Analisi e Critica

ANALISI

A questo punto inseriamo dei lavori d'analisi testuale che non vantano i nomi importanti dei critici famosi ma seppur anonimi sono il frutto della nostra "meditazione" durante i compiti in classe d'Italiano. E chissà che fra di noi non ci sia un filologo in erba!

Guido Cavalcanti

Componimento che tratta della particolare angoscia che prende il poeta di fronte a una donna "gentile".

Deh, spiriti miei, quando mi vedete

Deh, spiriti miei, quando mi vedete
con tanta pena, come non mandate
fuor della mente parole adornate
di pianto, dolorose e sbigottite?

Deh, voi vedete che 'l core ha ferite
di sguardo e di piacer e d'umiltate:
deh, i' vi priego che voi 'l consoliate
che son da lui le sue vertú partite.

I' veggo a lüi spirito apparire
alto e gentile e di tanto valore,
che fa le sue virtú tutte fuggire.

Deh, i' vi priego che deggiate dire
e l'alma trista, che parl'in dolore,
com'ella fu e fie sempre d'Amore
.


1. Seguendo il tuo schema d'analisi, analizza la lirica riportata.
2. Si può parlare nel caso di questo testo di un processo di "drammatizzazione del conflitto interiore"?
Se si, perché? Se no, perché?
3. Riferendoti ai testi stilnovistici a te noti, considera se l'immagine della donna e la concezione d'amore cavalcantiana abbia punti di contatto e/o di divergenza con le poetiche di Guinizzelli e di Dante.

1) Guido Cavalcanti è un poeta fiorentino che compone le sue poesie intorno alla fine del '200. Cavalcanti prende parte del nuovo stile poetico che si diffonde a Firenze grazie a poeti come Guinizzelli e che prende il nome di "dolce stil novo", stile innovativo che, al contrario dello stile astruso di Guittone D'Arezzo (poeta di transizione), è uno stile "dolce e leggiadro" dove i composti complicati e di difficile comprensione vengono abbandonati.
Il sonetto preso in considerazione "Deh, spiriti miei, quando mi vedete" è suddiviso in quattro strofe (due quartine e due terzine) di endecasillabi. Nella prima strofa è presente una rima tra il II e il III verso, nella seconda tra il I verso e il IV, tra il II e il III, nella terza strofa tra il I e il III, mentre nell'ultima tra gli ultimi versi della poesia.
Le parole chiave nel componimento sono: "spiriti miei" (I verso), "mente" (III v.), "core" (V v.), "virtù" (XI v.), "alma" (XIII v.), "Amore" (XIV v.).
Il lessico utilizzato è di facile comprensione, non vengono utilizzati arcaismi, sono presenti suoni per lo più dolci, non ci sono infatti suoni aspri ed è evitato lo scontro consonantico.
Non vi è la presenza di figure retoriche se non il paragone.
Cavalcanti nel componimento domanda agli spiriti (veicoli delle proprie emozioni) perché quando lo vedono pieno d'angoscia a causa dell'Amore non fanno uscire dalla sua mente (Cavalcanti attribuisce le varie emozioni ai diversi organi del corpo: la mente rappresenta l'intelligenza e la creazione dei pensieri…) parole tristi, dolorose e sbigottite; li prega che, quando vedono il suo cuore ferito a causa dello sguardo, dalla bellezza e dalla benevolenza, lo consolino perché proprio dal suo cuore queste virtù sono uscite. Cavalcanti vede apparire dal suo cuore uno "spirito" talmente forte che fa fuggire tutte le virtù. Prega gli spiriti di dire che la sua anima triste, che esprime il suo stato di dolore, è stata ed è piena di Amore.
Come si può ben notare dal componimento, Cavalcanti vede il proprio corpo diviso in varie parti (cuore, anima, mente) a cui associa le diverse virtù e sensazioni. Secondo il poeta, all'interno del corpo ci sono gli spiriti che costituiscono i veicoli necessari per esteriorizzare i propri sentimenti ed emozioni.
Cavalcanti vive l'esperienza d'Amore come un'esperienza devastante, che crea nel poeta angoscia e sofferenza.
Nei componimenti di Cavalcanti ricorre costante questa visione angosciosa dell'amore; infatti nella sua opera-manifesto ("Donna me prega"), il poeta rimane trafitto dallo sguardo della donna amata (il suo errore viene trafitto dalle "frecciate" mandate dalla donna gentile).

2) Nel componimento cavalcantiano considerato, possiamo rilevare il processo di "drammatizzazione del conflitto interiore"; infatti, il poeta prega gli "spiriti" di fare da tramite delle proprie emozioni e nella terza strofa possiamo rilevare il predominio di uno "spirito" sugli altri.
Le lotte tra gli "spiriti" interni portano nel poeta un senso di turbamento; creano una situazione conflittuale interna al poeta che gli fa vivere l'esperienza d'amore con angoscia e sofferenza.

3) Al contrario di Guinizzelli e Dante che vedono la donna come una visione miracolosa (vista come un angelo), Cavalcanti è legato soprattutto ad elementi terreni e noi possiamo ritrovare nei suoi componimenti elementi ultraterreni.
L'amore non è visto nello stesso modo: al contrario di Guinizzelli, Cavalcanti lo vive come un'esperienza devastante. Anche Dante per un breve periodo, prima di comporre la sua raccolta poetica intitolata "La vita nuova", influenzato dall'amico Cavalcanti, vivrà l'amore come un'esperienza che crea angoscia nel poeta; Guinizzelli, invece, nel saluto della donna amata ripone tutta la sua felicità.
Un'altra divergenza è la divisione del corpo nelle varie parti, elemento presente solo in Cavalcanti (e in un breve periodo anche in Dante).
Elemento comune degli stilnovisti è la visione spiritualizzata della donna; non ci sono infatti elementi fisici precisi: lo sguardo della donna è visto come il tramite delle emozioni; il poeta rimane "folgorato" dallo sguardo di lei.
Inoltre l'amore è sempre rivolto ad una donna gentile; nello stilnovismo la gentilezza è strettamente legata all'amore (il cosiddetto "saper amare finamente"). La donna è vista anche come un dono di Dio,
perché, secondo i poeti, la sua bellezza non è paragonabile a quella delle altre donne non gentili.

Dante Alighieri

Di donne io vidi una gentile schiera

Di donne io vidi una gentile schiera
questo Ognissanti prossimo passato,
e una ne venia quasi imprimiera,
veggendosi l'Amor dal destro lato.

De gli occhi suoi gittava una lumera,
la qual parëa uno spirito infiammato;
e i' ebbi tanto ardir ch'in la sua cera
guarda', e vidi un angiol figurato.

A chi era degno donava salute
co gli atti suoi quella benigna e piana,
e 'mpiva 'l core a ciascun di vertute.

Credo che de lo ciel fosse soprana,
e venne in terra per nostra salute:
là 'nd'è beata chi l'è prossimana.

1. Seguendo il tuo schema d'analisi, analizza il sonetto riportato.
2. Considera se e in che misura questo componimento rispecchia il modello caratteristico del "dolce stile" e, più particolarmente, confrontalo con le altre rime stilnovistiche a te note.
3. Commenta la seguente affermazione del Marti: "Da una parte l'Intelligenza contribuisce all'ordine cosmologico, muovendo il proprio cielo in ottemperanza alla volontà di Dio; dall'altra la donna-angelo con uguale disinteresse e provvidenzialità contribuisce all'ordine morale, muovendo, anch'essa in ottemperanza alla volontà di Dio, il cuore dell'uomo verso il bene. Il poeta insomma fissa una convergenza di obbedienze, che al suo vertice ha Dio e Dio soltanto;…"

1) Dante Alighieri, "Di donne io vidi una gentile schiera"; sonetto.
Parafrasi: il poeta ha visto un gentile gruppo di donne durante la festa di Ognissanti appena trascorsa e una era venuta quasi per prima, vedendosi l'amor dal lato destro. Dai suoi occhi emanava una luce, la quale pareva uno spirito infiammato; e il poeta dice di aver avuto tanto ardir da guardarle il volto e vi ha visto rappresentato un angelo. Quella donna benigna e dolce con i suoi atti donava il saluto a chi era degno e gli riempiva il cuore di virtù. Il poeta crede che fosse la sovrana del cielo e che fosse venuta sulla terra per la salvezza degli uomini: perciò è beata la persona che le sta vicina.
L'aspetto lessicale e linguistico sono un tipico esempio di dolce stile; le parole utilizzate sono semplici, tutte di uso comune e di facile comprensione; ci sono anche alcune parole chiave: "gentile, lumera, angiol, salute e beata"; tutte parole che richiamano allo stilnovismo; gentile è l'attributo del cuore di chi sa amare, la lumera è la luce simbolo di divinità che porta la donna in quanto è "un angiol", cioè un angelo che porta salute e che è anche salvezza e rende beate le persone a lei vicine perché porta l'innamorato a Dio.
Il periodare è anch'esso semplice, senza troppe inversioni ed enjambements che comunque non sono troppo rimarcati. Le figure retoriche sono poche e semplici, sono solo dei paragoni: "de gli occhi suoi gittava una lumera, la qual parëa un spirito infiammato" e anche "e vidi un angiol figurato". Sono paragoni tra loro legati, che descrivono la natura angelica e divina dello spirito della donna amata.
I temi centrali di tutta la lirica sono dei temi convenzionali, se così si può dire, dello stilnovismo, cioè il tema della natura angelica della donna e quello del saluto della donna che fa da tramite con Dio e dona all'uomo la salvezza. C'è anche un tema minore di derivazione cortese, per il fatto che la donna riempie di virtù, con il saluto, il cuore dell'innamorato. Viene inoltre ribadito il concetto di "élite" capace di amare, che sola è degna d'amore e del saluto della donna e della sua salvezza: è questo un concetto-base dello stilnovismo. Il tema della natura angelica della donna è un tema ricorrente anche nelle liriche precedenti come iperbole letteraria, che nei primi stilnovisti serviva come scappatoia per risolvere il conflitto tra religione e amore terreno, mentre invece in Dante la donna è un angelo vero e proprio che saluta chi è degno; con il suo saluto dona la salvezza e la beatitudine, porta il poeta direttamente a Dio, anche se in questa lirica il poeta si rifà per lo più agli schemi convenzionali; il processo di trasformazione della donna è comunque già in atto.
Il messaggio è quindi portato dal tema stesso e riveste importanza il pubblico capace di amare, unico degno di salvezza.
La lirica potrebbe essere inserita nella prima fase dell'opera stilnovista la "Vita Nuova" di Dante, che è una raccolta delle liriche più significative commentate e legate da una storia in prosa. Nella prima parte si hanno liriche legate al saluto della donna amata e quindi l'amore è concepito come proveniente dall'esterno, l'appagamento amoroso proviene dal saluto della donna; il poeta ama sperando in un contraccambio. È il caso di questa lirica.
Nella seconda fase l'amore non deve più essere contraccambiato col saluto, ma è fine a se stesso e viene dall'interno del poeta tramite la lode alla donna che, nella terza fase, diventa un tramite con Dio che porta con l'amore a ricongiungere il poeta con Dio e quindi la donna è un angelo la cui apparizione è miracolosa.
Guinizzelli e Cavalcanti si erano limitati invece alle prime due fasi, mantenendo l'amore terreno che serviva solo per esprimere l'io del poeta, la sua interiorità, il suo spirito che veniva sconvolto dall'amore. In Guinizzelli c'è ottimismo, ma in Cavalcanti no; l'amore e la donna quindi non portano salvezza.
Essi parlano del saluto e poi della fenomenologia d'amore che li strugge; Dante invece parla del saluto e della salvezza che essa porta.
Il sonetto è un buon esempio di dolce e semplice stile, che risalta meglio così i temi trattati che sono abilmente espressi.
Sebbene Dante si stia staccando dai canoni stilnovisti, presenta ancora tratti convenzionali, quindi la poesia perde originalità, anche se nel medioevo non c'era il concetto di poesie totalmente soggettive.

2) Questo componimento, come considerato già in analisi, rispecchia il modello caratteristico del "dolce stile". Il periodare è semplice, non ci sono parole astruse o difficili artifici retorici: solo semplici paragoni e il lessico semplice e comune, a differenza un poco dallo stile dell'iniziatore Guido Guinizzelli, come è facile capire dal componimento "Al cor gentil rempaira sempre amore", il manifesto di stilnovismo.
Nella poesia guinizzelliana vi è già uno stile più dolce rispetto alla tradizione precedente, ma non ci si è del tutto staccati da essa; la lirica presenta un periodare più complesso e l'uso di figure retoriche continua, anche se si tratta di paragoni, rende un po' più difficile il testo appesantito da difficili contenuti filosofici; è già comunque un componimento stilnovista. Molto più simile a Dante è invece per certi aspetti Cavalcanti come in "Voi che per li occhi mi passaste 'l core", lirica che ha ancora riferimenti ai testi guinizzelliani., ma si stacca dal piano reale per quello astratto del mondo interiore del poeta, lo stile si fa più semplice e dolce. Il periodare è semplice e anche il lessico, diminuiscono i paragoni.
La lirica di Dante è, in base allo stile, più simile a quella cavalcantiana, anche perché Dante aveva cominciato a scrivere secondo lo stilnovismo per influenza dello stesso Cavalcanti, suo amico.

3) Il Marti con la sua affermazione sintetizza i temi degli stilnovisti, la loro concezione del mondo e dell'amore. Così come l'intelligenza divina, cioè la provvidenza, secondo la volontà di Dio muove il cielo secondo l'ordine cosmologico formandolo, così la donna-angelo, cioè emissario di Dio messo della provvidenza, con uguale disinteresse secondo il volere di Dio muove il cuore dell'uomo verso il bene e Dio, formando così l'ordine morale. Il poeta fissa quindi una convergenza di obbedienze provvidenziali con al proprio vertice solo Dio. Questo spiega la natura della donna che è mossa dalla provvidenza; è quindi un angelo che non ha importanza per se stesso, ma come tramite con Dio. È la volontà divina che muove la donna, quindi -amando la donna- può ricongiungersi con Dio, senza però ad un amore terreno. Il vero ed unico amore che porta il cuore al bene è quello per Dio e, per arrivare ad amare solo Dio e ricongiungersi con questi si è aiutati dalla donna-angelo mandata da Dio stesso.
È questa una legge fissa ed immutabile tanto quanto l'ordine cosmologico del mondo e del cielo. Gli stilnovisti, ma soprattutto Dante, si staccano da una concezione di amore terreno per un amore religioso. Rifacendosi anche alle concezioni teologiche elaborate fino ad allora, l'amore passa da un appagamento terreno ed esterno dato dal saluto della donna a un appagamento interiore al proprio spirito, dato dalla lode per la donna-angelo; ne risulta un passaggio dall'amore per la donna-angelo ad un amore per Dio appagato dalla sua contemplazione e adorazione e questo grazie al tramite della donna.
Il poeta, così come dice anche il Marti, fissa un ordine del mondo cosmologico e amoroso che torna ancora alla sola adorazione di Dio; tutto è voluto e in funzione di Dio. L'amore per la donna è solo un passaggio per la salvezza donata dal suo saluto, sta al poeta però comprenderlo e salire a Dio.

1) Il sonetto riportato e una delle numerose composizioni poetiche di Dante Alighieri ha composto come esponente dello stilnovismo.
E composto da quattro strofe, due quartine e due terzine, di endecasillabi a rime alternate.
In questo sonetto Dante racconta di aver visto, durante la festa appena trascorsa d'Ognissanti, una compagnia di donne, tra cui una in particolare, precedendo le altre, ha colpito l'autore.
Nella seconda strofa Dante intraprende una delicata descrizione della donna, evitando i particolari che riportino il discorso poetico in termini di fisicità e di realtà effettiva, evidenziano pero i tratti del viso e l'aspetto degli occhi: le parti del corpo che l'arte dello stil novo spiritualizza e considera chiave di lettura dell'anima.
Egli scrive che gli occhi di lei erano incredibilmente luminosi e la loro luce sembrava uno spirito infiammato, raffigurava cioe l'ardore della sua anima. E stato allora che Dante l'ha ammirata in viso, scambiandola quasi per un angelo.
Nella prima terzina (verso nove), Dante riporta gli effetti che ha avuto la visione della donna su chi l'attorniava. Solo a chi era degno ha concesso un saluto, che nella poetica dello stil novo e simbolo stesso di salvezza spirituale; ella ha riempito il cuore di chiunque l'abbia vista, con benessere e virtu, coraggio.
Nella seconda terzina la spiritualizzazione della donna e completa: l'autore afferma che, da governatrice della volontà celeste, e scesa in terra a portare salvezza a chi fosse stato degno di starle vicino.
Per quanto concerne l'aspetto lessicale e stilistico, va detto sicuramente che il sonetto "Di donne io vidi una gentile schiera", come grandissima parte delle altre composizioni poetiche di Dante, e da riportare agli schemi stilnovistici, secondo i quali sono da rifiutare costruzioni troppo complesse e l'utilizzo di artifici retorici troppo astrusi e di difficile comprensione (sono da evitare riprese dello stile dei rimatori toscani, Guittone in particolare).
Va invece seguita e approfondita la teoria del dolce stil novo, in cui le costruzioni sintattiche sono molto meno complesse anche se assolutamente non trascurate; si fa uso di un lessico ricercato ma del tutto attinente alla sfera dei contenuti stilnovistici, evitando anche e soprattutto mescolanze di termini di lingue differenti, volgari e non.
Lo stile deve essere quindi dolce non necessariamente in qualità di armonicita tra le parole dell' opera, ma secondo un lavoro di composizione che sia ben articolato, comprensibile ed "appianato", sciolto.
Le parole chiave del sonetto sono:
- "gentile", al primo verso, termine che, come spesso si puo riscontrare nelle opere stilnovistiche, precisa la collocazione del sonetto in ambiente realmente nobile (gentile), di natura e d'animo, non di nascita;
- anche la luce (la "lumera" al verso 5) che emanava dagli occhi della donna e un elemento tipiccco della poetica dantesca, cosi come il viso ("la sua cera", verso 7);
- il saluto della donna e un tema ricorrente non solo in Dante con il duplice significato di saluto e salvezza dell'anima (vedi verso 9, "a chi era degno donava salute");
- il termine "piana" al verso 10, inoltre, riporta alla caratteristica principale dello stil novo.
Da notare che al primo verso, l'aggettivo gentile e riferito alla schiera e non alle donne; nel secondo verso e presente una notevole allitterazione della "s".
In questo sonetto Dante sostiene, come ha fatto gia in molte altre composizioni, la teoria dello stilnovo, ponendo la donna come protagonista assoluta, ma che, con la sua spiritualizzazione e perdita di fisicità, si avvicina sempre piu alla sfera divina fino ad identificarsi con Dio e con la salvezza.

2) In "Di donne io vidi una gentile schiera" si possono ancora notare tratti stilistici che si rifanno alla produzione di Guido Guinizzelli, il giurista bolognese, "creatore" del dolce stile, definito "maestro" dallo stesso Dante; c'e ancora una ricorrenza all'elemento del fuoco ("spirito infiammato").
Per il resto Guinizzelli e ancora attaccato a Guittone, da cui prende esempio e ispirazione, in un amore legato ai fini cortesi con l'aspettativa di un prossimo appagamento: e per questo che Dante, nella Divina Commedia, colloca Guinizzelli al purgatorio, nel girone dei lussuriosi. Se quest'ultimo e ancora legato ai tratti fisici della donna e non ha raggiunta la piena coscienza dello stil novo, Cavalcanti, altro stilnovista fiorentino, e consapevole sostenitore della spiritualita e dell'animo solo della donna, della sua interiorità, ma vede il sentimento amoroso come causa di dolore e di distruzione dell'io dell'autore.

3) Come gia detto prima, con lo stilnovo, si giunge ad una concezione dell'amore mai avutasi nelle produzioni letterarie precedenti. Con l'amore dell'ideale cortese si era arrivati ad uno scontro inevitabile con la religione cristiana e con l'immagine della divinita; con gli stilnovisti, ma in piena misura solo con Dante, lo scontro con la religione si dissolve con una sempre crescente spiritualizzazione dell'oggetto del sentimento, con assenza di peccato e con una quasi identificazione della donna con Dio e come visione delle azioni di lei come esternazione della volontà divina.


LA CRITICA: DANTE

La Commedia ebbe immediatamente una straordinaria diffusione, come comprova il numero altissimo di manoscritti attraverso cui il testo ci è stato conservato. Oltre che tra i letterati e i dotti, penetrò anche in ambienti di lettori non specialisti. Questo pubblico poteva essere composto di nobili colti, ma anche di borghesi (mercanti, artigiani): ce lo testimoniano le caratteristiche stesse delle copie (materiali, grafia), ma, indirettamente, anche i moltissimi aneddoti sull'autore che sono stati tramandati da commentatori, biografi, novellieri. Questa "popolarità" della Commedia si può spiegare col fatto che il pubblico borghese e popolare poteva trovare nell'opera la rappresentazione di tutto ciò che costituiva la base della sua cultura, pene e premi dell'aldilà, princìpi religiosi e morali, leggende, ma anche no tizie di fatti e personaggi che avevano occupato la cronaca
del recente passato. La Commedia fu assunta come deposito di saggezza, utilizzata come repertorio di massime e citazioni (un uso che si è protratto sino ai nostri giorni). Larghi tratti erano imparati a memoria. Parallelamente alla trasmissione scritta, vi fu dunque una trasmissione orale dell'opera.
Libro "popolare", fu però anche ammirato dai dotti. Pur avendo scritto il suo capolavoro in volgare, Dante fu as sunto al livello dei classici, degli auctores per eccellenza, i latini. Già nel corso del Trecento fu fatto oggetto di pubbli che letture (la prima fu affidata a Boccaccio, nell'autunno del 1373); se ne fecero compendi in versi, si moltiplicarono per tutto il secolo i commenti (per noi oggi preziosissimi, perché ci testimoniano come l'opera venisse letta da uomini che partecipavano alla stessa cultura dell'autore); si istituirono addirittura cattedre dantesche nelle università.
Tale fortuna non fu però senza contrasti. L'opera dantesca suscitò l'ostilità di avversari politici, andò incontro a divieti e condanne ecclesiastiche (la Monarchia fu bruciata in piazza a Bologna). Suscitò riserve anche presso i dotti: significativamente Petrarca, in una famosa corrispondenza con Boccaccio, limitava la dignità letteraria della Commedia perché era scritta in volgare anziché in latino. Ma il poeta fu difeso appassionatamente da Boccaccio, che ne rivendicava l'altissimo livello culturale, sostenendo che fa ceva risuscitare in volgare la poesia classica.
La diffidenza di Petrarca anticipa l'atteggiamento che sarà proprio del successivo classicismo umanisticorina scimentale. Persino gli umanisti fiorentini del Quattrocento, orgogliosi della tradizione culturale della loro città, che ammiravano in Dante la massima gloria di cui essa potesse vantarsi, non potevano esimersi da pregiudizi riguardo la minor dignità del volgare in confronto al latino. Anche quando nel primo Cinquecento vi sarà la piena ripresa della lingua volgare, Dante resterà parzialmente escluso dalla riabilitazione. La sua lingua infatti, in cui si mescolavano e si urtavano i più vari livelli stilistici, ripugnava al gusto classico dominante, ispirato a principi di armonia e di misura, di rigorosa separazione degli stili. Il supremo arbitro del gusto dell'epoca, Pietro Bembo, il codificatore del linguaggio letterario, testimonia un imbarazzato riconoscimento della grandezza di Dante, ma sceglie come modelli della lingua volgare Petrarca e Boccaccio, più "regolari", immuni dalle scandalose mescolanze dantesche di realtà e stili diversi. Un'altra difficoltà per l'apprezzamento di Dante da parte del classicismo rinascimentale fu costituita dall'imporsi della Poetica aristotelica e della rigida regolamentazione dei generi letterari che su di essa si basava. La Commedia era guardata con sospetto perché non poteva rientrare in nessuno dei generi codificati dalla teoria letteraria dominante.
Anche il secolo successivo, che pure fu percorso da forti tendenze anticlassicistiche, non riuscì ad apprezzare veramente Dante: proprio per la presenza di impulsi innovatori, che inducevano agli arditi sperimentalismi formali del Barocco, Dante fu visto come esempio di rozzezza arcaica e superata. Il ritorno del classicismo nel Settecento, per contro, non favorì certo l'apprezzamento di Dante. Al classicismo dell'Arcadia si univa poi il razionalismo cartesiano, che imponeva il culto di tutto ciò che era semplice, limpido, geometrico: Dante fu perciò considerato poeta rozzo, stravagante, assurdo, oscuro, "gotico", nell'accezione ne gativa che il termine allora possedeva, poiché si guardava con disprezzo al Medio Evo "barbaro". Il giudizio perdurò anche nella successiva epoca illuministica. Il critico che interpreta più compiutamente l'opinione del tempo è il gesuita Saverio Bettinelli, nelle sue Lettere virgiliane (1757), in cui è contenuta una sistematica stroncatura del poema dantesco, in nome di un gusto classicistico e razionalistico: la Commedia è vista come espressione di un rozzo e barbaro Medio Evo, opera stravagante, priva di forma regolare, scritta in uno stile basso e sconveniente. Però, pur in un clima culturale così estraneo, cominciano ad affiorare i sintomi di una nuova lettura di Dante. Già uno dei massimi teorici dell'Arcadia, Gianvincenzo Gravina, riconosce in Dante una fantasia robusta e sublime, la potenza organizzatrice del genio. Ma è soprattutto Giambattista Vico, filosofo cotrocorrente rispetto al razionalismo del primo Settecento, che dà una nuova impostazione alla lettura di Dante, anticipando le interpretazioni romantiche: per lui Dante è l'Omero del Medio Evo, interprete spontaneo di un' età eroica e primitiva; la sua poesia non consiste nel contenuto di dottrina e teologia, ma nell'intensità dei sentimenti e delle passioni. La svolta del gusto, anticipata da Vico, comincia ad affermarsi a fine Settecento, specie in paesi come Germania e Inghilterra, in cui emergevano con violenza tendenze anticlassicistiche e preromantiche: Dante viene allora apprezzato in nome del gusto del primitivo, del mito del "genio" che crea con assoluta spontaneità al di fuori di ogni regola. Per questo viene privilegiato soprattutto il poeta dell'Inferno, vistò come il cantore di un sublime orrido e terrificante, di un'umanità grottesca e tragica. Si fissa anche un 'immagine mitica della persona dell'autore: il poeta solitario, violentemente passionale, crucciato e sdegnoso, in totale conflitto con i tempi.
Con il Romanticismo si ha il rovesciamento radicale del gusto classicistico e la rivalutazione del Medio Evo, il
trionfo dell'amore per il primitivo ed il fantastico; ciò comporta inevitabilmente una nuova maniera di intendere Dan te. I romantici tedeschi insistono sulla contrapposizione della civiltà romantica alla civiltà classica, e ritengono che essa abbia il suo fondamento nel mondo cristiano medievale. Di tale mondo la Commedia è vista come l'opera più rappresentativa; per questo dai fratelli Schlegel, i massimi teorici del Romanticismo tedesco, essa viene considerata opera viva, moderna, "romantica". Il più grande filosofo dell'idealismo tedesco, Friedrich Hegel, coglie un aspetto della Commedia che risulterà poi prezioso per la critica successiva: nell' oltretomba dantesco si proietta il mondo terreno; nell'eternità immutabile del giudizio divino il carattere individuale e concreto del mondo umano non è soppresso o indebolito, anzi, viene potenziato all'estremo (lo spunto sarà poi ripreso da Auerbach). In Inghilterra invece viene elaborata la visione di un Dante titanico e eroico, ribelle, eretico, riformatore religioso e profeta. In Italia, durante il Risorgimento, Dante fu oggetto di un vero e proprio culto e fu visto come incarnazione dello spirito e del genio nazionale. Ciò è evidente soprattutto nel giudizio di un protagonista come Mazzini, che lo considera come il santo di una religione laicoumanitaria e patriotticonazionale.
L'età successiva all'unità, caratterizzata dal trionfo del positivismo, dal culto della scienza e da tendenze culturali
antiromantiche, è soprattutto un periodo di rigorosi studi filologici, intesi a gettar luce, con metodo scientifico e obiettivo, su numerose questioni, dai dati biografici alla tradizione dei testi. Lo studio dell'opera dantesca si frammenta in una miriade di indagini particolari, preziosissime prese in sé, ma che non contribuiscono ad una visione unitaria. Ciò che in parte unifica tutto questo lavoro è uno spirito laico, che, in contrapposizione con l'interpretazione romanti ca, che insisteva sulla fisionomia cristiano-medievale dell'opera dantesca, accentua i caratteri prerinascimentali del poeta, considerandolo come precursore della civiltà moderna.
In questa età si colloca però un grande interprete di Dante, Francesco De Sanctis, che, pur essendo sensibile a istanze positivistiche, ha le sue radici culturali ancora nell'età romantica. Il problema centrale di De Sanctis è la pre senza, nella Commedia, di tutto un peso di dottrina teologica, filosofica e allegorica medievale. È questo il "mondo intenzionale" di Dante, la parte artisticamente negativa. Ma Dante, "poeta suo malgrado", cioè malgrado questo peso di dottrina antipoetica, fa egualmente trionfare la forza geniale della sua passionalità e del suo sentimento. L'individuale e il concreto penetrano nel mondo mistico e astratto del Medio Evo, sostanziandolo di sé. La lettura di De Sanctis, come si vede, è essenzialmente realistica e laica, secondo il gusto tipico del tardo Ottocento, ma al tempo stesso insiste romanticamente sulla forza passionale della poesia dantesca, che spezza tutti gli schemi aridi del suo contesto culturale. Per questo, conseguentemente, l'Inferno è privilegiato nel giudizio rispetto alle altre due cantiche.
Nel Novecento una svolta determinante fu segnata da Benedetto Croce, che col suo libro La poesia di Dante (1921) condizionò decenni di dibattito critico successivo. In nome della contrapposizione "poesia-non poesia", Croce distingue il "romanzo teologico", cioè il complesso della materia dottrinale, teologica, didascalica, morale, politica, allegorica del poema, dalla vera poesia. I momenti "poetici" sono indipendenti da tutta la struttura dottrinale, non scaturiscono da essa, ma solo da abbandoni puramente lirici alle cose e ai sentimenti. Il "romanzo teologico" è sempli cemente una "struttura" esterna, che regge i momenti veramente poetici, ed ha la funzione "dialettica" di farli brillare per contrasto. La lettura di Croce tende dunque a svalutare come "impoetico" tutto ciò che appartiene alla cultura medievale di Dante e a salvare solo ciò che consuona con la sensibilità moderna del critico. Il risultato è che la potente struttura del poema si riduce ad una serie di frammenti lirici autonomi, isolati fra loro. Questo tipo di lettura, negli anni 1renta, influenzò vari commenti, destinati a larga e duratura fortuna nelle scuole, come quelli di Carlo Grabher e di Attilio Momigliano, caratterizzati da un' estetizzante degustazione del particolare, del tono, della sfumatura, della parola.
La critica successiva dovette fare i conti con l'impostazione crociana. Molti critici, di orientamento idealistico, non
fecero che riprendere, sviluppare, precisare, correggere marginalmente l'impostazione del caposcuola. Ma tutta una corrente critica, già negli anni Venti-Quaranta, si sforzò di superare quell'impasse, quel vicolo cieco in cui l'interpretazione dantesca era stata posta dall 'impostazione crociana, che comprometteva una comprensione unitaria del poema ed induceva a rigettarne come "non poetica" una gran parte. L'obiettivo che si imponeva quasi di necessità era ricuperare tutto ciò che Croce aveva svalutato, riconoscendo l'intima coesione della poesia dantesca. In questa direzione si mossero già critici crociani, come Luigi Russo (1946-48), che tendeva ad attenuare la rigida contrapposizione di poesia e non poesia sostenendo che la "struttura" si genera dal seno stesso dell' intuizione poetico-fantastica. Altri, come Giovanni Getto (1947), rivendicavano il valore della "poesia dell 'intelligenza", e rivalutavano una cantica colma di dottrina e di teologia come il Paradiso, in quanto pervasa da un "epos della Grazia". Natalino Sapegno (1963) offriva un'interpretazione in cui l'elemento fantastico e quello didattico-morale erano fusi insieme ed inscindibili, e, nel suo fortunatissimo commento (1955), rifiutava ogni lettura frammentaria ed estetizzante, sforzandosi di collegare sempre ogni particolare con tutta la struttura del poema. Altri ancora, di matrice filologica, come Salvatore Battaglia (1967) e Antonino Pagliaro (1967), liberavano l'allegoria e la dottrina dalla condanna crociana, riconoscendo ne l'intima fusione con la visione dantesca.
Un contributo essenziale al rinnovamento degli studi danteschi è venuto dalle culture straniere, libere dalla "dit tatura" che Croce aveva esercitato sulla cultura italiana per tanti anni. Erich Auerbach (1929 e 1949) dimostra come le concezioni medievali di Dante non siano affatto estranee alla "poesia", come pretendeva Croce, ma ne siano il pre
supposto essenziale: proprio la concezione "figurale" (cfr. il profilo di Dante, § 7.5) sostanzia di sé l'intera Commedia, ed è la base del suo realismo rappresentativo: infatti le anime, come si presentano a Dante, sono l' "adempimento" del la "figura" costituita dalla loro esistenza terrena; e l'essere così fissate nell'eternità del giudizio divino non sopprime affatto i loro tratti individuali e concreti, ma li potenzia all'estremo limite, mettendo in luce i loro tratti essenziali. Quella di Auerbach è una lettura che, a differenza di quella crociana, non sovrappone ai testi danteschi metri di lettura modernizzanti, ma, grazie anche a una straordinaria cultura medievalistica, sa calarsi nel mondo di Dante e interpretarlo dall'interno, ricostruendo il senso che la sua opera aveva per gli uomini del suo tempo. Su una linea affine si colloca la lettura di un insigne studioso americano, Charles Singleton (1957 e 1958), che ricostruisce il significato della Vita nuova, dell'allegoria della Commedia e del viaggio
a Beatrice con riferimenti puntuali a tutta la cultura teologica medievale, fornendo così chiavi di lettura illuminanti. Su questa strada altri apporti interessanti ha offerto recentemente un allievo di Singleton, John Freccero (1986), che vede al centro della Commedia l'esperienza della "conversione", sulla falsariga delle Confessioni di sant' Agostino.
Sempre dalla cultura straniera sono venute preziose in dicazioni per una lettura stilistica della poesia dantesca. A Dante ha dedicato numerosi studi il maestro della critica stilistica, Leo Spitzer, che da minimi particolari dello stile sa risalire alle condizioni di pensiero e sentimento che informano la poesia (1976). Sulla linea dell 'indagine stilistica si muovono gli italiani Mario Fubini, Gianfranco Contini e Emilio Bigi. Alla comprensione del mondo dantesco hanno dato un contributo essenziale gli studi di storia del pensiero filosofico, come quelli di Etienne Gilson e Bruno Nardi (1939 e 1942). Più recentemente Peter Boyde ha studiato la filosofia della natura nell' opera di Dante (1981). Sul pensiero politico hanno dato contributi determinanti Alessandro Passerin d'Entrèves (1955) e Jacques Goudet (1969).
In questi ultimi anni, alla poesia dantesca sono stati applicati i metodi più aggiornati della critica. Gli strumenti semiotici hanno dato una prova eccellente, con gli studi di D'Arco Silvio Avalle (1975), che, comparando episodi danteschi come quelli di Francesca ed Ulisse ad altri testi narrativi e poetici del Medio Evo, ha ricostruito il "modello" generale della narrazione, nelle sue interne articolazioni. Esempi di letture della Commedia attente ai rapporti strutturali interni ha offerto Edoardo Sanguineti (1960 e 1961), che per altri versi ha fornito un 'interessante interpretazio ne dell'opera dantesca in chiave sociologica, proponendo, provocatoriamente, di leggere Dante "come se fosse Balzac": anche Dante, come lo scrittore francese, vede il suo tempo col fiero disdegno del reazionario, e proprio questo gli consente di cogliere in profondità e criticamente le grandi trasformazioni dell' epoca, l' emergere della "gente nova" e dei "subiti guadagni". Apporti meno interessanti ha fornito la critica di ispirazione psicanalitica. Si può segnalare l'opera recente di una studiosa francese, Jacqueline Risset (1982), che ha individuato la funzione del sogno nel Purgatorio, utilizzando non solo Freud, ma lo psicanalista francese Jacques Lacan.
Tra i contributi più recenti si può segnalare quello di GugIielmo Gorni (1990), che ha indagato la complessa funzione svolta all'interno dell'intera opera dantesca dalle lettere, dai nomi e dai numeri, che nella visione del poeta costituiscono i parametri essenziali dell' ordine delle cose e quindi forniscono le forme primarie del conoscere e del rappresentare (a Gorni si deve anche un'originale lettura del primo canto della Commedia, 1995 e un prezioso commento alla Vita nuova, 1996). Su Dante è tornata (1993) anche l'insigne filologa Maria Corti, che sul poeta aveva già dato fondamentali contributi in passato, e che assume la scrittura dantesca come oggetto di una ricerca che conduce al centro della genesi di ogni opera poetica (da ricordare nel volume soprattutto un'innovatrice lettura dell'episodio di Ulisse, nella cui figura, secondo la studiosa, si proietta al legoricamente quella degli aristotelici radicali del XIII secolo, di cui Dante aveva sentito il fascino ma da cui si era staccato polemicamente). Zygmunt G. BaraIiski (1996) insiste invece sullo sperimentalismo dantesco, che rimescola e ripresenta ciò che già esiste in strutture nuove, che solo sino ad un certo punto ricordano generi già in circolazione. Una viva attenzione a Dante si rileva anche in altre culture, in particolare quella statunitense: ne è prova l'ori ginale studio di William Franke (1996), che legge la Commedia con gli strumenti filosofici della moderna ermeneutica, usando Heidegger e Gadamer per illuminarela poesia dantesca come viaggio interpretativo.