Il canto I del Furioso

CESARANI -DE FEDERICIS, Il materiale e l’immaginario, IV

Loescher 1979, pp. 1049-1056.

1) Angelica è il principio dinamico passivo (perché con la sua fuga continua mette in moto tutti gli avvenimenti).

2.1) Il meccanismo che domina gli eventi è quello dell’attesa delusa (ovvero, del fallimento dell’obiettivo): Ferraù per quanto riguarda l’elmo, lo stesso e Rinaldo per quanto riguarda Angelica, Rinaldo per Baiardo, Angelica per quel che si attende da Sacripante (un protettore, quando invece costui vuole esserne il seduttore), Sacripante nei riguardi di Angelica (la vuole sedurre, ma deve desistere, disarcionato da Bradamante);

2.2) conseguentemente, i personaggi si adattano a cercare oggetti sostitutivi: fallito l’obiettivo di Angelica, Rinaldo cercherà il cavallo e Ferraù l’elmo; fallito questo obiettivo (perché l’elmo se lo riprenderà il fantasma di Argalìa), cercherà quello di Orlando; Orlando cercherà sempre Angelica, ma troverà "oggetti sostitutivi" (Olimpia, Isabella, alla cui alta idealità, del resto, non corrisponde la realtà del suo desiderio per Angelica, più prosaico e materiale di quanto lui stesso non voglia ammettere).

3) La non realizzazione del desiderio è dunque il motore della storia (ma anche, si direbbe, della vita, secondo il paragone posto da Sacripante fra la rosa e la verginità: la rosa colta non vale più niente; solo ciò che è intatto e inattingibile mantiene vivo il desiderio).

4) La selva è il luogo geografico dell’inchiesta, ovvero è il luogo dell’errore, nel senso che si erra materialmente (si vaga), ma anche concettualmente (si sbaglia: vedi come si sbagliano, nei loro reciproci progetti, Angelica e Sacripante); in tal senso, il palazzo del mago Atlante sarebbe lo specchio fedele della selva: perché lì i cavalieri, prigionieri delle proprie passioni (in definitiva, dell’amore) errano, letteralmente e metaforicamente: inseguono vane apparenze (come capita a chi è vinto dalla "follia" d’amore: la ragione è ottenebrata) (1).

5) L’ ossimoro (presente già nel titolo) è la figura retorica dominante; così la fenomenologia di Angelica è diversa e spesso opposta (prima, agnello inseguito dai lupi, poi astuta calcolatrice con Sacripante); la fedeltà di Orlando è nobile, ma anche ridicola; Sacripante tesse l’elogio della verginità, ma subito dopo dimostra la sua natura di seduttore spregiudicato.

 

La poesia del Furioso

A. ASOR ROSA, Storia della lett. Italiana,

La Nuova Italia, 1985, pp. 177-189.

La vicenda è complicata, ma l’opera unitaria. Da dove si generano la poesia e l’unitarietà? Secondo Croce, dal fatto che Ariosto coglie l’"armonia cosmica". Ma su che cosa si fonda l’armonia? Cioè, su quale visione del mondo? Giacché l’unità della poesia nasce dall’unità del pensiero. Dunque:

1) si tratta di una visione del mondo che rappresenta a pieno il compimento della crisi del trascendente; l’opera è espressione totale dell’immanenza (di passioni e sentimenti umani);

2) altra caratteristica fondamentale ed unitaria è la serenità, come atteggiamento psicologico che non sente dubbi ed obiezioni di tipo trascendente ed introspettivo;

3) la natura umana, nella sua semplicità primordiale (istintiva, corporale), è la protagonista del poema (sono in gioco sentimenti elementari, a-storici, innestati sui sensi: viltà, coraggio, ira, gioia, ecc.); per cui i protagonisti sono tipi unilateralmente caratterizzati, senza complicazioni psicologiche (Angelica-bellezza, Pinabello-tradimento, Gradasso-tracotanza, Alcina-lussuria, ecc.);

4) amore è il sentimento-passione dominante, da cui derivano tutti gli altri (ira, gentilezza, coraggio); è intimamente sensuale (anch’esso innestato sui sensi); può portare alla follia.

Ma è anche il poema della fortuna (o caso): in crisi il trascendente ( e la provvidenza), il mondo è retto dalle passioni umane e dal caso (lo stesso innamoramento, evento fondamentale del vivere, è fortuito) (2). L’ironia ariostesca non è altro che la coscienza del limite di questo regno dell’uomo (3). E la scelta del materiale bretone risponde a questa esigenza: esaltare, sotto l’aspetto del magico, la presenza del caso e quindi la precarietà della condizione umana (magia e prodigio sono comuni; la maga Alcina si scopre vecchia e laida; il potente Atlante è un vecchio tremante).

Ma tutto ciò non è visto drammaticamente: dalla contemplazione (e dalla riflessione scettica) sul destino dell’uomo si può e si deve trarre piacere: è la lezione profondamente edonistica del Furioso.

 

La poesia del Furioso

L. CARETTI, Ariosto e Tasso,

Einaudi 1977 (1961), pp. 28-40.

Le istituzioni cavalleresche sono superate dalla coscienza rinascimentale: Ariosto se ne serve per meglio manifestare la propria concezione del mondo, fatta di accettazione di ogni sentimento e manifestazione umana, ma senza risolversi in qualcuno di essi in particolare (4). Nessun personaggio e nessun sentimento riassumono in sé compiutamente lo spirito dell’opera: i personaggi riflettono soltanto un aspetto tipico della natura umana, non sono mai a "tutto tondo"; la molteplice (infinita) varietà degli aspetti della vita (degli affetti, dei sentimenti umani) è resa non approfondendo la psicologia, ma attraverso la dialettica dei vari personaggi (la loro "intensa vita di relazione"). E’ il mondo che viene rappresentato: tutto e il contrario di tutto (5).

Allora, in che cosa consiste l’unità? Nell’opera di sapiente armonizzazione, tesa ad esprimere la naturale convivenza dei molteplici aspetti, anche contrastanti. Le situazioni non sono mai esasperate, i conflitti cruenti (laceranti) mancano, proprio perché, secondo la visione tipicamente rinascimentale, bisogna rendere l’armonia del mondo, non la sua lacerazione: allora bisogna sopprimere le punte e mostrare l’accordo dei contrari (6).

Pertanto l’azione è l’aspetto dominante e il romanzesco la forma naturale. Lo spazio e il tempo sono aperti, nel senso che non esiste un centro geografico dell’azione (si va dalla terra alla luna), né il tempo ha limiti (ogni avventura non è che un "mulinello" in quel grande fluire narrativo che non comincia col primo verso, né si esaurisce con l’ultimo: in questo senso, si tratta di un’"opera aperta"). L’abilità dell’autore si vede nella capacità di mantenere il controllo di tutto il materiale, lasciando e riprendendo con sapienza, senza mai sbilanciarsi (mantenendo un dosaggio equilibrato).

Anche la lingua è il risultato di un accordo tra opposti: tra il linguaggio popolare regionale e quello aristocratico letterario (toglie i dialettismi eccessivi, ma, tenendo d’occhio il toscano, anche gli inutili latinismi).

 

La fortuna dell’Ariosto

L. CARETTI, Ariosto e Tasso,

Einaudi 1977 (1961), pp. 68-78.

Didimo Chierico, indicando le onde lunghe dell’oceano, esclamava: "Così vien poetando l’Ariosto" ; suggeriva così l’impressione di una libera e felice inventiva narrativa, confermata poi da Foscolo in un saggio specifico (dove Ariosto veniva visto come dominatore del suo materiale, gran conoscitore della natura umana, forgiatore di una lingua naturale ed elegante).

Hegel affiancava l’Ariosto a Cervantes: entrambi intesi come testimonianza storica del dissolversi della cavalleria nella coscienza rinascimentale (e moderna).

De Sanctis si trova contraddetto fra il giudizio storico (per cui conferisce alla poesia ariostesca i limiti attribuiti all’età rinascimentale) e quello di poesia (per cui ritrova nell’opera carica sentimentale, conoscenza del cuore umano, ecc.): questa ambiguità è presente in particolare nelle lezioni zurighesi, perchè nella Storia il giudizio negativo prende il sopravvento.

Il rovesciamento in positivo del giudizio è merito di Croce: quella di Ariosto non è "arte per l’arte", ma vera poesia in quanto contemplazione serena della multiforme vita sentimentale; quello di Ariosto è come l’occhio di Dio che vede l’intero universo e ne rappresenta l’armonia (rappresenta l’armonia cosmica, ovvero quel superiore equilibrio per cui gli aspetti più contrastanti si conciliano): l’ironia (il sorriso) discende da questa consapevolezza; l’operazione è realizzata attraverso una tecnica analoga a quella chiamata "velatura" dai pittori: si ammorbidiscono le punte estreme, si smorzano gli eccessi, come in pittura si "velano" i toni dei colori. Il giudizio era acuto ma prescindeva dalle condizioni storiche, parlava di quell’opera come della poesia in assoluto, cui perviene, al di là della storia, un individuo eccezionale.

Nel senso di un recupero dell’ambientazione culturale si è mossa la critica moderna: secondo Binni, quella poesia è il risultato delle idee estetiche dell’Umanesimo e del Rinascimento; l’armonia riprodotta è il "ritmo vitale" cui s’abbandona con piacere l’uomo del Rinascimento; sentito come "armonico" perché si tratta del mondo idealizzato dal neo-platonismo (perché quella filosofia ha elaborato l’ideale dell’armonia): e dunque il Furioso è insieme rappresentazione del mondo e sua idealizzazione (naturalismo e platonismo si fondono).

Quindi le Satire non vanno emarginate come documento biografico, ma valorizzate come ulteriore momento dell’affermazione della poetica del "cor sereno".

 

Ariosto e i limiti della ragione

M. SANTORO, Letture ariostesche,

Liguori 1975, pp. 54-80.

"Ecco il giudicio uman come spesso erra!". Questo verso (Furioso I, 7: il narratore interviene così a commentare il fatto che Orlando abbia dovuto rinunciare ad Angelica proprio in Francia, in mezzo agli amici, laddove meno se lo sarebbe aspettato) è emblematico della concezione del mondo presente nel poema: si afferma la fallacia del giudizio umano (ovvero, si mostra il limite della capacità conoscitiva umana) sempre suggestionato dall’ "apparire", e quindi non in grado di conoscere l’ "essere".

L’uomo del Rinascimento, che si è affidato alla "virtù", alla ragione, nella temperie del rapido evolversi delle vicende politiche, sperimenta non solo la labilità della propria condizione, ma anche la difficoltà di attingere ad una verità oggettiva: scopre la relatività del giudizio umano. Ed ecco che "credere", "stimare", "parere" sono verbi ricorrenti nel Furioso, opera emblematica del Rinascimento.

Così Ruggiero, per quanto ammaestrato da Astolfo, si lascia ingannare dall’apparenza, ovvero dalla bellezza di Alcina. Così Sacripante "crede" di poter possedere Angelica, ma l’arrivo di Bradamante vanifica il suo disegno (e del resto Angelica "crede" di trovare il suo salvatore e trova invece il suo seduttore).

Più significativamente ancora, si veda l’episodio di Angelica e l’eremita: lei è ingannata dall’ "apparire" del frate (non conosce il suo "essere"); ma, più ancora, lui dimostra di non conoscere se stesso quando, vanamente, cerca di portare a termine la conquista amorosa.

 

Gli interventi del narratore

M. SANTORO, L’anello di Angelica,

Federico & Ardia, 1983, pp. 11-44.

La gran moltitudine di vicende del Furioso non è mai caotica, ma sempre dominata dalla sapienza artistica dell’autore, che interviene continuamente, sia per dipanare i fili delle diverse storie (per guidarci nell’intrico in cui rischieremmo di perderci), sia per riflettere sulle vicende narrate. Tali interventi (all’interno e alla fine dei canti, ma frequenti soprattutto negli esordi), si possono distinguere in due tipi: di regia e di tipo ideologico-riflessivo.

Sono interventi di regia quelli di interruzione e di ripresa delle diverse vicende: sono attuati al fine di dilettare con la varietà ("Ma perché varie fila e varie tele / uopo mi son, che tutte ordire intendo, / lascio Rinaldo e l’agitata prua, / e torno a dir di Bradamante sua."); di non stancare con una sola storia ("Ma troppo lungo è ormai, Signor, il canto / e forse ch’anco l’ascoltar vi grava; / sì ch’io differirò l’istoria mia / in altro tempo che più grata sia."); di creare suspance ("e finalmente un cavalier per via, / che prigione era tratto, riscontraro. / Chi fosse, dirò poi; ch’or me ne svia / tal, di chi udir non vi sarà men caro." ) (7).

Gli interventi di tipo riflessivo-ideologico concernono diversi aspetti del mondo contemporaneo: il comportamento cortigiano e la vita di corte (torna soprattutto il motivo polemico, già presente nelle Satire, contro l’adulazione, il "carrierismo", ecc.; ma c’è anche l’esaltazione di valori quali l’amicizia, la fedeltà al signore e alla parola data, l’onore); la violenza e la guerra (sembra presente la stessa lucida consapevolezza di Machiavelli e Guicciardini sulla condizione precaria dell’Italia dal 1494, sulla durezza di una simile "realtà effettuale"; ne conseguono la condanna della guerra e l’aspirazione alla pace: XIV, 1-27; XVI, 17-89; XVII, 1-16).

Tali interventi sono anche l’occasione in cui l’autore esprime il suo punto di vista (meta-storico) sulla condizione umana: ad esempio sulla pazzia umana, di cui lui stesso si dichiara vittima (e non solo nel proemio: è il motivo centrale del poema, ampiamente svolto nell’episodio di Astolfo sulla luna); sulla condizione femminile (si parla di filoginia dell’Ariosto; le donne sono le destinatarie privilegiate del Furioso cosiccome lo erano state del Decameron ; alle donne più volte ci si rivolge negli esordi - XIII, XX, XXII, XXVI, XXVIII, XXIX, XXX, XXXVII, ecc. - per riconoscere la loro sensibilità, a favore della parità dei sessi, contro la violenza nei loro confronti).

 

L’ottava ariostesca

L. BLASUCCI, Studi su Dante e Ariosto,

Ricciardi 1969, pp. 77 e sgg..

La spaziosa architettura di certe ottave ariostesche ricorda certi periodi boccacceschi di largo respiro (8): la caratteristica (nell’un caso e nell’altro) è una sorta di parabola ad arco, prima ascendente e poi discendente, simile ad onde che salgono e poi precipitano (9). Si potrebbe dire che la sintassi boccaccesca viene imbrigliata dall’ottava ariostesca in moduli metrici proporzionati: il risultato è quello di un’armoniosa coincidenza tra movimento logico e movimento ritmico: uno snodarsi del discorso in volute larghe e regolate, e un precipitarsi vittorioso verso la conclusione finale. Stando così le cose, se ne conclude che la vera originalità dello stile ariostesco consiste nella fusione della sintassi narrativa di tipo boccaccesco con la proporzione lirica petrarchesca.

Esemplare l’ottava 18 del canto I ("Poi che s’affaticar gran pezzo invano / i duo guerrier per por l’un l’altro sotto, / quando non meno era con l’arme in mano / questo di quel, né quel di questo dotto; / fu primiero il signor di Montalbano, / ch’al cavallier di Spagna fece motto, / sì come quel c’ha nel cor tanto fuoco, / che tutto n’arde e non ritrova loco." ): un’ampia voluta ipotattica occupa la prima quartina; la seconda quartina sblocca e scioglie la situazione; analizzando ancor più accuratamente, le unità logico-ritmiche appaiono individuabili nei quattro distici.

Lo schema più comune è quello 4 + 4, con pausa marcata al quarto verso; ma frequente è anche il 4 + 2 + 2, con ulteriore pausa al sesto verso, che prepara lo scatto del distico finale. C’è anche lo schema 6 + 2 (quello rilevato, a torto, da De Robertis, come dominante), che equivale ad una "tesi" (tempo debole, di abbassamento della voce) prolungata cui fa seguito una "arsi" (tempo forte, di innalzamento della voce) stretta e scattante. Statisticamente non irrilevante la suddivisone dell’ottava nei quattro distici (schema 2 + 2 + 2 + 2) (10).

 

NOTE

1) Suggerisco che il palazzo sia il luogo non dell’inganno, ma della verità: il fatto che gli oggetti del desiderio lì scompaiano, svela la inconsistenza degli stessi; fuori di lì, nella selva, ovvero nel mondo, gli oggetti "illusori" ricompaiono e continuano ad esercitare la loro attrazione non razionale sui cavalieri; i quali invece, nel castello, sono invitati a guardare in faccia la realtà di quella illusione; ma non ne sono capaci, perché le passioni continuano a vincere sulla ragione. Dunque, sotto forma di apparenza illusoria il palazzo rappresenterebbe la realtà vera (quella che, nella vita, non riusciamo a riconoscere); mentre la realtà vera fuori del palazzo (nella vita) non sarebbe altro che apparenza illusoria.
2) La contrapposizione virtù-fortuna è tipica del Rinascimento (cfr. Machiavelli): e del resto l’alternarsi delle vicende politiche non può non emergere come coscienza della irriducibilità di quella antinomia.
3) Da Caretti (La poesia del Furioso, in Ariosto e Tasso, cit.) l'ironia è intesa come strumento per realizzare l’effetto di straniamento: impedire al lettore di identificarsi con personaggi e situazioni e fargli capire che si tratta (si discute della) realtà presente.
4) Mentre Boiardo idealizza, con nostalgia, quel mondo, in Ariosto si tratta di una "finzione letteraria consapevole, attraverso cui esaltare la varietà della natura umana" (v. M.I., 4, pp. 1023-24)
5) In Cesarani-De Federicis (M.I., 4, pp. 1025-28) si rileva che, se ciò che conta è la molteplicità degli atteggiamenti, i personaggi non possono essere valutati secondo il metro della coerenza; anzi, ciò che li caratterizza è la incostanza, o non consequenzialità dei comportamenti (vedi l’atteggiamento di Angelica o quello di Sacripante nel canto I).
6) Un tocco di eleganza (o di ironia) interviene sempre ad addolcire situazioni potenzialmente tragiche; ad esempio, così si descrive Zerbino ferito: "Le lucid’arme il caldo sangue irriga / per sino al pié di rubiconda riga. / Così talor un bel purpureo nastro / ho veduto partir tela d’argento..."; o Orlando pazzo: "uno ne piglia e del capo lo scema / con la facilità che torria alcuno / da l’arbor pome, o vago fior dal pruno.".
7) E’ stato osservato che l’ordine con cui l’Ariosto governa la sua caotica materia è lo stesso ordine con cui Guicciardini nella Storia d’Italia dispone e controlla la grande confusione di eventi e protagonisti di quegli anni turbinosi.
8) Si veda, ad es., nella novella di Andreuccio: "La giovane, che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza della sua vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quegli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse e donde, e che quivi facesse, e come il conoscesse..."
9) Una simile immagine ricorda quella usata da Didimo Chierico per definire il modo narrativo dell’Ariosto (v. scheda La fortuna dell'Ariosto).
10) Calvino (nell’Introduzione all’Orlando furioso raccontato da I. Calvino, Einaudi 1970, pp. XXIV-XXVI) nota l’effetto particolare (dal colto al popolare, dall’evocativo al comico) dato dall’incontro della rima alternata (di tradizione colta) con la rima baciata (di tradizione popolare).