Carducci
1835 - Nasce in
Versilia (Val di castello, LU); ma la
terra della sua infanzia è la Maremma, ove vive dal 1839 al 1849, in quanto
la famiglia si era trasferita a Bolgheri (il
padre era medico condotto: coinvolto nei moti carbonari del 1831, era stato
condannato a un anno di carcere e ad uno di domicilio coatto);
1849-59
- è a Firenze, dove studia e si laurea (in Filosofia e Filologia); fonda la “Società
degli Amici Pedanti”, all’insegna della restaurazione del classicismo e
contro quel “mollichiccio e tenerume, più
degno invero d’un popolo di eunuchi che non di robusti e dignitosi italiani”;
1860 - aderisce alla
massoneria; è nominato professore di Eloquenza Italiana all’università
di Bologna; terrà la cattedra fino al 1904 (anche se nel 1868,
a seguito delle sue prese di posizione anticlericali ed antigovernative,
viene sospeso per due mesi dall’insegnamento e dallo stipendio);
1890 - è nominato senatore
del regno (dopo che, nel 1876, era stato candidato repubblicano nel
collegio di Lugo; come causa, si può pensare al mutato atteggiamento della
massoneria nei confronti della monarchia, ma anche alle sue personali simpatie
per la regina Margherita, o più semplicemente al fatto che si nasce incendiari
e si muore pompieri); sostiene la politica coloniale di Crispi;
1906 - ottiene il Nobel;
1907 - muore.
Vive quindi negli anni che vanno dalla
2ª guerra d’indipendenza in poi. Repubblicano e anticlericale,
sente traditi gli ideali mazziniani (popolari) dalla realtà politica post-unitaria;
avversa le soluzioni moderate e monarchiche (ad esempio, circa la questione
romana: polemizza contro il governo, che è incapace di una soluzione
drastica, e che ferma Garibaldi ad Aspromonte e a Mentana).
Di questo clima risentono particolarmente
i Giambi ed Epodi (poesie scritte fra il 1867 e il 1879: il
titolo allude già, con il riferimento ad Archiloco
ed Orazio, alle forme metriche dell’invettiva: e infatti qui C. sfoga le
sue ire contro l’Italietta vile e corrotta del
presente, che ha dimenticato la tensione eroica del Risorgimento, contro
l’oscurantismo della Chiesa e la tirannide papale) e l’Inno a Satana (del
1863, pubblicato nel 1865 con lo pseudonimo di Enotrio
Romano: Satana rappresenta il libero pensiero, e la locomotiva è vista come
la “diabolica” forza del progresso destinata a spazzare via la superstizione
religiosa).
Le prime raccolte (Iuvenilia,
1850-60; Levia gravia, 1861-71) sono poco più che esercizi di
apprendistato poetico (lo “scudiero dei classici” riproduce temi e metri della
grande tradizione italiana, da Dante e Petrarca sino a Monti e Foscolo). La sua
poetica è intransigentemente classica
in due sensi: sul piano dei contenuti, in contrapposizione al
sentimentalismo, ai languori, alla “effeminatezza” della seconda stagione
romantica (ma anche alla rassegnazione cristiana di un Manzoni), la poesia deve
essere “virile”, esprimere una visione della vita operosa, positiva, “solare”[1] e
“sana”[2] (e
il poeta è un “vate” che anima i concittadini, è un “grande artiere”
che forgia spade e scudi per la libertà); sul piano della forma, contro la
poesia flaccida dei moderni, linguisticamente depauperata, contro la eccessiva facilità
espressiva, quel “manzonismo degli stenterelli” che si esercita particolarmente
nel genere, inferiore, del romanzo, la poesia deve recuperare il suo tono alto,
deve essere frutto di un lavoro (metrico e linguistico) faticoso e sapiente.
Più interessanti sono le raccolte Rime
nuove (1861-87), Odi barbare (1877-89), Rime e
ritmi (1887-99: contiene soprattutto grandi odi celebrative, come Piemonte,
Alla città di Ferrara, di un’eloquenza sonora, roboante; sono quelle che
consacrarono C. poeta ufficiale dell’Italia umbertina): si affievolisce
l’impeto polemico e si hanno, accanto a poesie di rievocazione storica -
si tratta di una rievocazione nostalgica, ed “evasiva” rispetto
alla mediocrità del presente, di momenti in cui si esprimono democrazia diretta
e grande tensione ideale: particolarmente della Roma repubblicana, come
in Dinanzi alle terme di Caracalla, Nell’annuale
della fondazione di Roma, Alle fonti del Clitumno;
del Medio Evo comunale, come in Il comune rustico, Faida di comune (o
nella Canzone di Legnano, che però sta a sé); della fase eroica della Rivoluzione
francese, come nei dodici sonetti di Ça
ira - poesie di ripiegamento interiore, ove emergono momenti di
sconforto, tedio esistenziale (Alla stazione in un mattino di autunno:
in questo caso si può parlare addirittura dello “spleen” baudelairiano),
angoscia per l’incombere della morte (Nevicata), memoria struggente
degli anni dell’infanzia e della giovinezza (Traversando la maremma toscana,
Davanti San Guido, Idillio maremmano).
[1]L’atmosfera di
piena luminosità (meridiana) è propria di tante poesie: si pensi, ad es., al Comune
rustico o, per contrasto, ad Alla stazione in un mattino d’autunno
(la cui “diversità” è ben evidenziata da tutta una serie di termini - foschi,
nero, ombre, buio, tenebra, ecc. - che evocano l’oscurità: e la stazione
sembra un regno dei morti, cui si contrappone, nel ricordo, la gioia vitale
associata al “giovine sole di giugno” ).
[2]L’aggettivo è
quanto mai appropriato, se si pensa che Croce lo adottò per indicare in
lui l’ultimo vero poeta, immune dalla “malattia” che incombeva sulla
poesia di fine secolo, e poi di tutto il Novecento (ovviamente, la presunta
“malattia” era nient’altro che l’emergere della nuova sensibilità decadente).
Ma Praz ha mostrato che anche Carducci ne è
contagiato, e si aggrappa a un sogno di sanità classica e pagana solarità solo
per esorcizzare le inquietudini e le angosce che lo assillano.