Il discorso di Calgaco, “brave heart” ante litteram

Siamo in Caledonia, all’estremo nord della Britannia, nell’odierna Scozia. L’esercito romano, guidato da Agricola, sta avanzando, ma i Calèdoni non sono disposti a sottomettersi. Prima della battaglia decisiva, il loro capo, Calgaco, pronuncia un fiero discorso, in cui denuncia la ferocia e l’avidità dei Romani che pretendono di dominare tutto il mondo, ed esorta i Calèdoni a battersi fino alla morte piuttosto che subire quella dominazione. Calgaco, che difende la libertà e l’indipendenza della Caledonia, sembra anticipare quel William Wallace, l’eroe nazionale scozzese (il Braveheart, “cuore impavido”, nel film interpretato da Mel Gibson) che, alla fine del 1200, si batterà per la libertà e l’indipendenza della sua terra (la Scozia) dalla dominazione inglese. 

"Sempre quando io medito sulle origini della guerra e sulla situazione che ci opprime, fermissima fede nasce nell'animo mio, che l'ora presente e l'unione vostra aprano la via a riconquistare l'indipendenza dell'intera Britannia: ché tutti siamo vergini di servitù, né per noi vi sono altre terre al di là, e neppure il mare è libero dacché ci minaccia la flotta romana. Armi e battaglie, che son fonte d'onore ai valorosi, divengono in tali condizioni il supremo elemento di sicurezza per gl'ignavi stessi. Sinora noi combattemmo con varia sorte contro i Romani, e fu a noi speranza e forza il nostro braccio. Nobilissimi fra tutti i Britanni, come abitatori dell'interno noi non vediamo lidi di popoli schiavi; neppur con la vista subimmo mai l'oltraggio della dominazione straniera. Sino ad oggi, questo nostro oscuro vivere nell'estreme zone della terra e della libertà ci ha protetti. Ora, anche questo ultimo recesso della Britannia è aperto; e come tutto ciò ch'è ignoto, lo s'immagina pieno di meraviglie. Al di là, non più alcun popolo, non altro che flutti e scogli, e, peggior male, i Romani, la cui prepotenza invano vorresti placare con l'umile sottomissione. Predoni del mondo intero (1), poiché tutto devastarono, e altre terre da devastare non hanno, anche il mare vanno ora frugando. Avidi contro il nemico ricco, contro il povero superbi; non saziati dall'Oriente, non dall'Occidente; soli fra tutti a gettarsi con pari accanimento sull'opulenza e sulla povertà. Rubare, massacrare, rapire, hanno da essi il falso nome di impero, e là dove fanno il deserto, lo chiamano pace (2). Volle la natura che ognuno abbia carissimi i figli e i congiunti: ma la leva ce li porta via, e son mandati a servire lontano. Le mogli, le sorelle, se pur si salvano dalla violenza nemica, son profanate con la maschera dell'amicizia e dell'ospitalità. I beni ci si consumano nelle imposte, il campo e il raccolto nel tributo del grano, i corpi e le braccia nell'aprire strade in foreste e paludi, tra bastonate e ingiurie. I nati alla schiavitù sono pur venduti una sola volta, e il padrone li nutre: la Britannia no, essa compera ogni giorno la schiavitù proprìa, ogni giorno l'alimenta. E come nella turba degli schiavi l'ultimo giunto è dai suoi stessi compagni deriso, cosi in questa vecchia moltitudine di servi del mondo intero, noi, ultimi e miserabili, siamo frustati a sangue, poiché non abbiamo campi o miniere o porti, a lavorare i quali valga la pena di conservarci in vita. Ai padroni spiace che i sudditi siano valorosi e fieri: noi, che il remoto isolamento maggiormente assicura, tanto più siamo sospetti. Nessuna grazia ci è concesso sperare. In piedi, dunque! e vi siano care, sopra ogni cosa, la salvezza e la gloria". (Tacito, Agricola, 30-31)

1: Raptores orbis

2: Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium atque ubi solitudinem faciunt pacem appellant

L’aspetto interessante di questo discorso è che uno storico latino (Tacito) riporta, senza mezzi termini, il punto di vista dei vinti sull’imperialismo romano. Non è l’unico caso nella storiografia latina (si ritrova qualcosa di analogo in un famoso passo delle Historiae di Sallustio), ma è pur sempre un punto di vista sorprendente, che getta una luce ben diversa su quell’Impero romano tanto esaltato dai suoi sostenitori. Ai vinti appare come un’oppressione spietata e uno sfruttamento insopportabile quell’Impero che i vincitori (appunto, i Romani stessi) amavano presentare come la giusta imposizione di leggi civili a popoli barbari.

Il discorso di Petilio Ceriale, ovvero l’apologia dell’imperialismo romano

Si legga quindi un altro discorso, riportato, sempre da Tacito, nel libro IV delle Historiae. Si narra della ribellione fomentata nelle Gallie dai Batavi, capeggiati da Giulio Civile.  Petilio Ceriale, il generale romano inviato per domare la rivolta, sconfigge i ribelli, quindi rivolge loro le seguenti parole, con cui li esorta ad accettare la dominazione romana, che non significa né oppressione né sfruttamento, ma bensì imposizione di buone leggi, pace duratura fra popoli da sempre tormentati da conflitti e difesa dalle invasioni straniere. Si tratta dunque di una perfetta apologia dell’imperialismo romano, che contrasta decisamente con il punto di vista dei vinti, espresso da Calgaco nell’Agricola.

73. Convocati poi Treviri e Lingoni a parlamento, così parlò: «Non sono maestro di belle parole e con le armi ho attestato il valore del popolo  romano; ma poiché siete tanto sensibili alle parole e valutate il bene e  il male non per quello che sono, ma ascoltando le chiacchiere dei sediziosi, ho deciso di dirvi poche parole, parole che sarà più utile per voi aver ascoltato, ora che la guerra è conclusa, che non per me aver pronunciato. Comandanti e imperatori romani sono entrati nella vostra terra e in quella degli altri Galli non per sete di conquista, ma perché implorati dai vostri padri, stremati quasi a morte dai loro conflitti interni, e perché i Germani, da voi chiamati in aiuto, avevano asservito tutti, alleati e nemici (1). Attraverso quante battaglie contro Cimbri e Teutoni, con che gravi fatiche dei nostri eserciti e con quale risultato abbiamo combattuto le guerre contro i Germani, è cosa ben nota. Non per difendere l'Italia ci siamo stanziati sul Reno, ma perché un altro Ariovisto non si facesse re delle Gallie. Pensate forse che Civile (2) e i Batavi e i popoli d'oltre Reno vi amino più di quanto i loro antenati abbiano amato i vostri padri e i vostri avi? Sempre identico e unico è il motivo del passaggio dei Germani nelle Gallie, l'avidità senza limiti e la smania di cambiare sede: vogliono lasciare le loro paludi e le loro terre desolate per impossessarsi di questo suolo così fertile e di voi stessi. Naturalmente accampano la libertà e altre belle parole, ma chiunque abbia voluto asservire e dominare gli altri è sempre ricorso alle stesse identiche parole.

 74. «Sempre nelle Gallie ci sono state tirannidi e guerre, finché non avete accettato le nostre leggi. Noi, benché tante volte provocati, vi abbiamo imposto, col diritto della vittoria, solo il necessario per garantire la pace; infatti, la pace tra i popoli è impensabile senza le armi e le armi non si possono avere senza mantenimento degli eserciti né il mantenimento degli eserciti senza tributi. Per il resto vi abbiamo reso partecipi di tutto. Voi spesso comandate le nostre legioni, voi governate queste o altre province; non esistono àmbiti separati ed esclusioni (3). Dei buoni prìncipi vi avvantaggiate quanto noi, benché viviate lontani; gli imperatori perversi infieriscono solo su chi sta loro più vicino. Sopportate, dunque, la sregolatezza e l'avidità dei dominatori come la siccità, le alluvioni e gli altri disastri della natura. Finché ci saranno uomini ci saranno vizi; ma non sono mali senza fine e vengono compensati dall’avvento di tempi migliori. Ma forse voi sperate in un dominio più mite, quando regneranno Tutore e Classico (4) e forse ci vorranno tributi minori per allestire gli eserciti che vi difendano da Germani e da Britanni. E una volta cacciati i Romani - cosa che gli dèi non consentano! - cos'altro avverrebbe, se non una serie di guerre fra tutti i popoli? Ottocento anni di fortuna e di disciplina hanno cementato questa struttura, che non può essere demolita senza la rovina di chi la demolisce. E il rischio maggiore tocca a voi che possedete oro e ricchezze, cause primarie di guerre. Perciò amate e difendete la pace e la città che noi tutti, vinti e vincitori, accoglie con gli stessi diritti. Vi insegni qualcosa l'esperienza della buona e della cattiva sorte e non continuate a scegliere una ribellione rovinosa, bensì invece l'obbedienza nella sicurezza». Con tale discorso riportò la calma e la fiducia tra genti che temevano ben altre vendette.

              (1) Il riferimento è ad Ariovisto, capo degli Svevi, il quale – come ci racconta Cesare – era venuto in Gallia chiamato dai Sequani contro gli Edui ed aveva finito per opprimere entrambe le popolazioni.

(2) Giulio Civile è il nobile batavo che aveva fomentato la rivolta dei Galli.

(3) Dal tempo di Claudio rappresentanti delle province erano ammessi in Senato e ricoprivano posti di responsabilità nell’apparato militare.

(4) Due capi dei Treviri, alleati con Civile.

Il discorso di Anchise, ovvero il carattere provvidenziale dell’impero

La celebrazione più illustre del dominio romano – inteso come provvidenziale, come esecuzione della volontà divina – si trova nel poema di Virgilio.Si leggano le parole con cui Anchise, nell’oltretomba (Eneide, VI, vv. 847-853), preannuncia ad Enea il grande destino di Roma (quello di diventare dominatrice del mondo): 

Excudent alii spirantia mollius aera

credo equidem, vivos ducent de marmore vultus,

orabunt causas melius, caelique meatus

describent radio et surgentia sidera dicent:

tu regere imperio populos, Romane, memento

hae tibi erunt artes, pacique imponere morem,

parcere subiectis et debellare superbos.

Altri scolpiranno più dolcemente statue di bronzo che sembrano respirare – lo credo davvero – e trarranno volti dal marmo (che sembrano) vivi, (altri) peroreranno meglio le cause, (altri) descriveranno col compasso i moti del cielo e sapranno predire il sorgere degli astri: tu, o Romano, ricordati di governare i popoli – questa sarà la tua arte – e di imporre le regole della pace, risparmiando chi si sottomette e schiacciando chi pretende di resistere.