Ideologia
e linguaggio in Pascoli
E. SANGUINETI, Ideologia e linguaggio,
ed. Feltrinelli
1965, pp. 7-36.
Con la “estensione del diritto di
cittadinanza a tutti gli elementi della realtà” (Contini), e quindi anche a
quelli tradizionalmente considerati impoetici[1],
Pascoli non fa una rivoluzione (che del resto appartiene al Romanticismo), ma
una riforma; giacché in lui la lotta non è fra sublime e no (come sarà in Gozzano e
Montale), ma fra sublime
inferiore e sublime superiore. Pascoli è l'ideologo del sublime inferiore
(laddove D'Annunzio lo è di quello superiore), e in questo senso è la voce
della piccola borghesia.
E' riformista perché mette allo stesso
livello "rosa" e "trifoglio", cosiccome,
in politica, è per la collaborazione di classe.
E' piccolo borghese in quanto esprime
l'ideologia del piccolo proprietario di campagna: il mondo si riduce al poderetto, all'orticello chiuso da una siepe (alla
sicurezza della proprietà privata).
Come fra le parole c'è collaborazione di
classe, così fra le cose: e abbiamo paesaggi in cui le piccole cose (la
gallina, il cane) campeggiano vicino alle grandi (i monti), creando, fra
l'altro, un effetto di deformazione della realtà.[2]
Riesce grande poeta (crea suggestioni
profonde), quando mescola realtà e sogno, Eros e Thanatos (vedi Digitale purpurea, Il torello).
Lettura
de L’assiuolo
G.
BALDI, ecc. Dal testo alla storia, dalla
storia al testo, III **
Paravia,
Torino 1994, pp. 207-208
Nelle tre strofe c’è un ricorrente
schema di contrapposizione fra una prima quartina, che propone immagini
serene all’interno di un’atmosfera di attesa, e una seconda quartina gravida
invece di suggestioni inquietanti, riferimenti alla morte (concentrati nel
lugubre verso - il chiù - che chiude
le strofe).
In questo senso la terza strofa è
esemplare, sia perché il verso dell’assiuolo è
finalmente chiamato “pianto di morte”,
sia perché l’immagine dei “finissimi
sistri d’argento” (e la conseguente evocazione di “invisibili porte che forse non s’aprono più”) chiarisce
inequivocabilmente l’angosciante sentimento di morte che pervade l’intera
poesia (inequivocabilmente, pur con i modi pascoliani,
fatti di allusioni misteriose, associazioni a-logiche - o pre-logiche -
impressioni accostate e non spiegate discorsivamente).
L’atmosfera magica ed indefinita è
creata da una serie di immagini analogiche
(“alba di perla”, “soffi di lampi”,
“nebbia di latte”, “cullare del mare”, ecc.), che, appunto per definizione,
sottintendono ed elidono la logica argomentativa del paragone (esemplare
quel “il cielo / notava in un’alba di
perla”, che significa: il sorgere della luna è come un’alba, in cui si
diffonde una luce chiara che ricorda il bianco della perla e che sembra invadere
il cielo come un liquido - ove il cielo sembra nuotare; lo stesso vale per il
verso delle cavallette, che ricorda il suono che fanno i sistri: ma il paragone
è saltato, e si dice, con associazione immediata, che “squassavano le cavallette / finissimi sistri d’argento” ).
Di grande rilievo è anche il simbolismo fonico (o fonosimbolismo): l’allitterazione “nero di nubi” evoca
un’impressione minacciosa ed inquietante; lo stesso si può dire del “fru fru tra le fratte” (allitterazione ed onomatopea);
nei “finissimi sistri d’argento” il
fonosimbolismo è scoperto, con l’insistenza sulle vocali dal suono sottile
(sei ‘i’) e sulle sibilanti
che intendono riprodurre il verso delle
cavallette (intenzione ripresa dai successivi “tintinni” ed “invisibili”).
Quanto alla struttura sintattica, la poesia è un affollarsi di sensazioni,
accostate l’una all’altra sia attraverso la collocazione sistematica del
verbo all’inizio del verso, sia attraverso un periodare rigorosamente paratattico (non vi è una struttura
sintattica complessa, gerarchizzata secondo nessi logico-argomentativi, ovvero
secondo ipotassi; i membri si succedono uno dopo l’altro, per accostamento; il
reale si frantuma in impressioni isolate e il legame che le unisce non è
logico, ma analogico, simbolico, allusivo, segreto).
Lettura de Il
gelsomino notturno
Composto – come
ci dice lo stesso autore in un nota – per le nozze dell’amico Gabriele
Briganti, si tratta di un epitalamio, che celebra, in modi simbolici ed allusivi,
l’atto amoroso che si compie fra i due sposi e che porta al concepimento del
piccolo Dante Gabriele Giovanni.
Il trasparente
simbolismo proposto è quello del fiore che apre i suoi petali sul far della
sera, esala un profumo penetrante per tutta la notte e si dispone quindi al
processo di fecondazione che al mattino è compiuto (nel calice “si cova non so che felicità nova”).
Parallelamente, il processo di fecondazione si compie anche nella casa, come
viene indicato da una serie di immagini allusive (la casa che “bisbiglia”, il lume che si spegne “al primo piano”).
Ma è un epitalamio moderno, in quanto
quell’evento notturno, invece di risolversi in un inno gioioso alla fecondità,
è osservato dal poeta con turbamento ed è associato a riferimenti inquietanti.
Tali sono i
riferimenti al mondo dei morti (v. 2: nell’ora
che penso ai miei cari; v. 12: nasce
l’erba sopra le fosse; e ancora, inaspettatamente, v. 23, dove l’urna, elemento funerario, diventa
metafora del ventre femminile; ma anche, secondo alcuni, al v. 4, in quanto le farfalle crepuscolari, che pure
contribuiscono alla fecondazione dei fiori, hanno sul dorso una macchia a forma
di teschio); ma tali sono anche i riferimenti ricorrenti al nido (v. 7: sotto l’ali dormono i nidi; vv. 13-14: un’ape
tardiva sussurra / trovando già prese le celle; v. 16: la Chioccetta va col suo
pigolio di stelle), un nido da cui il poeta si sente escluso (è lui
stesso l’ape tardiva che trova già prese le celle), come si sente escluso dal
rito di fecondazione che si compie nella casa: non a caso è sottolineata,
attraverso la ripetizione insistita dell’avverbio “là”, la collocazione esterna rispetto alla casa del poeta che
osserva (v. 6: là sola una casa bisbiglia;
v. 11: splende un lume là nella sala).
Bisognerà concludere
che i sentimento di estraneità rispetto a quel nido induce il poeta a
rifugiarsi nell’unico nido da lui conosciuto, quello della sua infanzia al
quale è rimasto bloccato, quello traumaticamente distrutto, ma che continua ad
esistere nella memoria dei suoi cari defunti.
La componente
erotica associata all’evento nuziale è avvertita dalla sensibilità fanciullesca
del poeta
(mai giunta, come sappiamo, ad una esperta maturità da questo punto di vista; e
proprio perciò ricca delle inquietudini e dei turbamenti propri del fanciullo)
ed è comunicata sia con l’insistere sulle intense
sensazioni olfattive e cromatiche (esemplare l’odore di fragole rosse, in
cui il colore rosso - che richiama la passionalità, la carica sensuale - è
associato sinesteticamente all’odore dolce delle
fragole, che parimenti evoca sensualità) sia con il riferimento (appena
accennato, ma ben riconoscibile) alla violenza insista nell’atto (i petali / un poco gualciti).
Dal punto di
vista formale, colpisce la struttura
assolutamente paratattica del componimento. La narrazione procede per
giustapposizione di immagini, che si affiancano l’una all’altra senza alcuna
articolazione gerarchica, ma secondo quella immediata intuizione analogica che
è propria del “fanciullino”: si vedano, ad esempio, le sequenze dalla
seconda alla quarta strofa, dove il piccolo è associato al grande (l’ape al
cielo stellato), la vita alla morte (il lume acceso nella casa alle fosse dei
cimiteri), e dove risalta quel paragone
surreale fra i nidi che dormono sotto le ali e gli occhi sotto le ciglia.
Dal punto di
vista metrico, si nota che i primi due novenari di ogni strofa hanno il
primo accento in seconda sede (e dunque un ritmo discendente), i secondi due
hanno il primo accento in terza sede (con ritmo ascendente). Tale
bipartizione ritmica ha il suo corrispondente anche sintattico, perché il
secondo verso della strofa si chiude sempre con un punto fermo. Ma a questo
schema si sottrae l’ultima strofa, sulla quale evidentemente si vuole attirare
l’attenzione (l’atto si è compiuto, il concepimento è avvenuto): i primi due
versi sono spezzati dalla punteggiatura interna e forti enjambement segnano i
passaggi nei primi tre versi (il primo dei quali è messo in ulteriore evidenza
dalla rima ipermetra petali – segreta).
Ulisse
in Pascoli
Partendo
del testo omerico (Odissea, X) che racconta in pochi versi del momento
in cui, dopo nove giorni di navigazione, i compagni di Ulisse, invidiosi delle
ricchezze che presumono che lui stia portando ad Itaca, aprono gli otri in cui
Eolo aveva benevolmente rinchiusi i venti contrari alla navigazione, Pascoli
costruisce un poemetto (sette strofe) carico di significati allusivi ed
inquietanti (come è proprio della sua sensibilità). Ulisse vede all’orizzonte “non
sapea che nero: nuvola o terra?”, ma sfinito si
addormenta. Le strofe che seguono (collegate da precise simmetrie, richiami e
parallelismi) descrivono l’avvicinarsi della nave all’isola e, come in una
ripresa cinematografica, il comparire del porcaro Eumeo
intento al suo lavoro, dell’”eccelsa casa” di Ulisse (da cui si sente
provenire il suono del “garrulo telaio” di Penelope), di Telemaco che
aspetta nel porto appoggiato alla lancia “dalla bronzea punta”, del cane
Argo che corre scodinzolando, di Laerte che
interrompe il lavoro dei campi per guardare “l’infinito mare” appoggiato
alla marra. Ma poi gli otri vengono aperti, la nave è trascinata lontano, Odisseo si sveglia e vede ancora quel “non sapea che nero”. Dunque è tutto un sogno, o almeno così
sembra: le immagini appaiono in una loro fissità a-temporale (come è proprio
del ricordo e del sogno) e il preciso parallelismo fra il momento
dell’addormentamento e quello del risveglio fanno pensare che l’unica cosa
reale che Ulisse vede sia quel “non sapea che nero”
(allusione al male, alla morte?) e che tutto ciò che sta nel mezzo sia la
visione sognata (espressione di un desiderio che mai si realizza, sempre
sfugge?)
Ulisse,
accompagnato dai Feaci, sbarca ad Itaca. Dorme, viene
depositato sulla spiaggia insieme a tutti i suoi beni e i Feaci
ripartono. Quando l’eroe si sveglia, crede di essere stato ingannato, perché
non riconosce in quella terra aspra e rocciosa la sua Itaca, l’isola dei suoi
ricordi, della fonte Aretusa, dell’antro delle ninfe,
degli alberi fioriti. E’ una fanciulla che viene alla fonte per lavare le vesti
a rivelargli che quella è proprio Itaca, e lo invita a guardare la trasparenza
dell’acqua per riconoscere che quella è proprio la fonte Aretusa.
Ulisse guarda, si specchia nella fonte, vede se stesso vecchio e rugoso, stenta
a riconoscersi. Con amarezza capisce che non è l’isola ad essere cambiata, ma
lui stesso (“Io era, io era mutato! / Tu, patria, sei come a quei giorni! /
Io, sì, mio soave passato, / ritorno, ma tu non ritorni…/”).
La gloria e la bellezza sono nel ricordo, non esistono più; il presente è la
triste banalità del quotidiano. Nel finale, il coro delle ninfe lo invita a
mordere il fiore del loto: solo così troverà la serenità e potrà rivedere, in
sogno, le vicende irrevocabili del passato.
Il
vecchio Ulisse è stanco della vita in Itaca, vuole riprendere il mare insieme
ai vecchi compagni (che lo hanno sempre aspettato, tenendo pronta la nave) al
pitocco Iro e all’aedo Femio;
vuole rivedere i luoghi indimenticabili del passato, rivivere le proprie
avventure, accompagnato dal canto eternatore dell’aedo.
Ma ciò che la prima volta era sembrato grande ed eroico si rivela ora banale e
quotidiano. All’isola di Circe non si sentono i leoni che ruggiscono, né si
sente il canto della maga, se non di notte, come in sogno. L’aedo muore, e la
sua cetra resta appesa a un albero. All’isola di Polifemo
non ci sono ciclopi, ma, in quello che fu l’antro del gigante, solo un pastore
che li accoglie ospitale; dice di non avere mai visto ciclopi, ma bensì
l’occhio rosso di un monte (un vulcano) che faceva piovere (eruttava) pietre
nel mare. All’isola delle sirene, dove l’eroe vorrebbe ora sentire quel canto
senza essere legato da funi all’albero maestro, non vede altro che scogli,
dall’aspetto di sirene, verso cui una corrente “rapida e soave” trascina
la nave. Ulisse vorrebbe sapere la verità su se stesso e sul senso della vita
(“Son io! Son io, che torno per sapere!”), anche a costo di aggiungere
le sue alle altre ossa che biancheggiano sugli scogli (“Solo mi resta un
attimo. Vi prego! / Ditemi almeno chi son io! Chi ero!”) . Sugli scogli si
sfascia la nave di Ulisse, ma le onde del mare lo trasportano fin sulla
spiaggia dell’isola di Calypso, la Nasconditrice. La
dea (l’unica che dunque esiste veramente) ritrova morto l’uomo che rifiutò il
suo amore e rifiutò l’immortalità che lei gli offriva, per ritornare al mare e
al suo dolore. Ed è lei che svela l’attesa verità: “Non esser mai! Non esser
mai! Più nulla, / ma meno morte, che non esser più!”; il segreto è il non
essere mai nato; questo, rispetto alla morte, al “non esser più”, è un
nulla maggiore, un “più nulla”, ma meno doloroso della morte, “meno
morte”, in quanto esclude l’attraversamento della vita, l’esperienza del
dolore e, soprattutto, la coscienza del nulla da cui si emerge e in cui si
precipita).
E
dunque il vecchio Ulisse è come un Don Chisciotte cui Sancho
Panza mostra l’inconsistenza dei suoi sogni: non sirene, ma scogli, non il
ciclope, ma un vulcano (non i giganti, ma i mulini a vento). La vita eroica è
pura illusione, esiste nel canto degli aedi, nel sogno, nel ricordo; nella vita
reale esiste la banalità del quotidiano, incapace di riempire di senso la vita.
Ma d’altra parte non c’è altro senso che quello rivelato da Calypso, ed è la
terribile verità della sapienza silenica.
[1]Il concetto è espresso dallo stesso Pascoli in una lettera del 1899 al pittore Antony de Witt: “Le anime e le cose, sieno esse grandi o piccole, buone o cattive, belle o brutte, hanno tutte un quid poetico in esse celato, celato più o meno: il poeta ve lo coglie e ne fa la poesia: come l’ape che, sia il fiore amaro o dolce, grande o piccolo, sia trifoglio o rosa, vistoso o umile, ne estrae sempre quel miele.”
[2]E' questo l'aspetto più tipicamente decadente della sua poesia: proprio perché si rimpiccioliscono le cose grandi e si ingrandiscono le cose piccole (come il poeta non può non fare, secondo quanto dichiarato nel saggio su Il fanciullino ), risulta eliminata la prospettiva, e ciò produce un effetto eminentemente anti-realistico.