Lettura de La locandiera (1753)
La commedia rappresenta al meglio
la novità del teatro goldoniano: non solo i caratteri
individuali sono presentati nella ricchezza delle loro sfumature psicologiche,
ma tali caratteri appaiono anche determinati dall’ambiente sociale
cui appartengono, talchè la locanda propone (pur
essendo la commedia, per ragioni di opportunità, ambientata a Firenze) uno
spaccato esemplare della società veneziana del tempo.
Il Marchese di Forlimpopoli
e il Conte di Albafiorita rappresentano due
varianti della nobiltà: la prima è quella della nobiltà decaduta e
impoverita, che però resta attaccata alle apparenze, pretende privilegi e
ostenta un lusso che non ha più (il Marchese regala a Mirandolina
un misero fazzoletto ed offre il “vin di Cipro” che la locandiera
paragona a “lavature di fiaschi”); la seconda è quella della nobiltà
di recente acquisto, fondata non sull’antichità e sul prestigio del sangue,
ma sulla ricchezza (di cui il conte fa continuo e smaccato sfoggio). Ma, a ben
guardare, anche il carattere del Cavaliere di Ripafratta
ben rappresenta un tipo di aristocratico, sicuro della propria superiorità
sociale e dunque sprezzante nei confronti dei subalterni (il suo atteggiamento
ruvido e sgarbato nei confronti di Mirandolina – ad
esempio, nell’episodio della biancheria, quando la tratta come una serva – si
spiega, sì, con la sua misoginia, ma vuole anche essere un insegnamento ai due
spasimanti di come deve comportarsi un nobile con una popolana). Mirandolina, a sua volta, che, con la sua civetteria
calcolata, con la sua capacità di fingere, è, sì, impegnata in una sfida tesa
ad abbattere le resistenze del cavaliere, ma si dimostra abile nel gestire la
locanda e determinata nel fare i propri interessi, corrisponde alla figura
del mercante. Il servitore Fabrizio è di condizione sociale più
bassa[1]:
è sinceramente innamorato di Mirandolina, allo stesso
tempo però aspira al salto di classe, sposandola e diventando padrone della
locanda.
Naturalmente il personaggio di Mirandolina è quello psicologicamente più ricco di
sfumature. Possiede le caratteristiche positive del mercante
(laboriosità, senso pratico), ma, in maggior misura, quelle negative:
specula sul proprio fascino per attrarre i clienti ed ottenere profitto; si
vende (psicologicamente, anche se non fisicamente), visto che accetta i
doni degli spasimanti (non solo il misero fazzoletto di seta dal Marchese, ma,
dal Conte, i ben più preziosi orecchini prima e un gioiello poi, sempre di
diamanti; infine, la boccetta d’oro dal Cavaliere). Che sia non tanto una
graziosa e maliziosa damina settecentesca, ma una cinica
calcolatrice lo capiamo dagli “a parte”, quando smette il suo
linguaggio appropriato ed ossequioso e rivela, con espressioni volgari, la sua
vera natura di piccola borghese attaccata al denaro[2].
Il movente specifico, poi, dell’impresa
cui si accinge (la vittoria sul Cavaliere) non si può ridurre alla volontà
di vendicare il genere femminile (alla rivalsa “sessista”): c’è
anche una rivalsa “classista”, c’è il desiderio di umiliare quel
nobile altezzoso che vuole degradare ad una condizione servile lei, piccola
borghese, ma abituata farsi riverire dai nobili. Ma in lei c’è anche una buona
dose di narcisismo[3]:
dichiara di volere vendicare tutto il genere femminile, in realtà pensa solo a
se stessa, al fatto che dal Cavaliere le è negata la solita adorazione degli
spasimanti. Ed è un narcisismo che si completa con una sorta di ossessione
del potere sugli altri, sui nobili così come sui subalterni (con
Fabrizio, a cui si promette nel finale, è sempre la padrona: vuole essere
ubbidita senza discussioni): ne consegue che il suo orgoglio è ferito non
tanto dal fatto che qualcuno disprezzi le donne, quanto dal fatto che qualcuno
si sottragga al suo potere. In tal senso si può parlare per lei di una aridità
(o frigidità) sentimentale (pur mascherata con l’alibi di voler
conservare la sua libertà), una aridità che si manifesta come segreta
avversione per gli uomini[4]
(dunque simmetrica a quella del Cavaliere per le donne).
Apparentemente marginali sono le figure
delle due attricette di teatro, Ortensia e Dejanira,
che a un certo punto arrivano alla locanda e, oltre a civettare con il Conte ed
il Marchese al fine di ottenere qualche compenso materiale (una cena, qualche
dono), tentano di sedurre anche il Cavaliere. Da commedianti quali sono,
recitano una parte, ovvero quella delle donne lusingatrici, sinceramente
colpite dal fascino di quei nobili. Ma non sono brave nella loro finzione,
tant’è che il Cavaliere le smaschera subito e le scaccia. Perciò risalta, per
contrapposizione, l’abilità recitativa di Mirandolina:
è lei la vera attrice capace di fingere con naturalezza, è lei che recita una
parte (quella della donna che non apprezza i corteggiamenti e pertanto
ammira il Cavaliere) con tanta abilità da apparire sincera (tant’è che
trionfa laddove le due commedianti hanno fallito). Per questo aspetto si
potrebbe dire che assistiamo al “teatro nel teatro”, visto che Mirandolina recita una commedia all’interno della
commedia; ma anche alla riproposizione della polemica goldoniana contro gli stereotipi della commedia dell’arte,
in nome di un “teatro” che rappresenti la verità del “mondo”:
Ortensia e Dejanira sono infatti l’espressione di
quella recitazione in maschera, di maniera e ripetitiva, facilmente
riconoscibile nella sua finzione; Mirandolina
invece non è una maschera, è un individuo che appartiene al mondo reale, la sua
recitazione, spontanea e non di maniera, non consente di distinguere il “mondo”
dal “teatro”.
Anche il finale è più complesso di
quanto non sembri a prima vista. Apparentemente Mirandolina
ha vinto, costringendo il Cavaliere a confessare il suo innamoramento, ma
è anche sconfitta nel momento in cui si vede costretta a porre fine al
suo comportamento e a sposare Fabrizio. Ed è costretta perché ha visto che quel
comportamento è rischioso (il Cavaliere, pazzo d’amore, minaccia di farle
violenza): il rischio, per il mercante borghese (la locandiera), è quello di
perdere il buon nome e con esso quello dell’azienda (la locanda), con
inevitabili ripercussioni economiche. Dunque è conveniente rinunciare alla
libertà ed accettare il matrimonio, per salvare l’onorabilità e trovare la
indispensabile protezione maschile.
Ma – al di là della buon insegnamento
morale che ci vuole impartire con le parole edificanti pronunciate nell’ultima
battuta[5]
– Mirandolina non ha cambiato
natura: semplicemente, si accontenterà di soddisfare la sua volontà
di potenza nel ristretto ambito famigliare. Il suo cinismo
calcolatore traspare nello scambio di battute con Fabrizio
(prima lo maltratta con durezza: “Che patti? Il patto è questo: o dammi la
mano o vattene al tuo paese”; poi lo blandisce: “Ma poi, sì, caro, sarò
tutta tua; non dubitare di me, ti amerò sempre, sarai l’anima mia”) e si
rivela pienamente nell’a parte conclusivo (“Anche questa è fatta”).
[1] Forse è un
contadino inurbato, visto che nell’ultima scena Mirandolina
minaccia di rimandarlo al suo paese.
[2] “Che arsura!
Non gliene cascano”, dice del Marchese spiantato (1°, V). O ancora (in 1°, IX),
in un monologo ricco di espressioni gergali e termini crudi: “Mi piace
l’arrosto, del fumo non so che farne”.
[3] “Tutto il
mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata” (1°, IX).
[4] “Tratto con
tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno” (1°, IX).
[5] “Cambiando
stato, voglio cambiar costume; e lor signori ancora
profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e
quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover
cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera.”