Seneca - Epistulae morales ad Lucilium
Liber I (I-XII)

II - I viaggi e la lettura

Seneca Lucilio suo salutem.
Ex iis quae mihi scribis et ex iis quae audio bonam spem de te concipio: non discurris nec locorum mutationibus inquietaris. Aegri animi ista iactatio est: primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari. Illud autem vide, ne ista lectio auctorum multorum et omnis generis voluminum habeat aliquid vagum et instabile. Certis ingeniis immorari et innutriri oportet, si velis aliquid trahere quod in animo fideliter sedeat. Nusquam est qui ubique est. Vitam in peregrinatione exigentibus hoc evenit, ut multa hospitia habeant, nullas amicitias; idem accidat necesse est iis qui nullius se ingenio familiariter applicant sed omnia cursim et properantes transmittunt. Non prodest cibus nec corpori accedit qui statim sumptus emittitur; nihil aeque sanitatem impedit quam remediorum crebra mutatio; non venit vulnus ad cicatricem in quo medicamenta temptantur; non convalescit planta quae saepe transfertur; nihil tam utile est ut in transitu prosit. Distringit librorum multitudo; itaque cum legere non possis quantum habueris, satis est habere quantum legas. "Sed modo" inquis "hunc librum evolvere volo, modo illum". Fastidientis stomachi est multa degustare; quae ubi varia sunt et diversa, inquinant non alunt. Probatos itaque semper lege, et si quando ad alios deverti libuerit, ad priores redi. Aliquid cotidie adversus paupertatem, aliquid adversus mortem auxili compara, nec minus adversus ceteras pestes; et cum multa percurreris, unum excerpe quod illo die concoquas. Hoc ipse quoque facio; ex pluribus quae legi aliquid apprehendo. Hodiernum hoc est quod apud Epicurum nanctus sum - soleo enim et in aliena castra transire, non tamquam transfuga, sed tamquam explorator -: "honesta" inquit "res est laeta paupertas". Illa vero non est paupertas, si laeta est; non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est. Quid enim refert quantum illi in arca, quantum in horreis iaceat, quantum pascat aut feneret, si alieno imminet, si non acquisita sed acquirenda computat? Quis sit divitiarum modus quaeris? primus habere quod necesse est, proximus quod sat est. Vale.

Seneca saluta il suo Lucilio.
Da ciò che tu mi scrivi e da ciò che sento dire m'induco a sperar bene di te. Non sei di quelli che continuamente si muovono e si agitano nel cambiare luogo. Questo continuo agitarsi è proprio di animo malato, ed io considero primo segno di uno spirito ben composto e ordinato la capacità di restare fermo e raccolto in se stesso. Però sta attento che anche codesta lettura di molti autori e di libri d'ogni genere non sia già una forma di andare vagando senza stabile sede. Bisogna che tu ti fermi a prendere contatto con alcuni sicuri ingegni e cercare in essi il tuo alimento se vuoi trarne qualche cosa che rimanga fedelmente amico nel tuo animo. Chi è in ogni luogo finisce per essere in nessuno. Chi passa la vita in un peregrinare senza posa fa bensì molte conoscenze ma nessuna vera amicizia. E necessariamente lo stesso avviene a coloro che non studiano sul serio un autore in modo da renderselo famigliare, ma li scorrono tutti frettolosamente. Non si assimila e non giova il cibo che appena preso viene messo fuori: niente impedisce tanto di riacquistare la sanità quanto cambiare continuamente i rimedi: non si cicatrizza la ferita alla quale si applicano varie medicature, non cresce vigoroso un albero se viene troppo spesso trapiantato; ed anche una cosa utilissima in un passeggero contatto non riesce a portare giovamento. La soverchia quantità di libri è un peso: pertanto se non fai in tempo a leggere tutti i libri che hai, basta che ne abbia quanti ne puoi leggere. "Ma io voglio sfogliare", tu dici, "ora questo ora quel volume". Ebbene bada che questo bisogno di assaggiare molti cibi diversi è cosa propria degli stomaci sofferenti di nausea: e in tal caso i cibi invece di nutrire inquinano lo stomaco. Leggi dunque sempre libri buoni, e se talvolta ti aggrada passare ad altri, abbi però sempre cura di ritornare ancora ai primi. Ad ogni giorno tu devi procurarti qualche aiuto a sostenere la povertà e ad affrontare la morte oltre tutti gli altri mali, perciò dopo molte letture scegli in esse una frase ed un pensiero da digerire in quel giorno. Così faccio anch'io: leggo molto e nelle molte letture scelgo qualche cosa da apprendere. Io sono solito passare per gli accampamenti altrui non come un transfuga ma come un esploratore: ed ecco il bel pensiero che ho colto oggi in Epicuro: "Cosa lieta è un'onesta povertà". Ma se è lieta, io aggiungo, non è più povertà. Il vero povero infatti non è colui che ha poco ma colui che desidera più di quello che ha. Che cosa importa quanto uno abbia nelle casse o nei granai, quanto abbia di armenti da pascere o di danaro da collocare ad usura, se egli è preoccupato di tener d'occhio la ricchezza altrui e calcolare non ciò che possiede ma ciò che vorrebbe guadagnare? Tu mi domandi quale sia il giusto limite delle ricchezze. Anzitutto avere ciò che è necessario e poi ciò che è sufficiente. Ciao.

III - Rifletti bene prima di sceglierti un amico, ma poi abbi piena fiducia in lui

Seneca Lucilio suo salutem.
Epistulas ad me perferendas tradidisti, ut scribis, amico tuo; deinde admones me ne omnia cum eo ad te pertinentia communicem, quia non soleas ne ipse quidem id facere: ita eadem epistula illum et dixisti amicum et negasti. Itaque si proprio illo verbo quasi publico usus es et sic illum amicum vocasti quomodo omnes candidatos "bonos viros" dicimus, quomodo obvios, si nomen non succurrit, "dominos" salutamus, hac abierit. Sed si aliquem amicum existimas cui non tantundem credis quantum tibi, vehementer erras et non satis nosti vim verae amicitiae. Tu vero omnia cum amico delibera, sed de ipso prius: post amicitiam credendum est, ante amicitiam iudicandum. Isti vero praepostero officia permiscent qui, contra praecepta Theophrasti, cum amaverunt iudicant, et non amant cum iudicaverunt. Diu cogita an tibi in amicitiam aliquis recipiendus sit. Cum placuerit fieri, toto illum pectore admitte; tam audaciter cum illo loquere quam tecum. Tu quidem ita vive ut nihil tibi committas nisi quod committere etiam inimico tuo possis; sed quia interveniunt quaedam quae consuetudo fecit arcana, cum amico omnes curas, omnes cogitationes tuas misce. Fidelem si putaveris, facies; nam quidam fallere docuerunt dum timent falli, et illi ius peccandi suspicando fecerunt. Quid est quare ego ulla verba coram amico meo retraham? quid est quare me coram illo non putem solum? Quidam quae tantum amicis committenda sunt obviis narrant, et in quaslibet aures quidquid illos urit exonerant; quidam rursus etiam carissimorum conscientiam reformidant et, si possent, ne sibi quidem credituri interius premunt omne secretum. Neutrum faciendum est; utrumque enim vitium est, et omnibus credere et nulli, sed alterum honestius dixerim vitium, alterum tutius. Sic utrosque reprehendas, et eos qui semper inquieti sunt, et eos qui semper quiescunt. Nam illa tumultu gaudens non est industria sed exagitatae mentis concursatio, et haec non est quies quae motum omnem molestiam iudicat, sed dissolutio et languor. Itaque hoc quod apud Pomponium legi animo mandabitur: "quidam adeo in latebras refugerunt ut putent in turbido esse quidquid in luce est". Inter se ista miscenda sunt: et quiescenti agendum et agenti quiescendum est. Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse se et noctem. Vale.

Seneca saluta il suo Lucilio.
Tu mi scrivi che hai consegnato ad un tuo amico lettere da portarmi: ma poi mi avverti di non fargli sapere tutte le cose che ti riguardino, perché anche tu non hai l'abitudine di farlo. Ma in questo modo tu mi hai detto e mi hai negato che egli ti è amico. Forse quella parola di antico preciso significato è stata invece da te usata con un significato molto generico e tu lo hai chiamato amico nello stesso modo che noi usiamo dire "buoni uomini" tutti i candidati alle cariche pubbliche e salutiamo con la parola "signori" persone di cui non ci torna a mente il nome quando a caso li incontriamo per strada: e se è così passi pure. Se però tu non solo chiami, ma consideri veramente amico una persona nella quale non hai quella fiducia che hai in te stesso, allora tu commetti un grave errore, e mostri di non conoscere la forza viva della vera amicizia. Tu devi prendere ogni deliberazione in accordo con lui, ma prima devi prendere tu una deliberazione sul conto suo. Una volta che si è accettata un'amicizia bisogna credere in essa; prima di accettarla bisogna giudicare se sia vera amicizia. Confondono i doveri rovesciandone i tempi coloro, che, contraddicendo gli insegnamenti di Teofrasto, cominciano a giudicare dopo aver dato il loro affetto e lo ritirano poi in seguito al giudizio che hanno formato. Pensaci a lungo se tu debba accogliere qualcuno nella tua amicizia, ma quando hai consentito, allora accoglilo con tutto il cuore, e parla a lui collo stesso coraggio col quale parli a te stesso. Vivi in modo di non affidare a te stesso ciò che tu non possa affidare anche al tuo nemico. Ma poiché avvengono anche cose che la consuetudine nasconde nel segreto, allora in questi casi tu metti in comune coll'amico tutte le tue preoccupazioni e tutti i tuoi pensieri. Tu te lo renderai fedele se lo reputerai tale. Vi sono alcuni che insegnano ad ingannare proprio in quanto che temono di essere ingannati, vi sono altri che col loro sospettare creano quasi una giustificazione al peccato. Perché dovrei tenere delle parole chiuse dentro di me trovandomi in presenza dell'amico mio? Non dovrei davanti a lui sentirmi solo? Vi sono alcuni che ad ogni persona che incontrano senz'altro raccontano ciò che si dovrebbe raccontare solo ad amici provati, hanno bisogno di confidare a qualsiasi orecchio qualsiasi segreto come se bruciasse dentro. Altri al contrario sentono addirittura il terrore che anche persone carissime abbiano conoscenza e delle loro cose e dei loro sentimenti e cacciano tutto giù nella più recondita intimità del loro animo come se non volessero farne confidenza nemmeno a se stessi. Non bisogna fare né l'una né l'altra cosa: così l'una come l'altra è male, concedere la propria fiducia a tutti e a nessuno; ma direi che il primo difetto è più onesto, l'altro più sicuro. Nello stesso modo tu hai ragione di rimproverare tanto quelli che sono continuamente agitati quanto quelli che vivono in una continua pigra quiete. Non è vera attività produttrice quella che si gode del tumulto, ma è corsa vana di una mente agitata; e così pure non è vera quiete riposante quella per cui ogni movimento è molesto, ma è sfibramento e mollezza. Pertanto noi fermeremo bene nell'animo nostro questo che ho letto in Pomponio: "Vi sono alcuni che amano rifugiarsi in un oscuro nascondiglio come se siano convinti che sia soggetto a un turbolento destino tutto ciò che sta nella luce". Bisogna tenere ben congiunti questi due concetti, che colui che riposa deve poi agire e viceversa chi agisce deve poi riposare. Tu prendi le tue deliberazioni in accordo con la razionale natura delle cose: essa ti darà un grande insegnamento ricordandoti chi ha fatto il giorno e la notte. Ciao.

VII

Seneca Lucilio suo salutem.
Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris? turbam. Nondum illi tuto committeris. Ego certe confitebor imbecillitatem meam: numquam mores quos extuli refero; aliquid ex eo quod composui turbatur, aliquid ex iis quae fugavi redit. Quod aegris evenit quos longa imbecillitas usque eo affecit ut nusquam sine offensa proferantur, hoc accidit nobis quorum animi ex longo morbo reficiuntur. Inimica est multorum conversatio: nemo non aliquod nobis vitium aut commendat aut imprimit aut nescientibus allinit. Utique quo maior est populus cui miscemur, hoc periculi plus est. Nihil vero tam damnosum bonis moribus quam in aliquo spectaculo desidere; tunc enim per voluptatem facilius vitia subrepunt. Quid me existimas dicere? avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui. Casu in meridianum spectaculum incidi, lusus exspectans et sales et aliquid laxamenti quo hominum oculi ab humano cruore acquiescant. Contra est: quidquid ante pugnatum est misericordia fuit; nunc omissis nugis mera homicidia sunt. Nihil habent quo tegantur; ad ictum totis corporibus ex positi numquam frustra manum mittunt. Hoc plerique ordinariis paribus et postulaticiis praeferunt. Quidni praeferant? non galea, non scuto repellitur ferrum. Quo munimenta? quo artes? omnia ista mortis morae sunt. Mane leonibus et ursis homines, meridie spectatoribus suis obiciuntur. Interfectores interfecturis iubent obici et victorem in aliam detinent caedem; exitus pugnantium mors est. Ferro et igne res geritur. Haec fiunt dum vacat harena. "Sed latrocinium fecit aliquis, occidit hominem". Quid ergo? quia occidit, ille meruit ut hoc pateretur: tu quid meruisti miser ut hoc spectes? "Occide, verbera, ure! Quare tam timide incurrit in ferrum? quare parum audacter occidit? quare parum libenter moritur? Plagis agatur in vulnera, mutuos ictus nudis et obviis pectoribus excipiant". Intermissum est spectaculum: "interim iugulentur homines, ne nihil agatur". Age, ne hoc quidem intellegitis, mala exempla in eos redundare qui faciunt? Agite dis immortalibus gratias quod eum docetis esse crudelem qui non potest discere. [...]

Seneca saluta il suo Lucilio.
Tu vuoi sapere che cosa ritengo si debba principalmente evitare? La folla. Non la puoi ancora frequentare senza pericolo. Io almeno confesserò la mia debolezza: riporto a casa quei costumi che ho portato fuori. Quel poco che avevo messo in ordine viene turbate, ritorna qualcuno dei vizi che avevo cacciato. Ciò che succede agli ammalati che una lunga infermità ha afflitto a tal punto che non possono uscire senza danno, questo stesso succede pure a noi: anche i nostri animi stanno rimettendosi da una lunga malattia. La dimestichezza con la folla è nociva: ognuno o ci raccomanda un vizio o ce lo trasmette o ci unge senza che noi ce ne accorgiamo. Ed il pericolo è tanto più grande quanto più grande è la folla nella quale ci confondiamo. In verità che cosa può esserci di più dannoso ala virtù che poltrire assistendo ad uno spettacolo? Infatti allora i vizi, favoriti dal piacere più facilmente si insidiano nell'animo. Che cosa pensi che io dica? Ritorno a casa non solo più avido di beni materiali, ma anche più crudele più inumano perché sono stato tra gli uomini. Per caso capitai in uno spettacolo meridiano aspettandomi giochi e facezie e qualcosa di riposante con cui gli occhi degli uomini si possono riposare dalla vista del sangue umano. È tutto il contrario: i combattimenti precedenti erano opera di misericordia; ora lasciate da parte le bazzecole, avvengono veri e propri omicidi. I gladiatori non hanno nulla con cui proteggersi. Esposti ai colpi in tutto il corpo, mai spingono avanti invano la mano armata. Questo genere di lotta i più lo preferiscono alle coppie di gladiatori ordinarie e straordinarie. E perché non dovrebbero preferirli? La spada non può essere respinta con l'elmo, con lo scudo. A che cosa servono le difese? A cosa servono le schermaglie? Tutte queste cose sono indugi alla morte. Al mattino gli uomini sono gettati ai leoni e agli orsi, a mezzogiorno ai loro spettatori. Gli spettatori ordinano che gli uccisori siano gettati in pasto a quelli che gli uccideranno e riservano il vincitore per un'altra strage: il risultato dai combattimenti è la morte: si combatte col ferro e col fuoco. Queste cose accadono mentre l'arena è vuota! "Ma qualcuno ha commesso un furto ed ucciso un uomo". E allora? Quello perché ha ucciso ha meritato di subire ciò e tu sciagurato che pena hai meritato per guardare questo? "Uccidilo, colpiscilo, brucialo! Ma perché va in contro alla spada con tanto timore? Perché uccide con poca audacia, perché muore poco volentieri. Lo si spinga con le botte in contro alle ferite: ricevano colpi reciproci con i petti nudi e posti l'uno di fronte all'altro". Lo spettacolo è sospeso: "Nel frattempo si sgozzino altri uomini affinché non si stia a far niente". Suvvia non comprendete che i cattivi esempi ricadano sopra quelli che li fanno. Ringraziate gli dei immortali perché insegnate ad essere crudele a colui che non può imparare (si riferisce a Nerone). [...]

Commento: La civiltà sta cambiando, ma per il momento solo Seneca va contro questa pratica degli spettacoli; però è più una forma di disgusto che di protesta. Infatti lui è il saggio aristocratico che odia il volgo, è presente una aristocratica superiorità. Si ritira a meditare su se stesso, le illusioni sono venute meno (ultima frase) si ritira dalla vita attiva, richiesta di interiorità che emerge.