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La storia della bicicletta La storia della F.C.I


LA STORIA DELLA BICICLETTA


COM'E' NATA LA FEDERAZIONE CICLISTICA ITALIANA



A dare vita all’Unione Velocipedistica Italiana furono le Società.


La prima società italiana con regolare statuto fu il Veloce Club Fiorentino di Firenze che depositò l’atto di costituzione il giorno 15 gennaio 1870. Nello stesso anno, il 17 marzo, venne fondato a Milano il Veloce Club Milano. Un censimento fatto alla fine del mese di agosto del 1884 consentì di stabilire che le società regolarmente costituite erano le seguenti:

1 Veloce Club Fiorentino, Firenze (15 gennaio 1870).

Presidente Gustave Langlade, segretario Alessandro De Sariette;

2 Veloce Club Milano, Milano (17 marzo 1870).

Presidente ing. Angelo Genolini, segretario dott. Mauro Sormanni;

3 Veloce Club Torino, Torino (1875)

Presidente Agostino Biglione di Viarigi, segretario avv. Augusto Brignone;

4 Veloce Club Bresciano, Brescia (1875).

Presidente avv. Baresani, segretario Alfonso Pastori;

5 Sezione Velocipedisti della Società Ginnastica C. Colombo, Genova (1876)

Presidente Gino Puzzo, segretario Carlo Costaguta;

6 Veloce Club Alessandria (1876);

7 Circolo Velocipedisti Milano, Milano (1882).

Presidente Emilio Martinetti, segretario Luigi Ballerio;

8 Veloce Club Torinese, Torino (1882).

Sorto su iniziativa di Giovanni Agnelli e Roberto Biscaretti di Rufia;

9 Veloce Club Roma, Roma (1882).

Presidente Domenico Volpi, segretario Cesare Panfili;

10 Veloce Club Verona, Verona (1883).

Presidente dott. Marco Buselli, segretario Gaetano Giacomini;

11 Circolo Velocipedistico Treviso, Treviso (1883).

Presidente Ugo Mazzolini, segretario Luigi Bana;

12 Circolo Velocipedistico, Siena (1883).

Presidente Riccardo Zanetti;

13 Circolo Velocipedistico, Cerea (1883).

Presidente Francesco Oliviero, segretario Pericle Lanza;

14 Veloce Club Biella, Biella (1884).

Presidente Ernesto Nessi, segretario Ettore Mola;

15 Veloce Club Romano, Roma (1884).

Presidente Giorgio Aubey, segretario Cesare Panfili;

16 Circolo Velocipedistico Padova, Padova (1884).

Presidente Domenico Volpi, segretario Gaetano Giacomini;

17 Veloce Club Ligure, Genova (1884).

Presidente Dante Rebisso, segretario Cesare Buttolo;

18 Società Incremento Corse Velocipedistiche, Milano (1884)

Presidente Carlo Ciocca, segretario Francesco Fasoli;

19 Veloce Club Mantova, Mantova (1884).

Presidente Ottorino Bregna, segretario Antonio Gozzi;

20 Velo Sport Roma, Roma (1884).

Presidente Emilio Valente, segretario Carlo Sassoli;

21 Circolo Velocipedistico, Torino (1884).

Presidente Alfredo Cabrini;

22 Sez.Velocipedistica della Società Ginnastica Sebastiano Fenzi, Livorno(1884).

Presidente Alberto Servi;

23 Società Velocipedistica, Pisa (1884).

Presidente Pietro Feroci;

24 Società Velocipedistica Santhià, Santhià (1884);

25 Circolo Dilettanti Velocipedisti. Vicenza (1884).

Presidente Giovanni Franceschini.

Molte le iniziative delle società. Merita evidenza l’attività del Veloce CIub Torinese. A creare il sodalizio avevano provveduto Giovanni Agnelli, il conte Biscaretti di Rufia, Umberto Dogliotti, Alessandro Abbove, Edoardo Crosa, Cesare GoriaGatti, Eufenio Strada, Vincenzo FenoglioEnrici. E volendo distinguersi, il Veloce Club Torinese, oltre ad organizzare corse, si rese promotore di quattro iniziative che contribuirono a migliorare il movimento ciclistico nazionale. Si deve infatti al Veloce Club Torinese la costruzione della prima pista italiana, la creazione del primo giornale italiano di ciclismo "La Rivista Velocipedistica", l’organizzazione del primo campionato italiano e anche l’idea di fondare l’Unione Velocipedistica Italiana. Un’altra società che diede particolare impulso al movimento ciclistico fu il Circolo Velocipedisti Alessandrino, creato nel 1886 da Carlo Cavanenghi, dopo che nel 1882 era stato sciolto il sodalizio in seguito ai litigi scoppiati tra alcuni soci. Ci fu infatti un periodo in cui Alessandria fu la vera e propria culla del ciclismo italiano.

Erano undici le nazioni che nel 1884 avevano già costituito Unioni Ciclistiche Nazionali, Federazioni o Leghe Velocipedistiche. Le elenchiamo rispettando l’anno di nascita:
1880 - Inghilterra: National Cyclist Union;
1881 - Francia: Unione Vélocipédique de France; Danimarca: Dansk Ciclye Club; Olanda: Algemeine Nederland- sche Wietrijder Bond;
1882 - Canada: Canadien Wheelmen Associa- tion; Irlanda: Irisch Ciclyst Association;
1883 - Belgio: Ligue Vélocipédique Belge; America del Nord: Leaugue of Ameri- can Wheelmen; Svizzera: Union Cycli- ste Suisse; Austria: Unione Velocipedistica Austriaca;
1884 - Germania: Radfahrer Bund.

Nello stesso 1884, a pensare in Italia alla creazione di un Ente Nazionale o di una Unione Velocipedistica fu il segretario del Veloce Club Torino, l’avvocato Gustavo Brignone, il quale preparò anche uno statuto che doveva consentire all’Ente Nazionale di disciplinare l’attività piuttosto disordinata che svolgevano le 25 società esistenti in Italia, quasi sempre in polemica tra loro.

L’avvocato Brignone approfittò delle gare velocipedistiche allestite dal Comitato Sportivo della Esposizione Generale Italiana di Torino, in programma dal 23 al 25 agosto 1884, per riunire i rappresentanti delle società italiane allo scopo di creare questo Ente Nazionale. La riunione si svolse in via Perrone 4, in un locale messo a disposizione dal comune di Torino e vi presero parte i delegati delle dodici seguenti società:
1 - Veloce Club Milano, Milano: Federico Johnson (8 voti);
2 - Veloce Club Torino, Torino: Agostino Biglione (8 voti);
3 - Veloce Club Roma, Roma: Giorgio Aubey ( 8 voti);
4 - Sezione Ciclistica della Società Ginnastica Cristoforo Colombo, Genova: Geo Davidson (8 voti);
5 - Ciclo Velocipedisti, Milano: Emilio Martinetti (7 voti);
6 - Società Incoraggiamento Corse Velocipedistiche, Milano: Carlo Ciocca (5 voti);
7 - Veloce Club Verona, Verona: Marco Buselli (6 voti);
8 - Veloce Club Ligure, Genova: Dante Rebisso (2 voti);
9 - Circolo Velocipedistico, Cerea di Verona: Riccardo Zanetti (2 voti);
10 - Circolo Velocipedisti Fiorentini, Firenze: barone Alessandro De Sariette (1 voto);
11 - Circolo Velocipedistico Padovano, Padova: Giuseppe Pio Berti (1 voto);
12 - Veloce Club, Biella: Francesco Olivero (1voto).

Ad illustrare lo statuto furono il conte Agostino Biglione di Viarigi e l’avvocato Brignone. Nonostante la chiarezza di esposizione dei due oratori, la discussione che ne seguì risultò lunga e snervante, specialmente quando venne affrontato il problema del professionismo.
La polemica tra il delegato del Veloce Club Milano e il delegato del Veloce Club Roma fu aspra, e quando venne approvato l’articolo che definiva professionista "colui che si serviva della bicicletta per ottenere guadagni", il dirigente romano abbandonò per protesta il luogo della riunione. Alla fine i delegati firmarono un verbale che precisava tra l’altro che "il 26 agosto 1884 era stata fondata l’Unione Velocipedistica Italiana".

Nuove discussioni divamparono al momento della scelta della sede e per accontentare tutti, ma specialmente i delegati torinesi, venne deciso di mettere il problema ai voti. I voti furono 45 e non 55, come era stato annunciato in apertura di riunione. Milano ne ottenne 33, contro i 10 di Torino e i 2 di Roma. Gli sconfitti accolsero il risultato brontolando e risultò esatta l’intuizione di quanti predissero che quest’Unione Velocipedistica Italiana non avrebbe mai funzionato.

A dividere le società di Milano da quelle di Torino ci fu un antagonismo esasperato e nessuna iniziativa venne presa dall’ente che doveva dare invece un indirizzo generale alle società. In pratica, l’U.V.I. era stata fondata ma non esisteva perché non funzionava. E proprio per questo, all’inizio del mese di agosto del 1885, il nobile Ernesto Nessi, presidente del Veloce Club Como, pensò alla creazione di un Veloce Club Nazionale, con sezioni (o comitati) sul tipo di quelli creati dal Club Alpino Italiano.

Il 30 agosto e il 1º settembre dello stesso 1885, si riunirono a Como, in una sala del casinò, i rappresentanti di quindici società e tutti durante il convegno sotto la presidenza del Nessi si dichiararono d’accordo sulla necessità di riunire le società italiane sotto la bandiera di una Unione Velocipedistica che funzionasse rispettando uno statuto e un regolamento che non potessero più far nascere polemiche. E venne indetto un congresso per i giorni 6 e 7 dicembre del medesimo anno a Pavia, capoluogo di provincia della regione Lombardia situato a una trentina di chilometri da Milano. Il congresso di Pavia fu presieduto da Ernesto Nessi assistito dal presidente del Veloce Club Pavia, Archimede Griziotti. Vi parteciparono i delegati di diciassette società. Lo statuto e il regolamento fatti dall’avvocato Brignone per la riunione dell’anno precedente a Torino, furono nuovamente discussi per evitare polemiche che inevitabilmente avrebbero compromesso l’esito del congresso modificati e alla fine approvati. All’Unione Velocipedistica Italiana non potevano però appartenere più delegati della medesima società. Indipendentemente dal numero dei soci, infatti, il nuovo statuto ammetteva, come membro dell’U.V.I., un solo dirigente al quale era consentito, in sede congressuale, di proporre eventuali modifiche da apportare allo statuto o al regolamento. Si volle evitare che per una ragione qualsiasi due delegati della medesima società la pensassero diversamente in sede congressuale e intralciassero il funzionamento dell’ente: le eventuali beghe dovevano essere discusse e risolte in sede sociale.

Per compilare lo statuto e il regolamento che già erano stati oggetto di discussioni e polemiche alla riunione del 1884 a Torino, gli estensori si erano rifatti alle norme che regolavano l’attività in Inghilterra, Francia e Germania.

Il presidente dell’Unione Velocipedistica Italiana che uscì dal congresso di Pavia fu Ernesto Nessi, il maggior animatore del momento. L’avvocato Edoardo Coopmans de Yoldi fu scelto come segretario e Como diventò la sede del massimo ente ciclistico nazionale. Per dimostrare che l’U.V.I. esisteva davvero ed era decisa a operare, venne fatto confezionare un lussuoso stendardo di velluto blu ricamato in oro e una stella d’argento come distintivo. Al centro un ricamo ben chiaro precisava l’anno di creazione dell’ente:: 1885.

Dopo un anno di presidenza, durante il quale riuscì a risolvere situazioni che avevano minacciato sfaceli, Ernesto Nessi in occasione del 1° congresso che ebbe luogo a Como nel 1886 rassegnò le dimissioni, nonostante il parere contrario di alcuni dirigenti che avevano fatto in tempo ad apprezzare le sue qualità di dirigente imparziale. Una volta di più furono i delegati torinesi a creare il malcontento. Al posto di Nessi, venne nominato Agostino Biglione di Viarigi il quale volle come segretario, e non poteva essere diversamente dati i precedenti, l’avvocato Gustavo Brignone: uomo scrupoloso, appassionato di ciclismo più di quanto lo fossero altri che pure non nascondevano grosse ambizioni. La prima decisione fu di trasferire la sede da Como a Torino.

I più pensarono che l’U.V.I. a Torino sarebbe nuovamente naufragata, invece le richieste di affiliazione si moltiplicarono, così come aumentarono le domande dei corridori che volevano essere in possesso della licenza che dava diritto a partecipare alle gare. E si andò avanti a gonfie vele fino al 1894, anno che risultò fatale, forse il più nero della storia dell’Unione Velocipedistica Italiana.

Avvenne difatti che in giugno alcuni dissidenti (parte dei quali avevano molto apprezzato l’opera di Ernesto Nessi) aderirono all’invito di Carlo Citterio, un ragioniere di Milano che rappresentava nel capoluogo lombardo il Cycling Touring di Londra. E durante una colazione ad Arona (era l’epoca in cui quasi tutte le decisioni venivano prese davanti a tavole imbandite) venne deciso di creare il Touring Club anche in Italia. Apriti cielo!
I rappresentanti dell’U.V.I. si infuriarono perché fra coloro che l’8 novembre 1894, presso la sede della Società Ciclistica La Milano, fondarono il Touring Club Ciclistico vi erano Ernesto e Achille Nessi, Vittorio Bertarelli e Federico Johnson.
A questo punto l’U.V.I. accettò la guerra dichiarata dal T.C.C.I. che mirava a far svolgere una attività turistica ricreativa e destinò la maggiore parte dei propri introiti al cicloturismo, istituendo consolati, commissioni varie e allestendo convegni durante i quali venivano distribuite guide turistiche e pubblicazioni varie.
Trascurare l’attività agonistica fu un grosso errore perché i più noti campioni di allora (Pasta, Buni, Genta, Ruscelli, Cantù, Greco, Dani, Arturo e Giuseppe Nuvolari, Bixio, Pontecchi, Momo, Pasini) non poterono ottenere aiuti per disputare le più importanti gare all’estero, gare che conferivano prestigio ed erano determinanti per il costante sviluppo del ciclismo in Italia.

Allarmati per quanto stava accadendo e per evitare il totale fallimento, i dirigenti delle società, riuniti a congresso nel 1896 a Verona, votarono la decisione di abbandonare il cicloturismo e liquidare le pesantissime passività. Un anno più tardi, nonostante le economie fatte secondo le delibere congressuali, le casse dell’Unione erano all’asciutto. Più che mai preoccupati in seguito anche alla creazione di un sindacato corridori che sembrava deciso a staccarsi dall’U.V.I. allo scopo di rilanciare l’attività agonistica, i dirigenti delle società reclamarono la convocazione di un congresso straordinario. Il congresso si svolse a Genova e il comitato direttivo dell’Unione non poteva non presentarsi dimissionario.

Durante il tumultuoso congresso, ci fu chi propose la liquidazione dell’Unione. La proposta venne respinta a larga maggioranza e tutti si dichiararono alla fine d’accordo sulla assoluta necessità di voltare pagina ed eleggere nuovi dirigenti, disposti ad ignorare le beghe personali e i trascorsi di questo o quel dirigente che erano passati al Touring Club Ciclistico Italiano. Come presidente venne nominato Arturo Cortesi, un ragioniere di larghe vedute che pensava ad una conduzione manageriale. Per dare un nuovo assetto finanziario all’U.V.I., Cortesi provvide ad azzerare la situazione liquidando le pratiche inevase allo scopo di non creare difficoltà ai nuovi dirigenti. Cortesi si occupò difatti della sola parte amministrativa, mentre a regolare la parte sportiva vennero chiamati il cavaliere Carlo Cavanenghi e il geometra Bruzzone, rispettivamente presidente e segretario del Circolo Velocipedisti Alessandrino.

Soddisfatti, i corridori sciolsero il sindacato e l’Unione Velocipedistica Italiana si affiliò all’International Cyclist Association. Un rappresentante italiano presenziò al congresso delle Unione Velocipedistiche che si svolse a Vienna e fu questo l’inizio di una attività sempre più intensa. Il gradimento per quanto stava accadendo le società lo manifestarono in occasione del congresso nazionale svoltosi nel mese di dicembre del 1898 ad Alessandria, al termine del quale Cavanenghi venne nominato presidente, mentre Carlo Michel e Pilade Carozzi furono eletti vice presidenti, Mario Bruzzone segretario, Aristide Leali cassiere, Cesare Leali e Paolo Barbieri consiglieri. Il nuovo comitato direttivo venne affiancato dalla "Gazzetta dello Sport". Il comitato direttivo dall’Unione, d’accordo con le società, era difatti giunto alla conclusione che soltanto con l’appoggio di un giornale come "La Gazzetta dello Sport" era possibile dare un nuovo, decisivo impulso all’attività. E l’importanza di questo impulso venne riconosciuta nel 1900, anno in cui i dirigenti delle federazioni di Belgio, Francia, Italia, Stati Uniti d’America e Svizzera presero la decisione di staccarsi dalla International Cyclist Association che troppi errori aveva commesso, ostinandosi a non volerne riconoscere alcuno.

Creata l’Union Cyclist International, la città di Alessandria venne scelta come sede perché a ricoprire la carica di segretario era stato chiamato il geometra Mario Bruzzone. l’Italia meritava altro e Pilade Carozzi venne in seguito nominato vice presidente. I due dirigenti italiani contribuirono in misura determinante all’affermazione dell’Unione Ciclistica Internazionale e quando i delegati delle nazioni si riunirono per decidere a chi assegnare i campionati del mondo del 1902, non esitarono a scegliere l’Italia. E le sfide su pista (non esistevano ancora i mondiali della strada) ebbero luogo a Roma, sull’ellisse del velodromo di Porta Salaria, alla presenza di Vittorio Emanuele III che donò un orologio d’oro con insegne reali e brillanti. Il successo della manifestazione fu tale che l’Unione Velocipedistica Italiana venne indicata come federazione modello.

Nel 1905 il prezioso Bruzzone diede le dimissioni da segretario dell’U.C.I. e da segretario dell’U.V.I. e la sede dell’ente internazionale fu trasferita a Parigi. L’incarico di segretario dell’Unione fu affidato ad un altro alessandrino, Ernesto Bobbio. E una volta di più il comitato direttivo riconobbe alla "Gazzetta dello Sport" il merito di una nuova irresistibile spinta con la creazione di tre manifestazioni che aumentarono il prestigio del ciclismo italiano nel mondo: Giro di Lombardia (1905), Milano Sanremo (1907), Giro d’Italia (1909),

Sotto la guida della coppia Cavanenghi Bobbio, l’U.V.I. progredì sensibilmente e in occasione del 25º anno di attività presentò un quadro giudicato esaltante: 294 società affiliate, 1961 corridori non classificati, 541 dilettanti, 185 professionisti.

Nel 1910, in occasione della festa del venticinquennio le società donarono all’U.V.I. un vessillo tricolore ricamato in oro e Carlo Cavanenghi fu applauditissimo quando rievocò le tappe che favorirono la conquista di successi ritenuti impensati ancora pochi anni prima. Alla salute dell’Unione brindarono anche i "supercritici" e per la prima volta si sentì parlare di fedeltà assoluta al vessillo tricolore, ignorando il cammino che stava facendo il Touring Club Italiano.

All’U.V.I. vennero assegnati i campionati del mondo del 1911 e ad ospitarli per la seconda volta fu Roma, la città eterna, che da un anno disponeva del Velodromo Appio sorto per volere specifico del romano Armando Lori, animatore entusiasta. Nuovo successo organizzativo e nuovi elogi, stavolta anche da parte delle autorità non sportive.

Nel 1912, mentre si preparava ad assistere alle corse di Mantova, cessò di vivere Cavanenghi, considerato il "papà del ciclismo italiano". Per onorare la memoria del dirigente che si era reso promotore di una infinità di iniziative, sempre nell’interesse generale, le società, su proposta dello Sport Club Milano, approvarono l’erezione di una sua effige in marmo da collocare nella sede dell’Unione. Ad assumere la presidenza fu l’avvocato Pietro Robutti il quale rimase in carica fino al mese di febbraio del 1915 quando, ad Alessandria, lui e i suoi collaboratori del comitato direttivo si trovarono in minoranza e rassegnarono le dimissioni. Era successo che in occasione del Giro d’Italia del 1914 l’U.V.I. aveva polemizzato con la "Gazzetta dello Sport" per l’applicazione di alcune norme del regolamento gare e il congresso doveva pronunciarsi per una "condanna" o una "assoluzione" del giornale. Il risultato si rivelò negativo per il comitato direttivo. Ne seguì una gazzarra davvero poco consolante, ma la stragrande maggioranza fu irremovibile.
Geo Davidson, candidato delle società liguri, venne nominato presidente. Luigi Scala diventò segretario e la sede dell’Unione fu trasferita a Genova.

Le società di minoranza sollecitate dalla solita, vivace corrente torinese non si arresero e crearono la Federazione Ciclistica Italiana allo scopo, dissero, di incrementare l’attività dilettantistica. A reggerne le sorti furono chiamati due dirigenti torinesi: il dottor Mario Ostorero (presidente) e l’avvocato Mario Nicola (segretario).

Lo scoppio della prima guerra mondiale bloccò l’attività dell’U.V.I. e della F.C.I.
A fare svolgere gare a Milano, sulla pista del Velodromo Sempione, ci pensò Anteo Carapezzi. A queste prove domenicali vi presero parte i corridori italiani di maggiore fama e alcuni appartenenti a quelle nazioni che non erano impegnate nel conflitto. In altre località della penisola, dove esistevano piste in cemento o in terra battuta, si organizzarono manifestazioni a scopo benefico sotto l’egida del ministro dell’Assistenza Civile e della propaganda interna, eccellenza Ubaldo Comandini. A ideare alcune di queste gare fu Angelo Gardellin, campione di velocità degli anni 1905 e 1913, al quale, negli anni quaranta, spettò il merito di avere pubblicato libri e articoli sulla storia del velocipedismo italiano e mondiale. Le trenta manifestazioni fruttarono la somma di trecentomila lire che venne distribuita alle Istituzioni di Guerra civili e militari di alcune città tra le quali Padova, Bologna, Firenze, Modena, Pistoia, Verona, Forlì, La Spezia, Terni.

Durante la guerra, nel 1916, spirò Luigi Scala e segretario dell’U.V.I. diventò il ragioniere Alfredo Bersani. Fu soltanto alla fine del conflitto che l’Unione Velocipedistica e la Federazione Ciclistica si riconciliarono. E il rilancio fu confortato dai risultati: alle Olimpiadi del 1920 ad Anversa il quartetto azzurro formato da Giorgetti, Ferrario, Carli e Magnani vinse la prova dell’inseguimento. Era nata, per merito dell’U.V.I., quella che gli esperti non esitarono a definire una scuola (e se ne ebbe la conferma quattro anni più tardi, ai Giochi Olimpici di Parigi, quando De Martini, Dinale, Menegazzi e Zucchetti trionfarono nella spettacolare prova dell’inseguimento sulla distanza di quattromila metri).

All’estero si persuasero un po’ tutti che l’Unione Velocipedistica Italiana aveva raggiunto un alto livello organizzativo e tecnico. E quando giunse il momento di assegnare i campionati del mondo del 1926, nessuno esitò: l’Italia li meritava per la terza volta da quando erano stati istituiti. I milanesi Alfredo Corti e Andrea Lattuada si occuparono delle prove di velocità che si svolsero al velodromo del Sempione, mentre il torinese Luigi Bertolino (che doveva diventare, nel 1930, vice presidente dell’U.C.I.) fu a capo del gruppo che ebbe l’incarico di allestire la prova di mezzofondo e il campionato degli stradisti, l’ultimo riservato ai soli dilettanti.

Il 1926 fu l’anno in cui il Comitato Olimpico Nazionale Italiano voluto dal Partito Nazionale Fascista si assunse il compito di nominare i dirigenti delle varie federazioni. I responsabili romani della nuova conduzione sportiva non ebbero dubbi sulla riconferma di Geo Davidson alla presidenza e Alfredo Bersani alla segreteria dell’U.V.I. e Davidson provò la gioia di passare alla storia dell’Unione come il "presidente del trionfo di Andenau". Nel 1927, infatti, si svolse il primo campionato del mondo su strada al quale vennero ammessi i professionisti (in una corsa open con i dilettanti) e la conclusione fu davvero trionfale per il ciclismo azzurro: primo Alfredo Binda, secondo Costante Girardengo, terzo Domenico Piemontesi, quarto Gaetano Belloni. Benito Mussolini dedicò un capitolo di un suo discorso a questa affermazione che aveva esaltato anche coloro che di ciclismo non si occupavano assiduamente.

Notevole fu la sorpresa ma nessuno osò polemizzare quando il C.O.N.I. affidò la presidenza all’onorevole Torrusio (che dal ’28 al ’30 ricoprì anche la carica di vice presidente dell’U.C.I.) il quale volle al fianco come segretario Augusto Mignani. La sede dell’Unione venne portata a Milano. A Geo Davidson le società dimostrarono la loro simpatia offrendogli un album con migliaia di firme di dirigenti e di ciclisti di ogni parte d’Italia.

Con il trasferimento delle sedi di tutte le federazioni a Roma (1929), il C.O,N.I. affidò la conduzione dell’U.V.I. al commissario straordinario onorevole Augusto Turati. Fiutato il malcontento che serpeggiava in tutte le regioni, nonostante l’ordine fosse di ubbidire, il C.O.N.I. nominò nel 1930 un nuovo presidente (onorevole Alberto Garelli) e un nuovo segretario (Vittorio Spositi, che doveva diventare uno scrittore di cose ciclistiche).

A ridonare euforia all’ambiente federale ci pensarono Binda e Martano che in Belgio, a Liegi, si aggiudicarono i titoli mondiali dei professionisti e dei dilettanti. Ma se in Italia l’entusiasmo tornò alle stelle, all’estero non mancarono le lamentele, specialmente da parte delle nazioni nordiche. I trionfi dei nostri corridori ai campionati del mondo destarono molto invidia e suggerirono ai delegati di alcune federazioni di mettere in discussione la formula della svolgimento della prova iridata. Scartata l’idea di far disputare il campionato del mondo in più prove, venne approvata la proposta dei rappresentanti scandinavi che puntavano sul mondiale a cronometro. E la soddisfazione di avere ottenuto quello che volevano, sciolse la lingua ad alcuni dirigenti: "Gli italiani hanno finito di dominare grazie ai dislivelli e a una formula favorevole. Adesso dovranno fare i conti con i re del passo e le loro tattiche non serviranno a niente".

I capi dell’Unione Velocipedistica Italiana ignorarono le provocazioni un po’ perchè Roma (così si diceva allora, alludendo alle disposizioni che i gerarchi del C.O.N.I. impartivano) voleva così, un po’ perché in Italia c’era un certo Learco Guerra che gli esperti consi

' deravano una vera e propria "locomotiva umana" perché in pianura andava come il vento. E fu il mantovano Guerra a sbalordire i tecnici battendo tutti con facilità. L’idea che l’italiano potesse dominare la scena per anni spaventò un po’ tutti e si tornò in fretta alla formula della prova individuale libera.

L’Unione Velocipedistica Italiana ottenne nuovamente di fare svolgere i campionati del mondo a Roma. L’U.V.I. fece costruire dalla carpenteria Bonfiglio di Milano (spendendo quattrocentomila lire) una pista in legno che venne montata al centro dello Stadio Nazionale (la stessa pista venne poi portata allo stadio-velodromo Vigorelli di Milano). E fu su questo anello che il belga Jeff Scherens, noto come "il gatto magico", conquistò il primo dei suoi sette titoli mondiali della velocità professionisti. Binda, lui, si aggiudicò il terzo titolo mondiale su strada, dopo quelli vinti nel ’27 ad Adenau e nel ’30 a Liegi. Martano fu per la seconda volta campione dei dilettanti, stabilendo un primato uguagliato dall’australiano Hobin (’49 e ’50) e dal tedesco orientale Schur (’58 e ’59).

L’esito organizzativo, spettacolare, tecnico e di pubblico del campionato del mondo a Roma fu tale che il Re e Benito Mussolini fecero pervenire le loro felicitazioni ai dirigenti dell’U.V.I. E il fatto, piuttosto insolito, indusse i dirigenti delle società a pensare che per anni l’Unione sarebbe stata nelle mani degli stessi dirigenti. Invece, nel settembre del 1933, il C.O.N.I. nominò presidente dell’U.V.I. l’ex campione Federico Momo, diventato grande ufficiale, al quale venne affiancato, nella qualità di segretario, Mario Ferretti. Momo godeva di molto prestigio anche all’estero e fu vice presidente dell’U.C.I. dal ’34 al ’40. Sotto la presidenza di Momo, ai posti chiave delle regioni e delle commissioni tecniche e organizzative vennero chiamati, con il beneplacito del partito fascista, elementi che "non avevano grilli in testa" e ci sapevano fare. E l’Unione camminò con speditezza verso nuovi importanti traguardi. Momo rimase in carica fino al 1937, anno in cui il C.O,N.I. affidò la presidenza al generale Franco Antonelli (Mario Ferretti fu riconfermato segretario).

Tramite la Federciclo, il C.O.N.I. fece pressioni (l’ordine era venuto dalla segreteria del partito fascista, qualcuno disse addirittura che a impartire la disposizione fosse stato Mussolini) affinché Gino Bartali disertasse il Giro d’Italia del 1938 per potersi dedicare completamente al Tour de France. Era difatti l’epoca in cui gli esperti ritenevano impossibile vincere il Tour dopo avere disputato il Giro da grande protagonista. E Bartali, sia pure a malincuore, disse no al Giro e andò a vincere il primo dei suoi due Tours, agli ordini di Costante Girardengo che aveva avuto l’incarico dalla Federazione Ciclistica di dirigere la squadra nazionale.

La situazione politica in Europa continuò a peggiorare, ma l’Unione Ciclistica Internazionale non modificò il programma che prevedeva l’assegnazione dei campionati del mondo all’Italia per il 1939. Come teatri di gara, la Federazione scelse il Velodromo Vigorelli e il circuito varesino delle Tre Valli. Le prove sulla "pista magica" ebbero inizio regolare, nonostante i delegati delle nazioni presenti si mantenessero in costante contatto telefonico con i loro consolati messi in stato d’allarme dai governi dei rispettivi paesi. Le tribune del Vigorelli vennero prese letteralmente d’assalto da un pubblico interessantissimo già alle gare di velocità dilettanti. E quando l’azzurro Astolfi batté l’olandese Derksen nella seconda prova della finale, dopo avere perso la prima, ci furono vere e proprie scene di giubilo, orchestrare dalla regia fascista. Nella gara decisiva la spuntò Derksen, ma ad Astolfi e a Bergomi (sconfitto dal tedesco Purann nella finale per il terzo posto) il pubblico manifestò molta simpatia. La conclusione del torneo degli sprinters avvenne quando già circolava la voce che la guerra era sul punto di scoppiare.

E fu per merito dei dirigenti della Federciclo, i quali seppero muoversi con discrezione per non urtare la suscettibilità dei vari delegati, che anche le gare di velocità, di mezzofondo e d’inseguimento dei professionisti ebbero inizio. Ma quando già si pensava che anche questi titoli sarebbero stati regolarmente assegnati, i rappresentanti di sette nazioni (Francia, Olanda, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Lussemburgo) sollecitarono, per l’ulteriore aggravarsi della situazione europea, una riunione straordinaria dell’Unione Ciclistica Internazionale. E durante questa riunione, avvenuta alle ore 9 del 29 agosto, fu deciso di sospendere le gare considerando validi i risultati acquisiti e rinviarle ad altra data, sempre in Italia, secondo una nuova convocazione che la Federciclo avrebbe dovuto rendere nota nel mese di settembre. Gli eventi impedirono che questi mondiali avessero seguito.

Il campionato dî velocità professionisti era giunto alle finali. E il terzo posto se lo era aggiudicato il tedesco Richter, vincitore in tre prove, sul francese Gérardin. L’olandese Van Vliet e il belga Scherens, in lotta per il titolo, avevano invece disputato una sola prova per la quale non era stata emessa nessuna classifica per una caduta dei due antagonisti e la giuria, constatate le ferite riportate da Scherens, aveva deciso di rinviare le prove per l’assegnazione della maglia iridata (il 6 settembre, a Copenaghen, i due si incontrarono in una manifestazione allestita dalla federazione danese, e Van Vliet vinse il match dopo la ."bella"; si parlò così di Van Vliet come del "campione del mondo ufficioso").

Per le semifinalî dell’inseguimento si erano qualificati Klink (6’20"3 sui cinque chilometri), Aimar (6’26"I), Battesini (6’23") e Somers (6’23" 1). Le tre serie di qualificazioni del campionato degli stayers le avevano vinte Wals, Lohmann e Severgnini. Scoppiò la guerra e il generale Antonelli, presidente della Federazione Ciclistica Italiana, partì per il fronte africano. L’incarico di reggente della Federciclo fu affidato ad Adriano Rodoni che nel ’39 ricopriva l’incarico di responsabile dei dilettanti azzurri della strada. E quando, finalmente, la bufera devastatrice della guerra cessò la Federazione Ciclistica Italiana riprese ad operare su tutto il territorio nazionale.

FEDERAZIONE CICLISTICA ITALIA


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