L’amore e l’altro mondo nell’immaginario medievale: un percorso in quattro testi, da Andrea Cappellano a Boccaccio

 

 

I. In una calda e luminosa giornata d’estate un nobile cavaliere, insieme ad altri suoi pari, cavalca per la selva reale di Francia al seguito del suo signore. La compagnia si ferma a riposare in un locus amoenus, mentre i cavalli si dilettano al pascolo. Quando si tratta di ripartire, il nostro cavaliere, attardatosi a rintracciare il proprio cavallo che si era allontanato, si ritrova solo e si mette alla ricerca della compagnia. Comincia così per lui una straordinaria avventura, che lo porta prima ad incontrare una cavalleria di morti e poi a visitare la loro sede ultraterrena.

Il corteo incontrato è guidato dal dio Amore ed è composto da donne, suddivise in tre gruppi. Nel primo gruppo ci sono donne molto belle e ben vestite, che cavalcano un palafreno lussuosamente bardato e sono accompagnate ciascuna da due cavalieri che procedono al loro fianco e da un terzo appiedato che guida a mano il loro cavallo: sono, costoro, quelle "beatissime donne" che in vita concessero il loro amore agli amanti che ne erano degni, e che perciò ora ricevono, come ricompensa, tale onore. Le donne del secondo gruppo sono accompagnate da una gran quantità di servitori, a piedi e a cavallo, ma la moltitudine e la confusione sono tali che esse, invece di essere adeguatamente servite, ricevono soltanto impaccio nel cavalcare: si tratta delle donne che in vita si concessero a tutti senza discrezione, e che perciò ora hanno in cambio tale condizione disagiata. Nel terzo gruppo ci sono donne mal vestite, costrette a cavalcare senza sella su cavalli macilenti e zoppicanti, senza alcun cavaliere che le accompagni e le serva, per di più accecate e soffocate dalla molta polvere sollevata dal gruppo precedente: sono queste le donne che in vita "mantennero chiusa la porta dell’amore", rifiutarono di concedersi anche ai cavalieri che degnamente le avrebbero amate, preferirono la castità e perciò ora subiscono la giusta punizione.

Anche nel regno governato dal dio Amore, ove il nobile protagonista giunge al seguito del corteo, le tre schiere hanno una collocazione corrispondente: di premio o di punizione, secondo criteri analoghi a quelli riscontrati nella cavalcata. In una radura ci sono tre zone concentriche: quella più interna (Amoenitas) è una sorta di paradiso terrestre, e lì, all’ombra di un grande albero e presso il trono del dio Amore, risiedono felici con i loro cavalieri le donne che amarono e si lasciarono amare cortesemente; nella zona intermedia (Humiditas), su prati inondati da acqua gelida, sono collocate le donne di facili costumi; in quella più esterna (Siccitas), arsa da un sole cocente, si trovano le donne che si vollero mantenere caste, ora costrette, per maggiore tormento, a sedere su dolorosi fasci di spine.

Tutto ciò è raccontato da Andrea Cappellano nel primo libro del De amore (1), il trattato in cui si dà sistemazione teorica a quella concezione dell’"amor cortese" (o fin’amor) che, nata in Provenza alla fine del sec. XI, si sarebbe poi diffusa negli ambienti colti di tutta Europa (2).

La narrazione di visioni d’oltretomba, di defunti che ricevono premi o punizioni a seconda del loro comportamento in vita, non è infrequente nel Medioevo: ciò che qui è notevole è non tanto che il comportamento in questione sia esclusivamente relativo all’amore (come era da aspettarsi, visto l’argomento oggetto del trattato di Andrea), quanto il fatto che l’amore sia assolutamente dissociato dall’idea cristiana di peccato, ed anzi esaltato e premiato nell’oltretomba, quando praticato in vita secondo i canoni della cortesia (3). Né può sfuggire che, nella visione testé narrata, la condizione peggiore (direi ‘infernale’, adottando una categoria che appartiene all’oltretomba cristiano) è riservata alle donne che praticarono la castità (4), ovvero la virtù per eccellenza secondo la morale cristiana, mentre una sorta di ‘regno intermedio’ c’è per le donne che, vere e proprie lussuriose, si concessero indiscriminatamente (5); al ‘paradiso’ hanno accesso le donne che non negarono il loro amore, ma corrisposero, com’era giusto e doveroso, alla richiesta degli amanti cortesi (6).

La dottrina, dunque, che ispira la visione di Andrea, è in aperto contrasto con la dottrina cristiana, anzi si struttura come una vera e propria religione antitetica a quella cristiana: c’è un’oltretomba, come s’è visto, e c’è un dio, Amore, che attribuisce premi e castighi secondo un rigoroso contrappasso, che determina la condizione ultraterrena in relazione al comportamento tenuto in vita. Ciò appare anche più evidente se si nota che, nella concezione cortese, l’amore è sì sentito come un sentimento nobile e nobilitante, ma non per questo è ridotto ad un fatto puramente spirituale, depauperato delle sue componenti erotico-sensuali: al contrario, tali componenti - apertamente valorizzate nel trattato di Andrea (7)- costituiscono le fondamenta su cui si innalza la grande elaborazione culturale dell’amor cortese; e il fatto che l’adulterio ne sia un canone qualificante (8), dimostra una volta di più, se ce ne fosse bisogno, che l’amore di cui si tratta è un amore-passione, in forza di ciò legittimato a realizzarsi al di fuori dei vincoli di interesse e convenienza connessi con il matrimonio. In altre parole si potrebbe anche dire che la dottrina in questione, di cui Andrea è il grande divulgatore, intende dare dignità morale a quella passione amorosa da sempre oggetto della riprovazione della Chiesa.

Nel merito, la storia secolare dell’atteggiamento della Chiesa, da Paolo di Tarso a Tommaso d’Aquino, è sostanzialmente una storia di condanne: la passione d’amore, che travolge la ragione, è peccaminosa, è il segno dell’imperfezione umana dopo la Caduta; l’amore carnale, fuori del matrimonio, non si giustifica in alcun modo, nel matrimonio è tollerato ai fini della procreazione, ma, anche in questo caso, con le dovute cautele, perché il desiderio è intrinsecamente malvagio. Basterà ricordare, per tutti, Gerolamo che, nell’Adversus Jovinianum, bolla così il desiderio troppo intenso del marito: "Adulter est in suam uxorem amator ardentior... Sapiens vir iudicio debet amare coniugem, non adfectu... Nihil est foedius quam uxorem amare quasi adulteram." (9)

Di tutto ciò Andrea era ben consapevole, se è vero che la ritrattazione del III libro (De reprobatione amoris) è motivata anche dalla paura di incorrere in una condanna per eresia. Il "cappellano", da buon chierico, finiva per negare, in nome della verità di fede, ciò che per due libri aveva esaltato in nome della verità di ragione: quello stesso amore che era stato celebrato come fonte di ogni azione virtuosa e degna di lode, viene ora indicato, nel III libro, come grave offesa a Dio, origine di ogni comportamento delittuoso, causa di dannazione eterna. Ma evidentemente quella ritrattazione, così poco convincente per noi, nemmeno convinse l’autorità ecclesiastica: le "due verità" non potevano coesistere, e la condanna (che intendeva colpire proprio la tesi della "doppia verità" sostenuta dagli averroisti latini) si abbatté sul libro di Andrea il 7 marzo del 1277, per opera del vescovo di Parigi, Stephen Tempier (10).

Del resto, quella condanna, che arrivava circa un secolo dopo la pubblicazione del libro, non era che l’ultimo anello di una catena che aveva finito per strangolare, insieme all’amor cortese, la possibilità stessa di fondare una morale e un pensiero alternativi a quelli imposti dalla ortodossia cattolica.

E’ una storia che, per un verso, rimanda a quella delle dispute teologiche che, nel corso dei secoli XII e XIII, videro contrapporsi scuole di pensiero di ascendenza aristotelica e platonica; per altro verso, si intreccia con la vicenda della persecuzione delle eresie, che ebbe come momento culminante la crociata contro gli Albigesi voluta da papa Innocenzo III nel 1208.

Per quanto riguarda il primo aspetto, basterà ricordare che certo ‘naturalismo’ di ispirazione platonica (si pensi, in particolare, ai poeti e filosofi della scuola di Chartres, attivi nella prima metà del XII secolo) proprio in quanto metteva l’accento sulle potenzialità della Natura, vicaria di Dio, finiva anche per valorizzare l’intrinseca bontà dell’amore terreno fra l’uomo e la donna. Il prevalere dell’aristotelismo, soprattutto per opera di Tommaso d’Aquino nella seconda metà del XIII secolo, sia sul piano teologico ristabilì le distanze fra il cielo e la terra, sia sul piano morale relegò definitivamente nel territorio del peccato l’etica profana dell’amore cortese (11).

Ma quell’etica dovette subire il contraccolpo anche sul fronte della guerra che la Chiesa di Roma combatté e vinse contro le eresie. Quale che fosse la relazione fra il catarismo, particolarmente vigoroso nel sud della Francia, e la grande cultura cortese fiorita pressoché contemporaneamente negli stessi luoghi (12), non c’è dubbio che la crociata contro gli Albigesi non si limitò ad estirpare la mala pianta dell’eresia, ma determinò anche in modo irreversibile il tramonto di quella civiltà. In particolare, non poteva avere cittadinanza all’interno della comunità cristiana la concezione dell’amore che celebrava apertamente una passione tutta terrena e addirittura idealizzava l’adulterio: fu perseguita come una peste, come il frutto avvelenato di quella haeretica pravitas che, in spregio del matrimonio, sembrava aver rovesciato il detto paolino (melius est nubere quam uri) nel suo contrario (melius est uri quam nubere).

 

II. Ma in Italia, nel 1277, la peste si era già diffusa. Non solo perché a quella data il De amore risulta già conosciuto (13), ma proprio perché la lirica siciliana dell’età di Federico II sembra avere importato in Italia quegli ideali di amore cortese, banditi nelle terre d’origine.

Di quegli ideali si nutre più di una generazione di poeti, quegli ideali (e quindi il De amore, che li organizza sistematicamente) costituiscono una componente fondamentale nella cultura di ogni poeta del sec. XIII, dai siciliani agli "stilnovisti", da Jacopo da Lentini a Dante (14).

Dante ha letto gli autori provenzali, conosce il trattato di Andrea, padroneggia quelle problematiche, come era pressoché indispensabile per chiunque volesse trattare d’amore. Ma è per lui un bagaglio sempre più pesante, in quanto quella cultura, con quel sistema di valori, in particolare con quella concezione laica dell’amore, non può non scontrarsi, nella sua coscienza, con i dettami della morale cristiana. Di tale scontro - e della continua ricerca di una superiore conciliazione - è testimonianza esemplare il percorso poetico che conduce dalla Vita Nova alla Commedia .

Ed è interessante notare come proprio l’episodio di Francesca, nel V dell’Inferno, sia segno di un rapporto intensamente, e drammaticamente, vissuto dall’autore con i modelli proposti dalla cultura cortese. Un rapporto mai dimenticato, ma ormai inaccettabile alla luce di una concezione che ha tolto all’amore ogni connotazione mondana per collocarlo in una dimensione autenticamente religiosa (di una religione, cioè, in cui è Cristo abate del collegio, e non Amore) e attribuirgli la capacità di innalzare l’anima fino alla contemplazione di Dio.

Nel V dell’Inferno ci troviamo di fronte ad una visione dell’oltretomba che, fatte le debite proporzioni, non può non rievocare quella immaginata da Andrea nel I libro del De amore: in entrambi i casi è la passione d’amore l’elemento rispetto al quale si è giudicati e "mandati" per l’eternità. Ovviamente, mentre in Andrea - dato l’argomento da lui trattato - questo è l’unico motivo preso in considerazione, per Dante quello segnato dalla passione d’amore non è che uno fra i tanti caratteri che individuano il viaggio terreno dell’uomo e, di conseguenza, il suo eterno destino; e mentre la visione di Andrea è soltanto un momento didascalico all’interno di un trattato teorico, la Francesca di Dante, nel poema cui han posto mano e cielo e terra, non è che una figura fra le tante che compongono il quadro, grandioso e totale, della condizione umana.

Ma se si restringe lo sguardo al motivo oggetto di riflessione in entrambi gli episodi (la passione d'amore, appunto, ovvero il modo in cui tale passione è stata concepita e praticata nella vita terrena) non pare improprio il confronto; e non solo perché, come è già stato rilevato (15), è comune l’idea del viaggiatore, perdutosi nella selva, cui è concesso di apprendere la condizione nell’aldilà perché possa riferirne ad ammaestramento dei viventi; o perché tale condizione appare regolata, analogamente, dalla legge del contrappasso, o per altre similitudini che vi si vogliano riscontrare; quanto perché il confronto ci consente di misurare appieno la distanza che separa le due concezioni, una distanza che conduce addirittura ad un rovesciamento di prospettiva, ad una inconciliabile opposizione.

L’amore esaltato da Andrea, l’amore proprio di chi ha cuore gentile, l’amore nobile e nobilitante, e perciò santificato nel suo oltretomba, è diventato nella Commedia peccato di lussuria, proprio di coloro che la ragione sommettono al talento, un peccato che conduce alla dannazione eterna. Analogamente, alla condizione beata delle donne cui è reso ogni onore e servizio nella visione di Andrea, corrisponde nella Commedia la condizione di Francesca, travolta per sempre dalla bufera infernale. E si badi: il comportamento per cui Francesca è punita non differisce da quello che nel De amore si raccomanda come esemplare; non differisce, perché Francesca non ha concesso il suo amore indiscriminatamente, ma, lei gentile, ha corrisposto all’amore di un uomo gentile, com’era doveroso; né è l’adulterio a fare la differenza, visto che la condizione extra-coniugale degli amanti è indicata espressamente nel trattato di Andrea come qualificante l’autenticità dell’amore. Queste cose Francesca le sa: perciò dichiara a voce alta la sua colpa, che lei continua a non sentire come una colpa.

E ovviamente, ancor prima di lei, le sa l’autore della Commedia, che qui si trova non solo a regolare i conti con la grande tradizione della cultura cortese, ma anche a combattere con i fantasmi della propria giovinezza: non altrimenti si spiega la forte intensità emotiva che pervade l’intero episodio, e coinvolge, come mai in seguito, il visitatore dell’oltretomba fino al punto estremo di non sopportazione (Io venni meno sì com’io morisse. / E caddi come corpo morto cade).

Le parole con cui Francesca si giustifica - e sono quelle racchiuse dalle terzine famose, introdotte dalla triplice anafora Amor ch(e)..., Amor ch(e)..., Amor... - sono parole care alle orecchie di Dante: con quelle parole sono professati i principi dell’amor cortese, quasi nei termini di una traduzione delle regole enunciate da Andrea nel De amore (16). Di più: il primo verso (Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende) rimanda ad un autore amatissimo (il padre / mio e de gli altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre), quel Guinizzelli, maestro indimenticabile, che aveva cantato Al cor gentil rempaira sempre amore; un insegnamento ben recepito dall’allievo, che l’aveva ripreso in un sonetto della Vita Nova (Amore e ’l cor gentil sono una cosa, / sì come il saggio in suo dittare pone).

Ma anche il "saggio" aveva sbagliato: non aveva visto il pericolo implicito nell’affermazione di quella identità (tra amore e cor gentile), non era riuscito a liberarsi completamente della zavorra che tratteneva a terra quell’idea dell’amore. Beatrice ha indicato un’altra strada: l’amore virtuoso si determina, sì, fra persone fisicamente concrete, ma è capace di staccarsi dalla materialità corporea, si risolve in un processo di purificazione interiore, diventa elevazione al cielo. Fuori di questa strada c’è la prevaricazione del "talento" sulla "ragione", e non varranno nobili intenzioni e nobile sentire a salvare Francesca dalla dannazione eterna. Per lei, e per la sua umana debolezza, potrà esserci "pietà", ma nel buio del cerchio in cui è relegata sarà per sempre travolta dal turbine, così come in vita si lasciò travolgere dalla lussuria.

 

III. Chi non patisce un siffatto dramma interiore, ma ha invece solide certezze, è Jacopo Passavanti, il frate domenicano vissuto nelle prima metà del sec. XIV, autore di un trattato (lo Specchio di vera penitenza) in cui sono raccolte le prediche da lui stesso tenute nella quaresima del 1354 (17). Servendosi di racconti esemplari (exempla) quanto mai vividi, Passavanti intende ammonire i fedeli ad astenersi dal peccato e a fare penitenza, se non vogliono incorrere, dopo la morte, nei rigori della giustizia divina. Fra questi, l’exemplum del carbonaio di Niversa è certamente uno dei più famosi (18); ed è anche interessante per il nostro discorso, perché, essendo ancora una volta la passione d’amore il peccato oggetto di punizione nell’aldilà, richiama inevitabilmente alla memoria le precedenti visioni di Dante e di Andrea Cappellano.

Vi si racconta di come un carbonaio assista nottetempo, mentre veglia presso la fossa accesa dei carboni, alla visione terrificante di una "caccia tragica": uno cavaliere in su uno cavallo nero correndo, con uno coltello ignudo in mano insegue una femmina scapigliata e gnuda; la raggiunge e, senza pietà per le sue grida disperate, la afferra per li svolazzanti capelli, la trapassa in mezzo al petto con il coltello e la getta nella fossa dei carboni ardenti; quindi la riprende tutta focosa et arsa, la carica sul suo cavallo e se ne torna al galoppo per la via dond’ era venuto. La visione si presenta identica per tre notti, finché il carbonaio ne parla al conte di Niversa, il quale assiste di persona alla visione e quindi, per quanto spaventato, osa chiederne ragione al feroce cavaliere. Costui gli rivela che tale atroce condizione, di cacciatore e preda, spetta a lui e alla donna che fu la sua amante (entrambi, in vita, nobili alla corte del conte), giacché noi, prendendo piacere di disonesto amore l’uno dell’altro, ci conducemmo a consentimento di peccato a tal punto che lei, per essere più libera, uccise il proprio marito; pertanto ora, per la legge del contrappasso che regola la giustizia divina, lei, in quanto uccise il marito, subisce ogni notte l’uccisione per mano dell’amante; e così come arse d’amore per lui, ora è gettata da lui ad ardere nei carboni infuocati; infine, così come in vita vide il suo amante con desiderio e piacere, ora lo vede ogni notte con odio e terrore. Siccome poi, chiarisce il cavaliere, loro due peccatori si pentirono in punto di morte, la misericordia di Dio mutò la pena eterna dello ’nferno in pena temporale di purgatorio; pertanto egli sollecita preghiere, elemosine e messe affinché le loro sofferenze siano alleviate.

Questo, in sintesi, l’exemplum narrato da Passavanti. E non si può non avvertire che, per quanto la pena descritta sia di purgatorio e non di inferno, temporanea e non eterna, purtuttavia la stessa è così orribile che al confronto impallidisce la pena di Paolo e Francesca (i quali, nel loro inferno, non si vedono con odio e terrore, ma insieme vanno ancora legati da un amore che sembra sfidare la stessa legge divina che li ha dannati). E’ evidente che per fra’ Jacopo la passione d’amore non ammette scusanti, non porta con sé alcun segno di nobiltà, è ormai soltanto esecrabile concupiscenza della carne: la morale cristiana ha fatto valere appieno i suoi principi, senza più dubbi e senza perplessità, quei dubbi e quelle perplessità che avevano reso così dolorosamente lacerante l’incontro di Dante con Francesca. E si badi: non è tanto l’uxoricidio, quanto il disonesto amore a determinare per i due (e per la donna in particolare) una punizione così terribile; l’uxoricidio è tuttalpiù un aggravante, certo una conseguenza, come ogni altra nefandezza, di un peccato che comporta offuscamento della ragione (di un peccato proprio di coloro che, appunto, la ragione sommettono al talento).

Dunque, il disonesto amore: e "disonesto" perché adulterino. Niente di più distante dalle teorizzazioni di Andrea Cappellano. Là l’adulterio, lungi dall’essere deplorato, era raccomandato. Né si può pensare che in Passavanti la "disonestà" sia associata alla mancanza di cortesia dei due protagonisti; perché è vero che niente si dice sui loro costumi e che il cavaliere non tenta di giustificare - a differenza di quel che fa Francesca - con il "cuore gentile" la caduta nel peccato; ma è anche vero che il loro nobile lignaggio lascia intendere di per sé, in mancanza di indicazioni contrarie, un mondo di belle cortesie, all’interno del quale, secondo la dottrina enunciata da Andrea, quell’amore, ancorché carnale e adulterino, avrebbe avuto pieno titolo per realizzarsi.

L’ombra nera della notte avvolge la scena, una notte lugubremente rischiarata dal rosso vivo dei carboni accesi e del fuoco che spira della boca e degli ochi e dello naso del cavaliere e del cavallo. E’ la notte che si addice al peccato: la tenebra materiale corrisponde ora a quella tenebra che in vita rese cieca la ragione, quando la lussuria consumò la sua malaugurata vittoria. Anche per Francesca, nell’Inferno di Dante, c’è la notte, il loco d’ogne luce muto, il buio senza tempo e senza fine del mondo sotterraneo. Se la luce è vita ed è salvezza, non può esserci la luce per i maledetti da Dio.

Alla luce piena del giorno avveniva invece, nella visione di Andrea Cappellano, l’incontro del cavaliere con il corteo guidato dal dio Amore. Lì evidentemente la passione amorosa non implicava in alcun modo l’idea di peccato; e questo non solo perché, come s’è visto, ad essere punita era piuttosto la castità, ma anche perché quell’oltretomba era associato ad un paesaggio terreno rischiarato dal sole, la visione non comportava il passaggio ad una dimensione allucinata ed angosciante, ma si compiva in un ambiente naturale i cui elementi, per quanto dolorosi, sono riconoscibili e familiari, appartengono alla quotidianità (il sole cocente, la polvere, i cavalli zoppi e macilenti, le spine) (19). E ciò sembra appropriato ad una concezione laica che si serve sì, in ossequio alle idee dominanti, di una visione ultraterrena, ma sostanzialmente tratta in termini naturali e terreni una questione naturale e terrena come l’amore fra l’uomo e la donna.

 

IV. Alla luce piena del giorno avviene anche la visione di cui narra Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti (20). E questo sarebbe già il segno, se non ci fossero anche altri e ben vistosi elementi, di una mentalità non più ossessionata dalla paura del peccato e della dannazione eterna.

Si tratta, come è noto, di una visione che presenta tali somiglianze con quella del carbonaio di Niversa da far pensare che la fonte sia comune o che Boccaccio conoscesse Passavanti (21).

In breve. Nastagio, non corrisposto nel suo amore per una de’ Traversari, si ritira da Ravenna a Chiassi. Qui un giorno, quasi all’entrata di maggio, essendo uno bellissimo tempo, mentre immerso nei suoi pensieri si inoltra nella pineta, si imbatte, verso il mezzo dì, in una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche, che corre piangendo e gridando, inseguita da due grandi e fieri mastini e da un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano. Nastagio vorrebbe aiutare la fanciulla, ma il cavaliere - che si presenta come Guido degli Anastagi, nobile ravennate, morto quando Nastagio era fanciullo - lo invita a non impicciarsi e gli spiega che ciò che vede è voluto dalla giustizia di Dio: lui infatti, innamorato non corrisposto di quella fanciulla, si era ucciso disperato; lei, tutt’altro che pentita della sua crudele ostinazione, era morta poco dopo; entrambi sono dannati all’inferno (22) e la pena consiste appunto in questa caccia, per cui lui la insegue, la raggiunge ogni venerdì a quell’ora in quel punto, la trafigge con lo stesso stocco con cui si era ucciso, la squarta, estrae il cuore e lo dà da mangiare ai cani; quindi lei si rialza come se niente fosse, ricomincia la fuga e ricomincia la caccia. E così avviene. Nastagio, dopo essere stato per un po’ tra pietoso e pauroso, capisce di poter sfruttare l’informazione a proprio vantaggio. Per il venerdì successivo fa apparecchiare proprio in quel punto un grande banchetto, cui invita parenti, amici e tutta la famiglia Traversari. La bella da lui amata, quindi, assiste alla scena raccapricciante, ascolta la spiegazione del cavaliere e non può non riconoscere che la stessa sorte della fanciulla dannata sarà riservata a lei, se continuerà a rifiutare il suo amore a Nastagio. Pertanto nottetempo gli manda una sua cameriera per fargli sapere che ella era presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui. Nastagio se ne rallegra, ma risponde che con onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie. Lei acconsente e la storia si conclude con il lieto fine del matrimonio cui fa seguito una lunga vita felice (23).

E dunque qui la caccia infernale ha una funzione esattamente opposta a quella che aveva nell’exemplum di Passavanti. Là doveva insegnare che cedere alla passione amorosa è un peccato degno, dopo la morte, delle pene più terribili; in Boccaccio, al contrario, è la ritrosia in amore ad essere indicata come degna del castigo divino, e la visione serve a persuadere le donne che è bene accondiscendere alla richiesta d’amore (24). L’effetto parodistico è evidente (25), come è evidente che tale effetto è stato ottenuto innestando, sul modello cristiano della caccia tragica, elementi che provenivano da tutt’altra tradizione, e precisamente da quella che fa capo al De amore di Andrea Cappellano (26).

Qualche osservazione basterà a dimostrarlo.

Anzitutto, i protagonisti della novella si muovono in un mondo che richiama alla memoria, col nome stesso delle famiglie dei Traversari e degli Anastagi, ambienti di gioiosa e raffinata cortesia (27); e cortesi sono i modi di Nastagio, sia perché ama una donna di condizione sociale superiore alla sua (troppo più nobile che esso non era), come espressamente raccomandato da Andrea (28), sia perché, per amore, conduce la più bella vita e la più magnifica che mai si facesse, seguendo il precetto della liberalità, fondamentale per un amante cortese (29).

Entrando nel dettaglio, non solo l’ora meridiana (di cui s’è già detto), ma anche la stagione primaverile e il paesaggio ameno della pineta (30), che fanno da sfondo alla visione di Nastagio, ne indicano l’affinità con la visione del cavaliere nel libro di Andrea (31); e il tutto, in Boccaccio, contribuisce a mitigare l’orrore della scena. Al contrario, l’atmosfera cupa e tenebrosa, propria della linea Elinando-Passavanti, intendeva senz’altro accentuare quell’orrore. Quanto alla scena in sé, è vero che il cacciatore è altrettanto spietato e violento (la caccia è altrettanto "tragica") in ambedue le visioni, di Nastagio e del carbonaio di Niversa: ma mentre in Passavanti la distanza dal quotidiano è volutamente marcata con l’insistenza sul soprannaturale (si pensi a quel cavallo e quel cavaliere che spirano fuoco dagli occhi, dal naso e dalla bocca) e sul sangue (cadendo in terra con molto spargimento di sangue, la riprese per l’insanguinati capelli), in Boccaccio il soprannaturale è limitato, per così dire, allo stretto necessario (la rinascita della donna dopo lo squartamento), ed anche l’opera del cacciatore, pur con i suoi particolari raccapriccianti, è tutto sommato riconducibile alla quotidianità di un lavoro da macelleria (il coltello sembra maneggiato con una certa professionalità, quando il cacciatore dice aprola per ischiena, e quel cuor... con l’altre interiora insieme... le caccio di corpo e dolle mangiare a questi cani ; e poi, di fatto, quella aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa dattorno, a’ due mastini il gittò); del resto, quel banchetto preparato da Nastagio con cura e raffinatezza (fece le tavole mettere sotto i pini dintorno..., fatti mettere gli uomini e le donne a tavola..., essendo adunque venuta l’ultima vivanda...) fa pensare ad una cortese brigata che si accinge ad assistere ad un piacevole spettacolo, ancorché a tinte forti, invece che ad una terribile visione: tutt’altra atmosfera rispetto a quella, paurosa ed angosciante, che incombe sul conte e il carbonaio di Niversa in attesa dell’evento.

Se ne può concludere, insomma, che Boccaccio tratta quel materiale medievale con una sensibilità che non è più medievale, non solo perché rovescia beffardamente le funzione di un exemplum edificante, ma anche perché, coi modi stessi della narrazione, dimostra di non avvertire, se non pretestuosamente, la presenza del divino (e del diabolico) nelle vicende terrene. Così come, circa un secolo e mezzo prima, non l’avvertiva Andrea Cappellano, il quale, altrettanto pretestuosamente, per trattare d’amore si era servito del soprannaturale.

Nel tramonto del Medioevo, è dunque la voce di Andrea che torna a farsi sentire: la sua idea dell’amore che, fieramente osteggiata dalla Chiesa, per sopravvivere aveva dovuto rinunciare alla sensualità e ricoprirsi di vesti cristiane, torna con la sicurezza sorridente (e irridente) di un autore, Boccaccio, che di certo non si sente trattenuto da scrupoli e obiezioni di tipo religioso.

Ma l’etica cortese, cui Andrea aveva dato sistemazione nel suo trattato, viene rivisitata e corretta alla luce dell’etica borghese, ormai trionfante nella società cui Boccaccio appartiene. Si pensi, ad esempio, a una certa aura di negatività che nella novella, a dispetto del precetto cortese della liberalità, si riverbera da quello spendere smisuratamente di Nastagio (talché i suoi parenti temono per il patrimonio); o anche, ed è elemento davvero vistoso, alla scelta finale del matrimonio ‘onorevole’, che contraddice seccamente quella precettistica. Bisognerà appunto considerare che Boccaccio, per quanto guardi con sincera nostalgia alle idealità di un mondo ormai lontano, è pur sempre l’interprete di una società (borghese) in cui si sono imposti altri valori, si rivolge ad un pubblico per il quale il lieto fine non può essere dissociato dall’amministrazione oculata del patrimonio e dal rispetto delle convenienze sociali (32).

Si potrebbe dire che etica cortese ed etica borghese si sono alleate, individuando nell’etica cristiana il comune nemico. In altre parole, riconoscere il tono parodistico della novella di Nastagio non vuol dire negare a Boccaccio l’intenzione consapevole (del resto evidente in tanti luoghi del Decamerone) di sottrarre l’amore al regno del peccato per collocarlo in quello dei bisogni naturali dell’uomo. Passavanti è lontano, ma è lontano anche Dante. L’amore terreno non è più esecrato come causa di dannazione, ma nemmeno è liberato dal peso della sua materialità perché possa indirizzarsi al cielo: è semplicemente accettato come una forza incomprimibile della natura, che determina, al pari e più di altre, i comportamenti dell’uomo.

E naturalmente non desta meraviglia che a tale mutamento di prospettiva dia voce un autore così rappresentativo di quell’età di transizione in cui comincia ad affermarsi una nuova concezione dell’uomo e del mondo. Non sarà un caso se alla fine del Quattrocento, Botticelli - che pure opera in un ambiente di alta spiritualità quale quello neo-platonico della corte di Lorenzo de’ Medici - illustrerà proprio la novella di Nastagio in quattro tavolette destinate a decorare la cassa da corredo per una sposa (33); e se in pieno Rinascimento, Ariosto, visibilmente riallacciandosi a quella tradizione che risaliva ad Andrea Cappellano, immaginerà punite all’inferno, ancora una volta, le donne che non vollero amare ed essere amate (34).

 

 

Marcello TARTAGLIA

 

Articolo pubblicato su Studi di estetica, 17

III serie, 1998, a. XXVI

 

 

NOTE

1) Dell’autore poco si sa, se non che fu attivo fra la seconda metà del sec. XII e i primi decenni del secolo successivo, e, presumibilmente, fu ‘cappellano’ (da cui l’appellativo con cui è ricordato nei codici) prima alla corte di Maria di Champagne, poi a quella del re di Francia Filippo Augusto. L’opera, a cui è legata la sua fama, il De amore (o De arte honeste amandi), è un trattato in tre libri, scritto in latino e tradotto ben presto nelle principali lingue indo-europee (lo cito nell’edizione a cura di G. Ruffini, Milano 1980).

2) Si tratta di una concezione sulle cui origini (latine, germaniche, celtiche, arabe) molto si è discusso, ma che indubbiamente - quali che siano gli stimoli culturali in essa confluiti: si pensi, soprattutto, all’Ars amandi di Ovidio - si pone come radicalmente nuova, sia rispetto alla tradizione classica (che concepisce l’amore come sensuale, fonte di gioia e dolore, ma sempre, in definitiva, come una malattia che fa perdere il senno), sia, come diremo, rispetto alla concezione cristiana. Nuova è l’idealizzazione della donna, cui l’uomo si sottomette con umiltà e fedeltà di ‘vassallo’, e nuova è l’idea dell’amore come un sentimento nobile e nobilitante, proprio soltanto di chi ha costumi, ed animo, ‘cortesi’ . Ed è una novità che impronterà di sé la cultura occidentale fino ai giorni nostri. Della vastissima bibliografia in merito, mi limiterò a ricordare gli studi più significativi: M. FAURIEL, Histoire de la poésie provençale, Parigi 1846; E. WECHSSLER, Frauendienst und Vassalität, in "Zeitschrift für französiche Sprache und Literature", XXIV, Iena 1902; Das Kulturproblem des Minnesangs, Halle 1909; J. ANGLADE, Les troubadours, leurs vies, leurs œuvres, leur influence, Parigi 1908; A. JEANROY, La poésie lirique des Troubadours, Parigi 1934; C. S. LEWIS, The Allegory of Love, Oxford, 1936 (tr. it., L’allegoria d’amore, Torino 1969); A.J. DENOMY C. S. B., An Inquiry into the Origins of Courtly Love, in "Mediaeval Studies", VI, Londra 1944; Fin’Amors: the Pure Love of the Troubadours, its Amorality, and Possible Source, ibid., VII, 1945; R. NELLI, L’érotique des troubadours, Parigi 1974 [Tolosa 1963]; R. BEZZOLA, Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident (500-1200), Parigi 1944-63; M. LAZAR, Amour courtois et "fin’amors" dans la littérature du XII siècle, Parigi 1964; C. CAMPROUX, Le Joy d’Amor des Troubadours, Montpellier 1965; A. VISCARDI, Tradizione latina e origini romanze, in Le Origini, Milano 1966 [1939]; I. MARGONI, Fin’amors, mezura e cortesia. Saggio sulla lirica provenzale del XII sec., Milano 1965; E. KÖHLER, Sociologia della fin’amors. Saggi trobadorici, Padova 1976; H. REY-FLAUD, La nevrose courtoise, Parigi 1983 (tr. it., Parma, 1991). Per altre indicazioni bibliografiche, rimando allo studio di R. Nelli sopra citato (tomo II, pp. 383-397), nonché alla bibliografia ragionata, a cura di A. M. Finoli, in appendice a M. VISCARDI, Le letterature d’oc e d’oil, Firenze-Milano 1967 (pp. 429-452).

3) Ricordo che una visione piuttosto simile si trova nell’anonimo Lai du trot, composto in lingua d’oil (lo si può leggere in P. M. O’HARA TOBIN, Les lais anonymes des XIIe et XIIIe siècles, Genève 1976). Problemi di datazione non consentono di stabilire quale dei due testi sia stato di modello all’altro, anche se è presumibile un’anteriorità del trattato di Andrea.

4) illae omnium mulierum miserrimae, quae, dum viverent, cunctis amoris intrare palatium clausere volentibus... omnes amoris postulantes deservire militiae abiecerunt et tamquam sibi odiosos repulerunt (le donne più miserabili di tutte, che, in vita, chiusero la porta a tutti quelli che volevano entrare nel palazzo di amore... rifiutarono e respinsero come odiosi coloro che chiedevano di servire in amore) (De amore, cit., p. 86).

5) mulieres istae immundae, quae, dum viverent, non sunt veritae cunctorum se voluptati exponere (donne immonde, che, in vita, non ebbero ritegno di offrirsi al piacere di tutti) (ibid.).

6) beatissimae feminae, quae, dum viverent, sapienter se amoris noverunt praebere militibus et amare volentibus cunctum praestare favorem (donne beatissime, che, in vita, seppero saggiamente offrirsi ai cavalieri d’amore e concessero tutto il loro favore a quelli che volevano amarle) (ibid.).

7) In esso si distingue, è vero, fra amor purus e amor mixtus; ma l’amore ‘puro’, che è quello ideale, da praticarsi dai veri amanti, lungi dall’essere un amore spirituale, si risolve in un raffinato gioco erotico fondato sul controllo del desiderio (sono concessi il bacio della bocca, le carezze e l’abbraccio fra gli amanti nudi: extremo praetermisso solatio, escluso il congiungimento carnale); d’altra parte l’amore ‘misto’ è, sì, inferiore, in quanto cede al desiderio e si sazia nell’‘ultimo’ piacere (in extremo opere Veneris terminatur), ma non per questo è da evitarsi assolutamente, giacché "anche l’amore misto è vero amore, da lodarsi, origine di ogni bene" (nam et mixtus amor verus est amor atque laudandus et cunctorum esse dicitur origo bonorum). Cfr. De amore, cit., pp. 162-164; e anche pp. 240-242.

8) Ciò non solo è evidente nella letteratura cortese, dalla lirica provenzale ai romanzi cavallereschi, ma è espressamente dichiarato proprio nel De amore (cit., p. 139: nulla etiam coniugata regis poterit amoris praemio coronari, nisi extra coniugii foedera ipsius amoris militiae cernatur adiuncta; nessuna donna, anche moglie di re, potrà essere degna di elogio in amore, se non amerà fuori del vincolo coniugale).

9) E’ adultero chi ama la propria moglie con troppo ardore... L’uomo saggio deve amare la moglie con giudizio, non con passione... Non c’è niente di più turpe che amare la moglie come un’adultera (Adversus Jovinianum, libro I, § 49, in Patrologia Latina, XXIII, Turnhout 1969, p. 293).

10) Anche la questione della ritrattazione è stata oggetto di varie interpretazioni. A me pare convincente la tesi, sostenuta da M. GRABMANN (Das Werk De amore des Andreas Capellanus und das Verurteilungsdektret des Bischofs Stephan Tempier von Paris vom 7. März 1277, in "Speculum", VII, 1932, pp. 75-79) e successivamente ripresa da A. J. DENOMY C. S. B. (The De amore of Andreas Capellanus and the Condemnation of 1277, in "Mediaeval Studies", VIII, 1946, pp. 107-149), secondo cui, appunto, Andrea intendeva salvarsi l’anima (e probabilmente, aggiungo io, anche il corpo) con la trovata della "doppia verità". Certamente, in ogni caso, così la intese il vescovo di Parigi, che non solo condanna il De amore nella sua totalità (indicandolo con le parole iniziali del I libro e quelle conclusive del III libro), ma fa esplicito riferimento alle tesi di coloro (e sono i cosiddetti averroisti latini, in specie Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia) che "dicunt ea esse vera secundum philosophiam, sed non secundum fidem catholicam, quasi sint due contrarie veritates ".

11) A questa problematica accenna D’ARCO S. AVALLE, in Ai luoghi di delizia pieni, Milano-Napoli 1977, pp. 23 e sgg.. In particolare sulla scuola di Chartres si possono vedere C.S. LEWIS, L’allegoria d’amore, cit. (pp. 85-107) e E. CURTIUS, Europäische und lateinisches Mittelalter, Berna 1948 (tr. it., Letteratura europea e Medioevo latino, Firenze 1992, pp. 123-145).

12) E’ una tesi che ha suggestionato più di uno studioso. Valga, per tutti, il bel libro di D. de ROUGEMONT, L’Amour et l’Occident, Parigi 1939 (tr. it. , L’amore e l’occidente, Milano 1977).

13) Nel 1238 Albertano da Brescia, nel suo Liber de amore et dilectione Dei et proximi, cita l’opera di Andrea indicandola con le parole iniziali (Amor est passio quaedam innata...).

14) Le tesi di Andrea sulla natura dell’amore sono facilmente riconoscibili nel sonetto di Jacopo da Lentini Amor è uno desio che ven da core. D’Arco S. Avalle ha mostrato poi come le stesse tesi ritornino in Guittone e Guinizzelli, in versione, rispettivamente, "democratica" e "aristocratica" (Due tesi sui limiti di amore, in Ai luoghi di delizia pieni, cit., pp. 25-38); e Guittone in particolare sembra avere redatto, sulla base degli insegnamenti di Andrea, un vero e proprio "manuale del libertino" (Il manuale del libertino, ibid., pp. 56-86). Anche Cavalcanti e Cino da Pistoia, per restare ai maggiori, dimostrano di conoscere Andrea: il primo lo cita raffigurandolo "coll’arco in mano", e quindi identificandolo addirittura con Amore; il secondo ricorda il "libro di Gualtieri", confondendo, come succederà spesso in seguito, l’autore del De amore con il personaggio a cui il libro è dedicato.

15) da D. DE ROBERTIS (Il libro della ‘Vita Nuova’, Firenze 1961, pp. 51-52), il quale arriva a suggerire una figliazione dell’oltretomba dantesco da quello di Andrea.

16) Ciò è evidente per la seconda terzina, il cui verso iniziale (Amor ch’a nullo amato amar perdona) sembra riprodurre fedelmente le regole IX (Amare nemo potest, nisi qui amoris suasione compellitur) e XXVI (Amor nil posset amori denegare), elencate a conclusione del II libro del De amore. Meno immediata, ma non meno facilmente dimostrabile, la stessa derivazione per le altre due terzine (Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende...; Amor condusse noi ad una morte..). Nel merito, si veda G. CONTINI, Varianti e altra linguistica, Torino 1979 [1970], pp. 343-348. Ricordo però che, sulla base di altri riscontri, D’Arco S. Avalle (op. cit., pp. 39-40) contesta tale derivazione, soprattutto a proposito della seconda terzina, e sostiene che invece Francesca opera una forzatura rispetto ai dettami di Andrea.

17) Manca tuttora un’edizione critica dello Specchio. Per le citazioni, mi servo di Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. VARANINI e G. BALDASSARRI, Roma 1993, vol. II, pp. 549-553. Alla stessa opera (pp. 629-643) rinvio per le questioni relative alla tradizione del testo.

18) Bisognerà comunque ricordare che l’exemplum non è originale, visto che lo stesso Passavanti indica espressamente Elinando (o Eliando) come sua fonte. Si tratta di Elinando, monaco di Froidmont, morto dopo il 1229, i cui Flores sono giunti a noi attraverso Vincenzo di Beauvais (Speculum historiale, XXIX, 120): fra questi si trova appunto la storia del carbonaio di Niversa (la si può leggere in Patrologia latina, CCXII, Turnhout 1969, p. 734). La stessa, riassunta e abbreviata, è riportata anche dall’Alphabetum narrationum, un prontuario di exempla compilato ad uso dei predicatori all’inizio del XIV secolo: ed è presumibile che di qui abbia attinto Passavanti. Del resto, il motivo della cosiddetta "caccia tragica" (o "infernale", o "demoniaca"), d’origine germanica, ha anche altri precedenti (si veda A. MONTEVERDI, Gli "esempi" di Iacopo Passavanti, in Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli 1954, pp. 190-191; ma anche l’introduzione di A. WESSELOFSKY alla Novella della figlia del re di Dacia, Pisa 1866).

19) Mi pare che le cose stiano così, a differenza di quel che pensa Grabher, il quale trova nell’episodio in questione l’atmosfera di una visione macabra e "un certo gusto del deforme, un non so che di stranamente fantastico e malato" (cfr. C. GRABHER, Particolari influssi di Andrea Cappellano sul Boccaccio, in "Annali della facoltà di Lettere e Filosofia e di Magistero dell’Università di Cagliari", XXI, II, 1953, p. 72-74).

20) Decamerone, V, 8. Per le citazioni, e per ogni altra osservazione sulla novella, rimando alla edizione a cura di V. BRANCA, Firenze 1960, pp. 657-667.

21) Anche se Boccaccio conosceva lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, e quindi lì poteva aver letto l’exemplum di Elinando, altrettanto accreditata, sulla base dei raffronti linguistici, è l’ipotesi che la sua fonte fosse la narrazione di Passavanti (cfr. A. MONTEVERDI, Gli "esempi" di Iacopo Passavanti, in Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, cit., pp. 192-93). L’ostacolo cronologico (la composizione del Decamerone precede di qualche anno lo Specchio di vera penitenza) è superato immaginando che Boccaccio ascoltasse dalla viva voce del frate le prediche da lui tenute in Santa Maria Novella. Francamente, a me pare che il problema rimanga, perché è difficile giustificare le analogie linguistiche sulla base di una conoscenza orale di quella narrazione (a meno di non pensare ad un Passavanti che legge la sua predica già scritta e ad un Boccaccio che prende appunti!). D’altra parte c’è anche chi ha voluto vedere nella caccia tragica narrata da Boccaccio il ricordo di una tradizione locale ravennate (A. WESSELOFSKY, nella già citata introduzione alla Novella della figlia del re di Dacia, pp. XLV e sgg.). Certamente evidenti sono le reminiscenze della Commedia dantesca, particolarmente del canto XIII dell’Inferno, dove si descrive la pena dei suicidi e degli scialacquatori (e sono reminiscenze appropriate, visto che quell’amore disperato aveva portato Nastagio a spendere smisuratamente, e poi a desiderare di uccidersi; e davvero si era suicidato il cavaliere-cacciatore della visione). Su questi aspetti, e in particolare sulle influenze dantesche, offre altre indicazioni N. SCARANO, La novella di Nastagio degli Onesti, in Studi letterari e linguistici dedicati a P. Raina, Firenze 1911, pp. 423-451. Infine, analogie (tematico-strutturali, nonché sintattico-lessicali) sono state riscontrate anche con la prima stanza della petrarchesca canzone delle visioni (Rime, CCCXXIII), da M. GIACON, La novella di Nastagio e la canzone delle visioni, in "Studi sul Boccaccio", VIII, Firenze 1974, pp. 226-249.

22) C’è qui una contraddizione, perché il cacciatore parla esplicitamente di condanna alle "pene del ninferno", ma poi precisa che si tratta di una pena temporanea ("tanti anni... quanti mesi ella fu contro a me crudele"). Si può pensare ad un residuo, non risolto, delle fonti, dove la caccia veniva presentata come pena di Purgatorio (e quindi temporanea); o anche, che la caccia sia una specie di pena aggiuntiva provvisoria, nel contesto di altre, e ovviamente eterne, pene infernali.

23) Per la verità c’è anche una piccola coda maliziosa, laddove il narratore ci dice che da allora in poi tutte le donne di Ravenna troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano.

24) E’ vero che, come si dice chiaramente, la donna è punita per aver causato il suicidio dell’innamorato respinto e per essersene compiaciuta; ma dal senso complessivo della novella, avvalorato dalla stessa conclusione, si capisce bene che tale aspetto passa in secondo piano (come l’uxoricidio nell’exemplum di Passavanti) rispetto a quello dell’amore negato.

25) L’ha notato V. SKLOVSKIJ, in Una teoria della prosa, Torino 1976 [Mosca 1929], p. 61, e l’ha mostrato, nell’ambito di un’analisi dettagliata della novella di Nastagio, C. SEGRE (La novella di Nastagio degli Onesti: i due tempi della visione, in Semiotica filologica, Torino 1979, pp. 87-96). L’ha negato invece, in nome della serietà artistica della novella, L. RUSSO (Postilla critica a Nastagio degli Onesti, in Il Decamerone, venticinque novelle scelte e ventisette postille critiche, Firenze 1939, pp. 391-398).

26) La conoscenza accurata da parte di Boccaccio del trattato di Andrea è evidente non solo nella novella di Nastagio, ma in tanti altri luoghi della sua opera, giovanile e matura, come ampiamente dimostrato da V. BRANCA, in Boccaccio medievale e altri studi sul Decameron, Firenze 1996 [1956], pp. 20-22, 223-235. E comunque, a dimostrazione di quanto intensi fossero sentiti dai lettori i rapporti di Boccaccio con il De amore, basterà ricordare che nel Seicento si finì per attribuire all’autore del Decamerone la paternità dell’opera di Andrea (Laberinto d’Amore di Messer Giovanni Boccaccio, aggiuntovi nuovamente un Dialogo d’Amore molto dilettevole, Venetia, appresso Gratioso Perchacino, MDCXI). L’esistenza di una vera e propria tradizione, relativamente al motivo delle donne punite perché renitenti all’amore, è stata messa in luce da W. A. NEILSON, The purgatory of cruel beauties, in "Romania", XXIX, Parigi 1900, pp. 85-93. Ma non è dimostrabile che Boccaccio conoscesse altri testi, oltre al De amore . Piuttosto, non bisognerà dimenticare un precedente classico, e cioè il racconto con cui, nelle Metamorfosi di Ovidio (XIV, vv. 622 e sgg.), Vertumno convince Pomona a cedergli.

27) Boccaccio aveva senz’altro in mente i versi in cui Dante, nominando proprio quelle famiglie, rievocava con nostalgia la Ravenna dei primi decenni del Duecento: "... la casa Traversara e li Anastagi / (e l’una gente e l’altra è diretata), / le donne e i cavalier, li affanni e li agi, / che ne ’nvogliava amore e cortesia..." (Purg. XIV, 107-111).

(28) De amore, cit., pp. 33 e sgg.

(29) De amore, cit, p. 94 (Avaritiam sicut nocivam pestem effugias et eius contrarium amplectaris) e p. 282 (Amor semper consuevit ab avaritiae domiciliis exulare ). Ma il valore della liberalità (largueza, in lingua d’oc) è ripetutamente esaltato nella letteratura cortese, sia francese che provenzale.

(30) Anche qui ritorna l’eco dei versi di Dante: "…la divina foresta spessa e viva.../ tal qual di ramo in ramo si raccoglie / per la pineta in sul lito di Chiassi, /..." (Purg. XXVIII, 2-20).

(31) E’ un’affinità già notata da C. Grabher (nel già citato Particolari influssi di Andrea Cappellano sul Boccaccio, pp. 75-88), il quale peraltro estende l’analisi a tutta l’opera del Boccaccio, per riscontrare che il gusto per il paesaggio ameno sia risente del De amore di Andrea sia preannuncia "quel sogno di perfetta armonia a cui in tanti modi anelava il Rinascimento".

(32) E’ la stessa logica riconoscibile nella novella, immediatamente successiva, di Federico degli Alberighi (Decamerone, V, 9), il quale, dopo aver dilapidato il patrimonio spendendo in cortesia, alla fine sposa la donna amata e miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi.

(33) Le tavole, presumibilmente dipinte da allievi della scuola su disegni del maestro, sarebbero state realizzate nel 1487 in occasione del matrimonio di Lucrezia di Francesco Pucci con Pier Francesco Bini ("in casa Pucci - scrive il Vasari a proposito di Botticelli - fece di figure piccole la novella del Boccaccio di Nastagio degli Onesti in quattro quadri di pittura molto vaga e bella").

(34) Orlando furioso, XXXIV, 6 e sgg. Ricordo peraltro che, fra Boccaccio ed Ariosto, lo stesso motivo ritorna in altri due testi: in un capitolo composto da Francesco Malecarni per il Certame Coronario e nell’Hypnerotomachia Poliphili, un romanzo anonimo (attribuito a Francesco Colonna), stampato a Venezia nel 1499.