Ovidio - Metamorfosi
Liber III

vv. 370-401 - La tragicommedia degli errori e la metamorfosi di Eco

Ergo ubi Narcissum per devia rura vagantem
vidit et incaluit, sequitur vestigia furtim,
quoque magis sequitur, flamma propiore calescit,
non aliter quam cum summis circumlita taedis
admotas rapiunt vivacia sulphura flammas.
O quotiens voluit blandis accedere dictis
et mollis adhibere preces! Natura repugnat
nec sinit, incipiat, sed, quod sinit, illa parata est
exspectare sonos, ad quos sua verba remittat.
Forte puer comitum seductus ab agmine fido
dixerat: "Ecquis adest?" et "Adest" responderat Echo.
Hic stupet, utque aciem partes dimittit in omnis,
voce "Veni!" magna clamat: vocat illa vocantem.
respicit et rursus nullo veniente "Quid" inquit
"me fugis?" et totidem, quot dixit, verba recepit.
Perstat et alternae deceptus imagine vocis
"Huc coeamus" ait, nullique libentius umquam
responsura sono "Coeamus" rettulit Echo
et verbis favet ipsa suis egressaque silva
ibat, ut iniceret sperato bracchia collo;
ille fugit fugiensque "Manus conplexibus aufer!
ante" ait "emoriar, quam sit tibi copia nostri";
rettulit illa nihil nisi "Sit tibi copia nostri!".
Spreta latet silvis pudibundaque frondibus ora
protegit et solis ex illo vivit in antris;
sed tamen haeret amor crescitque dolore repulsae;
extenuant vigiles corpus miserabile curae
adducitque cutem macies et in aera sucus
corporis omnis abit; vox tantum atque ossa supersunt:
vox manet, ossa ferunt lapidis traxisse figuram.
Inde latet silvis nulloque in monte videtur,
omnibus auditur: sonus est, qui vivit in illa.

Come dunque Eco scorse Narciso vagare per campi fuori mano e s'infiammò d'amore, ne segue furtivamente i passi, e quanto più lo segue tanto più s'infiamma di fuoco vivo, non diversamente da quando lo zolfo vivo, spalmato sull'estremità della torcia, attira a sé le fiamme accostategli. Quante volte avrebbe voluto avvicinarlo con dolci parole e rivolgergli umili preghiere! La sua natura lo impedisce né consente di cominciare, ma, come natura le accorda, ella è pronta a ricevere suoni e ad essi ripetere parole sue. Per caso il ragazzo, allontanandosi dal gruppo dei fidi compagni, gridò: "C'è qualcuno?", ed Eco rispose: "Qualcuno". Egli si stupisce, e quando egli gira lo sguardo in ogni direzione, grida a gran voce "Vieni!", e lei chiama lui che chiama. Si volge a guardare e, dato che nessuno si fa avanti, dice: "Perché mi sfuggi?", e riceve altrettante parole quante ha pronunciate. Lui insiste e, ingannato da quel fantasma di voce che ritorna, dice "Qui incontriamoci". Eco, che a nessun altro invito avrebbe risposto più volentieri, riporta: "Incontriamoci" e lei stessa asseconda le proprie parole e uscita dal bosco correva a gettare le braccia all'amato collo. Lui fugge e dice fuggendo: "Allontana le mani dall'abbraccio! Che io muoia prima di abbandonarmi a te!". Lei rispose solo: "Abbandonarmi a te". Disprezzata si nasconde nei boschi e tutta vergognosa si copre il volto con le fronde e vive da allora nelle caverne solitarie; ma è forte l'amore e cresce per il dolore del rifiuto; e le pene che la tengono sveglia assottigliano il suo corpo sventurato e la magrezza le dissecca la pelle e tutto è umore del corpo si dissolve nell'aria; soltanto la voce e le ossa sopravvivono: la voce rimane, mentre dicono che le ossa abbiano preso forma di pietra. Da allora si nasconde nei boschi e non è veduta in nessun monte, ma è udita da tutti: è puro suono quello che vive in lei.

vv. 402-443 - L'innamoramento di Narciso

Sic hanc, sic alias undis aut montibus ortas
luserat hic nymphas, sic coetus ante viriles;
inde manus aliquis despectus ad aethera tollens
"Sic amet ipse licet, sic non potiatur amato!"
dixerat: adsensit precibus Rhamnusia iustis.
Fons erat inlimis, nitidis argenteus undis,
quem neque pastores neque pastae monte capellae
contigerant aliudve pecus, quem nulla volucris
nec fera turbarat nec lapsus ab arbore ramus;
gramen erat circa, quod proximus umor alebat,
silvaque sole locum passura tepescere nullo.
Hic puer et studio venandi lassus et aestu
procubuit faciemque loci fontemque secutus,
dumque sitim sedare cupit, sitis altera crevit,
dumque bibit, visae correptus imagine formae
spem sine corpore amat, corpus putat esse, quod umbra est.
Adstupet ipse sibi vultuque inmotus eodem
haeret, ut e Pario formatum marmore signum;
spectat humi positus geminum, sua lumina, sidus
et dignos Baccho, dignos et Apolline crines
inpubesque genas et eburnea colla decusque
oris et in niveo mixtum candore ruborem,
cunctaque miratur, quibus est mirabilis ipse:
se cupit inprudens et, qui probat, ipse probatur,
dumque petit, petitur, pariterque accendit et ardet.
Inrita fallaci quotiens dedit oscula fonti,
in mediis quotiens visum captantia collum
bracchia mersit aquis nec se deprendit in illis!
Quid videat, nescit; sed quod videt, uritur illo,
atque oculos idem, qui decipit, incitat error.
Credule, quid frustra simulacra fugacia captas?
Quod petis, est nusquam; quod amas, avertere, perdes!
Ista repercussae, quam cernis, imaginis umbra est:
nil habet ista sui; tecum venitque manetque;
tecum discedet, si tu discedere possis!
Non illum Cereris, non illum cura quietis
abstrahere inde potest, sed opaca fusus in herba
spectat inexpleto mendacem lumine formam
perque oculos perit ipse suos; paulumque levatus
ad circumstantes tendens sua bracchia silvas
"Ecquis, io silvae, crudelius" inquit "amavit?
scitis enim et multis latebra opportuna fuistis.

Così egli aveva rifiutato quella ninfa, così le altre ninfe nate dalle onde o dai monti; così la compagnia di uomini; quindi un amato respinto levando le braccia al cielo disse: "È giusto che anche lui ami così, così non possegga l'oggetto del suo amore"; approva le giuste preghiere la dea di Ramnunte (Nemesi). C'era una fonte limpida, dall'acqua brillante come argento, che né i pastori avevano mai toccato né le caprette portate al pascolo sul monte né altro bestiame, che mai alcun uccello né fiera aveva turbato né fronda caduta da un albero; attorno vi cresceva l'erba, alimentata dalla vicinanza dell'acqua, e un bosco che impediva che il luogo si scaldasse mai al sole. Qui il ragazzo, stanco per l'impegno della caccia e per la calura, si buttò bocconi vinto dall'amenità del luogo e della fonte, e mentre cerca di soddisfare la sete, un'altra sete cresce, e mentre beve, affascinato dall'immagine di bellezza che ha visto, ama un'illusione senza corpo, pensa che sia corpo ciò che è onda. Egli guarda stupito se stesso immobile con la stessa espressione resta fermo, come un statua di marmo Pario. Steso a terra contempla i suoi occhi, due stelle, degni di Bacco, e i capelli, degni di Apollo, e le guance impuberi, e il collo, d'avorio, e la nobiltà del volto, e il color rosa misto al bianco di neve, e ammira tutti i pregi per i quelli lui è degno di ammirazione. Senza saperlo desidera se stesso, lui che loda è lodato, cerca ed è cercato e ad un tempo accende il fuoco e ne è arso. Quante volte diede vani baci alla fonte bugiarda, quante volte immerse nell'acqua le braccia per cingere il collo che gli appariva ma non poté stringere sé dentro le onde! Non sa chi sia quello che vede, ma di quello che vede arde, e il medesimo errore che inganna gli occhi li affascina. Perché mai, credulo, cerchi invano di afferrare un'ombra fugace? Ciò che cerchi non esiste. Voltati, e perderai ciò che ami! Questa che vedi è una vana parvenza d'immagine riflessa: questa non ha nulla di suo; viene con te, resta con te, se ne andrà con te, ammesso che tu riesca ad andartene! Non desiderio di cibo, non di sonno, può smuoverlo di lì, ma abbandonato sull'erba ombreggiata guarda l'immagine mendace con sguardo insaziabile e si consuma attraverso i propri occhi; levandosi un poco e tendendo le sue braccia alle selve circostanti esclamò: "Selve, chi provò mai un amore più crudele del mio? Ben lo sapete voi che foste per molti opportuno rifugio".

vv. 463-470 - L'agnizione

Iste ego sum: sensi, nec me mea fallit imago;
uror amore mei: flammas moveoque feroque.
Quid faciam? Roger anne rogem? Quid deinde rogabo?
Quod cupio mecum est: inopem me copia fecit.
O utinam a nostro secedere corpore possem!
Votum in amante novum, vellem, quod amamus, abesset.
Iamque dolor vires adimit, nec tempora vitae
longa meae superant, primoque exstinguor in aevo.

Ma quello sono io! L'ho capito e non m'inganna più la mia immagine; brucio d'amore per me: accendo e subisco la fiamma. Che dovrei fare? Dovrei chiedere o essere chiesto? E che cosa poi chiederò? Quel che voglio è con me: la mia ricchezza mi fa povero. Oh, potessi separarmi dal mio corpo! Formulerà un voto inaudito per un amante: oh se ciò che amo fosse distante! Ormai il dolore mi sottrae le forze e non mi resta più molto da vivere, e mi spengo nel fiore della giovinezza.