Lamore e laltro mondo nellimmaginario medievale: un percorso in quattro testi, da Andrea Cappellano a Boccaccio
I. In una calda e luminosa giornata destate un nobile cavaliere, insieme ad altri suoi pari, cavalca per la selva reale di Francia al seguito del suo signore. La compagnia si ferma a riposare in un locus amoenus, mentre i cavalli si dilettano al pascolo. Quando si tratta di ripartire, il nostro cavaliere, attardatosi a rintracciare il proprio cavallo che si era allontanato, si ritrova solo e si mette alla ricerca della compagnia. Comincia così per lui una straordinaria avventura, che lo porta prima ad incontrare una cavalleria di morti e poi a visitare la loro sede ultraterrena.
Il corteo incontrato è guidato dal dio Amore ed è composto da donne, suddivise in tre gruppi. Nel primo gruppo ci sono donne molto belle e ben vestite, che cavalcano un palafreno lussuosamente bardato e sono accompagnate ciascuna da due cavalieri che procedono al loro fianco e da un terzo appiedato che guida a mano il loro cavallo: sono, costoro, quelle "beatissime donne" che in vita concessero il loro amore agli amanti che ne erano degni, e che perciò ora ricevono, come ricompensa, tale onore. Le donne del secondo gruppo sono accompagnate da una gran quantità di servitori, a piedi e a cavallo, ma la moltitudine e la confusione sono tali che esse, invece di essere adeguatamente servite, ricevono soltanto impaccio nel cavalcare: si tratta delle donne che in vita si concessero a tutti senza discrezione, e che perciò ora hanno in cambio tale condizione disagiata. Nel terzo gruppo ci sono donne mal vestite, costrette a cavalcare senza sella su cavalli macilenti e zoppicanti, senza alcun cavaliere che le accompagni e le serva, per di più accecate e soffocate dalla molta polvere sollevata dal gruppo precedente: sono queste le donne che in vita "mantennero chiusa la porta dellamore", rifiutarono di concedersi anche ai cavalieri che degnamente le avrebbero amate, preferirono la castità e perciò ora subiscono la giusta punizione.
Anche nel regno governato dal dio Amore, ove il nobile protagonista giunge al seguito del corteo, le tre schiere hanno una collocazione corrispondente: di premio o di punizione, secondo criteri analoghi a quelli riscontrati nella cavalcata. In una radura ci sono tre zone concentriche: quella più interna (Amoenitas) è una sorta di paradiso terrestre, e lì, allombra di un grande albero e presso il trono del dio Amore, risiedono felici con i loro cavalieri le donne che amarono e si lasciarono amare cortesemente; nella zona intermedia (Humiditas), su prati inondati da acqua gelida, sono collocate le donne di facili costumi; in quella più esterna (Siccitas), arsa da un sole cocente, si trovano le donne che si vollero mantenere caste, ora costrette, per maggiore tormento, a sedere su dolorosi fasci di spine.
Tutto ciò è raccontato da Andrea Cappellano nel primo libro del De amore (1), il trattato in cui si dà sistemazione teorica a quella concezione dell"amor cortese" (o finamor) che, nata in Provenza alla fine del sec. XI, si sarebbe poi diffusa negli ambienti colti di tutta Europa (2).
La narrazione di visioni doltretomba, di defunti che ricevono premi o punizioni a seconda del loro comportamento in vita, non è infrequente nel Medioevo: ciò che qui è notevole è non tanto che il comportamento in questione sia esclusivamente relativo allamore (come era da aspettarsi, visto largomento oggetto del trattato di Andrea), quanto il fatto che lamore sia assolutamente dissociato dallidea cristiana di peccato, ed anzi esaltato e premiato nelloltretomba, quando praticato in vita secondo i canoni della cortesia (3). Né può sfuggire che, nella visione testé narrata, la condizione peggiore (direi infernale, adottando una categoria che appartiene alloltretomba cristiano) è riservata alle donne che praticarono la castità (4), ovvero la virtù per eccellenza secondo la morale cristiana, mentre una sorta di regno intermedio cè per le donne che, vere e proprie lussuriose, si concessero indiscriminatamente (5); al paradiso hanno accesso le donne che non negarono il loro amore, ma corrisposero, comera giusto e doveroso, alla richiesta degli amanti cortesi (6).
La dottrina, dunque, che ispira la visione di Andrea, è in aperto contrasto con la dottrina cristiana, anzi si struttura come una vera e propria religione antitetica a quella cristiana: cè unoltretomba, come sè visto, e cè un dio, Amore, che attribuisce premi e castighi secondo un rigoroso contrappasso, che determina la condizione ultraterrena in relazione al comportamento tenuto in vita. Ciò appare anche più evidente se si nota che, nella concezione cortese, lamore è sì sentito come un sentimento nobile e nobilitante, ma non per questo è ridotto ad un fatto puramente spirituale, depauperato delle sue componenti erotico-sensuali: al contrario, tali componenti - apertamente valorizzate nel trattato di Andrea (7)- costituiscono le fondamenta su cui si innalza la grande elaborazione culturale dellamor cortese; e il fatto che ladulterio ne sia un canone qualificante (8), dimostra una volta di più, se ce ne fosse bisogno, che lamore di cui si tratta è un amore-passione, in forza di ciò legittimato a realizzarsi al di fuori dei vincoli di interesse e convenienza connessi con il matrimonio. In altre parole si potrebbe anche dire che la dottrina in questione, di cui Andrea è il grande divulgatore, intende dare dignità morale a quella passione amorosa da sempre oggetto della riprovazione della Chiesa.
Nel merito, la storia secolare dellatteggiamento della Chiesa, da Paolo di Tarso a Tommaso dAquino, è sostanzialmente una storia di condanne: la passione damore, che travolge la ragione, è peccaminosa, è il segno dellimperfezione umana dopo la Caduta; lamore carnale, fuori del matrimonio, non si giustifica in alcun modo, nel matrimonio è tollerato ai fini della procreazione, ma, anche in questo caso, con le dovute cautele, perché il desiderio è intrinsecamente malvagio. Basterà ricordare, per tutti, Gerolamo che, nellAdversus Jovinianum, bolla così il desiderio troppo intenso del marito: "Adulter est in suam uxorem amator ardentior... Sapiens vir iudicio debet amare coniugem, non adfectu... Nihil est foedius quam uxorem amare quasi adulteram." (9)
Di tutto ciò Andrea era ben consapevole, se è vero che la ritrattazione del III libro (De reprobatione amoris) è motivata anche dalla paura di incorrere in una condanna per eresia. Il "cappellano", da buon chierico, finiva per negare, in nome della verità di fede, ciò che per due libri aveva esaltato in nome della verità di ragione: quello stesso amore che era stato celebrato come fonte di ogni azione virtuosa e degna di lode, viene ora indicato, nel III libro, come grave offesa a Dio, origine di ogni comportamento delittuoso, causa di dannazione eterna. Ma evidentemente quella ritrattazione, così poco convincente per noi, nemmeno convinse lautorità ecclesiastica: le "due verità" non potevano coesistere, e la condanna (che intendeva colpire proprio la tesi della "doppia verità" sostenuta dagli averroisti latini) si abbatté sul libro di Andrea il 7 marzo del 1277, per opera del vescovo di Parigi, Stephen Tempier (10).
Del resto, quella condanna, che arrivava circa un secolo dopo la pubblicazione del libro, non era che lultimo anello di una catena che aveva finito per strangolare, insieme allamor cortese, la possibilità stessa di fondare una morale e un pensiero alternativi a quelli imposti dalla ortodossia cattolica.
E una storia che, per un verso, rimanda a quella delle dispute teologiche che, nel corso dei secoli XII e XIII, videro contrapporsi scuole di pensiero di ascendenza aristotelica e platonica; per altro verso, si intreccia con la vicenda della persecuzione delle eresie, che ebbe come momento culminante la crociata contro gli Albigesi voluta da papa Innocenzo III nel 1208.
Per quanto riguarda il primo aspetto, basterà ricordare che certo naturalismo di ispirazione platonica (si pensi, in particolare, ai poeti e filosofi della scuola di Chartres, attivi nella prima metà del XII secolo) proprio in quanto metteva laccento sulle potenzialità della Natura, vicaria di Dio, finiva anche per valorizzare lintrinseca bontà dellamore terreno fra luomo e la donna. Il prevalere dellaristotelismo, soprattutto per opera di Tommaso dAquino nella seconda metà del XIII secolo, sia sul piano teologico ristabilì le distanze fra il cielo e la terra, sia sul piano morale relegò definitivamente nel territorio del peccato letica profana dellamore cortese (11).
Ma quelletica dovette subire il contraccolpo anche sul fronte della guerra che la Chiesa di Roma combatté e vinse contro le eresie. Quale che fosse la relazione fra il catarismo, particolarmente vigoroso nel sud della Francia, e la grande cultura cortese fiorita pressoché contemporaneamente negli stessi luoghi (12), non cè dubbio che la crociata contro gli Albigesi non si limitò ad estirpare la mala pianta delleresia, ma determinò anche in modo irreversibile il tramonto di quella civiltà. In particolare, non poteva avere cittadinanza allinterno della comunità cristiana la concezione dellamore che celebrava apertamente una passione tutta terrena e addirittura idealizzava ladulterio: fu perseguita come una peste, come il frutto avvelenato di quella haeretica pravitas che, in spregio del matrimonio, sembrava aver rovesciato il detto paolino (melius est nubere quam uri) nel suo contrario (melius est uri quam nubere).
II. Ma in Italia, nel 1277, la peste si era già diffusa. Non solo perché a quella data il De amore risulta già conosciuto (13), ma proprio perché la lirica siciliana delletà di Federico II sembra avere importato in Italia quegli ideali di amore cortese, banditi nelle terre dorigine.
Di quegli ideali si nutre più di una generazione di poeti, quegli ideali (e quindi il De amore, che li organizza sistematicamente) costituiscono una componente fondamentale nella cultura di ogni poeta del sec. XIII, dai siciliani agli "stilnovisti", da Jacopo da Lentini a Dante (14).
Dante ha letto gli autori provenzali, conosce il trattato di Andrea, padroneggia quelle problematiche, come era pressoché indispensabile per chiunque volesse trattare damore. Ma è per lui un bagaglio sempre più pesante, in quanto quella cultura, con quel sistema di valori, in particolare con quella concezione laica dellamore, non può non scontrarsi, nella sua coscienza, con i dettami della morale cristiana. Di tale scontro - e della continua ricerca di una superiore conciliazione - è testimonianza esemplare il percorso poetico che conduce dalla Vita Nova alla Commedia .
Ed è interessante notare come proprio lepisodio di Francesca, nel V dellInferno, sia segno di un rapporto intensamente, e drammaticamente, vissuto dallautore con i modelli proposti dalla cultura cortese. Un rapporto mai dimenticato, ma ormai inaccettabile alla luce di una concezione che ha tolto allamore ogni connotazione mondana per collocarlo in una dimensione autenticamente religiosa (di una religione, cioè, in cui è Cristo abate del collegio, e non Amore) e attribuirgli la capacità di innalzare lanima fino alla contemplazione di Dio.
Nel V dellInferno ci troviamo di fronte ad una visione delloltretomba che, fatte le debite proporzioni, non può non rievocare quella immaginata da Andrea nel I libro del De amore: in entrambi i casi è la passione damore lelemento rispetto al quale si è giudicati e "mandati" per leternità. Ovviamente, mentre in Andrea - dato largomento da lui trattato - questo è lunico motivo preso in considerazione, per Dante quello segnato dalla passione damore non è che uno fra i tanti caratteri che individuano il viaggio terreno delluomo e, di conseguenza, il suo eterno destino; e mentre la visione di Andrea è soltanto un momento didascalico allinterno di un trattato teorico, la Francesca di Dante, nel poema cui han posto mano e cielo e terra, non è che una figura fra le tante che compongono il quadro, grandioso e totale, della condizione umana.
Ma se si restringe lo sguardo al motivo oggetto di riflessione in entrambi gli episodi (la passione d'amore, appunto, ovvero il modo in cui tale passione è stata concepita e praticata nella vita terrena) non pare improprio il confronto; e non solo perché, come è già stato rilevato (15), è comune lidea del viaggiatore, perdutosi nella selva, cui è concesso di apprendere la condizione nellaldilà perché possa riferirne ad ammaestramento dei viventi; o perché tale condizione appare regolata, analogamente, dalla legge del contrappasso, o per altre similitudini che vi si vogliano riscontrare; quanto perché il confronto ci consente di misurare appieno la distanza che separa le due concezioni, una distanza che conduce addirittura ad un rovesciamento di prospettiva, ad una inconciliabile opposizione.
Lamore esaltato da Andrea, lamore proprio di chi ha cuore gentile, lamore nobile e nobilitante, e perciò santificato nel suo oltretomba, è diventato nella Commedia peccato di lussuria, proprio di coloro che la ragione sommettono al talento, un peccato che conduce alla dannazione eterna. Analogamente, alla condizione beata delle donne cui è reso ogni onore e servizio nella visione di Andrea, corrisponde nella Commedia la condizione di Francesca, travolta per sempre dalla bufera infernale. E si badi: il comportamento per cui Francesca è punita non differisce da quello che nel De amore si raccomanda come esemplare; non differisce, perché Francesca non ha concesso il suo amore indiscriminatamente, ma, lei gentile, ha corrisposto allamore di un uomo gentile, comera doveroso; né è ladulterio a fare la differenza, visto che la condizione extra-coniugale degli amanti è indicata espressamente nel trattato di Andrea come qualificante lautenticità dellamore. Queste cose Francesca le sa: perciò dichiara a voce alta la sua colpa, che lei continua a non sentire come una colpa.
E ovviamente, ancor prima di lei, le sa lautore della Commedia, che qui si trova non solo a regolare i conti con la grande tradizione della cultura cortese, ma anche a combattere con i fantasmi della propria giovinezza: non altrimenti si spiega la forte intensità emotiva che pervade lintero episodio, e coinvolge, come mai in seguito, il visitatore delloltretomba fino al punto estremo di non sopportazione (Io venni meno sì comio morisse. / E caddi come corpo morto cade).
Le parole con cui Francesca si giustifica - e sono quelle racchiuse dalle terzine famose, introdotte dalla triplice anafora Amor ch(e)..., Amor ch(e)..., Amor... - sono parole care alle orecchie di Dante: con quelle parole sono professati i principi dellamor cortese, quasi nei termini di una traduzione delle regole enunciate da Andrea nel De amore (16). Di più: il primo verso (Amor chal cor gentil ratto sapprende) rimanda ad un autore amatissimo (il padre / mio e de gli altri miei miglior che mai / rime damor usar dolci e leggiadre), quel Guinizzelli, maestro indimenticabile, che aveva cantato Al cor gentil rempaira sempre amore; un insegnamento ben recepito dallallievo, che laveva ripreso in un sonetto della Vita Nova (Amore e l cor gentil sono una cosa, / sì come il saggio in suo dittare pone).
Ma anche il "saggio" aveva sbagliato: non aveva visto il pericolo implicito nellaffermazione di quella identità (tra amore e cor gentile), non era riuscito a liberarsi completamente della zavorra che tratteneva a terra quellidea dellamore. Beatrice ha indicato unaltra strada: lamore virtuoso si determina, sì, fra persone fisicamente concrete, ma è capace di staccarsi dalla materialità corporea, si risolve in un processo di purificazione interiore, diventa elevazione al cielo. Fuori di questa strada cè la prevaricazione del "talento" sulla "ragione", e non varranno nobili intenzioni e nobile sentire a salvare Francesca dalla dannazione eterna. Per lei, e per la sua umana debolezza, potrà esserci "pietà", ma nel buio del cerchio in cui è relegata sarà per sempre travolta dal turbine, così come in vita si lasciò travolgere dalla lussuria.
III. Chi non patisce un siffatto dramma interiore, ma ha invece solide certezze, è Jacopo Passavanti, il frate domenicano vissuto nelle prima metà del sec. XIV, autore di un trattato (lo Specchio di vera penitenza) in cui sono raccolte le prediche da lui stesso tenute nella quaresima del 1354 (17). Servendosi di racconti esemplari (exempla) quanto mai vividi, Passavanti intende ammonire i fedeli ad astenersi dal peccato e a fare penitenza, se non vogliono incorrere, dopo la morte, nei rigori della giustizia divina. Fra questi, lexemplum del carbonaio di Niversa è certamente uno dei più famosi (18); ed è anche interessante per il nostro discorso, perché, essendo ancora una volta la passione damore il peccato oggetto di punizione nellaldilà, richiama inevitabilmente alla memoria le precedenti visioni di Dante e di Andrea Cappellano.
Vi si racconta di come un carbonaio assista nottetempo, mentre veglia presso la fossa accesa dei carboni, alla visione terrificante di una "caccia tragica": uno cavaliere in su uno cavallo nero correndo, con uno coltello ignudo in mano insegue una femmina scapigliata e gnuda; la raggiunge e, senza pietà per le sue grida disperate, la afferra per li svolazzanti capelli, la trapassa in mezzo al petto con il coltello e la getta nella fossa dei carboni ardenti; quindi la riprende tutta focosa et arsa, la carica sul suo cavallo e se ne torna al galoppo per la via dond era venuto. La visione si presenta identica per tre notti, finché il carbonaio ne parla al conte di Niversa, il quale assiste di persona alla visione e quindi, per quanto spaventato, osa chiederne ragione al feroce cavaliere. Costui gli rivela che tale atroce condizione, di cacciatore e preda, spetta a lui e alla donna che fu la sua amante (entrambi, in vita, nobili alla corte del conte), giacché noi, prendendo piacere di disonesto amore luno dellaltro, ci conducemmo a consentimento di peccato a tal punto che lei, per essere più libera, uccise il proprio marito; pertanto ora, per la legge del contrappasso che regola la giustizia divina, lei, in quanto uccise il marito, subisce ogni notte luccisione per mano dellamante; e così come arse damore per lui, ora è gettata da lui ad ardere nei carboni infuocati; infine, così come in vita vide il suo amante con desiderio e piacere, ora lo vede ogni notte con odio e terrore. Siccome poi, chiarisce il cavaliere, loro due peccatori si pentirono in punto di morte, la misericordia di Dio mutò la pena eterna dello nferno in pena temporale di purgatorio; pertanto egli sollecita preghiere, elemosine e messe affinché le loro sofferenze siano alleviate.
Questo, in sintesi, lexemplum narrato da Passavanti. E non si può non avvertire che, per quanto la pena descritta sia di purgatorio e non di inferno, temporanea e non eterna, purtuttavia la stessa è così orribile che al confronto impallidisce la pena di Paolo e Francesca (i quali, nel loro inferno, non si vedono con odio e terrore, ma insieme vanno ancora legati da un amore che sembra sfidare la stessa legge divina che li ha dannati). E evidente che per fra Jacopo la passione damore non ammette scusanti, non porta con sé alcun segno di nobiltà, è ormai soltanto esecrabile concupiscenza della carne: la morale cristiana ha fatto valere appieno i suoi principi, senza più dubbi e senza perplessità, quei dubbi e quelle perplessità che avevano reso così dolorosamente lacerante lincontro di Dante con Francesca. E si badi: non è tanto luxoricidio, quanto il disonesto amore a determinare per i due (e per la donna in particolare) una punizione così terribile; luxoricidio è tuttalpiù un aggravante, certo una conseguenza, come ogni altra nefandezza, di un peccato che comporta offuscamento della ragione (di un peccato proprio di coloro che, appunto, la ragione sommettono al talento).
Dunque, il disonesto amore: e "disonesto" perché adulterino. Niente di più distante dalle teorizzazioni di Andrea Cappellano. Là ladulterio, lungi dallessere deplorato, era raccomandato. Né si può pensare che in Passavanti la "disonestà" sia associata alla mancanza di cortesia dei due protagonisti; perché è vero che niente si dice sui loro costumi e che il cavaliere non tenta di giustificare - a differenza di quel che fa Francesca - con il "cuore gentile" la caduta nel peccato; ma è anche vero che il loro nobile lignaggio lascia intendere di per sé, in mancanza di indicazioni contrarie, un mondo di belle cortesie, allinterno del quale, secondo la dottrina enunciata da Andrea, quellamore, ancorché carnale e adulterino, avrebbe avuto pieno titolo per realizzarsi.
Lombra nera della notte avvolge la scena, una notte lugubremente rischiarata dal rosso vivo dei carboni accesi e del fuoco che spira della boca e degli ochi e dello naso del cavaliere e del cavallo. E la notte che si addice al peccato: la tenebra materiale corrisponde ora a quella tenebra che in vita rese cieca la ragione, quando la lussuria consumò la sua malaugurata vittoria. Anche per Francesca, nellInferno di Dante, cè la notte, il loco dogne luce muto, il buio senza tempo e senza fine del mondo sotterraneo. Se la luce è vita ed è salvezza, non può esserci la luce per i maledetti da Dio.
Alla luce piena del giorno avveniva invece, nella visione di Andrea Cappellano, lincontro del cavaliere con il corteo guidato dal dio Amore. Lì evidentemente la passione amorosa non implicava in alcun modo lidea di peccato; e questo non solo perché, come sè visto, ad essere punita era piuttosto la castità, ma anche perché quelloltretomba era associato ad un paesaggio terreno rischiarato dal sole, la visione non comportava il passaggio ad una dimensione allucinata ed angosciante, ma si compiva in un ambiente naturale i cui elementi, per quanto dolorosi, sono riconoscibili e familiari, appartengono alla quotidianità (il sole cocente, la polvere, i cavalli zoppi e macilenti, le spine) (19). E ciò sembra appropriato ad una concezione laica che si serve sì, in ossequio alle idee dominanti, di una visione ultraterrena, ma sostanzialmente tratta in termini naturali e terreni una questione naturale e terrena come lamore fra luomo e la donna.
IV. Alla luce piena del giorno avviene anche la visione di cui narra Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti (20). E questo sarebbe già il segno, se non ci fossero anche altri e ben vistosi elementi, di una mentalità non più ossessionata dalla paura del peccato e della dannazione eterna.
Si tratta, come è noto, di una visione che presenta tali somiglianze con quella del carbonaio di Niversa da far pensare che la fonte sia comune o che Boccaccio conoscesse Passavanti (21).
In breve. Nastagio, non corrisposto nel suo amore per una de Traversari, si ritira da Ravenna a Chiassi. Qui un giorno, quasi allentrata di maggio, essendo uno bellissimo tempo, mentre immerso nei suoi pensieri si inoltra nella pineta, si imbatte, verso il mezzo dì, in una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche, che corre piangendo e gridando, inseguita da due grandi e fieri mastini e da un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano. Nastagio vorrebbe aiutare la fanciulla, ma il cavaliere - che si presenta come Guido degli Anastagi, nobile ravennate, morto quando Nastagio era fanciullo - lo invita a non impicciarsi e gli spiega che ciò che vede è voluto dalla giustizia di Dio: lui infatti, innamorato non corrisposto di quella fanciulla, si era ucciso disperato; lei, tuttaltro che pentita della sua crudele ostinazione, era morta poco dopo; entrambi sono dannati allinferno (22) e la pena consiste appunto in questa caccia, per cui lui la insegue, la raggiunge ogni venerdì a quellora in quel punto, la trafigge con lo stesso stocco con cui si era ucciso, la squarta, estrae il cuore e lo dà da mangiare ai cani; quindi lei si rialza come se niente fosse, ricomincia la fuga e ricomincia la caccia. E così avviene. Nastagio, dopo essere stato per un po tra pietoso e pauroso, capisce di poter sfruttare linformazione a proprio vantaggio. Per il venerdì successivo fa apparecchiare proprio in quel punto un grande banchetto, cui invita parenti, amici e tutta la famiglia Traversari. La bella da lui amata, quindi, assiste alla scena raccapricciante, ascolta la spiegazione del cavaliere e non può non riconoscere che la stessa sorte della fanciulla dannata sarà riservata a lei, se continuerà a rifiutare il suo amore a Nastagio. Pertanto nottetempo gli manda una sua cameriera per fargli sapere che ella era presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui. Nastagio se ne rallegra, ma risponde che con onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie. Lei acconsente e la storia si conclude con il lieto fine del matrimonio cui fa seguito una lunga vita felice (23).
E dunque qui la caccia infernale ha una funzione esattamente opposta a quella che aveva nellexemplum di Passavanti. Là doveva insegnare che cedere alla passione amorosa è un peccato degno, dopo la morte, delle pene più terribili; in Boccaccio, al contrario, è la ritrosia in amore ad essere indicata come degna del castigo divino, e la visione serve a persuadere le donne che è bene accondiscendere alla richiesta damore (24). Leffetto parodistico è evidente (25), come è evidente che tale effetto è stato ottenuto innestando, sul modello cristiano della caccia tragica, elementi che provenivano da tuttaltra tradizione, e precisamente da quella che fa capo al De amore di Andrea Cappellano (26).
Qualche osservazione basterà a dimostrarlo.
Anzitutto, i protagonisti della novella si muovono in un mondo che richiama alla memoria, col nome stesso delle famiglie dei Traversari e degli Anastagi, ambienti di gioiosa e raffinata cortesia (27); e cortesi sono i modi di Nastagio, sia perché ama una donna di condizione sociale superiore alla sua (troppo più nobile che esso non era), come espressamente raccomandato da Andrea (28), sia perché, per amore, conduce la più bella vita e la più magnifica che mai si facesse, seguendo il precetto della liberalità, fondamentale per un amante cortese (29).
Entrando nel dettaglio, non solo lora meridiana (di cui sè già detto), ma anche la stagione primaverile e il paesaggio ameno della pineta (30), che fanno da sfondo alla visione di Nastagio, ne indicano laffinità con la visione del cavaliere nel libro di Andrea (31); e il tutto, in Boccaccio, contribuisce a mitigare lorrore della scena. Al contrario, latmosfera cupa e tenebrosa, propria della linea Elinando-Passavanti, intendeva senzaltro accentuare quellorrore. Quanto alla scena in sé, è vero che il cacciatore è altrettanto spietato e violento (la caccia è altrettanto "tragica") in ambedue le visioni, di Nastagio e del carbonaio di Niversa: ma mentre in Passavanti la distanza dal quotidiano è volutamente marcata con linsistenza sul soprannaturale (si pensi a quel cavallo e quel cavaliere che spirano fuoco dagli occhi, dal naso e dalla bocca) e sul sangue (cadendo in terra con molto spargimento di sangue, la riprese per linsanguinati capelli), in Boccaccio il soprannaturale è limitato, per così dire, allo stretto necessario (la rinascita della donna dopo lo squartamento), ed anche lopera del cacciatore, pur con i suoi particolari raccapriccianti, è tutto sommato riconducibile alla quotidianità di un lavoro da macelleria (il coltello sembra maneggiato con una certa professionalità, quando il cacciatore dice aprola per ischiena, e quel cuor... con laltre interiora insieme... le caccio di corpo e dolle mangiare a questi cani ; e poi, di fatto, quella aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa dattorno, a due mastini il gittò); del resto, quel banchetto preparato da Nastagio con cura e raffinatezza (fece le tavole mettere sotto i pini dintorno..., fatti mettere gli uomini e le donne a tavola..., essendo adunque venuta lultima vivanda...) fa pensare ad una cortese brigata che si accinge ad assistere ad un piacevole spettacolo, ancorché a tinte forti, invece che ad una terribile visione: tuttaltra atmosfera rispetto a quella, paurosa ed angosciante, che incombe sul conte e il carbonaio di Niversa in attesa dellevento.
Se ne può concludere, insomma, che Boccaccio tratta quel materiale medievale con una sensibilità che non è più medievale, non solo perché rovescia beffardamente le funzione di un exemplum edificante, ma anche perché, coi modi stessi della narrazione, dimostra di non avvertire, se non pretestuosamente, la presenza del divino (e del diabolico) nelle vicende terrene. Così come, circa un secolo e mezzo prima, non lavvertiva Andrea Cappellano, il quale, altrettanto pretestuosamente, per trattare damore si era servito del soprannaturale.
Nel tramonto del Medioevo, è dunque la voce di Andrea che torna a farsi sentire: la sua idea dellamore che, fieramente osteggiata dalla Chiesa, per sopravvivere aveva dovuto rinunciare alla sensualità e ricoprirsi di vesti cristiane, torna con la sicurezza sorridente (e irridente) di un autore, Boccaccio, che di certo non si sente trattenuto da scrupoli e obiezioni di tipo religioso.
Ma letica cortese, cui Andrea aveva dato sistemazione nel suo trattato, viene rivisitata e corretta alla luce delletica borghese, ormai trionfante nella società cui Boccaccio appartiene. Si pensi, ad esempio, a una certa aura di negatività che nella novella, a dispetto del precetto cortese della liberalità, si riverbera da quello spendere smisuratamente di Nastagio (talché i suoi parenti temono per il patrimonio); o anche, ed è elemento davvero vistoso, alla scelta finale del matrimonio onorevole, che contraddice seccamente quella precettistica. Bisognerà appunto considerare che Boccaccio, per quanto guardi con sincera nostalgia alle idealità di un mondo ormai lontano, è pur sempre linterprete di una società (borghese) in cui si sono imposti altri valori, si rivolge ad un pubblico per il quale il lieto fine non può essere dissociato dallamministrazione oculata del patrimonio e dal rispetto delle convenienze sociali (32).
Si potrebbe dire che etica cortese ed etica borghese si sono alleate, individuando nelletica cristiana il comune nemico. In altre parole, riconoscere il tono parodistico della novella di Nastagio non vuol dire negare a Boccaccio lintenzione consapevole (del resto evidente in tanti luoghi del Decamerone) di sottrarre lamore al regno del peccato per collocarlo in quello dei bisogni naturali delluomo. Passavanti è lontano, ma è lontano anche Dante. Lamore terreno non è più esecrato come causa di dannazione, ma nemmeno è liberato dal peso della sua materialità perché possa indirizzarsi al cielo: è semplicemente accettato come una forza incomprimibile della natura, che determina, al pari e più di altre, i comportamenti delluomo.
E naturalmente non desta meraviglia che a tale mutamento di prospettiva dia voce un autore così rappresentativo di quelletà di transizione in cui comincia ad affermarsi una nuova concezione delluomo e del mondo. Non sarà un caso se alla fine del Quattrocento, Botticelli - che pure opera in un ambiente di alta spiritualità quale quello neo-platonico della corte di Lorenzo de Medici - illustrerà proprio la novella di Nastagio in quattro tavolette destinate a decorare la cassa da corredo per una sposa (33); e se in pieno Rinascimento, Ariosto, visibilmente riallacciandosi a quella tradizione che risaliva ad Andrea Cappellano, immaginerà punite allinferno, ancora una volta, le donne che non vollero amare ed essere amate (34).
Marcello TARTAGLIA
Articolo pubblicato su Studi di estetica, 17
III serie, 1998, a. XXVI
NOTE
2) Si tratta di una concezione sulle cui origini (latine, germaniche, celtiche, arabe) molto si è discusso, ma che indubbiamente - quali che siano gli stimoli culturali in essa confluiti: si pensi, soprattutto, allArs amandi di Ovidio - si pone come radicalmente nuova, sia rispetto alla tradizione classica (che concepisce lamore come sensuale, fonte di gioia e dolore, ma sempre, in definitiva, come una malattia che fa perdere il senno), sia, come diremo, rispetto alla concezione cristiana. Nuova è lidealizzazione della donna, cui luomo si sottomette con umiltà e fedeltà di vassallo, e nuova è lidea dellamore come un sentimento nobile e nobilitante, proprio soltanto di chi ha costumi, ed animo, cortesi . Ed è una novità che impronterà di sé la cultura occidentale fino ai giorni nostri. Della vastissima bibliografia in merito, mi limiterò a ricordare gli studi più significativi: M. FAURIEL, Histoire de la poésie provençale, Parigi 1846; E. WECHSSLER, Frauendienst und Vassalität, in "Zeitschrift für französiche Sprache und Literature", XXIV, Iena 1902; Das Kulturproblem des Minnesangs, Halle 1909; J. ANGLADE, Les troubadours, leurs vies, leurs uvres, leur influence, Parigi 1908; A. JEANROY, La poésie lirique des Troubadours, Parigi 1934; C. S. LEWIS, The Allegory of Love, Oxford, 1936 (tr. it., Lallegoria damore, Torino 1969); A.J. DENOMY C. S. B., An Inquiry into the Origins of Courtly Love, in "Mediaeval Studies", VI, Londra 1944; FinAmors: the Pure Love of the Troubadours, its Amorality, and Possible Source, ibid., VII, 1945; R. NELLI, Lérotique des troubadours, Parigi 1974 [Tolosa 1963]; R. BEZZOLA, Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident (500-1200), Parigi 1944-63; M. LAZAR, Amour courtois et "finamors" dans la littérature du XII siècle, Parigi 1964; C. CAMPROUX, Le Joy dAmor des Troubadours, Montpellier 1965; A. VISCARDI, Tradizione latina e origini romanze, in Le Origini, Milano 1966 [1939]; I. MARGONI, Finamors, mezura e cortesia. Saggio sulla lirica provenzale del XII sec., Milano 1965; E. KÖHLER, Sociologia della finamors. Saggi trobadorici, Padova 1976; H. REY-FLAUD, La nevrose courtoise, Parigi 1983 (tr. it., Parma, 1991). Per altre indicazioni bibliografiche, rimando allo studio di R. Nelli sopra citato (tomo II, pp. 383-397), nonché alla bibliografia ragionata, a cura di A. M. Finoli, in appendice a M. VISCARDI, Le letterature doc e doil, Firenze-Milano 1967 (pp. 429-452).