e lequivoco di Dario Fo
I. Ogni volta che presento in classe il Contrasto di Cielo dAlcamo, mi piace leggere ai ragazzi le battute iniziali di quello straordinario pezzo di teatro che è il Mistero buffo, laddove Dario Fo propone un commento anticonformista e provocatorio del testo in questione. Più precisamente, Fo intende dimostrare che il Contrasto di Cielo (o Ciullo, come lui preferisce) dAlcamo (o dal Camo) appartiene a pieno titolo alla cultura popolare, è opera di un giullare che proviene dal popolo e parla al popolo, e solo a causa della mistificazione (più o meno intenzionale) messa in atto dagli studiosi, nonché dalla scuola, lo si ritiene un prodotto della cultura "alta".
Il risultato didattico è, nel complesso, positivo: i ragazzi si divertono, si interessano a quel testo letterario, lo guardano con occhi diversi. E daltra parte, anche chi ha maggior cultura di loro resta affascinato dalla bravura con cui quel grande istrione sembra improvvisamente svelare una verità finora coperta da censure ideologiche e moralismi bigotti.
Ma io invito i ragazzi ad andarci piano, a non abbracciare una tesi per il solo fatto che ci è simpatica, perché ci piacerebbe che fosse così; li invito a valutare in modo scientifico, per quanto possibile, i termini della questione prima di concedere il proprio consenso.
II. Per sostenere il suo punto di vista, Dario Fo fa diverse considerazioni, tutte divertenti, ma non tutte convincenti. In particolare, mi pare che il suo ragionamento si incentri su due argomenti: quello relativo al nome dellautore del Contrasto e quello relativo allistituzione della defensa (o difemsa), evocata dallamante alla quinta strofa.
Cominciamo dallargomento del nome. Riporto qui il passo in questione (1):
Viene quasi sempre citato nei testi di scuola non come Ciullo dAlcamo, ma come Cielo dAlcamo. Attenzione, i lombardi sanno cosa significhi il termine "ciullo": senza voler fare scurrilità, "ciullo" è il sesso maschile. E notate che anche in Sicilia mè capitato, ad Alcamo, di chiedere il significato di "ciullo"... ah ah ah... giù tutti a ridere! Ad ogni modo, tornando alla scuola, vi rendete conto che questo termine deve essere subito modificato, medicato, portato via, e naturalmente il professore dice: "Cè un errore". Infatti noti ricercatori hanno fatto carte false per indicare unaltra lettura. Non potevano accettare un soprannome del genere, altrimenti si tratterebbe indubbiamente di un giullare, in quanto quasi tutti i giullari hanno soprannomi piuttosto pesantucci.... Dunque, non si può dire "ciullo". Non si può, in una scuola come la nostra, dove lipocrisia e la morbosità cominciano fin da quando vai allasilo."
Come è noto, quella del nome è unantica e tormentata questione, ma, per la verità, già felicemente risolta (2). Bisognerà brevemente rimetterci mano, se si vuole stabilire quale fondamento abbia largomentare di Fo.
Il testo di cui parliamo ci è pervenuto anonimo. Il nome Cielo (dAlcamo o dal Camo che sia) è attribuito allautore da un filologo del 500, Angelo Colocci, il quale evidentemente disponeva di fonti a noi sconosciute; costui, oltre a chiamarlo Cielo nei codici vat. 3793 e vat. 4823, dice nel codice vat. 4817: "Io non trovo alcuno se non cielo dal camo che tanto avanti scrivesse, quale noi chiameremo Celio. Costui dunque fu celebre poeta dopo la ruina de gothi..." . Ora, a parte la sua personale idea che Cielo possa corrispondere a Celio (ed a parte anche il riferimento cronologico, per noi generico, alla "ruina de gothi"), è chiaro ed inoppugnabile che Colocci ha trovato (chissà dove), e ci ha tramandato, il nome Cielo. Era un nome che sembrava strano anche a lui, visto che ha sentito il bisogno di proporne, con Celio, una sorta di latinizzazione; si può presumere, invece, che si tratti della forma toscanizzata di un siciliano Celi, a sua volta derivato da Cheli, diminutivo di Michele.
La variante Ciulo nasce nel 600 e non si giustifica se non con una svista, una cattiva lettura, di altri studiosi (Ubaldini prima ed Allacci poi, e il secondo probabilmente influenzato dal primo) che del resto non ebbero altre fonti che le carte del Colocci (3). Tale variante si è poi conservata, ed anzi si è presentata anche nella forma Ciullo, che è sembrata una derivazione da Vincenzo attraverso il suo diminutivo Vincenzullo.
Lidea di Fo che Ciullo sia invece un soprannome osceno affibbiato, come si usava, a un giullare, mi parrebbe acuta e convincente, se si trattasse, appunto, di stabilire etimologia e significato di quel nome; ma quel nome non esiste, almeno per quanto riguarda lautore del Contrasto Rosa fresca aulentissima; nasce come un fraintendimento, abbiamo visto, e per quanto ci possa parere suggestiva lipotesi di una censura per oscenità perpetrata nei confronti di quel nome, essa è fondata sul niente.
Questo, naturalmente, non vuol dire negare che lautore del Contrasto fosse un giullare (anzi, se - per restare alla questione del nome - invece della forma "dAlcamo", che indicherebbe la città siciliana dorigine, si accetta la lettura "dal Camo", lipotesi torna a riproporsi: potrebbe essere un soprannome attribuito, appunto ad un giullare, con riferimento a un certo modo di vestire, essendo il camo un panno) (4); si nega soltanto che lo si possa sostenere con quellargomentazione.
III. Ma senzaltro più rilevante, e rivelatrice, è la questione della defensa. Riporto la strofa del Contrasto che ne è allorigine e, a seguire, il monologo, tratto dal Mistero buffo, in cui Fo la spiega e commenta:
Se i tuoi parenti tròvanmi, e che mi pozzon fare?
Una difensa mèttoci di dumili agostari:
non mi toccàra pàdreto per quanto avere ha n Bari.
Viva lo mperadore, grazi a Deo!
Intendi, bella, quel che ti dico eo? (5)
E il ragazzo risponde sbruffone (non dobbiamo dimenticare che sta recitando il personaggio del ricco aristocratico): "Se i tuoi parenti trovanmi che ti ho appena violentata o che ti sto facendo violenza, e che mi posson fare? Una defensa mettoci di dumili agostari (duemila augustari)" Cosa vuol dire? Laugustario era la moneta di Augusto, inteso Federico II. Infatti siamo nel 1231-32, proprio al tempo in cui in Sicilia governava Federico II di Svevia. Duemila augustari equivalevano, più o meno, a settantacinquemila lire odierne. E che cosa è questa defensa? Fa parte di un gruppo di leggi promulgate a vantaggio dei nobili, dei ricchi, dette "leggi melfitane", volute proprio da Federico II, per permettere un privilegio meraviglioso a difesa della persona degli altolocati. Così, un ricco poteva violentare tranquillamente una ragazza; bastava che nel momento in cui il marito o i parenti scoprivano la cosa, il violentatore estraesse duemila augustari, li stendesse vicino al corpo della ragazza violentata, alzasse le braccia e declamasse: "Viva lo mperadore, grazi a Deo!" Questo era sufficiente a salvarlo. Era come avesse detto: "Arimorta! Attenti a voi! Chi mi tocca verrà subito impiccato". Infatti chi toccava laltolocato che aveva pagato la defensa veniva immediatamente impiccato, sul posto, o un po più in là.
Ecco che la potete immaginare da voi tutta la scena. Grande vantaggio per il violentatore medievale era dato dal fatto che, allora, le tasche non facevano parte dei pantaloni. Erano staccate: erano delle borse che si appendevano alla cintola, il che poteva permettere una condizione vantaggiosissima dellamatore: nudo, ma però con la borsa. Perché, nel caso: "Ah, mio marito!" trac... defensa... op... "Arimorta! Ecco i quattrini!" Naturalmente bisognava avere i soldi contati, è logico, non si può: "Scusi, aspetti un attimo... gli spiccioli!... Ha da cambiarmi per favore?" Subito, subito, lì, veloci! Le madri che sinteressavano della salute dei propri figlioli, una madre nobile naturalmente, e ricca, diceva sempre: "Esci? Hai preso la defensa?" "No, no, vado con gli amici..." "Non si sa mai, magari incontri..."
Ah, perché la defensa valeva anche per la violenza a base di coltello. Uno dava una coltellata a un contadino... zac... defensa! Che naturalmente era minore, centocinquanta massimo. Se poi ammazzava lasino insieme al contadino, allora si faceva cifra tonda.
Ad ogni modo questo vi fa capire quale fosse la chiave della "legge" del padrone: la brutalità di una tassa che permetteva di uscire indenni da ogni violenza compiuta da quelli che detenevano il potere. Ecco perché non ce lo spiegano mai questo pezzo a scuola. Mi ricordo che sul mio libro di testo al liceo tutta questa strofa non esisteva, era stata censurata. Su latri testi cera, ma non veniva mai spiegata. Perché? E logico! Per una ragione molto semplice: attraverso questo pezzo si scopre chi ha scritto il testo. Non poteva essere altro che il popolo. Il giullare che si presentava sulla piazza scopriva al popolo quale fosse la sua condizione, condizione di "cornuto e mazziato", come dicono ancora a Napoli: cioè bastonato, oltre che cornuto. Perché questa legge gli imponeva proprio lo sberleffo, oltre che il capestro.
Dunque per Fo non cè dubbio che si tratti di una legge "promulgata a vantaggio dei nobili, dei ricchi", per cui "così, un ricco poteva violentare tranquillamente una ragazza; bastava che nel momento in cui il marito o i parenti scoprivano la cosa, il violentatore estraesse duemila augustari, li stendesse vicino al corpo della ragazza violentata, alzasse le braccia e declamasse: "Viva lo mperadore, grazi a deo!". Questo era sufficiente a salvarlo."
Cè qui un errore di impostazione, frutto di una conoscenza storica approssimativa (e, direi anche, ideologicamente prevenuta).
IV. Le Constitutiones regni Siciliae, o Costituzioni melfitane (così chiamate perché promulgate a Melfi, da Federico II, nel 1231) (6) sono un insieme di leggi evidentemente intese a far valere il potere centrale del monarca e, di contro, a limitare i molteplici poteri locali che minano la forza dello Stato; e questo è vero in particolare per quanto riguarda listituto della defensa, di cui si tratta ai titoli XVI-XIX del primo libro di dette Costituzioni (7).
Di che si tratta? Limperatore, dopo aver notato che spesso la potenza dellaggressore è talmente soverchiante (in tantum supereminere) che laggredito, per quanto abbia buon diritto a difendersi, di fatto è costretto a subire laggressione, conclude: "presentis legis auctoritate cuilibet licentiam impartimur ut adversus aggressorem suum per invocationem nostri nominis se defendat, eidemque ex parti imperiali prohibeat ut ipsum offendere de cetero non presumat" (8); e cioè, a chiunque (anche Giudeo o Saraceno, dirà più oltre (9): si noti quindi la volontà di tutelare le categorie deboli) è data facoltà di difendersi invocando il nome dellimperatore; quellinvocazione avrebbe avuto leffetto di interrompere laggressione, giacché, altrimenti, sarebbe stata considerata unaggressione contro la persona stessa dellimperatore. Si aggiunge poi che, nelleventualità di violazione della defensa, il caso sarà sottratto alla giurisdizione locale e portato davanti ai tribunali del re ("de istis defensis... etiam per privatas personas indictis... magister justitiarius et justitiarii nostri cognoscant") (10).
Mi pare che questi elementi siano sufficienti a farci capire che, con listituto della defensa, Federico II, lungi dal voler rafforzare privilegi nobiliari, intende limitarli (e del resto gli è ben chiaro che proprio su tale limitazione si può fondare lautorità superiore dello Stato, secondo le linee di una politica da lui sempre perseguita); intende difendere il diritto di chi, altrimenti, dovrebbe subire il sopruso di un potente-prepotente (questo è infatti il comportamento che si vuol punire: la prepotenza di colui la cui "potentia" "superminet"); e per meglio garantirsi dalla possibilità che il potente-prepotente si faccia dar ragione da giudici locali compiacenti, avoca a sé il potere di dirimere la controversia (11). Che la defensa vada quindi collocata entro questo quadro (antitetico a quello disegnato da Fo) mi pare indubitabile; e tale doveva sembrare anche ai contemporanei, se Marino da Caramanico, un glossatore che opera attorno al 1275, così scrive commentando il titolo XVI delle Costituzioni melfitane: "Et per hanc constitutionem succurrit Imperator debilibus, qui sepe a potentibus opprimuntur" (12).
V. Ma cè dellaltro. Seguendo la sua interpretazione (secondo cui la defensa sarebbe uno strumento di sopraffazione dei ricchi nei confronti dei poveri), Fo si serve dellesempio della violenza sessuale che il potente avrebbe potuto compiere, sicuro dellimpunità, semplicemente pagando la defensa (e cioè, una multa): in altre parole, Fo crede che nei versi in questione lamante, millantando la propria ricchezza, si dichiari disposto a pagare la defensa (ed indica la cifra che si può permettere: duemila augustali) pur di compiere violenza sulla ragazza (13). Al contrario, invece, dal testo mi pare inequivocabile che i duemila augustali costituiscano la cifra che, una volta che lamante abbia "imposto" la defensa, i parenti di lei dovrebbero pagare nel caso in cui lo aggredissero (non si spiega, altrimenti, il verso "non mi toccàra pàdreto per quanto avere ha n Bari", e cioè: non mi toccherebbe tuo padre per quante ricchezze egli abbia in Bari) (14). Ed infatti, il titolo XVIII delle Melfitane sembra proprio far riferimento a due tipi di defensa: uno "semplice" (licet ex parte nostra, nulla etiam quantitate adiecta, defensa simpliciter imponatur), che sarebbe il caso normale e comporterebbe per il trasgressore la perdita di un terzo o di un quarto dei propri beni a seconda che abbia commesso laggressione con le armi o senza le armi; e un altro, che sarebbe il nostro caso, con indicazione della multa da pagare in caso di violazione (sub quacumque quantitate) (15).
Dunque lamante indica come multa la somma di duemila augustali. Che si tratti di una "sbruffonata" non cè dubbio, perché duemila augustali sono una cifra rilevantissima (16); ma fa parte del "gioco": come lei fa la preziosa, vantando un rango sociale che certamente non ha (si vedano i versi 27: "Donna mi so di perperi, dauro massamotino"; 46: "se distinata fosseti, caderìa de laltezze"; 86-87: "di quel frutto non abbero conti né cabalieri / molto lo disiarono marchesi e justizieri") così lui, con quella cifra spropositata, intende vantare il valore della propria persona, quasi a dire: chi mi tocca, non pensi di cavarsela con due soldi. Del resto lo stesso appellarsi alla defensa, in questo contesto, non è una cosa seria, ma piuttosto la minaccia scherzosa di un innamorato che vuole raggiungere il suo obiettivo: mancano infatti i tre testimoni (o più), degni di fede e di buona reputazione, che la legge richiede perché la violazione della defensa sia provata e quindi punita (tres testes aut plures ad probandam defensam impositam et contemptam) (17).
Ma malgrado il tono scherzoso, è evidente che linnamorato fa riferimento alla defensa come ad una legge che lo tutela - grazie allimperatore e "grazi a Deo" - da eventuali aggressioni (dei parenti di lei); non come ad una legge di cui servirsi per commettere lui, impunemente, un atto di violenza sessuale. Anche perché - e questo mi pare un argomento decisivo, che toglie fondamento a tutta lesemplificazione di Fo sul violentatore che andava in giro con in tasca, o in borsa, i soldi per pagare la defensa - le stesse Costituzioni melfitane comminavano la pena capitale ai colpevoli del reato di stupro (nei confronti non solo delle donne oneste, ma anche delle meretrici: ut nullus eas compellat invitas sue satisfacere voluntati) (18): altro che defensa con cui cavarsela a buon mercato! Cera da rimetterci la pelle. Sarebbero bastati dei testimoni che avessero trovato il reo in atteggiamento inequivocabile (in ipsis venereis actibus invenerint accusatos) per legittimare una giustizia rapida e sommaria (nobis etiam inconsultis, capitali pene subiaceant) (19); e i testimoni dovevano accorrere, perché anche per loro era prevista una pena (pecuniaria) nel caso che non portassero soccorso a una donna che invocava aiuto (20).
VI. Si deve concludere che lassunto di Fo (lautore del Contrasto è un giullare, vera e propria voce e coscienza del popolo, altrimenti costretto al silenzio) è infondato? A me pare ovvio concludere che certamente non sono buoni gli argomenti usati dallautore-attore del Mistero buffo: né da quelle congetture sul nome né dalle considerazioni sulla defensa si può dedurre il carattere popolare del nostro testo. Ed anche: il fatto che i due protagonisti del Contrasto siano dei popolani e che tutta la vicenda abbia un carattere schiettamente popolaresco (si pensi alla conclusione, così poco "cortese": "A lo letto ne gimo a la bonora"), nulla dice sullautore e sul pubblico destinatario del componimento: non è certo anomalo, nella storia della letteratura, che un autore colto si diverta a rappresentare, per un pubblico altrettanto colto, personaggi, ambienti e situazioni popolari.
La questione, piuttosto, andrà affrontata con gli strumenti dellanalisi linguistica. E allora bisognerà riconoscere, onestamente, che quel testo è linguisticamente ambiguo, non ci sono elementi tali che possano far decidere definitivamente per una tesi piuttosto che per laltra.
E vero che Dante, nel De vulgari eloquentia, cita il Contrasto come esempio di un volgare siciliano proprio non degli scrittori colti ma degli abitanti di media condizione (secundum quod prodit a terrigenis mediocribus) (21); ma cita non a caso il terzo verso ("tragemi deste focora, se teste a boluntate"), perché evidentemente si rendeva conto che i primi due ("Rosa fresca aulentissima, capari inver la state, / le donne ti disiano, pulzell e maritate") erano esempio di una lingua colta, non certo dialettale.
Questa sorta di dualismo linguistico è rintracciabile nellintero componimento: parole ed espressioni che appartengono alla lirica colta (si pensi solo alla sovrabbondanza di francesismi) si mescolano con parole ed espressioni chiaramente popolari, sia per crudezza realistica sia per i tratti marcatamente dialettali (22); e qualcosa di simile si può dire anche per il metro, sulla cui origine e natura - colta o popolare? - molto si è discusso. Sono dati incontestabili, confermati dagli studi più recenti e più accurati, ai quali rinvio (23).
A me piace far notare, a mo di esempio, come lamante alterni formule, non solo linguisticamente ma anche concettualmente, cortesi, in quanto rimandano alla dottrina del vassallaggio damore, che vuole lesaltazione della dama e la sottomissione del cavaliere (5 "madonna mia", 65 "sovrana di meve te prese"), ad altre che contraddicono seccamente i principi di quella dottrina, in quanto rovesciano la posizione delluomo rispetto alla donna (32-33 "lomo... lha in sua podesta", 55 "besognè chio ti tenga al meo dimino").
Tale dualismo, secondo alcuni, dimostrerebbe proprio la letterarietà del componimento, e quindi anche lappartenenza del poeta ad ambienti culturalmente e socialmente elevati: costui conosce gli stilemi "cortesi", padroneggia sapientemente la materia poetica, e solo parodisticamente si compiace di usare volgarità di lingua e di pensiero (24).
A me pare invece che altrettanto fondatamente si possa sostenere il contrario: un "mestierante" di poesia, quale era il giullare, per quanto incolto, poteva benissimo avere orecchiato i modi della lirica aulica, e servirsene, in un contesto tuttaltro che aulico quale quello del Contrasto, magari con intenzioni parodistiche.
O forse ha ragione Pagliaro che riconosce, sì, la matrice giullaresca del componimento (25), ma ne individua il tono dominante in una sorta di "medietas" linguistica (e così si recupererebbe anche il significato di quel riferimento di Dante ai "terrigenae mediocres") propria di un ceto socialmente e culturalmente intermedio fra laristocrazia della corte e il popolo della piazza (26).
Questi, allincirca, i termini della questione. E prenderne atto con fatica e pazienza, dico ai ragazzi, invece di tentare avventurose scorciatoie, è sempre il modo migliore per avvicinarsi alla verità.
Marcello Tartaglia
Articolo pubblicato su "Cultura e scuola"
Anno XXXIII, n. 129 (gennaio-marzo 1994)
NOTE
(8) Const. I, XVI, De defensis imponendis et quis eas imponere possit (p. 17).
(9) Const. I, XVIII, De defensis impositis et contemptis et de pena contemnentium ipsas (p. 22).
(10) Const. I, XVII, De defensis impositis ab officialibus, et pena defense (p. 20).
(15) Const. I, XVIII, De defensis impositis et contemptis et de pena contemnentium ipsas (p. 20).
(18) Const. I, XXI, De violentia meretricibus illata (p. 23).
(19) Const. I, XXII, De raptoribus virginum vel viduarum (p. 25).
(20) Const. I, XXIII, Si quis mulieri violentiam patienti et clamanti non succurrerit (pp. 25-26).
(21) De vulgari eloquentia, I, xii, 6.
(26) A. PAGLIARO, Poesia giullaresca e poesia popolare, op. cit., pp. 202-207.