Marcuse e la scuola di Francoforte
Indico
qui di seguito i titoli delle opere cui si riferiscono le sigle usate nel
testo, insieme con la traduzione italiana da cui sono tratte le citazioni.
EU = H.
Marcuse, Das Ende der Utopie (La fine dell’utopia, Bari 1968)
OM = H.
Marcuse, One-dimensional man (L’uomo a una dimensione, Torino 1967)
EC = H.
Marcuse, Eros and Civilization (Eros e civiltà, Torino 1968)
RR = H. Marcuse, Reason and Revolution: Hegel and the Rise of Social
Theory (Ragione e rivoluzione, Bologna 1966)
CSR = H.
Marcuse, Critica della società repressiva, Milano 1968
EL = H.
Marcuse, Essay on liberation (Saggio sulla liberazione, Torino 1969)
DA = M. Horkheimer – T.W. Adorno, Dialektik der Aufklärung,
Philosophische Fragmente (Dialettica dell’illuminismo, Torino 1966)
ER = M. Horkheimer, Eclipse of reason (Eclisse della ragione, Torino
1969)
OPM = K. Marx, Oekonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844
(Manoscritti economico-filosofici del 1944, Torino 1968)
DI = K. Marx - F. Engels, Die Deutsche Ideologie
(L’ideologia tedesca, Roma 1958)
MIA = S. Freud,
Massenpsycologie und Ich-Analyse (Psicologia delle masse e analisi dell’Io,
Milano 1991)
ZI = S. Freud,
Die Zukunft einer Illusion (L’avvenire di un’illusione, Milano 1991)
UK = S. Freud,
Das Unbehagen in der Kultur (Il disagio della civiltà, Milano 1991)
JL = S. Freud, Jenseits des Lustprinzips (Al di là del principio del piacere, Varese 1995)
FZP = S. Freud, Formulierungen über die zwei Prinzipien des psychischen Geschehens (Precisazioni sui due principi dell'accadere psichico, Roma 1992)
ÄEM = F.
Schiller, Über die ästetische Erziehung des Menschen, in einer Reihe von
Briefen (Dell’educazione estetica dell’uomo, in una serie di lettere, Torino
1951)
Nascita e vicende della
scuola
L’Istituto per le ricerche
sociali (Institut für Sozialforschung)
di Francoforte si apre nel febbraio del 1923 (per iniziativa di Felix Weil, di
ricca famiglia ebraica, il cui padre, Hermann, finanzia l’operazione) e
riunisce attorno a sé un gruppo di giovani studiosi, interessati ad
approfondire alcune questioni teoriche connesse al pensiero marxista (si tratta
di economisti, come Grossmann e Friedrich Pollock, sociologi della letteratura,
come Leo Löwenthal, studiosi delle società asiatiche, come Wittfogel, ecc.; più
tardi entreranno a farne parte i vari Horhheimer, Adorno, Marcuse, Fromm,
Benjamin; più tardi ancora Jurgen Habermas). Sono gli anni della repubblica di
Weimar, della recente rivoluzione russa e quindi delle accese discussioni fra
le diverse anime della sinistra europea.
Nel 1931 Horkheimer assume
la direzione dell’istituto. La Rivista
per la ricerca sociale (Zeitschrift
für Sozialforschung) diventa lo strumento di diffusione internazionale di
quella che sarà chiamata la “teoria critica della società” della scuola di
Francoforte. Marcuse, già assistente di Heidegger a Friburgo, entra a far parte
dell’Istituto nel 1932.
Nel marzo del 1933 (Hitler è
stato nominato cancelliere del Reich nel gennaio) l’Istituto viene chiuso per
“tendenze ostili allo Stato”. Horkheimer ed altri vengono espulsi
dall’università. L’Istituto si trasferisce a Ginevra.
Nel 1934 c’è il
trasferimento a New York, presso la Columbia University (a Ginevra, come a
Londra e a Parigi, continueranno ad esserci delle “succursali”), dove
l’Istituto opererà fino alla fine della II guerra mondiale. Si portano avanti
gli Studi sull’autorità e la famiglia.
Nel 1949 viene ripristinata la
sede dell’Istituto a Francoforte. Tornano Horkheimer, Adorno (che diventa prima
vicedirettore, poi co-direttore), Pollock. Restano negli USA Marcuse, Fromm
(che peraltro aveva già abbandonato l’Istituto per divergenze ideologiche),
Löwenthal e altri (Benjamin era morto suicida nel 1940).
La fine degli anni sessanta rappresenta il momento di
massima diffusione delle idee elaborate dall’Istituto (soprattutto di Marcuse,
ma non solo: si pensi al successo di un libro come Dialettica
dell’illuminismo, peraltro uscito nel 1947); ma è anche l’inizio della
fine, perché di lì a poco muoiono Adorno (1969), Horkheimer (1973), Marcuse
(1979).
Fra costoro, Marcuse è stato
una bandiera della contestazione studentesca, in Europa e in America, alla fine
degli anni ’60. Il suo pensiero, particolarmente quello espresso nella sua
opera allora più famosa, One-dimensional man (1964), sembrava dare voce
al malessere avvertito da quella generazione, e quindi al rifiuto (al Grande
Rifiuto, secondo la sua espressione) dell’appiattimento (appunto, della
“uni-dimensionalità”) nella società della mercificazione totale. L’estetica di Marcuse, il suo pensiero sull’arte, non
è una parte separata del suo pensiero, un aspetto secondario rispetto alla
centralità della critica della società industriale avanzata. E’ invece un
aspetto fondamentale, che fa luce sulla sua teoria critica e da questa, a sua
volta, è illuminato. Parlarne, quindi, vuol dire parlare degli snodi essenziali
del suo pensiero. Ed è un pensiero in cui confluiscono il marxismo, la teoria
degli istinti (o metapsicologia) freudiana, la filosofia intesa come dialettica
o pensiero negativo, una certa concezione dell’arte.
L’idea fondamentale: la fine dell’utopia
Al centro c’è questa idea: l’enorme sviluppo
tecnologico che caratterizza la nostra società consentirebbe una vita libera,
bella e giocosa per l’umanità (consentirebbe cioè il passaggio alla cosiddetta
dimensione ludico-estetica), se non fosse che gli interessi costituiti, i detentori
del potere reale, intendono conservare a proprio vantaggio la situazione
esistente, basata sull’oppressione e sul dominio. In altre parole, Marcuse
anticipava quello slogan che oggi ha tanta fortuna presso i cosiddetti
no-global: un mondo diverso è possibile, e cioè: l’utopia è a portata di mano,
non è più un sogno, può essere realizzata qui ed ora (è “finita”, diceva il
titolo di un’altra sua opera: Das Ende der Utopie)[1]:
L’automazione integrale nel regno della necessità farebbe del tempo libero la dimensione in cui primariamente si formerebbe l’esistenza privata e sociale dell’uomo. Si avrebbe così la trascendenza storica verso una nuova civiltà (OM, p. 56).
Oggi esistono tutte le forze materiali e intellettuali necessarie per realizzare una società libera. Il fatto che non vengano utilizzate è da ascrivere esclusivamente ad una sorta di mobilitazione generale della società, che resiste con ogni mezzo alla eventualità di una propria liberazione. Ma questa circostanza non basta assolutamente a rendere utopistico il progetto della trasformazione (EU, p. 12)
“Una sorta di mobilitazione generale della società,
che resiste con ogni mezzo alla eventualità della propria liberazione”: dunque,
oltre agli interessi costituiti, c’è un’inerzia del sistema che tiene vincolate
a sé anche le vittime del sistema, una sua pietrificazione tale per cui il suo
superamento non può essere pensato come un momento progressivo, un passo in più
sulla stessa strada, ma come una rottura traumatica, rivoluzionaria, come (sono
parole sue) la “catastrofe della liberazione”. Noi siamo come Ulisse e i suoi
marinai, al momento del passaggio nei pressi dello scoglio delle Sirene[2]. Il
canto delle Sirene non è altro che il richiamo di un mondo diverso da quello
esistente, il mondo della soddisfazione, che si oppone a quello del sacrificio
e della rinuncia. Ma quel richiamo i marinai non lo possono sentire, a loro è
ordinato di turarsi le orecchie con la cera: piegati sui remi, continuano a
lavorare, sul loro lavoro si fondano i rapporti sociali esistenti, è bene che
non sappiano che un mondo diverso è possibile. Il signore, Ulisse, può sentire
quel canto, ma si è fatto legare all’albero maestro: può sentirne la bellezza e
la promessa di felicità, ma non può abbandonarsi ad esso, perché vorrebbe dire
perdere il proprio “sé”, annullare la propria identità faticosamente costruita
in opposizione alla natura, perdersi nella comunione con il tutto.
La “fine dell’utopia”, nel
senso suddetto, era già implicita, secondo Marcuse, tanto nel pensiero di Marx
quanto in quello di Freud, malgrado il primo avesse rivendicato proprio contro
gli “utopisti” il proprio carattere “scientifico”[3],
e il secondo avesse sempre negato prospettive radiose per l’umanità. Era dunque una rilettura problematica e
polemica quella che Marcuse faceva di Marx e Freud. Problematica e polemica,
perché fu proprio su questo suo modo di interpretare il pensiero di Marx e
quello di Freud che si espressero forti dissensi e si scatenarono controversie
su chi fosse fedele all’ortodossia e chi invece la tradisse. E sarà
interessante notare una analogia di fondo per quanto riguarda l’operazione
interpretativa attuata da Marcuse nei confronti dei due autori: in entrambi i casi
si recuperano certe premesse, dimenticate o trascurate, del loro pensiero e si
mostra come esse contrastino con le conclusioni, come quelle premesse possano
(e debbano) condurre a conclusioni diverse (le conclusioni, appunto, che
consentono di confermare, sia in chiave marxista che psicanalitica, la
possibilità attuale della “fine dell’utopia”).
La rilettura di Marx
Per quanto riguarda il
marxismo, dirò brevemente che Marcuse accusa Marx di aver rinunciato, nello
sviluppo del suo pensiero, alle implicazioni ben più radicali presenti nei suoi
scritti giovanili (particolarmente nei Manoscritti
economico-filosofici del 1844).[4]
Negando la possibilità di un superamento del “regno della necessità” (negando
la possibilità che il lavoro socialmente necessario possa diventare “lavoro
attraente”), Marx si sarebbe
tirato indietro spaventato di fronte alla necessità di ipotizzare una società in cui il lavoro diventi gioco, in cui persino il lavoro socialmente necessario possa venire organizzato in armonia con i bisogni istintuali e con le inclinazioni degli uomini (EU, p. 18)
Analogo, in merito, è il pensiero di Adorno e Horkheimer che sostengono
del regno della necessità lo stesso socialismo ha ammesso troppo presto l’eternità in omaggio al common sense reazionario. Elevando la necessità a ‘base’ per tutti i tempi avvenire, e degradando lo spirito – alla maniera idealistica – a vetta suprema, esso ha conservato troppo rigidamente l’eredità della filosofia borghese” (DA, p. 49).
E invece, secondo Marcuse, è possibile rintracciare all’interno dello stesso pensiero di Marx (nei suddetti Manoscritti, ma anche nei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, meglio noti come Grundrisse), la prospettiva di un superamento del regno della necessità, ovvero della realizzazione di un rapporto uomo-natura non mediato dal lavoro alienato e faticoso. Nei Manoscritti Marx parla, con una terminologia che non nasconde la sua origine hegeliana, del lavoro come di un’attività “libera e cosciente”, che ha a che fare non tanto con la lotta per l’esistenza, quanto con lo sviluppo della natura umana, con il problema dell’autorealizzazione:
L’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé e per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’impero del bisogno fisico, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente solo quando è libero da esso… il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo il bisogno e la misura della specie a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza. (MEF, p,.78-79)
In questa luce si possono ben comprendere le radicali, escatologiche, affermazioni ritrovabili ne L’ideologia tedesca: le classi devono essere abolite
attraverso l’abolizione della proprietà privata e dello stesso lavoro (DI, p. 51)… La rivoluzione comunista è diretta contro la precedente forma di attività, essa abolisce il lavoro (DI, p. 68)… Il problema non consiste nella liberazione del lavoro, ma nella sua abolizione (DI, p.198).
Ora, il
termine marxiano che viene tradotto con “abolizione” è Aufhebung, e questo termine contiene, oltre e insieme al
significato di “abolizione”, anche quello di “inveramento” (precisamente, “restaurazione
del contenuto alla sua vera forma”): dunque, l’espressione “Aufhebung del lavoro” significa
contemporaneamente “abolizione” di quella attività che è chiamata lavoro nella
società storicamente data, ed “inveramento” del lavoro nella forma di quella attività
che è libera e cosciente manifestazione di sé. E’ questa la possibilità che il
pensiero di Marx lascia intravedere, prima di arrendersi al “common sense reazionario”, secondo
l’espressione di Adorno e Horkheimer; ed è una possibilità concepita non come
una ingenua (russoviana) regressione allo “stato di natura”, ma (nei Grundrisse se ne trova la conferma) come
un salto compiuto al culmine della civiltà, consentito proprio dall’alto
sviluppo tecnologico.
La rilettura di Freud
La rilettura di Freud è
forse uno degli aspetti più interessanti e originali del pensiero di Marcuse, e
vale dunque la pena di soffermarcisi. Precisamente, è Eros and Civilization
(1955) l’opera con cui Marcuse intende dimostrare le conseguenze radicalmente
rivoluzionarie desumibili dalla teoria degli istinti (o metapsicologia)
freudiana. E’ appunto questo il Freud che interessa Marcuse: non il medico che
si serve della psicanalisi a fini terapeutici, ma il filosofo che formula
ipotesi sulla natura degli istinti, sulle origini della civiltà, sul rapporto
fra individuo e organizzazione sociale.
Ora, se si leggono testi
come Psicologia delle masse e analisi
dell’io (1921), L’avvenire di un’illusione (1927) o Il disagio
della civiltà (1930), si vede come Freud ritenesse irreversibile il
processo repressivo della civiltà, come, per lui, repressione e conseguente
infelicità fossero connaturate all’esistenza umana. Ogni qualvolta considera le
prospettive future dell’umanità, Freud è decisamente scettico:
Sembra piuttosto che ogni civiltà debba edificarsi sulla coercizione e sulla rinuncia pulsionale… Si deve, a mio parere, tener conto del fatto che in tutti gli uomini sono presenti tendenze distruttive, e perciò antisociali e ostili alla civiltà. (ZI, p. 147)
Mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione (UK, p. 280).
La necessità della civiltà
repressiva è il fulcro di tutta la costruzione teorica freudiana: la civiltà
nasce e si fonda sulla stessa necessità di reprimere la tendenza degli istinti
alla propria soddisfazione incontrollata; su questa repressione vengono
garantiti l’ordine e il progresso, ma gli individui pagano col prezzo della
infelicità: dietro l’ordine si cela, in antagonismo ineliminabile, “das Unbehagen in der Kultur” (il disagio
della civiltà).
E qui, per capire la
questione, bisogna addentrarsi un po’ nella teoria freudiana, secondo cui
esistono due istinti (o pulsioni, Trieb)
fondamentali, che vengono indicati con il nome di Eros (l’istinto di vita) e di
Thanatos (l’istinto di morte): sono questi gli istinti che vengono
necessariamente repressi, perché altrimenti scaricherebbero la loro energia in
maniera distruttiva per la società; la repressione di Eros si realizza in modo
che la sua energia venga impiegata per la costruzione della Kultur[5];
la repressione di Thanatos fa sì che la sua energia venga scaricata contro se
stessi, nella forma del Super-io e del connesso senso di colpa[6].
Freud contro Freud
Ma Marcuse mette Freud
contro Freud, sostiene cioè che, dalle stesse premesse che Freud ha posto, si
può e si deve arrivare a conclusioni diverse. Tenendo conto del fatto che le
opere metapsicologiche di Freud testimoniano di una ricerca continua, che
procede per precisazioni successive, in definitiva non conclusa, per Marcuse si
tratta di far luce (e leva) su alcune contraddizioni, irrisolte nel pensiero
freudiano: l’affermazione sul carattere asociale ed antisociale degli istinti
con l’affermazione che la natura degli istinti è “storicamente acquisita”;
l’affermazione sull’eterna conflittualità fra “principio del piacere” e
“principio della realtà”
[7] con
l’affermazione che il conflitto è causato da Anànke (bisogno, necessità della
lotta per l’esistenza). In altre parole
Il conflitto tra principio del piacere e principio della realtà è inconciliabile al punto da rendere necessaria la trasformazione in senso repressivo della struttura istintuale dell’uomo? O consente invece il concetto di una civiltà non repressiva, basata su un’esperienza dell’essere fondamentalmente diversa, su un rapporto fondamentalmente diverso fra uomo e natura e su relazioni esistenziali fondamentalmente diverse? (EC, p. 52)
In Al di là del principio
del piacere (1920) Freud, considerando la formazione degli istinti, aveva individuato
tre fasi distinte: aveva parlato, riferendosi ad un ordine di storia
geologico-biologico, di un originario impulso alla regressione (relativamente
allo stesso presentarsi della vita organica), di una successiva
differenziazione dell’impulso in Eros e Thanatos (determinata da “fattori
esterni”, eventi geologici), e infine, riferendosi ad un ordine sociologico di
storia, di un’altra decisiva modificazione degli istinti alle soglie della
civiltà, imposta dalla presenza dell’Anànke, per cui Eros viene sia sublimato
che organizzato produttivamente, mentre Thanatos viene trasformato in
aggressività socialmente utile e in morale.
Qui si ferma Freud e di qui
parte Marcuse, cominciando col rilevare che fra le origini della civiltà e la
sua fase attuale c’è una differenza tale (l’Anànke stata notevolmente ridotta)
da legittimare l’ipotesi di un’altra grande svolta possibile: nel senso di una
liberazione degli istinti che non comporti distruzione e regressione alla
barbarie. In altre parole, se è vero, come Freud dice ripetutamente, che è
l’Anànke a imporre la repressione degli istinti (o meglio: la loro
organizzazione secondo il principio di realtà), ne consegue che, nello sviluppo
storico, man mano che si riduce l’Anànke, si riduce anche la conflittualità fra
principio del piacere e principio della realtà, fino a consentire la
liberazione degli istinti (o meglio: la loro organizzazione secondo un
principio della realtà non in contraddizione col principio del piacere).
La liberazione di Eros e la “neutralizzazione” di Thanatos
Per quanto riguarda Eros,
ciò vorrebbe dire non solo un recupero del carattere “polimorfo e perverso”
della sessualità pregenitale, ma anche un suo espandersi in “relazioni
libidiche di lavoro”, tale, cioè, da rendere lo stesso processo lavorativo
terreno di soddisfazione della libido. Si tratta di una possibilità intravista
dallo stesso Freud, sia nel Disagio della civiltà che in Psicologia
delle masse e analisi dell’io (1921):
Nei rapporti sociali tra gli uomini accade la stessa cosa che l’indagine psicanalitica ha scoperto nell’evoluzione della libido individuale: la libido s’appoggia al soddisfacimento dei grandi bisogni vitali e, quali propri primi oggetti, sceglie le persone che vi concorrono. E, come nel singolo, anche nell’evoluzione dell’intera umanità solo l’amore ha operato da fattore di incivilimento trasformando l’egoismo in altruismo… ciò costituisce una prova persuasiva del fatto che l’essenza della formazione collettiva consta di legami libidici di tipo nuovo fra i membri della massa. (MIA, p. 99)
In questa prospettiva, lo
stesso spauracchio dell’impulso alla distruzione (lo scatenamento della destrudo) sembra non essere più tale, se
lo consideriamo, come è, una espressione dell’istinto di morte (Thanatos), il
quale a sua volta opera in fusione (in maniera complementare) con l’istinto di
vita (Eros). Questo vuol dire che uno sviluppo non repressivo della libido (l’energia di Eros) deve
necessariamente alterare le manifestazioni della destrudo (l’energia di Thanatos). E questo sembra essere il senso
della speranza con cui si concludeva Il disagio della civiltà:
E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale (UK, p. 280)
Eros e Thanatos nell’“inno a
Venere” di Lucrezio
A questo proposito, mi viene
in mente un poeta latino, molto lontano nel tempo, dunque, da Freud e da
Marcuse, e tuttavia capace, mi è sempre sembrato, di dare della problematica
appena esposta una rappresentazione poetica di immediata comprensione. Mi
riferisco a Lucrezio, e precisamente a quell’inno a Venere con cui dà inizio al
suo poema, De rerum natura. Ricordate? C’è la guerra, dice Lucrezio, e
bisogna che le armi tacciano perché il poeta possa scrivere i suoi versi e il
lettore ascoltarli. Dunque implora Venere, la divinità dell’amore, perché con
il suo fascino, con la sua capacità di seduzione, trattenga Marte, la divinità
della guerra, e gli impedisca di scatenarsi sui campi di battaglia. E’
un’immagine memorabile: il dio ha posato il suo capo sul grembo di Venere e,
vinto dall’eterna ferita d’amore (aeterno
devictus vulnere amoris), a bocca aperta (inhians), respirando il respiro della dea (eque tuo pendet resupini spiritus ore), fissa su di lei il suo
sguardo bramoso (pascit amore avidos
visus). L’idea di Lucrezio è che solo la forza dell’amore possa annullare,
o almeno indebolire, la forza della guerra, della distruzione, della morte. Non
mi pare difficile riconoscere in Venere e Marte le due potenze celesti di cui
parla Freud, e, analogamente, come, per Lucrezio, solo Venere può frenare
Marte, così Freud è convinto che solo Eros può bloccare la potenza distruttiva
di Thanatos.
La liberazione di Thanatos
Ma Marcuse dice qualcosa di
più sulla liberazione di Thanatos, sulla possibilità che tale istinto si
soddisfi in maniera né aggressiva né auto-punitiva. Bisogna partire dall’idea
espressa da Freud in Al di là del
principio del piacere, secondo cui la meta di Thanatos è la regressione al
Nirvana, ovvero a quello stato di quiete e non dolore che esisteva prima della
nascita[8].
In altre parole, la tendenza propria dell’istinto di morte sarebbe quella di
ripristinare le condizioni inorganiche che hanno preceduto il sorgere della
vita. Così in Al di là del principio
del piacere:
L’essere vivente elementare sarebbe rimasto volentieri immobile sin dall’inizio della sua esistenza, non avrebbe chiesto di meglio che di condurre un genere di vita uniforme, in condizioni invariabili… A un certo momento l’intervento di una forza, sulla cui natura non possiamo farci alcuna idea, ha risvegliato nella materia inanimata le caratteristiche della vita… La tensione che allora si produsse in una sostanza, fino a quel momento inanimata, cercò di autoeliminarsi: così nacque la prima pulsione: quella di tornare allo stato inanimato (JL, pp. 92-93)
La tendenza predominante della vita psichica, e forse del sistema nervoso in genere, consiste nello sforzo di ridurre, di mantenere costante o di sopprimere la tensione interna prodotta dagli stimoli (principio del nirvana, per usare l’espressione di Barbara Low)… e il riconoscere questo fenomeno è per noi una delle più valide ragioni per credere nell’esistenza delle pulsioni di morte (JL, p. 121)
Ciò vuol dire che Thanatos
aspira alla fine della vita fin tanto che la vita è sinonimo di tensione,
insoddisfazione, dolore. Ma proprio per questo è possibile progettare la
riconciliazione del principio del Nirvana con un principio della realtà entro
il quale l’esistenza sia stata portata ad un livello di completa soddisfazione.
Si può dunque concludere, per Marcuse, che è possibile una liberazione di Eros
non in contraddizione con il vivere sociale, ed è possibile una liberazione di
Thanatos che non significhi un suo scatenamento distruttivo.
Tale liberazione lascia
intravedere la possibilità di un mondo diverso, un mondo non più caratterizzato
dalla repressione e dal dominio, ma finalmente libero, bello e piacevole: si
tratta di quella “dimensione estetica” che viene tratteggiata nei capitoli
finali di Eros e civiltà. Marcuse
individua nelle figure mitologiche di Orfeo e Narciso i due archetipi che
significano un ordine di vita non repressivo, un ordine in cui, mediante il
gioco e la bellezza, si conciliano istinti e ragione, principio del piacere e
principio della realtà.
Orfeo e Narciso si
contrappongono a Prometeo: quest’ultimo è l’eroe civilizzatore, è il simbolo
della produttività, della lotta faticosa per l’esistenza, e quindi anche della
repressione (si veda come nella Teogonia e nelle Opere e i giorni di Esiodo, parlando del mondo di Prometeo, si
presenti Pandora, il principio femminile che richiama la sessualità e il
piacere, come una maledizione disgregatrice e distruttiva: nel mondo del
lavoro, che è quello prometeico, la bellezza della donna, e la felicità che
essa promette, sono elementi fatali)[9].
Orfeo invece è il poeta, il cui canto smuove le foreste e le rocce, placa gli
animali, pacifica la natura; Narciso è il giovinetto che trova la morte amando
la propria immagine riflessa dall’acqua; Marcuse (recuperando il concetto
freudiano di “narcisismo primario”[10])
lo interpreta come il simbolo non della patologia che tutti approssimativamente
conosciamo, ma di un Eros diverso, un Eros che implica la sua riconciliazione
con Thanatos. Leggiamo le sue parole:
quando Narciso disprezza l’amore dei cacciatori e delle ninfe, egli rifiuta un Eros per un altro. Egli vive in virtù di un Eros proprio, ed egli non ama soltanto se stesso. Egli non sa che l’immagine che egli ammira è la sua. Se il suo atteggiamento erotico è affine alla morte e porta morte, il riposo e il sonno e la morte non sono dolorosamente separati e distinti: il principio del Nirvana governa tutti questi stati. E, morto, continua a vivere come il fiore che porta il suo nome. (EC, pp. 189-90)
E dunque Orfeo e Narciso
diventano il simbolo di un mondo liberato, un mondo in cui l’unico fine delle
cose è di essere quello che sono (le cose non sono usate strumentalmente
dall’uomo per un fine diverso da quello che è il loro puro esistere):
Alberi e animali rispondono al canto di Orfeo; la primavera e la foresta rispondono al desiderio di Narciso. L’eros orfico e narcisistico risveglia e libera potenzialità che sono reali in oggetti animati e inanimati, nella natura organica e inorganica – reali ma rimossi, in una realtà non-erotica. Queste potenzialità circoscrivono il telos inerente in esse come non essere altro che quelle che sono, esserci, esistere. L’esperienza orfica e narcisistica del mondo nega ciò che il mondo del principio di prestazione sostiene. L’opposizione tra uomo e natura, soggetto e oggetto, è superata. L’esistere è inteso come soddisfazione che unisce uomo e natura, in modo che la realizzazione dell’uomo sia allo stesso tempo la realizzazione, senza violenza, della natura. Nel fatto che si parli ad essi, che siano amati e curati, gli alberi e i ruscelli e gli animali appaiono come quello che sono: belli, non soltanto per coloro che parlano con essi e li guardano, ma in se stessi, oggettivamente… Nell’eros orfico e narcisistico, questa tendenza si libera: gli oggetti della natura diventano liberi di essere ciò che sono… Il canto di Orfeo placa il mondo animale, riconcilia il leone con l’agnello e il leone con l’uomo. Il mondo della natura è un mondo di oppressione, crudeltà e dolore, com’è il mondo umano; come quest’ultimo, esso aspetta la sua liberazione. Questa liberazione è l’opera di Eros. Il canto di Orfeo infrange la pietrificazione, fa muovere le foreste e le rocce – ma le muove per farle partecipi della gioia (EC, p. 188-189).
Orfeo e Narciso, ovvero il
mito dell’età dell’oro
Rileggiamo queste parole: si
parla del superamento della opposizione fra uomo e natura, fra soggetto e oggetto,
si parla di una finalità (un telos)
intrinseca alle cose che è il loro puro esistere, si parla di una bellezza che
è inerente al puro esistere delle cose; ma si parla anche della riconciliazione
del leone con l’agnello e del leone con l’uomo, si parla di un mondo della
natura che aspetta la sua liberazione. Io sento qui l’eco di un mito
antichissimo, che percorre la civiltà occidentale e che sembra ripresentarsi,
nel cuore del Novecento, in queste formulazioni marcusiane: è il mito dell’età
dell’oro, con il quale l’uomo ha immaginato un rapporto pacificato con la
natura, una condizione priva di dolore e di fatica. E’ un mito che risale ad
Esiodo (VII sec. a. C., che vuol dire gli albori della cultura greca, dunque
occidentale), ma che forse ricorderete nella versione che ne dà Virgilio, nella
IV Ecloga e poi nel I libro delle Georgiche. Lì si parla non solo di una
terra che produce spontaneamente e abbondantemente, senza bisogno di lavoro, (ipsaque tellus / omnia liberius nullo
poscente ferebat) ma anche di serpenti che non hanno veleno (Giove, in
seguito malum virus serpentibus addidit
atris), di lupi che non predano (sempre Giove praedari lupos iussit), di un mondo perduto (ma, per Virgilio,
prossimo a tornare), il mondo governato da Crono (il Saturno latino), cui si
contrappone il mondo governato da Zeus-Giove, ovvero il mondo fondato dall’atto
prometeico del “far sprizzare il fuoco nascosto nelle vene della pietra” (ut silicis venis abstrusum excuderet ignem),
del “tentare Teti con le navi” (temptare
Thetin ratibus) e del “mutare le merci” (ovvero, del commerciare). Dunque è
un’utopia antica che sembra tornare nel pensiero di Marcuse.
Il dominio sulla natura e
sull’uomo, ovvero “ragione strumentale” e “dialettica dell’illuminismo”
Ma qui c’è anche il nodo che lega il pensiero di
Marcuse a quello di Adorno e Horkheimer. La “ragione strumentale” di cui parla
Horkheimer non è altro che la ragione usata come strumento per dominare gli
uomini e la natura. La “dialettica dell’illuminismo”[11]
non è altro che il percorso che parte dall’opposizione fra uomo e natura, dal
non riconoscimento che l’uomo stesso è natura, e conduce al dominio sulla
natura, e quindi sull’uomo stesso:
La malattia della ragione sta nel fatto che essa è nata dal bisogno umano di dominare la natura… Dal momento in cui la ragione divenne lo strumento del dominio esercitato dall’uomo sulla natura umana ed extra-umana – il che equivale a dire dal momento in cui nacque – essa fu frustrata nell’intenzione di scoprire la verità… Si potrebbe dire che la follia collettiva imperversante oggi, dai campi di concentramento alle manifestazioni apparentemente più innocue della cultura di massa, era già presente in germe nell’oggettivizzazione primitiva, nello sguardo con cui il primo uomo vide il mondo come una preda (ER, p. 151).
Nella storia della civiltà occidentale, mentre l’“illuminismo” e la “ragione strumentale” fondavano il mondo esistente e lo convalidavano come l’unico possibile, l’arte e la filosofia mantenevano in vita il pensiero (l’idea, l’immagine, il sogno) di un mondo diverso (un mondo contemporaneamente bello, buono e giusto).
La filosofia di cui si parla
è quella che, fondandosi sulla dialettica, trascende la realtà data rivelandone
il carattere irrazionale; è il “pensiero negativo” che, a differenza del
“pensiero positivo” che convalida la realtà esistente, nega questa realtà in
nome di una realtà che non c’è, ma che può essere. Marcuse rintraccia l’origine
di questa dicotomia già nel pensiero greco, ovvero nell’opposizione fra la
logica dialettica di Platone e la logica formale di Aristotele. La filosofia
platonica è il primo esempio di pensiero negativo, perché nega la realtà
empirica immediata in nome della realtà delle vere forme, delle Idee: dunque è
anche sovversiva – come dimostra il destino di Socrate - perché sottopone a
critica tutto ciò che esiste:
Il discorso socratico è in tal senso un discorso politico, in quanto contraddice le istituzioni politiche stabilite. La ricerca della definizione corretta, del “concetto” di virtù, giustizia, pietà e conoscenza diventa un’impresa sovversiva, poiché il concetto propone una nuova polis (OM, p. 149).
La stessa idea esprime Horkheimer:
Socrate morì per aver sottoposto le idee più sacre e più comunemente accettate della sua comunità e del suo paese alla critica del “demone”, o pensiero dialettico, come lo chiamò Platone. Nel far questo, egli si batté contro il conservatorismo ideologico e contro il relativismo mascherato da progressismo… in altre parole si batté contro la ragione soggettiva e formalistica di cui si facevano campioni gli altri sofisti (ER, p. 16-17).
Con Aristotele invece, sotto il segno dell’astrazione formale, della calcolabilità, scompare la tensione dialettica fra essere e dover essere. E quest’ultimo è il modo di pensare che ha trionfato, nella civiltà occidentale, secondo le forme della razionalità scientifica e tecnologica. L’altro modo (quello platonico) è stato emarginato come metafisico, confuso, emotivo, illogico.
Ma questa ragione formale,
scientifica, neutrale rispetto ai suoi contenuti, si rivela sin dall’inizio
come la ragione del potere dominante, la metafisica del dominio. La scienza
Si sviluppa sotto la spinta di un a-priori tecnologico che scorge nella natura null’altro che un strumento potenziale, materiale da controllare e da organizzare. E la percezione della natura come strumento (ipotetico) precede lo sviluppo di ogni particolare organizzazione tecnica. (OM, p. 167).
Dunque, il vero logos della scienza è tecno-logia, per essa la natura è “strumento”, “materia in funzione” senza fine, oggetto per una soggettività. In altre parole, per Marcuse
la direzione in cui essa (la scienza) è stata generalmente applicata era inerente alla scienza pura, anche là dove non ci si poneva fini pratici (OM, p. 160)
dato che i “fini pratici” erano immanenti alla stessa struttura storico-sociale che si serviva della scienza pura. Ed ecco il punto: la materia è neutrale, ma è un soggetto storico concreto che la manipola:
La materia è neutrale quanto la
scienza; l’oggettività non reca un telos in sé e neppure è proiettata verso un
telos. Ma è precisamente il suo carattere neutrale che rapporta la oggettività
ad uno specifico soggetto storico, cioè alla coscienza che prevale nella
società dalla quale e per la quale la neutralità è stabilita (OM, p. 170)
Marcuse trova nello Husserl
de La crisi delle scienze europeee e la fenomenologia trascendentale (1936)
la conferma di tale carattere “ideologico” del metodo scientifico: il suo non
avere base concettuale al di fuori del sistema, e cioè la sua incapacità di
trascendere la Lebenswelt (mondo
della vita, della realtà empirica), che, quindi, lo determina
aprioristicamente.
Ciò che accade nello sviluppo della relazione fra la scienza e la realtà empirica è l’abolizione della trascendenza della ragione. La ragione perde la sua forza filosofica e il suo diritto di definire e progettare idee e modi dell’essere al di là e contro di quelli stabiliti dalla realtà sussistente. (CSR, p. 61)
In tale condizione, il lebensweltliches (appartenente al mondo della vita) che determina apriori il metodo scientifico, è la trasformazione della Lebenswelt empirica (cioè, l’apriori tecnico). Cosicché, il soggetto occulto della scienza galileiana, lungi dall’essere neutrale, è invece il soggetto di una specifica esperienza concreta della Lebenswelt, è inserito all’interno di uno specifico progetto storico e sociale: un progetto di dominio e di controllo sulla natura e sull’uomo.
Adorno-Horkheimer: la veglia
della ragione genera mostri
Opere come Eclisse della
ragione di Horkheimer e Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer
sviluppano in modi simili questa problematica. Così si esprime Horkheimer:
Nell’aspetto formalistico della ragione, sottolineato dal positivismo, è messa in rilievo la sua indipendenza dal contenuto oggettivo; nell’aspetto strumentale, sottolineato dal pragmatismo, è messo in rilievo il suo piegarsi a contenuti eteronomi. La ragione è ormai completamente aggiogata al processo sociale; unico criterio è diventato il valore strumentale, la sua funzione di mezzo per dominare gli uomini e la natura (ER, p. 25)
Analogamente, l’analisi spietata della dialettica dell’Aufklärung, condotta da Adorno e Horkheimer nel loro famoso libro, intende svelare come, nella sua intenzione di fuoriuscire dal mito, l’illuminismo torni a rovesciarsi in mitologia, il progresso si capovolga in regresso, la ragione, separata dai fini, generi la barbarie.
C’è un’acquaforte di Goya, della serie “I capricci”, del 1799, intitolata “El sueño de la razon produce monstruos”, il sogno della ragione genera mostri. Raffigura un personaggio seduto che si è addormentato, appoggiando le braccia e la testa ad una scrivania; attorno a lui volteggiano ombre di pipistrelli dal volto vampiresco. Sono gli incubi del dormiente, e il senso dell’immagine, chiarita dal titolo, è che se la ragione si addormenta, se non vigila, se non rischiara la realtà con la sua luce, i mostri dell’ignoranza e della superstizione prendono il sopravvento. E’ un messaggio coerente con l’ideologia dell’illuminismo, convinto delle capacità liberatorie della ragione. Ma, ci chiediamo noi, cosiccome si chiedono Adorno e Horkheimer, dopo avere assistito alla barbarie del Novecento, dopo Auschwitz, dopo i lager e dopo i gulag, dopo lo sterminio etnico programmato e realizzato scientificamente, dopo le “bombe intelligenti”, è solo il sonno della ragione a generare mostri o non anche una ragione ben sveglia? Una ragione usata in maniera distorta, ma sveglia, non dormiente, ben padrona degli strumenti tecnici e scientifici, e capace però di generare mostri. Ecco spiegata la dialettica dell’illuminismo: il titolo dell’acquaforte di Goya è rovesciato: “la veglia della ragione genera mostri”. E questa parabola, per i pensatori francofortesi, è intrinseca alla ragione scientifica sin dalle sue origini, è propria del pensiero positivo.
Ma il pensiero negativo,
cosiccome l’arte, ha mantenuto in vita, opponendosi alla “cattiva immediatezza”
del metodo scientifico, l’esigenza di un metodo “mediato” dal progetto di
realizzazione delle idee di Bene, Bellezza, Giustizia, Pace. E’ una ragione
teoretica che è contemporaneamente etica, estetica e politica. E’ una ragione
totale, come lo era nelle sue origini platoniche
La profonda caratteristica del bene si è rifugiata nella natura costitutiva del bello; infatti la misura e la proporzione sembrano essere bellezza e virtù… Se non ci riesce di cogliere il bene assoluto per mezzo di un’unica Idea, cerchiamo di coglierlo con tre idee, ossia bellezza, proporzione e verità..” (Filebo, 64)
una ragione ormai bandita nella società ad una dimensione, liquidata come metafisica e mitologia. Ma quella metafisica e quella mitologia hanno continuato a negare la illibertà, la bruttezza e l’ingiustizia del mondo reale, hanno continuato ad indicare la sfasatura fra reale e razionale, fra essere e dover essere; hanno espresso (e continuano ad esprimere) quello che Marcuse chiama il Grande Rifiuto nei confronti del dominio e dell’oppressione e in vista della possibilità della realizzazione di un mondo libero.
Il pensiero negativo come
dialettica
Il pensiero negativo è il
pensiero dialettico, ovvero quello che, facendo luce (e leva) sulla
contraddizione, guarda il mondo dal punto di vista delle sue potenzialità (o
meglio, dal punto di vista della libertà: il pensiero dialettico nega la
negazione della libertà), a differenza del pensiero positivo che, guardando il
mondo nella sua realtà di fatto, per quel che appare all’esperienza, sul piano
politico-sociale finisce per convalidare l’esistente. Nei suoi studi su Hegel (Ragione
e rivoluzione, 1941), così come nella Nota sulla dialettica (1960),
Marcuse ha chiarito questo aspetto, ovvero il significato intrinsecamente
rivoluzionario del pensiero dialettico-negativo, cui si contrappone il
significato intrinsecamente conservatore del pensiero positivo:
Il potere del pensiero negativo è l’impulso del pensiero dialettico usato come strumento per analizzare il mondo dei fatti dal punto di vista della loro intrinseca inadeguatezza… Il pensiero dialettico ha inizio con la constatazione che il mondo non è libero; cioè che l’uomo e la natura esistono in condizioni di alienazione, “diversi da ciò che sono”… Mentre il metodo scientifico conduce dall’immediata esperienza delle cose alla loro struttura logico-matematica, il pensiero filosofico conduce dall’immediata esperienza dell’esistenza alla sua struttura storica: il principio della libertà” (RR, p. 7)
Hegel aveva considerato la società e lo Stato come opere storiche dell’uomo e ne aveva dato una interpretazione dal punto di vista della libertà; la filosofia positiva invece studiava la realtà sociale dal punto di vista naturalistico della necessità oggettiva…Comte affermò esplicitamente che il termine ‘positivo’ con il quale egli definiva il suo sistema filosofico, implicava che gli uomini fossero educati ad assumere un atteggiamento positivo verso lo stato di cose prevalente. La filosofia difendeva l’ordine esistente contro coloro che asserivano la necessità di negarlo. (RR, p. 361-63)
Il pensiero negativo come "nostalgia del totalmente altro"
Secondo alcuni, c’è un
anelito religioso in questo aspetto del pensiero di Marcuse, un anelito che
meglio si riconosce se si guarda il percorso compiuto dal suo amico e direttore
della scuola, Horkheimer. C’è un’opera di costui, del 1970, La nostalgia del
totalmente altro, che è una sorta di teologia della liberazione. Il
“totalmente altro” è quel dio che è necessario ipotizzare per mostrare
pienamente la inadeguatezza dell’esistente. A prescindere dall’esistenza di
dio, c’è bisogno di una teologia, intesa non come scienza del divino, ma come
la speranza che, nonostante questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia abbia l’ultima parola
come
espressione di una nostalgia, secondo la quale l’assassino non possa trionfare sulla sua vittima innocente… nostalgia di perfetta e consumata giustizia.
Nell’opera di Marcuse non ci sono riferimenti espliciti alla religione, ma come negare una qualche vicinanza fra la suddetta “nostalgia del totalmente altro” e il “grande rifiuto” della realtà esistente, la realtà dell’oppressione e dell’ingiustizia, contro cui “il pensiero (negativo) continua a protestare in nome della verità”? (RR, p. 16)
Il pensiero negativo come
linguaggio dell’arte
Tornando al nostro discorso,
la dialettica e il linguaggio poetico si trovano sullo stesso piano: entrambi
negano ciò che è in nome di ciò che non è; evocano l’assente; guardano il mondo
da un punto di vista esterno ad esso, ma da cui si vedono le possibilità
intrinseche al mondo esistente; entrambi adottano
Il linguaggio della negazione come il Grande Rifiuto di accettare le regole del gioco in cui i dati sono falsati. L’assente deve essere presente in quanto la maggior parte della verità risiede nell’assente (RR., p. 11)
Marcuse cita Mallarmé, che
dice
Io dico: un fiore! E dall’oblio nel quale la mia voce esilia ogni forma, in quanto diversa dalle corolle note, sorge musicalmente, idea pura e soave, il fiore che manca ad ogni mazzo. (RR, p. 11)
E Valéry
Il pensiero è il travaglio che fa vivere in noi ciò che non esiste… Che cosa siamo noi senza l’aiuto di ciò che non esiste? (RR, pp. 11-12)
L’immaginazione secondo la
psicanalisi
Ma al significato liberatorio dell’arte si arriva
anche attraverso la psicanalisi: in sintesi, la fantasia-immaginazione che
produce l’opera artistica è, già per Freud, quella attività psichica che, nel
mondo governato dal principio di realtà, si lascia liberamente determinare dal
principio del piacere. Così Freud in Precisazioni
sui due principi del funzionamento psichico (1911):
Con l’introduzione del principio di realtà un certo tipo di attività del pensiero fu scisso e separato dal resto: esso fu tenuto libero dall’esame della realtà e rimase subordinato al principio del piacere stesso. Questo è l’atto del fantasticare, che comincia già con i giochi infantili e che più tardi, come sogno ad occhi aperti, si stacca dalla sua dipendenza da oggetti reali. (FZP, p. 463)
E dunque la fantasia-immaginazione, con il suo
carattere “illogico” e “di sogno”, resta ad indicare, in mezzo al mondo della
realtà dolorosa e repressiva, un mondo di soddisfazione e di felicità: quel
mondo dove gli istinti di vita troverebbero pace in una realizzazione senza
repressione. Con l’opera d’arte, la fantasia-immaginazione prende forma, la forma
della bellezza, la forma estetica; e dunque
Dietro la forma estetica sta l’armonia repressa tra sensualità e ragione – l’eterna protesta contro l’organizzazione della vita da parte della logica del dominio, la critica al principio di prestazione (EC, p. 171).
Una parentesi: l’immaginazione secondo
Leopardi
Anche qui mi pare che torni, sotto vesti nuove,
un’idea ottocentesca, un’idea a cui aveva dato voce Leopardi, quando
rivendicava i diritti dell’immaginazione (della favola, del sogno, della
poesia) contro l’invadenza della ragione (della conoscenza scientifica e
filosofica).
Analogamente Leopardi parla del “diletto”, cioè del piacere, che è proprio
dell’immaginazione, e quindi della poesia, a fronte del dolore, provocato dalla
conoscenza razionale della realtà, provocato (diremmo con Freud) dall’impatto
con il principio di realtà. Ma dunque anche per Leopardi l’immaginazione che
produce poesia è quella facoltà che, pur nella necessità, per l’individuo
adulto, di sottomettersi al principio di realtà, resta vincolata a quel principio
del piacere, che aveva il predominio nell’età infantile. Sembra di sentire la
voce di Leopardi in queste parole di Marcuse:
La ragione vince: essa diventa spiacevole, ma utile e corretta; la fantasia rimane piacevole, ma diventa inutile, falsa – un puro gioco, un sogno ad occhi aperti. Come tale, essa continua a parlare il linguaggio del principio del piacere, della libertà (dalla repressione), del desiderio e della soddisfazione senza inibizioni, - ma la realtà procede conformemente alle leggi della ragione, non più in dipendenza dal linguaggio del sogno. (EC, p. 170)
L’immaginazione secondo Kant
Del resto, che l’immaginazione artistica abbia a che
fare con Eros, con la sensualità, è evidente se si indaga l’origine filosofica
dell’ambiguo termine “estetica”. L’origine è in Kant, nel cui pensiero
l’immaginazione appare come intermediaria fra sensi ed intelletto, come luogo
della conciliazione fra le cosiddette facoltà inferiori e facoltà superiori
dell’uomo. Ma i sensi di cui si parla sono intesi nel loro doppio significato,
cognitivo (sensorietà) e appetitivo (sensualità); un unico termine in tedesco, Sinnlichkeit, significa
contemporaneamente sensorietà e sensualità. L’estetica è dunque originariamente
la scienza della sensorietà-sensualità, ed indica un ordine diverso da quello
della logica, che è la scienza della comprensione concettuale. Lo stesso
sentimento di piacere e dispiacere, che sta alla base del giudizio estetico,
tradisce le sue origini nella sensualità, anche se poi si determina come piacere
per la forma pura:
La verità dell’arte è la liberazione della sensualità mediante la sua riconciliazione con la ragione: questa è la nozione centrale dell’estetica idealistica classica (EC, p. 203)… L’arte rappresenta una sfida al principio della realtà corrente: rappresentando l’ordine della sensualità, essa invoca una logica non repressa – la logica della soddisfazione contro quella della repressione. Dietro alla forma estetica sublimata si annuncia il contenuto non sublimato: la dipendenza dell’arte dal principio del piacere… Se la perfezione della cognizione sensoriale è definita come bellezza, questa definizione continua a conservare la connessione intima con la soddisfazione istintuale, e il piacere estetico è sempre ancora piacere. Ma l’origine sensuale è repressa, e la soddisfazione sta nella forma pura dell’oggetto. (EC, pp. 204-5)
Ma la “forma pura” non è altro che la forma delle cose
nel loro puro essere se stesse, nel loro libero esistere; la forma secondo
“finalità senza fine” e “legalità senza legge” (sono espressioni kantiane: Zweckmässigkeit ohne Zweck; Gesetzmässigkeit ohne Gesetz).
L’immaginazione artistica dunque costituisce un mondo secondo “finalità
formale”, il che vuol dire un mondo al di fuori sia di qualsiasi finalità
tecnico-pratica che di qualsiasi legalità scientifica:
L’esperienza nella quale l’oggetto è “dato” in questo modo, differisce completamente tanto dall’esperienza quotidiana che da quella scientifica; tutti i legami tra l’oggetto e il mondo della ragione teorica e pratica sono tagliati, o piuttosto sospesi. Questa esperienza, che rende all’oggetto la sua libera esistenza, è opera dell’immaginazione. (EC, p. 199)
La contraddizione dell’arte
Per tali ragioni, perché evoca una realtà diversa da
quella esistente (secondo un’idea, abbiamo visto, che era anche di Mallarmé e
Valéry), la libertà invece della repressione, il piacere invece del dolore, il
gioco invece del lavoro faticoso, l’arte sta sullo stesso piano del pensiero
negativo: nega la negazione della libertà, denuncia la realtà esistente,
esprime il Grande Rifiuto nei confronti di una vita fatta di angoscia, paura,
fatica. Questa è la sua natura ed è la sua funzione, ben riconoscibile, secondo
Marcuse, nell’arte delle avanguardie novecentesche.
Ma certo, il suo destino è quello di essere una
funzione separata, un momento di evasione consentito (anzi, auspicato), un
abbellimento di quella stessa realtà che vorrebbe negare:
La libertà dal principio della realtà è concessa al libero gioco dell’immaginazione creativa. Qui viene riconosciuta una realtà con norme molto differenti. Comunque, poiché quest’altra realtà “libera” è attribuita all’arte, e la sua esperienza all’atteggiamento estetico, essa non è impegnativa, non impegna l’esistenza umana sul livello ordinario di vita; essa è “irreale” (EC, p. 205)
Pertanto il destino dell’arte è quello di verificare
continuamente il proprio limite contraddittorio, per cui, se da una parte
indica un’esistenza libera e piacevole, dall’altra permette, tramite la sua
bella forma, la riconciliazione con l’esistenza non libera e spiacevole del
mondo reale. Aveva ragione Aristotele quando indicava nell’effetto catartico
dell’arte
La duplice funzione dell’arte – di opporre e riconciliare; di accusare e di assolvere; di richiamare il represso e di reprimerlo nuovamente – “purificato”. L’uomo può elevare se stesso con i classici: legge e vede e sente ribellarsi, trionfare, rinunciare o perire i propri archetipi. E poiché tutto ciò ha forma estetica, egli può goderne – e dimenticarlo. (EC, p. 172)
Schiller: l’arte come
principio di organizzazione sociale
Ma già Schiller nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1793-95) pensava alla
dimensione estetica non come all’ornamento di un mondo sotto tutti gli altri
aspetti repressivo, ma come al luogo per un’esistenza libera e felice, a un
principio che governi interamente l’esistenza umana. Era dunque consapevole di
risolvere in un problema politico quella che era una funzione separata all’interno
della cultura filosofica:
Per risolvere il problema politico nella pratica bisogna prendere la via attraverso il problema estetico, perché alla libertà si giunge solo attraverso la bellezza (ÄEM, II, 207)
Schiller parlava della lotta, nella storia della civiltà, fra due impulsi, quello “sensuale” (o “materiale”, Materietrieb) e quello “razionale” (o “formale”. Formtrieb), una lotta segnata dalla sopraffazione del secondo sul primo. Per opera di un terzo impulso (quello “ludico”, del gioco, Spieltrieb), si può dare una civiltà in cui finalmente il razionale sia sensuale e il sensuale razionale. Dalla vittoria di questo impulso deriva una trasformazione della civiltà, per cui la natura non risulta né dominatrice, né dominata: è “inutilmente”, contemplata nella sua bellezza.
La bellezza… non può essere esclusivamente vita… né può essere esclusivamente forma…: essa è l’oggetto comune di entrambi gli istinti, cioè dell’istinto del gioco… Siccome l’animo nell’intuizione del bello si trova in un felice punto di mezzo fra la legge e il bisogno, appunto perché si divide fra l’una e l’altro, è sottratto alla costrizione di entrambi. (ÄEM, XV, 259-60)
Entrambi gli istinti costringono l’animo, quello con le leggi della natura, questo con le leggi della ragione. L’istinto del gioco… abolirà anche ogni costrizione e porrà l’uomo in libertà tanto fisica che morale. (ÄEM, XIV, 256)
L’istinto del gioco sarebbe diretto ad abolire il tempo nel tempo, ad unire il divenire con l’essere assoluto, il mutamento con l’identità. (ÄEM, XIV, 255)
Con la bellezza l’uomo deve solo giocare, e deve giocare solo con la bellezza. L’uomo gioca solo quando è uomo nel pieno significato della parola, ed è completamente uomo solo quando gioca. (ÄEM, XV, 262)
La natura è, come per Kant, secondo “finalità formale”; è come ce la indicano le immagini orfiche e narcisistiche, come la liberazione degli istinti ci lascia intravedere; è come lo sviluppo tecnologico della società industriale avanzata può consentire; come ci promette il canto delle Sirene, se non avessimo le orecchie tappate con la cera o ci liberassimo dalle corde che ci legano all’albero maestro.
L’utopia come “dimensione
estetica”
L’utopia verifica la sua fine come tale: rifiuta di
essere relegata nella terra di nessuno e l’arte può essere il principio di
organizzazione reale (ed attuale) della civiltà. Nell’articolo Art in One-dimensional Society (1967)[12]
Marcuse riprende e chiarisce questo discorso, insieme con la denuncia del suo
fraintendimento: non l’arte come abbellimento, come superficie del brutto, come
cultura per un mondo di terrore, ma l’arte come architettura di una società
veramente libera:
L’arte, la forma dell’immaginazione, potrebbe guidare la costruzione della nuova società. E, in quanto i valori estetici sono i valori non aggressivi per eccellenza, l’arte come tecnologia e tecnica implicherebbe l’apparizione di una razionalità nuova nella costruzione di una società libera, vale a dire, la comparsa di modi e fini nuovi dello stesso progresso tecnico (CSR, p. 142)
Questa società libera sarebbe costruita dalla tecnica, ma da una tecnica
Che è l’opposto della tecnologia e della tecnica che dominano le società repressive odierne, vale a dire, una tecnica liberata dal potere distruttivo che sperimenta uomini e cose, spirito e materia come oggetti bruti della scissione, della combinazione, della trasformazione e del consumo. Invece, l’arte – tecnica – libererebbe le potenzialità della materia, che proteggono e rafforzano la vita. (CSR, p. 144)
L’immaginazione diventerebbe “fattore della tecnica produttiva” (gesellschaftliche Produktivkraft) e questo significherebbe la “negazione-inveramento” (Aufhebung) dell’arte: essa non sarebbe più separata dal reale, ma, come “gaia scienza”, ricostruirebbe radicalmente il mondo dell’esperienza: La dimensione estetica sarebbe il “mondo della vita” (Lebenswelt) in cui potrebbero svilupparsi i nuovi bisogni e le nuove facoltà, i bisogni e le facoltà della libertà. In questo mondo potrà crescere un uomo biologicamente nuovo, un uomo, cioè, che si sia liberato dai falsi bisogni (quelli imposti dalla società dei consumi e, ormai, quasi biologicamente introiettati) e la cui nuova struttura istintuale sappia riconoscere (anzi, non possa più fare a meno di soddisfare) i bisogni di libertà, bellezza, gioco:
Un uomo che dovrebbe parlare una lingua diversa, fare gesti diversi, seguire impulsi diversi; un uomo che avrebbe sviluppato in se stesso una barriera contro la crudeltà, la brutalità, la bruttezza. (EL, p. 34)
Marcello Tartaglia
Lezioni tenute presso l'Università di Bologna
nei giorni 10-11 aprile 2003.
[1] Si tratta di un volume che raccoglie la relazione di Marcuse, e il successivo dibattito con gli studenti, nel luglio del 1967 presso la Libera Università di Berlino.
[2] Faccio riferimento ad un esempio reso famoso dall’interpretazione che ne hanno dato Adorno ed Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo
[3] Come è detto chiaramente ne L’ideologia tedesca, il marxismo si definisce scientifico in quanto non progetta un ideale stato futuro, ma analizza le contraddizioni che conducono al superamento dello stato presente
[4] Con Soviet Marxism (1958) l’accusa si estendeva, in maniera ben più clamorosa, al marxismo sovietico, colpevole di aver realizzato, nella teoria e nella pratica, una forma abnorme di capitalismo di stato, in cui erano acuiti al massimo grado i mali della società industriale avanzata.
[5] Questa parola in tedesco indica il complesso di valori e ideali propri della “civiltà” (laddove Zivilisation indica piuttosto il progresso in senso tecnico e materiale).
[6] per Super-io si intende quella parte della psiche che si è formata a seguito di una sorta di introiezione della figura paterna, e quindi rappresenta, nell’interiorità dell’individuo, l’insieme dei precetti morali, il senso del dovere, su cui il padre vigila e punisce; la sua crescita, che Freud analizza nel Disagio della civiltà, implica la crescita del senso di colpa in misura sempre meno tollerabile.
[7] I due principi indicano, rispettivamente, la tendenza degli istinti ad una soddisfazione immediata, senza tenere in alcun conto i dati obiettivi della realtà (secondo le modalità di funzionamento dell’inconscio proprie del “processo primario”), e la presa d’atto, da parte della coscienza, dei dati di realtà, quindi della necessità di rinunciare o di differire o di trasformare la soddisfazione (secondo le modalità del cosiddetto “processo secondario”).
[8] Con l’espressione “principio del Nirvana” Freud intende appunto quella tendenza psichica a mantenere costante (in senso simile usa anche l’espressione “principio di costanza”), a ridurre e a sopprimere gli stati eccitazione (analogamente a ciò che il Nirvana indica nel buddismo, ovvero la cessazione del dolore in conseguenza dell’annullamento del desiderio).
[9] Secondo la Teogonia, Pandora è creata, per volontà di Zeus, da Atena e da Efesto, con la collaborazione delle altre divinità. E’ dotata pertanto di straordinarie grazia e bellezza, ma anche, per intervento di Ermes, di furbizia e abilità menzognera. Zeus la invia come punizione agli uomini, per vendicarsi di Prometeo, che aveva loro donato il fuoco, dopo averlo sottratto agli dei. Nelle Opere e i giorni la negatività di Pandora è accresciuta con un altro elemento: è lei che, per curiosità “femminile”, apre il vaso dentro cui erano custoditi tutti i malanni, che quindi si diffondono per il mondo con danno perenne per l’umanità.
[10] Freud ne parla (con qualche oscurità concettuale, che denota lo sforzo dell’elaborazione: si veda Introduzione al narcisismo, 1914) come di una fase del normale sviluppo della libido, che precede quella in cui la libido si rivolge all’esterno, ed è caratterizzata dal fatto che l’Io è oggetto, contemporaneamente, delle pulsioni sessuali e di quelle di autoconservazione (riconducibili, queste ultime, alle pulsioni di morte).
[11] Meglio sarebbe dire “del rischiaramento”, perché nel termine usato da Adorno e Horkheimer (Aufklärung) non c’è il riferimento al movimento culturale che caratterizza il secondo Settecento
[12] E’ basato su una conferenza tenuta nel marzo del 1967, quindi raccolto nel volume Critica della società repressiva.