At regina gravi iamdudum saucia cura |
Se nel mio animo non stesse fissa e irremovibile la
volontà di non unirmi a nessuno con il vincolo del matrimonio, dopo che il
primo amore mi ha lasciato delusa a seguito della sua morte, se non avessi in
odio il talamo e le fiaccole nuziali, a questa sola colpa avrei potuto
cedere. Anna, lo confesso, dopo la morte del misero sposo Sicheo e i Penati
bagnati di strage fraterna solo costui seppe piegate i sensi e colpire il mio
spirito (ora) che vacilla. Conosco i segni dell'antica fiamma. Ma vorrei che
prima o la terra fin nel suo fondo mi si spalancasse o il padre onnipotente mi
precipitasse con un fulmine tra le ombre (degli Inferi), tra le ombre pallide
e la notte oscura, prima, che, io, o Pudore, ti violi e infranga le tue
leggi. Sicheo, che per primo congiunse me a sé stesso, suscitò i miei
desideri d'amore; Sicheo (mi) abbia con sé e mi protegga dalla tomba". |
Principio delubra adeunt pacemque per aras |
Prima si recano nei templi e implorano la pace sulle are, sacrificano secondo il rito scelte pecore bidenti a Cerere legislatrice, a Febo e al padre Lico, a Giunone prima di tutti che tutela i vincoli nuziali. La bellissima Didone tenendo nella destra una coppa la versa tra le corna di una candida giovenca, o si aggira davanti alle statue degli dei verso i ricchi altari, e rinnova il giorno con doni e, aperto il petto delle vittime, consulta avidamente le viscere palpitanti. O ignare menti dei profeti! Che giovano a lei fuori di sé i voti e i templi? Frattanto una dolce fiamma le divora le midolla e tacita vive la ferita nel cuore. Brucia l'infelice Didone e si aggira folle per tutta la città come una cerva colpita da una freccia che, di lontano, un pastore tra i boschi di Creta colpì, incauta, inseguendola con i dardi e ignaro le lasciò il volatile ferro (la freccia). Lei in fuga attraversa i boschi e le gole di Creta (Dittei), ma la freccia letale è fissa nel fianco. Ora porta con sé Enea all'interno delle mura e ostenta la ricchezza Sidonia e la città in costruzione: inizia a parlare ma si blocca a metà parola. Ora al cader del giorno ripete perduta (folle) gli stessi conviti e di nuovo chiede di ascoltare le pene troiane e di nuovo pende dalle labbra di chi parla; poi una volta partiti e l'oscura Luna a sua volta nasconde il raggio e le stelle che tramontano invitano al sonno, sola si affligge nella casa deserta e si distende sui tappeti abbandonati (da lui); assente ode e vede lui assente; o tiene in grembo Ascanio, rapita dall'immagine del padre, (per vedere) se possa ingannare l'inconfessabile amore. Non si alzano le torri iniziate, la gioventù non si esercita alle armi e non preparano porti o difese sicure per la guerra. Restano sospese le opere interrotte e la gigantesca mole delle mura e le impalcature che eguagliano il cielo. Non appena la cara sposa di Giove si accorge che lei è posseduta da un tale furore e che l'onore non ostacola la follia, la Saturnia con tali parole assale Venere: "Tu e tuo figlio di certo ottenete magnifica gloria e spoglie ampie, grande e memorabile fama, se una sola donna è vinta dall'inganno di due divinità. Di certo non mi inganno che tu hai temuto le nostre (mie) mura, che hai pensato sospette le case di Cartagine alta. Ma quale sarà il termine e dove (giungeremo) con sì grande contesa? Perché piuttosto non stringiamo una pace eterna e patti nuziali? Hai ciò che hai chiesto con tutto il cuore: arde Didone mando e ha tratto il furore nelle ossa. Dunque regniamo su questo popolo in comune con pari auspici, sia consentito che serva un marito Frigio e che consegni i tiri in dote alla tua destra". Così di contro le rispose Venere (capì infatti che aveva parlato con subdola mente, onde portare su Libiche coste il regno d'Italia): "Quale pazzo potrebbe negare tali offerte o preferire combattere in guerra con te? Purché il fato assecondi il fatto che dici. Ma dai fatti sono tratta al dubbio, se Giove desideri che ci sia una sola città per i Tiri e i profughi da Troia, approvi che i popoli si uniscano o che i patti si stringano, tu, sua sposa, pregando puoi tentare il suo animo. Vai avanti: ti seguirò". Allora così ricominciò la regia Giunone: "Con me sarà questa cura, ora ascolta, ti insegnerò con poche parole in che modo si possa fare quel che preme. Enea e insieme Didone infelicissima si preparano ad andare a caccia nel bosco, quando domani il sole avrà diffuso i primi bagliori e avrà rischiarato coi suoi raggi il mondo. Io su di loro riverserò una nera pioggia mista a grandine mentre le schiere corrono qua e là e con le reti cingono le macchie e scuoterò tutto il cielo con il fulmine. I compagni fuggiranno e saranno coperti da una notte opaca. Didone e l'eroe troiano verranno ad una stessa grotta. Io sarò là e, se il tuo consenso è sicuro, li unirò in stabile connubio e la dirò sua; qui sarà l'imeneo. La Citerea che non si oppose a lei che chiedeva annuì e rise per l'inganno scoperto. Frattanto l'Aurora sorgendo lascia l'Oceano. Sorto il sole, la gioventù scelta esce dalle porte; reti a maglia, a laccio, spiedi di largo ferro e cavalieri massili corrono e l'annusante muta dei cani. I principi cartaginesi aspettano presso le porte la regina che indugia nel letto; bello di porpora e d'oro aspetta il cavallo dallo zoccolo sonoro e morde focoso i freni schiumati. Infine esce, accompagandola un grande stuolo, con il mantello sidonio ornato da un orlo ricamato. Ha la faretra d'oro, i capelli annodati dall'oro, una fibbia d'oro le allaccia la veste purpurea. Avanzano anche i compagni Frigi e il lieto Iulo. Lo stesso Enea bellissimo davanti a tutti gli altri si presenta come alleato e unisce le schiere. Quale Apollo quando lascia la Licia invernale e il corso dello Xanto e visita la materna Delo e rinnova le danze e misti intorno agli altari fremono i Cretesi e i Driopi e i dipinti Agatirsi; lui stesso avanza per i gioghi del Cinto, trattiene i capelli fluenti ornandoli di molle fronda e li intreccia nell'oro, risuonano le frecce sugli omeri: non meno fiero di lui andava Enea, tanta maestà splendeva sul nobile volto. Dopo che si giunse sugli alti monto e nei luoghi impervi, ecco le capre selvatiche cacciate dalla cima di una rupe corsero per i gioghi; da un'altra parte i cervi attraversano di corsa le pianure scoperte e si riuniscono in branchi in fuga polverosa (meglio: fuggendo a frotte polverose) e lasciano i monti. E il fanciullo Ascanio in mezzo alle valli gioisce del cavallo veloce, e ora questi ora quelli supera di corsa, e spera nei suoi desideri che gli sia dato un cinghiale schiumante tra (quelle) bestie innocue o che un fulvo leone scenda dal monte. |
Interea magno misceri murmure caelum |
Frattanto il cielo a rimescolarsi con un grande brontolio e viene dopo un temporale misto a grandine, e i compagni Tirii ed i giovani troiani e il discendente di Dardano nipote di Venere si diressero versi diversi ripari per la paura attraverso i campi; l'acqua cade dai monti. Didone e il capo troiano giungono alla stessa grotta. Per prima la Terra e la pronuba Giunone danno un segno; brillarono i fuochi e l'aria testimone dell'amplesso e le ninfe ulularono dalla sommità del monte. Quel giorno per primo fu la casa della morte di Didone, di tante sventure; né infatti Didone si preoccupa dell'apparenza e della fama, né ormai pensa ad un amore nascosto: lo chiama matrimonio, con questo nome copre la colpa. |
Extemplo Libyae magnas it Fama per urbes, |
Subito va la fama per le grandi città dell'Africa, la fama di cui nessun altro male è più veloce, si accresce con il movimento, e andando acquista le forze, prima piccola per il timore, subito si alza sino al cielo e avanza sulla terra e pianta il capo tra le nuvole. La terra madre incitata dall'ira degli dei generò lei per ultima sorella a Ceo ed Encelado, veloce di piedi e di ali nobilissime, come raccontano, prodigio orrendo, immane, che quante piume ha sul corpo tanti occhi vigili ha sotto (mirabile a dirsi), tante lingue, altrettante bocche ripetono, tante orecchie si rizzano. Di notte vola in mezzo tra cielo e terra stridendo nell'ombra, né abbassa le palpebre al dolce sonno; di giorno siede custode o sull'alta cima di un tetto o sulle vette delle torri, e grandi città atterrisce, tanto tenace messaggera di menzogna e di malignità quanto del vero. Questa allora riempiva i popoli di molteplici discorsi esultando e parimenti narrava le cose avvenute e non avvenute; che era venuto Enea, nato da sangue troiano, a cui la bella Didone degna di unirsi come marito; che ora trascorrono l'inverno quanto lungo tra loro in lussurie immemori dei regni e presi da turpe passione. In ogni dove questo la dea brutta sparge tra le bocche degli uomini. Ad un tratto volge il corso verso il re Iarba, ne incendia il cuore con le parole e ne accresce l'ira. Questi nato da Ammone e da Garamantide ninfa rapita cento templi immani a Giove nel vasto regno, cento altari pose e aveva consacrato un inestinguibile fuoco, custode eterno degli dei; con il pingue sangue delle vittime (bagnava) la terra e le soglie fiorenti di variopinte ghirlande. Lui afflitto nell'animo e acceso dall'amara notizia si dice che davanti agli altari tra le statue dfegli dei con le mani levate supplice molto pregò Giove: "Giove onnipotente, cui ora la gente dei Mauri banchettando sui variopinti tappeti liba in tuo onore il vino, vedi questo? Oppure te, padre, quando scagli i fulmini, temiamo invano, e ciechi fuochi tra le nuvole atterriscono gli animi e vani rimbombi li turbano? Una donna, che errando nelle nostre terre pose un'esigua scittà col denaro, cui ho dato terra da arare e le leggi del luogo, ha rifiutato le mie nozze ed ha accolto come padrone Enea nel suo regno. Ed ora quel Paride col suo seguito di eunuchi, con la barba fasciata di meonia mitra e i capelli stillanti, gode del furto; io invero porto offerte ai tuoi templi e nutro un'inutile fede". Mentre pregava con tali parole e toccava gli altari l'udì l'onnipotente e volse gli occhi alle mura regali e agli amanti dimentichi di una gloria più grande. Allora così parla a Mercurio e gli manda tali ordini: "Va' veloce, figlio, chiama gli Zefiri, scivola sulle ali, parla al capo dardanio, che nella Tiria Cartagine ora indugia e non guarda la città assegnatagli dal fato, e celere riporta le mie parole per l'aria. Non tale lo promise la bellissima genitrice, non per questo due volte lo strappò alle armi dei Greci, ma che sarebbe stato colui che avrebbe retto l'Italia gravida d'impero e fremente di guerra, che avrebbe propagato la razza del nobile sangue di Teucro, e che avrebbe sottomesso alle leggi tutto il mondo. Se nessuna gloria di tanto grandi imprese lo accende e non vuole sostenere travagli per il suo trionfo nega lui padre ad Ascanio le rocche romane? Che fa? O con quale speranza indugia fra gente nemica? Non si cura della prole ausonia e dei campi Lavinii? Che navighi: questo è tutto, questo sia il mio ordine". Aveva detto. Lui del grande padre si preparava a seguire l'ordine: e dapprima indossa ai piedi talari d'oro che lo portano alto sulle ali o sopra le acque o sulla terra parimenti al rapido soffio del vento. Poi prende la verga: con questa chiama le anime pallide fuori dall'Orco, altre ne manda nel triste Tartaro, dà e toglie il sonno, e apre gli occhi dopo la morte. Confidando in quella spinge i venti e nuota attraverso le torbide nubi. E già volando vede il vertice e i fianchi ardui del duro Atlantide, che sostiene il cielo col capo, cui sempre cinto di nere nubi il capo ricco di pini è battuto da vento e da pioggia. La neve scesa gli tocca le palle, mentre dal mento del vecchio precipitano i fumi e l'orrida barba è irrigidita dal gelo. Qui dapprima il Cillenio librandosi sulle ali tese (pari) si posò: da qui si gettò a capo fitto con tutto il corpo tra le onde, simile a un uccello, che intorno alle rive, intorno agli scogli pescosi vola basso sul mare. Non diversamente volava tra terra e cielo verso le spiagge sabbiose della Libia e fendeva i venti partendo dall'avo materno il dio Cillenio. Non appena coi piedi alati toccò le capanne, vide Enea che fondava la rocca e tracciava nuove abitazioni. E lui aveva una spada stellata di un fulvo diaspro, e ardeva di porpora Tiria il mantello che scendeva dalle spalle, doni che gli aveva fatto la ricca Didone e aveva trapuntole tele di sottile oro. All'improvviso lo assale: "Tu ora poni le fondamenta dell'alta Cartagine e costruisci bella la città di tua moglie dimentico del tuo regno e della tua sorte? Lo stesso re degli dei dall'Olimpo lucente mi manda da te, lui che muove cielo e terra con un cenno, lui che vuole che ti porti questi comandi attraverso l'aria veloce. Che fai? O con quale speranza resti in ozio su terre africane? Se non ti spinge la gloria di grandi imprese e non vuoi affrontare le fatiche per il tuo trionfo, pensa ad Ascanio che cresce e la speranza di Iulo tuo erede, cui sono destinati il regno d'Italia e la terra romana". Avendo parlato il Cillenio con tali parole, lasciò a metà discorso la vista del mortale e svanì lontano dagli occhi nella tenue aria. Ma Enea fuori di sé a quella visione ammutolì e, ritti i capelli per la paura, la voce gli si serrò in gola. Desidera fuggire e lasciare la dolce terra, annientato dal rimprovero e da tanto comando degli dei. Cosa dovrebbe fare? Con quali parole oserà accarezzare ora la regina pazza d'amore? Con quali esordi potrà cominciare? E divide il pensiero veloce ora qui ora lì, la tira da tutte le parti e lo volge per tutti i versi. Questa soluzione sembrò la migliore a lui che era in dubbio: chiama Mnesteo, Sergesto e il forte Seresto, che la flotta silenziosi preparino, raccolgano i compagni al parto, preparino l'equipaggiamento e tengano segreta quale sia la causa del cambiamento; lui intanto, (pensa che) mentre la splendida Didone non sa e non immagina che un tanto grande amore sia spezzato, tenterà nuove vie e quali siano i monmenti più dolci di parlarle, quale sia il modo migliore. Subito tutti lieti obbediscono al comando ed eseguono gli ordini. Ma la regina presentì (chi può ingannare chi ama?) le trame e colse per prima le mosse future, temendo tutte le cose per sicure. La stessa empia fama riporta alla furente che si armava la flotta e si preparava alla aprtenza. Smania fuori di sé nell'animo e accesa delira per tutta la città, come una Tiade eccitata dai riti destati, quando udito Bacco, la stimolano le orgie triennali , e la chiama con clamore il notturno Citerone. Infine affronta per prima Enea con queste parole: "Hai sperato anche, o perfido, di poter dissimulare una tale infamia e di allontanart in silenzio dalla mia terra? Non ti trattiene il mio amore né la mano datami una volta né Didone che morirà di morte crudele? Anzi anche sotto le stelle invernali prepari la flotta e ti appresti a prendere il largo in mezzo ai venti, crudele? E che, se non cercassi terre straniere e ignote dimore, ma esistesse l'antica Troia, andresti a Troia con le navi sul mare tempestoso? Fuggi me? Per queste lacrime e per la tua destra (poiché nient'altro a me ormai infelice io stessa ho lasciato), per il nostro connubio, per l'iniziato imeneo, se ho fatto qualche bene anche a te, o qualcosa di me ti fu dolce, ti prego, abbi pietà della casa che vacilla e, se ancora c'è qualche posto per le preghiere, abbandona questo pensiero. Per te le libiche genti e i principi dei Numidi mi odiano, sono ostili i Tiri; ancora per te si è estinto il pudore e, sola per cui andavo alle stelle, la fama di prima. A chi mi lasci morente, ospite? Questo solo nome resta dello sposo di una volta. Che cosa aspetto? Forse che il fratello Pigmalione distrugga le mie mura, o mi tragga prigioniera il getulo Iarba? Se almeno avessi avuto un figlio da te generato prima della fuga, se giocasse per me nella corte un piccolo ENea che almeno richiamasse te nel volto, certo non mi sembrerei del tutto sorpresa e abbandonata". Aveva detto. Lui teneva gli occhi immobili ai comandi di Giove, e premeva a stento la pena nel cuore. Infine rispose poche parole: "Io non ti negherò mai, regina, i tuoi meriti che molti potresti enumerare parlando, né mi rincrescerà di ricordarmi di Elissa, finché io stesso sarò memore di me, finché lo spirito regga questi arti. Del fatto dirò poche parole. E non ho sperato, non crederlo, di nascondere questa fuga furtivamente, né mai ho proposto fiaccole nuziali o sono giunto a questi legami. Se i fati permettessero che io conducessi la vita secondo i miei auspici e placassi da me gli affanni, prima abiterei nella città di Troia tra le dolci reliquie dei miei, l'alto palazzo di Priamo si ergerebbe e avrei ricostruito di mia mano per i vinti una nuova Pergamo. Ma ora Apollo Grineo e gli oracoli della Licia mi hanno ordinato di raggiungere l'Italia, la grande Italia: questo è l'amore, questa è la patria. Se la rocca di Cartagine e la vista d'una città libica trattiene te fenicia, perché impedire che i Teucri si stanzino in terra ausonia? Anche a noi è consentito cercare regni stranieri. L'immagine del padre Anchise, per quante volte la notte ricopre con le umide ombre la terra, per quante volte sorgono gli astri di fuoco, mi rimprovera in sogno e mi atterrisce adirata, anche il fanciullo Ascanio e l'offesa al suo caro capo, che defraudo del regno d'Esperia e dei campi fatali. Ora anche il messaggero degli dei mandato da Giove stesso (lo giuro sul capo d'entrambi) mi ha portato comandi per l'aria veloce; io stesso vidi il dio nella chiara luce penetrare i muri e ne accolsi la voce con queste orecchie. Smetti di inasprire me e te coi tuoi lamenti: cerco l'Italia non spontaneamente". E mentre dice queste parole già da tempo lo guarda ostile volgendo gli occhi qua e là, e lo squadra tutto con gli occhi in silenzio, e parla così infocata: "Non ti è madre una dea, perfido, né fondatore della stirpe Dardano, ma il Caucaso irto di dure rocce ti generò e ti posero le mammelle le tigri ircane. Ora che cosa dissimulo o a quali affranti antenati mi riserbo? Forse gemette al mio pianto? Forse chinò gli occhi? Forse winto versò lacrime o commiserò l'amante? Quale onta potrò anteporre a questa? Ormai né la grande Giunone né il padre Saturnio guardano ciò con qiusti occhi. In nessun luogo la lealtà è certa. Sbattuto sulla spiaggia, miserabile t'accolsi e, folle, ti posi a parte del regno; ho salvato la flotta perduta e i compagni dalla morte. Ahi, accesa dall'amore, sono travolta dall'ira: ora è l'augure Apollo, ora gli oracoli della Licia, ora il nunzio degli dei mandato da Giove stesso porta orribili comandi per l'aria. Certamente questo è il travaglio degli dei, questo affanno turba la loro quiete. Non ti trattengo e non confuto le tue parole: va', cerca l'Italia fra i venti, cerca il regno sulle onde. Spero senza dubbio che, se qualcosa possono i numi pietosi, sconterai la pena tra gli scogli e invocherai spesso Didone per nome. T'inseguirò lontana con neri fuochi, e quando la fredda morte avrà separato le membra dall'anima, sarò un fantasma in tutti i luoghi, subirai il castigo, miserabile. Io lo saprò, e questa fama verrà a me tra i Mani profondi". Con queste parole interruppe a metà il discorso e affranta fugge la luce e si volge e si sottrae allo sguardo, lasciandolo molto esitante per il timore e intento a dire molto. Le ancelle la sostengono e riportano sul talamo marmoreo il corpo svenuto e lo adagiano sui cuscini. Ma il pio Enea, sebbene desideri calmare la dolente consolandola e allontanare con parole le pene, gemendo molto e con l'animo vacillante per il grande amore, tuttavia esegue i comandi degli dei e ritorna alla flotta. Allora i Teucri s'affrettano e spingono in mare da tutta la riva le alte mani, galleggiano le unte chiglie, dai boschi portano remi frondosi e tronchi grezzi per smania della fuga. Potresti vederli migrare e accorrere da tutta la città. E come quando le formiche saccheggiano un grande mucchio di grano memori dell'inverno e lo ripongono nella tana, va nei campi la nera fila, e trasportano la preda in stretta via tra l'erba, alcune tenaci spingono i grossi chicchi a forza di spalle, altre serrano le file e castigano gli indugi, tutto il sentiero ferve di lavoro. Quali pensieri avevi allora, Didone, guardando questo, quali gemiti davi, scorgendo dall'alta rocca fervere per largo tratto le rive e vedendo tutto il mare turbarsi davanti agli occhi per i tanti clamori? Amore ingiusto, a cosa non spingi i cuori umani! Si sforza di nuovo di tornare alle lacrime, di nuovo di tentare con preghiere, e supplice sottomettere l'orgoglio all'amore, per non lasciare nulla di jintentato, per non morire invano! "Anna, vedi, si affrettano su tutta la riva: si radunano da tutte le parti; la vela già chiama i venti, e lieti i marinai hanno posto corone sulle poppe. Se ho potuto aspettarmi questo tanto grande dolore, potrò anche sopportarlo, sorella. Fa' tuttavia, Anna, questo soltanto per me sventurata; infatti il perfido rispettava te sola, ti confidava anche i pensieri segreti; sola conoscevi i facili accessi e i momenti opportuni. Va', sorella, e supplice parla al superbo nemico. Non io con i Danai in Aulide giurai di distruggere il popolo troiano, o mandai la flotta a Pergamo, né violai le ceneri o i Mani del padre Anchise, perché nelle dure orecchie non vuole accogliere le mie parole? Dove corre? Conceda questo estremo dono all'amante infelice: aspetti una facile fuga e i venti favorevoli. Non imploro ormai l'antico connubio, che ha tradito, né che si privi del bel Lazio e rinunci al regno; poco tempo chiedo, riposo e intervallo al furore, finché la mia sorte mi insegni a soffrire vinta. Quest'ultima grazia imploro (abbi pietà della sorella), quando me l'avrà concessa, la restituirò con l'aggiunta della morte". Con tali parole implorava e l'infelice sorella porta e riporta tali pianti. Ma lui non si commuove ai pianti, e non ode arrendevole nessuna parola: i fati si oppongono, un dio gli chiude gli imperturbabili orecchi. E come le tramontane alpine lottano tra loro con raffiche ora qua ora là per abbattere una robusta quesrcia dal fusto annoso, va uno stridore, e le alte fronde cospargono la terra intorno al tronco scosso; quella sta salda alle rocce, e quanto con la cima nell'aria del cielo, tanto con la radice si protende verso il Tartaro: non diversamente l'eroe è battuto qua e là da assidue voci e sente nel grande cuore la pena: l'animo resta immobile, scorrono vane le lacrime. Allora l'infelice Didone atterrita dai fati implora la morte; odia guardare la volta del cielo. Affinché compia il proposito e abbandoni la luce, ponendo i doni sugli altari fumanti, vide (orribile a dirsi) il latte sacro annerire e i vini versati mutarsi in sangue corrotto. Non rivelò questa visione a nessuno, neanche alla stessa sorella. C'era ancora nel palazzo un tempio di marmo dell'antico sposo, che curava con mirabile amore, cinto di candide bende e di fronde festive: di qui le sembrò che si udissero le voci e le parole del marito che la chiamava, mentre l'oscura notte ricopriva la terra, e che il gufo solitario gemesse spesso dai tetti con lugubre verso e volgesse in pianto i lunghi richiami; e ancora molte previsioni di antichi indovini la spaventano con terribile monito. Nei sogni lo stesso Enea perseguita crudele la folle; e sempre le sembra di essere lasciata sola, di percorrere senza compagni una lunga via e di cercare i Tirii in una terra deserta. Come il folle sente o vede schiere di Eumenidi e mostrarglisi due soli e una doppia Tebe, o quando Oreste figlio di Agamennone inseguito sulle scene fugge la madre armata di faci e di neri serpenti, e sulla soglia siedono vendicatrici le Dire. Dunque appena la invase la folli avinta dal dolore e decise di morire, escogita tra sé il momento e il modo e rivoltasi con parole alla triste sorella cela in votlo la decisione e rasserena la speranza in fronte: "Ho trovato, sorella, la via (rallegrati con la sorella), che me lo amo. Presso la fine dell'Oceano e il sole cadente c'è l'estrema terra degli Etiopi, dove l'altissimo Atlante sostiene a spalla il cielo folto di ardenti stelle: di qui mi si mostrò una maga della gente massila, custode del tempio delle esperidi, che dava il cibo al drago e vegliava sui sacri rami dell'albero, spargendo liquido miele e soporoso papavero. Costei promette di liberare con incantesimi le menti che voglia, o infondere in altre duri affanni, fermare l'acqua ai fiumi e volgere indietro le stelle; suscita i mani notturni: vedrai rombare la terra sotto i piedi e discendere gli orni dai manti. Giuro, cara, sugli dei e su te, sorella, e sul tuo dolce capo, che a malincuore mi accingo alle magiche arti. Innalza nell'aria, in segreto, un rogo all'interno del palazzo, e onivi sopra le armi che l'empio lasciò appese sul talamo, e tutte le spoglie e il letto nuziale, nel quale mi sono perduta: mi giova distruggere tutti i ricordi dell'infame, e lo prescrive la maga". Detto ciò tace; e insieme il pallore le invade il volto; tuttavia Anna non crede che la sorella con gli strani riti nasconda la morte né immagina tanta follia né teme eventi più gravi di quelli della morte di Sicheo. Dunque esegue i comandi. E la regina, innalzato nell'aria un grande rogo nel segreto del palazzo, con pino resinoso ed elce tagliato, ricopre il luogo di serti e lo corona di fronda funerea; sopra pone le spoglie e la spada abbandonata e l'effigie sul letto, non ignara del futuro. Stanno intorno le are, e la maga coi capelli sparsi chiama a gran voce trecento volte gli dei, l'Erebo, il Caos e la triplice Ecate, i tre volti della vergine Diana. Aveva versato illusorie acque della fonte d'Averno, e si cercano sotto la luna, mietute con falci di bronzo, erbe mature con lattice di nero veleno; e si cerca anche, strappato dalla fronte di un puledro e sottratto alla madre, l'amore. Lei sparge la farina sacra e con le pie mani presso l'altare con un piede sciolto dal calzare, con la vste discinta, moritura chiama a testimoni gli dei e le stelle consapevoli del fato; poi, se qualche nume abbia cura dei patti non equi degli amanti, giusto e memore, lo invoca. Era notte, e in terra i corpi stanchi godevano il placido sonno, e si erano acquietati i boschi e il mare tempestoso, quando le stelle si volgono a metà corso, quando tace ogni campo, le greggi e i variopinti uccelli, e gli esseri che le liquide ampie distese e le terre irte di rovi contengono, composti nel sonno sotto la notte silenziosa lenivano le pene e i cuori dimentichi degli affanni. Ma non la fenicia infelice nell'animo, e non trova mai riposo nel sonno, né accoglie la notte negli occhi o nell'animo: raddoppiano i tormenti, e di nuovo insorgendo l'amore imperversa, e fluttua con grande tempesta di ire. Così insiste a tal punto e così volge tra sé in cuore: "Ebbene, che faccio? Tenterò di nuovo, irrisa, i pretendenti di prima, e cercherò supplice le nozze dei Nomadi, sposi che io già disdegnai tante volte? Dunque seguirò le navi iliache e gli ultimi comandi dei teucri? Oppure sì, perché godo il premio di averli salvati e bene resiste presso i memori la gratitudine dell'antico fatto? Ma supponi che voglia, chi mi lascerà o accoglierà irrisa sulle navi superbe? Ahimé, non sai, sciagurata, e ancora non intendi gli spergiuri della stirpe laomedontea? E allora? Da sola accompagnerò nella fuga i marinai esultanti? O muoverò coi Tirii, e con tutta la folta schiera dei miei, e di nuovo guiderò sul mare coloro che a stento strappai da Sidone, e ordinerò di dare le vele ai venti? Muori piuttosto, come meriti, e allontana il dolore col ferro. Tu, vinta dalle mie lacrime, tu per prima, sorella, opprimi con questi mali me impazzita e mi offri al nemico. non ho potuto trascorrere la vita priva di nozze senza colpa, come una bestia, né evitare tali affanni. Non ho serbato la fede promessa alle ceneri di Sicheo.". Ella emetteva dal cuore tanti gemiti. Enea sull'alta poppa, ormai certo di partire, coglieva il sonno, completati debitamente i preparativi. Gli apparve in sogno l'immagine del dio che tornava con lo stesso volto, e di nuovo sembrò ammonirlo così, in tutto simile a Mercurio, nella voce, nel colore, nei biondi capelli, nelle membra belle di giovinezza: "Figlio della dea, puoi dormire in questo frangente, e non vedi, folle, gli imminenti pericoli che ti stanno intorno, non senti spirare gli zefiri favorevoli? Lei medita inganni e orrendo delitto nel cuore decisa a morire e fluttua in varia tempesta di ire. Non fuggi di qui a precipizio finché c'è la possibilità di fuggire? Vedrai il mare ormai sconvolto dai remi e sinistre fiaccole splendere, la spiaggia ormai ardere in fiamme, se l'Aurora ti sorprende ad attendere in questa terra. Va', rompi l'attesa. Sempre varia e mutabile cosa è una donna". Detto così si confuse con la nera notte. Allora Enea atterrito dall'apparizione improvvisa, strappa il corpo dal sonno e incita i compagni: "Destatevi subito, uomini, e sedete ai banchi di remi; sciogliete veloci le vele. Un dio mandato dall'alto etere ecco di nuovo sollecita ad accelerare la fuga e a tagliare le ritorte funi. Ti seguiamo, dio santo, chiunque tu sia, e obbediamo di nuovo all'ordine esultanti. Assistici, e placido aiutaci e guida nel cielo favorevoli stelle" disse e strappò fulminea la spada dalla guaina e col ferro in pugno tagliò gli ormeggi. Un medesimo ardore possiede tutti, afferrano, corrono; lasciano la riva, l'acqua scompare sotto le navi, rovesciano con forza le schiume e spazzano i flutti cerulei. E già la prima Aurora, lasciando il croceo letto di Titane, cospargeva di nuova luce la terra. La regina appena dall'alto (della rocca) vide biancheggiare la luce e la flotta procedere a vele allineate e scorse le rive e i porti vuoti senza equipaggio, percuotendo tre e quattro volte con la mano il florido petto, strappatasi le vionde chiome desse: "O Giove! Costui se ne andrà e uno straniero schernirà il nostro regno? Non prenderanno le armi, non correranno da tutta la città e strapperanno altri le navi dai cantieri? Andate, portate veloci le armi, date i dardi, forza coi remi! Che cosa dico, o dove sono? Quale apzzia mis travolge la mente? Infelice Didone, ora ti toccano le sue empie azioni? Allora avresti dovuto, quando gli davi lo scettro. Ecco la destra e la fedeltà di lui che dicono porti con se i patrii Penati, lui che dicono porti sulle spalle il padre decrepito! Non avrei potuto fare a pezzi il corpo dopo averlo strappato (ai compagni) e abbandonarlo alle onde, finire col ferro i compagni, e lo stesso Ascanio imbandirlo sulla mensa del padre perché se ne cibasse? Ma era incerta la sorte della battaglia. Lo fosse stata! Di chi dovrei aver paura morente? Avrei dovuto scagliare il fuoco sulla nave, avrei dovuto riempire le tolde di fiamme e il figlio e il padre uccidere con la razza, me stessa sul rogo gettare! Sole che coi tuoi raggi illumini tutte le opere della terra, e tu artefice consapevole di queste mie pene, Giunone, e tu Ecate, invocata con ululi nei trivi notturni per la città, e voi furie vendicatrici e dei della morente Elissa accogliete queste parole, punite con giusto nume i malvagi e ascoltate le nostre preghiere. |
et nostras audite preces. Si tangere portus |
Se è ineluttabile che il maledetto tocchi i porti e raggiunga la terra, così vogliono i decreti di Giove, questo fine resta invariato, ma almeno travagliato dalla guerra e dalle armi di un popolo ardito, cacciato dalla sua patria, strappato dall'abbraccio di Iulo, implori aiuto e veda le morti crudeli dei suoi; e, quando si sarà rimesso alle leggi di una pace iniqua, non goda del regno o della desiderata vita, ma muoia insepolto prima del tempo e in mezzo alla sabbia. Queste cose chiedo con preghiere, questo come ultimo discorso verso con il sangue. Poi voi, o Tiri, perseguitate tutta la stirpe con il vostro odio e tutta la razza futura, e |
His etiam struxi manibus patriosque vocavi |
Questo disse, e volgeva l'animo da ogni parte, cercando di infrangere quanto prima l'odiata luce. Allora parlò brevemente a Barce nutrice di Sicheo, e infatti un'urna nera teneva la sua nell'antica patria: "Nutrice a me cara, fa' venire qui la sorella Anna; dì che si affretti ad aspergere il corpo di acqua fluente e porti con sé le vittime e la prescritta espiazione. Così venga, e tu fascia le tempie di pia benda. Ho intenzione di compiere i sacrifici a Giove Stigio". Questo disse, e volgeva l'animo da ogni parte, cercando di infrangere quanto prima l'odiata luce. Allora parlò brevemente a Barce nutrice di Sicheo, e infatti un'urna nera teneva la sua nell'antica patria: "Nutrice a me cara, fa' venire qui la sorella Anna; dì che si affretti ad aspergere il corpo di acqua fluente e porti con sé le vittime e la prescritta espiazione. Così venga, e tu fascia le tempie di pia benda. Ho intenzione di compiere i sacrifici a Giove Stigio, che ho intrapreso dopo averli ritualmente disposti, di porre fine alle pene e di dare alle fiamme il rogo con l'effigie del Dardanio". Così disse. Quella affrettava il passo con zelo senile. Ma Didone, agitata e stravolta per gli immani propositi iniziati, volgendo lo sguardo sanguigno e con le gote tremanti cosparse di macchie e pallida per la morte futura, irrompe nelle soglie interne del palazzo e sale furiosa gli alti gradini e snuda la spada dardania, dono non a quest'uso richiesto. Qui, dopo che vide le iliache vesti e il noto giaciglio, un poco indugiando in lacrime e in pensiero, si adagiò sul letto e disse le estreme parole: "Dolci spoglie, finché il fato e il dio permettevano, accogliete quest'anima e liberatemi da queste pene. Ho vissuto e percorso la via che aveva assegnato la sorte, e ora la mia ombra gloriosa andrà sotto terra. Ho fondato una splendida città, ho veduto le mie mura, vendicato il marito, ho punito il fratello nemico; felice, di troppo felice, se solo le navi dardanie non avessero mai toccato le nostre rive!". Disse e premute le labbra sul letto: "Moriremo invendicate, ma moriamo!", disse, "Così, così desidero discendere tra le ombre. Beva questo fuoco con gli occhi dal mare il crudele Dardanio, e porti con sé la maledizione della mia morte. Aveva detto, e fra tali parole le ancelle la vedono gettarsi sul ferro e la spada schiumante e le mani bagnate di sangue. Va il clamore negli alti atrii; la Fama imperversa per la città sgomenta. Le case fremono di lamenti, di gemiti, di urla femminili, il cielo risuona di grandi pianti, non diversamente che se, penetrati i nemici, precipiti tutta Cartagine o l'antica Tiro, e fiamme furenti si propaghino per i tetti degli uomini e degli dei. Udì, esanime e atterrita nella corsa angosciosa, la sorella, ferendosi il volto con le unghie e il petto con i pugni, irruppe nel mezzo e invoca per nome la morente: "Questo era, sorella? Mi pregavi con l'inganno? Questo mi preparavano il rogo, le fiamme e le are? Abbandonata che cosa lamenterò prima? Morendo spregiasti la sorella come compagna? Mi avessi chiamata allo stesso destino, lo stesso dolore e lo stesso momento avrebbe rapito entrambe col ferro. ho innalzato (il rogo) con queste mani, ho chiamato con la voce gli dei patrii, per mancare così, crudele, a te morta? Hai estinto te e me, sorella, e il popolo, e i padri sidonii e la tua città. Fate che io deterga le ferite con l'acqua e, se erra ancora un estremo alito, la colga con le labbra". Detto così, era salita sugli alti gradini e con un gemito stringeva al seno la sorella morente e detergeva con la veste il nero sangue. Lei, tentando di aprire gli occhi pesanti, di nuovo ricadde, stride la ferita profonda nel petto. Tre volte poggiandosi sul gomito tentò di sollevarsi, tre volte s'arrovesciò sul letto, e con gli occhi eranti cercò nell'alto cielo la luce e gemette trovatala. Allora l'onnipotente Giunone, commiserando il lungo dolore e la difficile morte, mandò dall'Olimpo Iride che sciogliesse la lottante anima e le avvinte membra. Infatti poiché non moriva né per destino né per debita morte, ma sventurata prima dell'ora e arsa da subitanea follia, Proserpina non le aveva ancora strappato dal capo il biondo capello né le aveva consacrato il capo all'Orca Stigia. Dunque Iride rugiadosa con croce e ali nel cielo traendo mille vari colori dal sole di fronte volò giù, e le si fermò sul capo "Questo, secondo l'ordine, reco sacro a Dite, e te da questo corpo sciolgo". Disse così e con la destra troncò il capello: d'un tratto tutto il calore svanì, e la vita dileguò nei venti. |