Goldoni
e la riforma della commedia
Nasce a Venezia nel 1707,
da famiglia borghese. Al seguito del padre medico, studia a Perugia, poi a
Rimini[1],
poi giurisprudenza all’università di Pavia, con interruzioni[2],
fino al conseguimento della laurea a Padova. Scoperta la propria vocazione per
il teatro, abbandona l’attività di avvocato e si dedica a quella di scrittore
di testi teatrali[3].
Nel 1762 viene invitato a Parigi a dirigere la Comédie
Italienne. Entrato nelle grazie della corte,
gli fu concessa una modesta pensione, che però, scoppiata la rivoluzione, gli
fu tolta dall’Assemblea legislativa in quanto concessa dal re (1792). Morì nel 1793,
proprio nel giorno in cui la stessa Assemblea decretava la restituzione della
sua pensione, riconoscendo nelle sue commedie “un presagio della caduta del
dispotismo”.
Già questo riconoscimento ci fa capire
come l’opera di Goldoni riflettesse le nuove idee del razionalismo illuminista
e della classe sociale, la borghesia operosa e concreta, che si stava imponendo
sul piano economico e politico[4].
Non ci sono nella sua opera estremismi radicali, ma c’è, a fronte della superbia
e dell’ozio parassitario dei nobili, l’apprezzamento per i buoni valori
borghesi (fedeltà agli impegni presi, operosità, onestà, sollecitudine per
il bene della famiglia) e per la tranquilla convivenza tra i vari ceti.
Per questo in commedie come I rusteghi e Sior
Todero brontolon è
criticato il comportamento autoritario di padri di famiglia tradizionalisti nei
confronti di mogli e figli: non si prospettano sovvertimenti dei costumi, ma si
auspica un ragionevole equilibrio fra le esigenze della famiglia e quelle
dell’individuo.
Del resto, la stessa riforma della
commedia che Goldoni mette in atto corrisponde alle esigenze e alla
sensibilità della nuova classe sociale. Si tratta del superamento della “commedia
dell’arte” in nome della “commedia di carattere”.
La “commedia dell’arte” (detta anche
“a soggetto” o “all’improvviso”) aveva soppiantato la
commedia dotta rinascimentale, sviluppandosi fra la metà del Cinquecento e la
metà del Settecento. Sue caratteristiche erano: la recitazione “all’improvviso”,
ovvero senza un copione scritto, ma sulla base di un semplice canovaccio
(gli attori improvvisavano, disponendo di un repertorio di battute e lazzi[5],
spesso osceni e sguaiati); la presenza di maschere, ovvero di
personaggi che rappresentavano tipi fissi (peraltro già presenti nella commedia
latina e nel teatro rinascimentale: il soldato fanfarone, il servo furbo, il
vecchio avaro, il giovane scapestrato, ecc.; tale tipizzazione era
sottolineata dall’uso di maschere vere e proprie, dall’abbigliamento, dalla
gestualità, dalla parlata regionale); la recitazione, generalmente all’aperto,
affidata a compagnie teatrali, composte da attori
professionisti, non solo uomini, ma – grande novità – anche donne[6].
Tale tipo di commedia aveva esaurito la
sua carica creativa ed era degenerata nella ripetitività e nella sguaiatezza delle battute. La riforma goldoniana[7]
intende recuperare la semplicità e la naturalezza della rappresentazione
(ed è, per questo aspetto, un’intenzione che ben si colloca nell’ambito di quel
razionalismo arcadico che vuole soppiantare il cattivo gusto del barocco)[8],
ma vuole anche portare sulla scena la verità del mondo reale[9].
Dunque vanno eliminate le maschere tradizionali e vanno rappresentati gli
individui concreti, con i loro caratteri unici, colti nella loro
complessità psicologica e comportamentale. Tali caratteri individuali non
sono concepiti in astratto, al di fuori del mondo realmente esistente, ma sono
visti nel concreto e preciso contesto sociale (nell’“ambiente”)
cui appartengono[10].
Pertanto è impropria la distinzione, che alcuni fanno, fra commedie di
“carattere” e commedie di “ambiente”: i due aspetti coesistono, perché sempre
un carattere è collocato in un preciso ambiente e sempre un ambiente determina
i caratteri individuali.
La riforma richiede inoltre che la
recitazione non sia più improvvisata, ma si basi su un preciso testo scritto:
la ricchezza di sfumature della realtà vissuta poteva essere colta e
rappresentata (il “mondo” poteva essere portato nel “teatro”)
solo se lo scrittore (il “poeta di teatro”) produceva un copione
dettagliato cui l’attore doveva attenersi fedelmente.
Tutto ciò incontrò in un primo tempo la
resistenza sia degli attori (abituati ai modi della commedia dell’arte), sia
del pubblico, sconcertato dal realismo delle commedie goldoniane
in cui non trovava più gli intrighi complicati che lo avvincevano, le maschere
che riconosceva e i lazzi che lo divertivano. Ma Goldoni ebbe l’intelligenza di
procedere gradualmente, superando a poco a poco le resistenze e conquistando i
gusti del pubblico.
La prima tappa è il Momolo
cortesan (1738)[11],
in cui solo la parte del protagonista è interamente scritta. Del 1743
è La donna di garbo, interamente scritta, ma ancora con le
maschere (anche se, sotto la maschera, si intravede già il carattere
individuale: Pantalone ha i connotati del mercante veneziano). Con la Pamela
nubile (1750) anche le maschere vengono eliminate e sulla
scena si ritrovano solo personaggi individuali. Con I rusteghi
(1760) scompaiono i servi, figure tipiche della commedia sin dalla
classicità.
In tal modo il pubblico borghese, che si
riconosceva in quell’umanità rappresentata, cominciò ad apprezzare le commedie goldoniane. L’autore però, sapendo di mettere in scena – in
una Venezia dominata da una oligarchia retriva e ostile alle innovazioni – la
denuncia dei vizi della nobiltà, era costretto ad ambientare le sue commedie in
altre città (valga l’esempio de La locandiera – ambientata a Firenze –
in cui la superbia nobiliare, l’attaccamento alle forme esteriori,
l’ostentazione della ricchezza sono attribuite rispettivamente a un cavaliere
pisano, un marchese romagnolo, un conte napoletano).
Per altro, nella visione del mondo
proposta ci sono delle incoerenze, dei ripensamenti: se la celebrazione
delle virtù positive della borghesia mercantile (onesta, laboriosa,
rispettosa degli impegni, a fronte di una nobiltà prepotente e parassitaria) è
evidente nella prima fase (Momolo cortesan, La putta onorata, La buona moglie, La
famiglia dell’antiquario, Il cavaliere e la dama)[12],
assistiamo, in una fase più matura, ad una rappresentazione critica di
quello stesso ceto sociale: il positivo senso dell’economia è visto come
avarizia, al mercante aperto ed illuminato si sostituisce il “rustego”, ottusamente autoritario e incapace di aprirsi
alle esigenze dei tempi. Esemplari sono due opere, I rusteghi
del 1760 e Sior Todero brontolon
del 1762, in cui è messo in scena il conflitto tra donne e giovani da un lato e
vecchi retrivi dall’altro; ma anche nella trilogia della villeggiatura (Le
smanie della villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla
villeggiatura: 1761) la critica si appunta sui difetti di una borghesia che
ha a cuore l’ostentazione della propria ricchezza, anche a prezzo della rovina.[13]
Capolavori sono Le baruffe
chiozzotte (1762: c’è una riscoperta del popolo – sono i pescatori di
Chioggia – cui sono attribuite quelle virtù positive che la borghesia veneziana
aveva dimostrato di non avere; ma la condizione popolare è vista non nella sua
tragicità, ma nelle piccolezze della quotidianità, nelle schermaglie
sentimentali, nei futili pettegolezzi) e La locandiera (1753).
La lingua adottata è la cosiddetta
“lingua italiana” (ovvero quella lingua – semplificata nella sintassi e nel
lessico – che si parlava nella quotidianità da soggetti provenienti da diverse
realtà regionali), arricchita da inserimenti dialettali lombardi e veneziani.[14]
Più ricca e viva è la lingua più specificamente veneziana adottata nelle
commedie in cui Goldoni si rivolge direttamente al pubblico della sua città.
[1] Di qui fuggì in
barca con una compagnia di comici per raggiungere la madre a Chioggia (lo
racconta nelle Memorie).
[2] Fu cacciato dal
collegio Ghislieri per aver composto una satira sulle
donne della città.
[3] Lavora a
contratto per il capocomico Girolamo Medebac, che gli
chiede otto commedie all’anno. Vivere della propria professione di letterato
(tenendo dunque conto del mercato, ovvero dei gusti del pubblico pagante e non
della cerchia ristretta degli intellettuali) è già una grande novità
rispetto alla tradizione.
[4] E’ una classe
sociale vitale anche a Venezia, a dispetto del fato che lì il potere sia
detenuto da una oligarchia aristocratica, tradizionalista e diffidente nei
confronti di ogni innovazione.
[5] Erano dei brevi
interventi comici che si intercalavano - senza alcun nesso con la
vicenda – nel mezzo di una scena. Uno dei più vecchi e più usati, specialmente
nei teatrini di fiera, era che, nel meglio d'una scena amorosa, Arlecchino (o
altro zanni), comparso sul palcoscenico senza un perché al mondo, faceva ampia
provvista di mosche e di pulci e fingeva di mangiarle. Da muti divennero parlanti,
come, p. es., allorché, durante una discussione tempestosa fra i due
"vecchi" (Pantalone e il Dottore), Arlecchino s'avanzava in punta di
piedi e imponeva silenzio, ripetendo esasperantemente
il giuoco quattro, cinque, dieci volte. Naturalmente, non potevano mancare i
"lazzi a due", p. es., tra Brighella e Arlecchino. E infine c'erano i
lunghi e complicati lazzi acrobatici, come, p. es., quando Arlecchino e Mezzettino, legati braccia a braccia e schiena a schiena,
dovevano attingere il cibo da uno stesso piatto posto a terra. Via via si venne creando un repertorio di "lazzi",
che negli scenarî del tempo erano indicati, almeno i più comuni e tradizionali,
col solo titolo ("lazzo dell'orina fresca", "lazzo del piangere
e ridere", "lazzo di frutti e baci", "lazzo di polso, orina
e ricetta", ecc.).
[6] Ogni compagnia
era composta da due Zanni (sono i servi, in genere, uno furbo e uno sciocco;
solitamente, Brighella è il furbo, dello sciocco ci sono molte varianti: lo
sono sia il bergamasco Arlecchino che il napoletano Pulcinella), due vecchi
(detti anche “Magnifici”: in genere, Pantalone, veneziano, e Balanzone, bolognese, detto anche il Dottore, che
sfoggiano, in modo maldestro e ridicolo, la loro erudizione); il Capitano (il
soldato spaccone, ovvero il miles gloriosus di origine plautina; lo sono, ad esempio,
Capitan Spaventa e Scaramuccia); i due innamorati (sono i soli che recitano
senza maschera; possono esserlo Florindo e Rosaura, figlia di Balanzone,
solitamente accompagnata da Colombina, servetta furba e maliziosa).
[7] Un tentativo di
riforma c’era già stato , alla fine del ‘600, ad opera di Luigi Riccoboni, un comico dell’Arte, che si riproponeva di
eliminare sia l’improvvisazione sia le maschere. Si cimentò sia in tragedie che
in commedie, ma non ebbe particolare successo.
[8] La commedia
dell’arte aveva intrecci complicati, difficili da disbrogliare: insisteva su
equivoci, fraintendimenti, paradossi delle vicende.
[9] Lui stesso
nella prefazione alla prima edizione delle sue commedie (1750) dice che per la
sua riforma si è ispirato al “mondo” e al “teatro”, cioè ha inteso sia produrre
testi di efficacia teatrale, che piacciano al pubblico, sia rappresentare il
mondo reale, la società contemporanea, con i suoi problemi e con i suoi
caratteri umani.
[10] Ad esempio (è
un esempio che fa lo stesso Goldoni), la gelosia, pur essendo una passione
comune a tutti gli uomini, si manifesta in modi diversi nei diversi ceti
sociali (il nobile tende a nasconderla, il plebeo tende a darle aperto sfogo).
[11] Più tardi
riscritta con il titolo L’uomo di mondo.
[12]Così il mercante
Anselmo si rivolge al nobile Flaminio ne Il cavaliere e la dama: “Un vil mercante, un uomo plebeo? Se ella sapesse cosa vuol dir
mercante, non parlerebbe così. La mercatura è una professione industriosa, che
è sempre stata ed è anco al dì d'oggi esercitata da
cavalieri di rango molto più di lei. La mercatura è utile al mondo, necessaria
al commercio delle nazioni, e a chi l'esercita onoratamente, come fo io, non si
dice uomo plebeo; ma più plebeo è quegli che per avere ereditato un titolo e
poche terre, consuma i giorni nell'ozio e crede che gli sia lecito di
calpestare tutti e di viver di prepotenza. L'uomo vile è quello che non sa
conoscere i suoi doveri, e che volendo a forza d'ingiustizie incensata la sua
superbia, fa altrui conoscere che è nato nobile per accidente, e meritava di
nascer plebeo.”
[13] Questo
passaggio viene interpretato in due modi: 1) Goldoni riflette la crisi che
investe il ceto dei mercanti, a Venezia, nella seconda metà del secolo, una
crisi per cui quel ceto tende a ripiegarsi in se stesso, a sostituire al
dinamismo del commercio il tranquillo investimento terriero, a chiudersi nella
gretta difesa del proprio interesse; 2) dalla visione “ideologica”, e un po’
utopistica, della prima fase si passa ad una visone più realistica, alla presa
d’atto che la borghesia veneziana è ben distante da quel modello ideale che
Goldoni riconosceva nella borghesia inglese e olandese.
[14] Così nel 1757,
nel congedo alla seconda edizione delle commedie: “… io non sono un accademico
della Crusca, ma un poeta comico che ha scritto oer
essere inteso in Toscana, in Lombardia, in Venezia principalmente, e che tutto
il mondo può capire quell’italiano stile di cui mi ho servito….;
e che essendo la commedia un’imitazione delle persone che parlano, più di
quelle che scrivono, mi sono servito del linguaggio più comune, rispetto
all’universale italiano.”