Livio - Ab Urbe Condita
Liber V

XXXVII - La disfatta dell'Allia

Cum tanta moles mali instaret - adeo occaecat animos fortuna, ubi vim suam ingruentem refringi non volt - civitas quae adversus Fidenatem ac Veientem hostem aliosque finitimos populos ultima experiens auxilia dictatorem multis tempestatibus dixisset, ea tunc invisitato atque inaudito hoste ab Oceano terrarumque ultimis oris bellum ciente, nihil extraordinarii imperii aut auxilii quaesivit. Tribuni quorum temeritate bellum contractum erat summae rerum praeerant, dilectumque nihilo accuratiorem quam ad media bella haberi solitus erat, extenuantes etiam famam belli, habebant. Interim Galli postquam accepere ultro honorem habitum violatoribus iuris humani elusamque legationem suam esse, flagrantes ira cuius impotens est gens, confestim signis convolsis citato agmine iter ingrediuntur. Ad quorum praetereuntium raptim tumultum cum exterritae urbes ad arma concurrerent fugaque agrestium fieret, Romam se ire magno clamore significabant quacumque ibant, equis virisque longe ac late fuso agmine immensum obtinentes loci. Sed antecedente fama nuntiisque Clusinorum, deinceps inde aliorum populorum, plurimum terroris Romam celeritas hostium tulit, quippe quibus velut tumultuario exercitu raptim ducto aegre ad undecimum lapidem occursum est, qua flumen Allia, Crustuminis montibus praealto defluens alveo, haud multum infra viam Tiberino amni miscetur. Iam omnia contra circaque hostium plena erant et nata in vanos tumultus gens truci cantu clamoribusque variis horrendo cuncta compleverant sono.

Sebbene incombesse minaccioso un pericolo tanto grave - a tal punto la fortuna acceca le menti, quando non vuole che venga spezzata la sua forza incalzante -, la città che contro i Fidenati, i Veienti e gli altri popoli confinanti, ricorrendo ad estremi rimedi aveva nominato a più riprese un dittatore, ora, di fronte ad un nemico mai visto né conosciuto, che portava la guerra provenendo dall'Oceano e dalle estreme regioni del mondo, non creò alcuna magistratura straordinari ae nessun aiuto eccezionale. Il potere supremo era nelle mani dei tribuni per la sconsideratezza dei quali era scoppiata la guerra essi tenevano una leva per nulla più accurata di quella che in genere si faceva per una guerra ordinaria; anzi andavano minimizzando quanto si diceva sul conflitto ormai imminente. I Galli intanto, quando seppero che era stato persino dato un premio ai violatori del diritto delle genti e che la loro delegazione era stata presa in giro, in preda all'ira (e quella popolazione è incapace di dominarla) subito levate in fretta le insegne, a marce forzate, si misero in cammino. Di fronte alla loro avanzata tumultuosa, le città correvano atterrite alle armi e i contadini si davano alla fuga, ma essi gridavano a gran voce che era a Roma che stavano andando; dovunque passassero con i cavalli e gli uomini, con un gran schieramento spiegato in larghezza, occupavano uno spazio enorme. La rapidità dei nemici, benché il loro arrivo fosse stato preceduto dalla fama e dai messaggeri dei Chiusini, provocò a Roma un grande terrore anche perché si andò incontro ai Galli, con un esercito disorganizzato e raccolto in fretta e furia, ad appena undici miglia da Roma, dove il fiume Allia, che scende dai monti Crustumini in un letto molto profondo, confluisce nel Tevere, non molto sotto la strada. Tutto era già pieno di nemici, di fronte e sui lati, e quella gente, incline per natura a vani schiamazzi, con canti selvaggi e grida diverse, aveva tutto riempito di spaventoso fragore.

XXXIX - Il sacrificio dei vecchi

[...] Nequaquam tamen ea nocte neque insequenti die similis illi quae ad Alliam tam pavide fugerat civitas fuit. Nam cum defendi urbem posse tam parva relicta manu spes nulla esset, placuit cum coniugibus ac liberis iuventutem militarem senatusque robur in arcem Capitoliumque concedere, armisque et frumento conlato, ex loco inde munito deos hominesque et Romanum nomen defendere; flaminem sacerdotesque Vestales sacra publica a caede, ab incendiis procul auferre, nec ante deseri cultum eorum quam non superessent qui colerent. si arx Capitoliumque, sedes deorum, si senatus, caput publici consilii, si militaris iuventus superfuerit imminenti ruinae urbis, facilem iacturam esse seniorum relictae in urbe utique periturae turbae. Et quo id aequiore animo de plebe multitudo ferret, senes triumphales consularesque simul se cum illis palam dicere obituros, nec his corporibus, quibus non arma ferre, non tueri patriam possent, oneraturos inopiam armatorum.

[...] (Tuttavia) in nessun modo quella notte né il giorno seguente la cittadinanza fu simile a quello che presso l'Allia era fuggito tanto pavidamente. Infatti poiché non c'era nessuna speranza di poter difendere la città con un tanto esiguo esercito rimanente, sembrò opportuno che la gioventù militare con le mogli e i figli ed i senatori più validi si ritirassero sulla rocca e il Campidoglio e, portate armi e frumento, che da quel luogo di là fortificato difendessero gli dei, gli uomini e il nome di Roma; che il flamine e le sacerdotesse vestali portassero le sacre cose pubbliche lontano dalla strage e dagli incendi, e che il culto degli dei non fosse abbandonato prima che fossero morti quelli che lo praticavano. Se la rocca e il Campidoglio, sedi degli dei, se il senato, capo del pubblico consiglio, se la gioventù militare fossero sopravvissuti all'imminente rovina della città, sopportabile sarebbe stata la morte della folla di vecchi rimasta in città che era comunque prossima a morire. E affinché la moltitudine della plebe soportasse ciò con animo più sereno, i vecchi trionfatori e ex consoli dissero pubblicamente che sarebbero morti insieme a loro e non avrebbero aggravato la mancanza degli armati con questi corpi, con i quali non potevano portare le armi, non potevano difendere la patria.

XLI

Romae interim satis iam omnibus, ut in tali re, ad tuendam arcem compositis, turba seniorum domos regressi adventum hostium obstinato ad mortem animo exspectabant. Qui eorum curules gesserant magistratus, ut in fortunae pristinae honorumque aut virtutis insignibus morerentur, quae augustissima vestis est tensas ducentibus triumphantibusve, ea vestiti medio aedium eburneis sellis sedere. Sunt qui M. Folio pontifice maximo praefante carmen devovisse eos se pro patria Quiritibusque Romanis tradant. Galli et quia interposita nocte a contentione pugnae remiserant animos et quod nec in acie ancipiti usquam certaverant proelio nec tum impetu aut vi capiebant urbem, sine ira, sine ardore animorum ingressi postero die urbem patente Collina porta in forum perveniunt, circumferentes oculos ad templa deum arcemque solam belli speciem tenentem. inde, modico relicto praesidio ne quis in dissipatos ex arce aut Capitolio impetus fieret, dilapsi ad praedam vacuis occursu hominum viis, pars in proxima quaeque tectorum agmine ruunt, pars ultima, velut ea demum intacta et referta praeda, petunt; inde rursus ipsa solitudine absterriti, ne qua fraus hostilis vagos exciperet, in forum ac propinqua foro loca conglobati redibant; ubi eos, plebis aedificiis obseratis, patentibus atriis principum, maior prope cunctatio tenebat aperta quam clausa invadendi; adeo haud secus quam venerabundi intuebantur in aedium vestibulis sedentes viros, praeter ornatum habitumque humano augustiorem, maiestate etiam quam voltus gravitasque oris prae se ferebat simillimos dis. ad eos velut simulacra versi cum starent, M. Papirius, unus ex iis, dicitur Gallo barbam suam, ut tum omnibus promissa erat, permulcenti scipione eburneo in caput incusso iram movisse, atque ab eo initium caedis ortum, ceteros in sedibus suis trucidatos; post principium caedem nulli deinde mortalium parci, diripi tecta, exhaustis inici ignes.

A Roma intanto, dopo che fu organizzato tutto per difendere la rocca, per quanto almeno era possibile, la massa dei vecchi che erano ritornati alle proprie case, attendeva l'arrivo dei nemici con l'animo già disposto ad accettare la morte. Quanti di loro avevan ricoperto una magistratura curule, per morire con le insegne del loro rango, delle loro cariche e del loro valore, indossata la veste più sontuosa, quella che indossarono quando condussero il carro degli dei o celebrarono il trionfo, si posero a sedere al centro dei loro palazzi su scranni d'avorio. Alcuni affermano che essi (a pronunciare la formula del giuramento fu il Pontefice Massimo Marco Folio) offrirono la loro vita agli dei per la patria, per i Romani Quiriti. I Galli, sia perché la notte aveva placato la tensione della battaglia, sia perché in campo non avevano mai combattuto con esito incerto e neppure per prendere la icttà dovevano ricorrere ad un assalto o all'uso della forza, il giorno dopo entrarono dalla Porta Collina che era spalancata senza sentimenti di odio o di furore e ginsero al Foro, volgendo intorno lo sguardo verso i templi degli dei e la rocca, unica immagine di guerra. Poi lasciarono nel Foro un piccolo presidio per evitare che qualcuno piombasse su di loro dalla rocca o dal Campidoglio mentre erano sparsi tutt'attorno, si sparpagliarono in cerca di preda per le vie deserte, in cui non si incontrava anima viva: alcuni irrompevano in massa verso le case più vicine, altri si dirigevano verso le più lontane, come se quelle fossero sicuramente intatte e piene di bottino. Poi, atterriti proprio da quel gran deserto, temendo che i nemici con un agguato li sorprendessero mentre andavano vagando, si riunirono di nuovo in gruppo nel Foro o nelle vicinanze; qui vedendo ben serrate le case plebee e spalancati gli atri nobiliari, li tratteneva quasi una maggior esitazione a irrompere nelle case aperte piuttosto che in quelle sprangate. Guardavano poi con un sentimento non dissimile dalla venerazione i personaggi seduti nei vestiboli dei palazzi, del tutto simili agli dei, non solo per l'abbigliamento e per il loro aspetto più nobile e più grande di quello umano, ma anche per la maestà che spirava dai loro sguardi e la dignità dei loro volti. Si racconta che, mentre stavano immobili di fronte a loro come davanti a statue, uno di questi nobili vecchi, Marco Papirio, colpì sulla testa col bastone d'avorio un Gallo che accarezzava la sua barba (era fluente come allora si usava): ciò provocò l'ira dcel barbaro e di lì ebbe inizio la strage. Tutti furono massacrati sui loro scranni. Dopo la strage dei nobili nessuno fu più risparmiato, le caase furono saccheggiate e quindi, dopo che furono vuotate, vennero date alle fiamme.

XLVII

Dum haec Veiis agebantur, interim arx Romae Capitoliumque in ingenti periculo fuit. Namque Galli, seu vestigio notato humano qua nuntius a Veiis pervenerat seu sua sponte animadverso ad Carmentis saxo in adscensum aequo, nocte sublustri cum primo inermem qui temptaret viam praemisissent, tradentes inde arma ubi quid iniqui esset, alterni innixi sublevantesque in vicem et trahentes alii alios, prout postularet locus, tanto silentio in summum evasere ut non custodes solum fallerent, sed ne canes quidem, sollicitum animal ad nocturnos strepitus, excitarent. Anseres non fefellere quibus sacris Iunonis in summa inopia cibi tamen abstinebatur. Quae res saluti fuit; namque clangore eorum alarumque crepitu excitus M. Manlius qui triennio ante consul fuerat, vir bello egregius, armis arreptis simul ad arma ceteros ciens vadit et dum ceteri trepidant, Gallum qui iam in summo constiterat umbone ictum deturbat. Cuius casus prolapsi cum proximos sterneret, trepidantes alios armisque omissis saxa quibus adhaerebant manibus amplexos trucidat. Iamque et alii congregati telis missilibusque saxis proturbare hostes, ruinaque tota prolapsa acies in praeceps deferri. Sedato deinde tumultu reliquum noctis, quantum in turbatis mentibus poterat cum praeteritum quoque periculum sollicitaret, quieti datum est. [...]

Mentre queste cose si discutevano a Veio, intanto la rocca di Roma e il Campidoglio si trovarono in grande pericolo. Infatti, sia avendo notato una traccia (impronta) umana la dove era giunto il nunzio da Veio, sia avendo notato da sé una roccia facile da salire presso il tempio di Carmenta, nella notte piuttosto chiara, dopo che ebbero mandato avanti innanzi un uomo disarmato per studiare il cammino, consegnando poi le armi dove ci fosse qualche difficoltà, sostenendosi l'un l'altro e sollevandosi a vicenda e trascinandosi gli uni gli altri, a seconda di come richiedesse il luogo, con silenzio tanto grande raggiunsero la sommità, che non solo sfuggirono alle sentinelle, ma non svegliarono neppure i cani, un animale attento ai rumori notturni. Non sfuggirono alle oche, le quali, sacre a Giunone, erano state risparmiate anche se vi era grande mancanza di cibo. Di qui venne la salvezza; e, infatti, svegliato per il loro starnazzare e per lo strepito delle ali Marco Manlio, che fu console tre anni prima, uomo eccellente in guerra, prese le armi, contemporaneamente chiamando alle armi tutti gli altri, e mentre tutti gli altri vanno in fretta, il Gallo, che era già arrivato in cima, colpito con l'umbone lo butta giù. Poiché la caduta di questo che era scivolato travolgeva quelli che gli venivano dietro, trucida gli altri che, impauriti, abbandonate le armi, erano aggrappati con le mani alle rocce alle quali stavano attaccati. E, infatti (prima) i romani in massa procurarono la più grande confusione nei nemici con il lancio dei dardi e dei sassi, (in seguito) tutta la schiera dei nemici ruzzola a precipizio travolta dalla caduta (dei primi). Poi, calmato il tumulto, il resto della notte fu dedicato al riposo, quanto si poteva ad animi turbati, poiché, anche se scongiurato, il pericolo li teneva in ansia. [...]

XLVIII

Sed ante omnia obsidionis bellique mala fames utrimque exercitum urgebat, Gallos pestilentia etiam, cum loco iacente inter tumulos castra habentes, tum ab incendiis torrido et vaporis pleno cineremque non pulverem modo ferente cum quid venti motum esset. Quorum intolerantissima gens umorique ac frigori adsueta cum aestu et angore vexati volgatis velut in pecua morbis morerentur, iam pigritia singulos sepeliendi promisce acervatos cumulos hominum urebant, bustorumque inde Gallicorum nomine insignem locum fecere. Indutiae deinde cum Romanis factae et conloquia permissu imperatorum habita; in quibus cum identidem Galli famem obicerent eaque necessitate ad deditionem vocarent, dicitur avertendae eius opinionis causa multis locis panis de Capitolio iactatus esse in hostium stationes. Sed iam neque dissimulari neque ferri ultra fames poterat. itaque dum dictator dilectum per se Ardeae habet, magistrum equitum L. Valerium a Veiis adducere exercitum iubet, parat instruitque quibus haud impar adoriatur hostes, interim Capitolinus exercitus, stationibus vigiliis fessus, superatis tamen humanis omnibus malis cum famem unam natura vinci non sineret, diem de die prospectans ecquod auxilium ab dictatore appareret, postremo spe quoque iam non solum cibo deficiente et cum stationes procederent prope obruentibus infirmum corpus armis, vel dedi vel redimi se quacumque pactione possint iussit, iactantibus non obscure Gallis haud magna mercede se adduci posse ut obsidionem relinquant. Tum senatus habitus tribunisque militum negotium datum ut paciscerentur. Inde inter Q. Sulpicium tribunum militum et Brennum regulum Gallorum conloquio transacta res est, et mille pondo auri pretium populi gentibus mox imperaturi factum. Rei foedissimae per se adiecta indignitas est: pondera ab Gallis allata iniqua et tribuno recusante additus ab insolente Gallo ponderi gladius, auditaque intoleranda Romanis vox, vae victis.

Ma la fame opprimeva entrambi gli eserciti più di tutti i mali dell'assedio e della guerra, inoltre un'epidemia (opprimeva) i galli che avevano gli accampamenti in un luogo sia infossato tra due colline, sia caldissimo per gli incendi e appena si levava un alito di vento, perché il vento portava cenere e non solo polvere. E poiché quella gente, che assolutamente non poteva tollerare questi fenomeni abituata com'era all'umidità e al freddo, moriva tormentata dal caldo soffocante, diffondendosi la malattia si diffondeva nel gregge, del resto per il fastidio di seppellirli uno per uno bruciavano cumuli di cadaveri accatastati alla rinfusa, da ciò (la gente)rese famoso il luogo col nome di "rogo dei galli". Si stipulò quindi una tregua coi romani e si ebbero abboccamenti con l'autorizzazione dei generali, ma in essi si dice che fu gettato del pane dal campidoglio sugli appostamenti dei nemici, per stornare tale opinione, poiché i galli rinfacciavano ai romani la fame(di cui soffrivano) e l'invitavano in nome di tale necessità, alla resa. Ma ormai la fame non poteva essere nascosta ne sopportata di più. Pertanto mentre il dittatore attende personalmente alla leva ad Ardea, ordina al comandante della cavalleria Lucio Valerio di condurre l'esercito da Veio, prepara ed istruisce con (tutti) i mezzi con cui poté affrontare i nemici in condizioni di parità, l'esercito capitolino stanco per i turni di guardia diurni e notturni, superando tutti i mali umani, mentre solo la fame per natura non si poteva vincere, aspettando giorno dopo giorno che apparisse un aiuto dal dittatore, mancando la speranza non solo il cibo poiché i corpi indeboliti quasi cedevano sotto il peso delle armi poiché i turni di guardia si susseguivano, volle o arrendersi o riscattarsi a qualunque condizione, tanto più che i galli apertamente andavano ripetendo che erano disposti ad abbandonare l'assedio dietro pagamento di un riscatto non eccessivo. Allora il senato viene convocato e si da mandato ai tribuni di accordarsi. Quindi l'accordo viene preso tra il tribuno Sulpicio e il regolo dei galli Breno con un colloquio, e fu fissato il prezzo di mille libre d'oro per un popolo destinato a dominare il mondo. Al fatto già di per sé umiliantissimo si aggiunse l'indegnità: i pesi sono portati dai galli inesatti e aggiunta la spada sulla bilancia dall'insolente a causa delle proteste del tribuno, fu sentita una voce intollerabile per i romani "guai ai vinti".

XLIX

Sed dique et homines prohibuere redemptos vivere Romanos. nam forte quadam priusquam infanda merces perficeretur, per altercationem nondum omni auro adpenso, dictator intervenit, auferrique aurum de medio et Gallos submoveri iubet. cum illi renitentes pactos dicerent sese, negat eam pactionem ratam esse quae postquam ipse dictator creatus esset iniussu suo ab inferioris iuris magistratu facta esset, denuntiatque Gallis ut se ad proelium expediant. Suos in acervum conicere sarcinas et arma aptare ferroque non auro reciperare patriam iubet, in conspectu habentes fana deum et coniuges et liberos et solum patriae deforme belli malis et omnia quae defendi repetique et ulcisci fas sit. Instruit deinde aciem, ut loci natura patiebatur, in semirutae solo urbis et natura inaequali, et omnia quae arte belli secunda suis eligi praepararive poterant providit. Galli nova re trepidi arma capiunt iraque magis quam consilio in Romanos incurrunt. Iam verterat fortuna, iam deorum opes humanaque consilia rem Romanam adiuvabant. Igitur primo concursu haud maiore momento fusi Galli sunt quam ad Alliam vicerant. Iustiore altero deinde proelio ad octavum lapidem Gabina via, quo se ex fuga contulerant, eiusdem ductu auspicioque Camilli vincuntur. Ibi caedes omnia obtinuit; castra capiuntur et ne nuntius quidem cladis relictus. Dictator reciperata ex hostibus patria triumphans in urbem redit, interque iocos militares quos inconditos iaciunt, Romulus ac parens patriae conditorque alter urbis haud vanis laudibus appellabatur. Servatam deinde bello patriam iterum in pace haud dubie servavit cum prohibuit migrari Veios, et tribunis rem intentius agentibus post incensam urbem et per se inclinata magis plebe ad id consilium; eaque causa fuit non abdicandae post triumphum dictaturae, senatu obsecrante ne rem publicam in incerto relinqueret statu.

Ma gli dei e gli uomini impedirono che i romani venissero riscattati. Infatti, per destino, prima che fosse compiuto l'indicibile mercato attraverso una discussione non ancora pesato tutto l'oro, il dittatore intervenne e ordinò che si togliesse di mezzo l'oro e che i Galli venissero allontanati. Poiché quelli si opponevano affermando di aver concluso un accordo, egli negò che fosse valido il patto che era stato concluso da un suo magistrato di grado inferiore, dopo che egli era stato eletto dittatore e senza il suo consenso, e intima ai Galli di prepararsi alla battaglia. Camillo ordinò ai suoi di accumulare i bagagli, di approntare le armi e con il ferro e non con l'oro riscattare la patria, e avendo sotto gli occhi i templi degli dei, le spose, i figli, la terra patria devastata dai mali della guerra, e tutte le cose che è sacro dovere difendere e riconquistare, vendicare. Prima quindi, orinò le schiere, come la natura del luogo permetteva, sul territorio della città semidistrutta e accidentato per natura, e predispose tutto ciò che, secondo l'arte militare, poteva essere scelto e disposto a vantaggio dei suoi. I Galli turbati dalla nuova situazione presero le armi e con più furore che accorgimento si gettano sui romani. Già la sorte era mutata, ora le decisioni umane e le opere degli dei sostenevano la causa di Roma. Dunque al primo scontro i Galli furono sbaragliati in un tempo non superiore a quello con cui essi avevano preso l'Allia. Poi, in un altro combattimento più regolare, a 8 miglia da Roma sulla via Gabinia, in cui si erano rifugiati dopo la fuga, sotto il comando e auspicio dello stesso Camillo, furono vinti. Lì la strage fu generale; venne preso l'accampamento e non fu lasciato vivo nemmeno un messaggero. Il dittatore recuperata dai nemici la patria, trionfante tornò in città, e tra i lazzi grossolani dei soldati, i quali giacevano disordinatamente, e fu chiamato Romolo e secondo fondatore della città con lodi ben meritate. Senza dubbio salvò per la seconda volta la patria in pace e poi in guerra, quando proibì di emigrare a Veio, benché i tribuni sostenessero la proposta ancora più insistentemente dopo l'incendio della città, e benché la plebe autonomamente fosse più disposta a questo, e questo fu il motivo per cui non rinunciò alla dittatura dopo il trionfo, poiché il senato lo scongiurava di non abbandonare lo stato i condizioni precarie.