dalla paga "gli faceva la ricevuta a scapaccioni"); ben tre morti scandiscono la sua "educazione sentimentale" (al centro, fra quella del padre e quella di Ranocchio, la morte più significativa: quella del Grigio); sicché, non può che divenire "saggio" (4) e rovesciare sui più deboli (Ranocchio e il Grigio), a fine "pedagogico", la violenza che riceve dai più forti.

Ma Malpelo avverte, ancorchè confusamente, che c’è la possibilità di un mondo diverso, al di fuori di quello in cui vive lui; desidera, anche se non lo comprende appieno, un mondo fondato sull’amore (e non sulla violenza): quel mondo evocato dal calore dei calzoni di fustagno ("gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli "), dal pensiero che si potrebbe lavorare diversamente (come il manovale "cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena "; o come "il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa"), dal paradiso di cui gli parla Ranocchio ("dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori"), dal pianto della madre di Ranocchio per il figlio morente (e qui Malpelo ha bisogno di un alibi, per continuare ad accettare il proprio mondo: la madre di Ranocchio piangeva perché "il suo figliolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perchè non aveva mai avuto timore di perderlo.").

In conclusione: la "disperata rassegnazione" di Malpelo sembra essere la stessa del conservatore Verga; l’autore presta al personaggio la sua stessa sfiducia sulla possibilità di cambiare la condizione umana (determinata, darwinianamente, dalla legge della sopravvivenza del più forte), il suo scetticismo nei confronti di ogni possibilità di progresso; si è "vinti" proprio nel tentativo di progredire: il "bell’affare di mastro Bestia" ricorda il "bell’affare" dei Malavoglia (il trasporto dei lupini) e il "bell’affare" di mastro don Gesualdo (il matrimonio con Bianca).

Ma proprio per questo, quest’opera rappresenta, senza infingimenti (senza pietismi e senza speranze consolatorie), la verità della condizione popolare; e quest’opera, come nessun’altra, riesce a comunicare con forza la inaccettabilità di quella condizione; il lettore non può non pensare alla responsabilità degli uomini, non della natura, quando s'intravvede la figura dell’ingegnere (era a teatro, e "non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo, che aveva fatto la morte del sorcio"); e non può non sentire, insieme a Malpelo, il bisogno di un mondo diverso, che sia la negazione di quel mondo in atto.

 

Verga non populista

A. ASOR ROSA, Scrittori e popolo,

Samonà e Savelli 1965, pp. 74-77.

Se il populismo è la convinzione che il popolo sia portatore di valori positivi da contrapporre alla corruttela della società (5) (e pertanto, è mistificazione), Verga non è populista; non ha ideologie progressive da difendere e pertanto vede la realtà senza lenti deformanti e riesce a dare "la rappresentazione più convincente che del mondo popolare sia stata data in Italia durante tutto l’Ottocento".

La sua poetica è la sua ideologia: descrivere la realtà così com’è vuol dire rinunciare a moralismi (indignazione, protesta) e a speranze (progressive): moralismi e speranze che invece compaiono nella Serao, nei toscani Fucini e Pratesi, in De Amicis. "Se volessimo scegliere la strada di un giudizio immaginoso, diremmo che il borghese Verga rifiuta la tazza del consòlo (6) che la borghesia è sempre pronta ad apprestarsi quando s’avvicina al cosiddetto problema sociale: alla protesta e alla speranza, categorie molto dubbie sul piano ideologico e letterario, perchè presuppongono fatalmente una posizione subalterna in chi le esprime, egli preferisce la conoscenza e la consapevolezza. Il rifiuto di un’ideologia progressista costituisce la fonte, non il limite, della riuscita verghiana."

Nella "Sintesi" ci vede l’analogia con Leopardi (analogo il pessimismo e analogo l’atteggiamento nei confronti delle correnti ideologiche dominanti nel loro tempo) e parla di un connotato siciliano della scuola (verista) che sarebbe riscontrabile nell’atteggiamento di scetticismo circa la possibilità di un effettivo progresso (così ne I viceré di De Roberto; più tardi ne I vecchi e i giovani di Pirandello)

Si potrebbe aggiungere che tale "sicilianità" persiste con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e con 1848 di Sciascia.

 

Verga intellettuale del sud agricolo contro

il nord industrializzato

V. MASIELLO, in Interpretazioni di Verga,

Savelli 1976, pp. 205-213.

L’opera di Verga va inquadrata nel periodo storico: è il periodo della rapida industrializzazione ("via prussiana": finanziamento dello Stato e protezionismo) in un paese fondamentalmente agricolo. Nel sud corrisponde la crisi agraria ed inizia l’emigrazione.

Verga è l’intellettuale meridionale che esprime questo disagio: esprime l’estraneità della cultura meridionale alla industrializzazione del nord. Questo gli consente di vedere limiti e contraddizioni del tanto decantato progresso: perdita di valori umani, sopraffazione, corsa all’arricchimento sulla pelle degli altri. Quindi rovescia contro la classe borghese gli strumenti (e l’ideologia) che essa stessa si è data: il positivismo scientifico (che, per la borghesia, è associato alla fede nel progresso; e invece dal Verga verista è usato per demistificare il progresso) l’evoluzionismo (di cui, parimenti, è visto l’aspetto della dura lotta per la sopravvivenza, e non il "grande" risultato del miglioramento progressivo della specie).

Se il progresso è questo, ecco allora la regressione ai valori pre-industriali della civiltà contadina: la religione della famiglia, rapporti umani non mercificati. E questo è il limite di Verga: non vede alternative in avanti - riconoscendole nelle organizzazioni di classe - ma regredisce al mondo agricolo. Del disfacimento di tale mondo, però, non può che prendere atto nelle Novelle rusticane e nel Mastro don Gesualdo: e il disfacimento è provocato dall’adeguarsi della società patriarcale ai "valori" della società borghese-industriale (interesse economico, arricchimento), quando per tutti (plebi, borghesi, nobili) non c’è più altra religione che quella della roba.

Mi pare invece che quella società patriarcale sia da sempre contaminata dalla "religione della roba": così appare già in Vita dei campi (Malpelo lo sa bene) e così nei Malavoglia (lo zio Crocifisso, padron Cipolla, Piedipapera appartengono a quel mondo alla stessa stregua dell’onesto e disinteressato padron ’Ntoni; anzi, in quel mondo sono i vincitori, laddove soccombono gli onesti). E dunque Verga trova nella società industriale ciò che già esiste nella società agricola: una logica, irrimediabilmente vincente, di sopraffazione del più forte sul più debole, in nome della roba. Ma resta l’efficacia dirompente del suo messaggio, che consiste nel lasciare intravvedere al lettore - a fronte della realtà così com’è, con i suoi disvalori - l’esigenza di una realtà diversa, fondata su altri valori (di onestà, solidarietà, amore, ecc.).

 

 

L’artificio dello straniamento

 

R. LUPERINI,

M. I. 7, pp. 1513-16

Nella tecnica narrativa di Verga non c’è solo un artificio della regressione, ma anche un "artificio dello straniamento". Si fonda su due elementi: la differenza fra il punto di vista dell’autore e quello del narratore; la conseguente rappresentazione di ciò che è "normale" (ed anche eticamente positivo) come "strano" (eticamente negativo)(7), e viceversa.

Quanto al primo elemento, anche se l’autore, in ossequio al canone dell’impersonalità, non interviene mai per esprimere il suo punto di vista (diverso da, anzi contrario a quello del narratore), "resta pur sempre una distanza ironica, un attrito, fra la logica del coro narrante e quella dell’autore", per cui noi sentiamo che la verità morale è altra da quella enunciata dal narratore (il quale, in quanto si identifica con la coralità del paese, è portavoce di un’ottica unicamente economica, che implica uno stravolgimento profondo dei rapporti umani, sottoposti alla legge dell’utile e della sopraffazione).

Ecco allora che, agli occhi dei paesani, appare anomalo il comportamento dei Malavoglia (8) (e, per tutti, del vecchio ’Ntoni), determinato dall’attaccamento ai valori "disinteressati" della famiglia, della casa, dell’onestà, dell’amore (di Mena per Alfio); e appare normale il comportamento di chi, come lo zio Crocifisso, segue solo e spregiudicatamente la logica dell’interesse economico. E dunque, quando i Malavoglia non vogliono mandare il nonno all’ospedale, la voce narrante interpreta quest’atto di amore come una stranezza (sono “superbi” e vogliono “far mangiare padronNtoni dalle pulci”). Ma in questo senso è esemplare la fine del cap. VI (quando i Malavoglia, con la mediazione non certo neutrale di don Silvestro, ottengono dallo zio Crocifisso una dilazione del pagamento del debito in cambio della rinuncia da parte della Maruzza ai suoi diritti sulla casa): l’onestà dei Malavoglia appare sciocca e ridicola nel mondo dominato dai don Silvestro, zio Crocifisso, Piedipapera; lo zio Crocifisso appare generoso (offre del tabacco al vecchio ‘Ntoni, fa una carezza alla bambina, promette di convincere Piedipapera; tant’è che alla fine don Silvestro può spacciare come verità, visto che la voce narrante non lo contraddice, questa affermazione: “lo so che per gli amici avete il cuore grande quanto il mare”). (9).

Di più, si può vedere come i due mondi contrapposti siano ben rappresentati dai due personaggi portatori delle due opposte ideologie, padron ’Ntoni e zio Crocifisso; e come la contrapposizione penetri fin dentro il mondo dei Malavoglia (opponendo Alessi e il giovane ’Ntoni, Mena e Lia).

 

 

NOTE

1) Pietro Brusio, giovane universitario catanese, s’invaghisce di una bella mantenuta, Narcisa; rifiutato dalla donna, si trasferisce a Napoli, dove, grazie ad una sua commedia, raggiunge il successo; a questo punto è Narcisa che s’innamora di lui, ma Pietro non ne vuole più sapere (e lei muore di dolore).

2) Comunque lo si chiami, l’ "artificio" è realizzato attraverso l’adozione (come aveva già notato Spitzer) del "discorso indiretto libero" (erlebte Rede = discorso rivissuto).

3) La prima pagina è esemplare: dietro l’apparenza della narrazione oggettiva, appaiono via via i punti di vista del paese ("aveva i capelli rossi perchè era malizioso e cattivo "), della sorella ("c’era anche da temere che ne sottraesse una paio, di quei soldi "), del padrone ("e in coscienza erano anche troppi per Malpelo "), dei minatori ("andava a rincantucciarsi col suo corbello tra le gambe... come fanno le bestie sue pari ", "solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone "), di mastro Misciu ("tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l’avvocato ").

4) Malgrado sia analfabeta, è il più "intellettuale" dei personaggi verghiani (se Jeli, secondo la definizione di Asor Rosa, è "il primo uomo del mondo", Malpelo è "l’ultimo"): è lui che svela la verità di quel mondo (l’asino "va picchiato, perchè non può picchiare lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi "; commenta Spinazzola: "nessun testo letterario dell’Ottocento italiano ha sostenuto con tanta fermezza che operare il male significa soltanto conformarsi al dettame della natura "); ed è sempre lui che espone la sapienza silenica (se l’asino "non fosse mai nato, sarebbe stato meglio ").

5) Si può distinguere fra populismo reazionario (si guarda con nostalgia, e si idealizza come un paradiso perduto a cui si vorrebbe ritornare, il mondo arcaico contadino, che conserva intatti i valori distrutti dalla moderna civiltà industriale), populismo conservatore (si riconoscono e si compatiscono le miserie e le sofferenze del popolo, che si auspica che vengano alleviate, grazie alla comprensione e generosità delle classi superiori, non certo per autonoma iniziativa delle classi inferiori, di cui si temono violenza ed ignoranza; è pertanto associato a pietismo sentimentale e paternalismo consolatorio), populismo progressista (il popolo è una forza positiva, portatrice di progresso, capace di rompere il sistema vigente e di costruire una società giusta). Si può anche riconoscere una forma di populismo rovesciato (invece di vedere il popolo in positivo, ci si compiace di descriverne orrori e turpitudini: è il caso di P. Valera in Milano sconosciuta, o di C. Arrighi in Nanà a Milano; ma anche del D’Annunzio delle Novelle della Pescara ).

6) Il consòlo è il cibo che viene tradizionalmente offerto da parenti e amici ai familiari del defunto nei primi giorni del lutto.

7) E quindi "estraneo" a quel mondo. Ad esempio, la volontà dei Malavoglia di non mandare all’ospedale il nonno (determinata da un autentico legame affettivo) appare "strana" ai paesani, che la interpretano come un atto di superbia (non ci vedono la convenienza economica).

8) Ma anche della Nunziata e di compare Alfio.

9) Anche in Rosso Malpelo una simile analisi farebbe risaltare la contrapposizione fra i due mondi, uno (quello violento e sub-umano) rappresentato dal narratore, e l’altro (quello pacifico e amorevole, sognato da Malpelo) che ci lascia intravvedere il punto di vista dell’autore. E’ rivelatore l’episodio della morte di Ranocchio: a Malpelo, che ha interiorizzato la legge della sopraffazione e del tornaconto personale, appare "strano", e incomprensibile, il pianto della madre di Ranocchio (ma il lettore avverte bene, e Malpelo confusamente, che quel pianto è normale, mentre stravolti sono i rapporti umani nel mondo della miniera). Ma l’artificio dello straniamento è già presente nel famoso incipit, dove viene spacciata per verità una opinione senza fondamento.