Cicerone - Versioni varie

Numa Pompilio non fu discepolo di Pitagora

Vulgo saepe dicitur Numa Pompilius Pythagorae discipulus in Italia fuisse. Hoc enim ex maioribus nostris audivimus, sed non annalium publicorum auctoritate satis declaratus est. Falsum id totum mihi videtur, neque solum fictum, sed etiam imperite absurdeque fictum. Nam quartum iam annum regnante Lucio Tarquinio Superbo Sybarim et Crotonem Pythagoras venisse reperitur. Olympias enim secunda et sexagesima Superbi regni initium et Pythagorae adventum declarat. Ex quo intellegi, annis regiae potestatis dinumeratis, potest anno fere centesimo et quadragesimo post mortem Numae Pythagoram Italiae litora attigisse; neque hoc est unquam in dubitatione versatum inter eos qui diligentissime persecuti sunt temporum annales, quamquam iste error est inter homines inveteratus. Ita videmur nos non esse transmarinis neque importatis artibus eruditi, sed genuinis domesticisque virtutibus.

Si dice spesso al popolo che Numa Pompilio fu discepolo di Pitagora in Italia. Infatti abbiamo appreso questo dai nostri antenati, ma (ciò) non fu dichiarato abbastanza dall'autorità degli annali publici. Ciò mi sembra completamente falso, e non solo finto, ma anche grossolanamente ed assurdamente finto. Infatti già nel quarto anno del regno di Lucio Tarquinio il Superbo si legge che Pitagora venne a Sibari e a Crotone. Infatti la sessantaduesima Olimpiade segna l'inizio del regno del Superbo e l'arrivo di Pitagora. Da ciò si può capire, dopo aver contato gli anni della carica regale, che Pitagora toccò le spiagge dell'Italia quasi centoquaranta anni dopo la morte di Numa. E questo non è mai messo in dubbio tra quelli che hanno analizzato molto diligentemente gli annali dei tempi, benché questo errore sia radicato tra gli uomini. Perciò sembra che non siamo stati eruditi sulle arti d'oltremare né in quelle importate da fuori, ma sui valori indigeni e domestici.

Origine e fondamenti della civiltà

Quis enim nostrum ignorat ita naturam tulisse ut quodam tempore homines, nondum neque naturali neque civili iure descripto, fusi per agros ac dispersi vagarentur, tantumque haberent quantum manu ac viribus per caedem ac vulnera aut erigere aut retinere potuissent? Qui igitur primi virtute et consilio prestanti exstiterunt, ii, perspecto genere humanae docilitatis atque ingenii, dissipatos unum in locum congregarunt, eosque ad mansuetudinem transduxerunt. Tum res ad communem utilitatem, quas puclicas appellamus, tum conventicola hominum, quae postea civitates nominatae sunt, tum domicilia coniuncta, quas urbes dicimus, invento et divino iure et humano, moenibus saepserunt. Atque inter hanc vitam perpolitam humanitate et illam immanem nihil tam interest quam ius atque vis. Horum utro si uti nolimus, altero est utendum. Vim volumus estingui: ius valeat nocesse est, id est sudicia, quibus omne ius continetur. Iudicia displicent aut nulla sunt: vis dominetur necesse est.

Chi di noi infatti ignora che la natura aveva voluto che un tempo gli uomini, quando non era stata scritta ancora né una legge naturale né una civile, erravano sparsi e dispersi per i campi, e avevano tanto quanto avevano potuto o sottrarre o risparmiare con le loro mani e con le loro forze, con il sangue e con le ferite? Coloro che risultano primi in valore e nel prestare consiglio, quelli che, compresa la faccenda dell'umana facilità di imparare e dell'intelligenza, radunarono i dispersi in un solo luogo e li addomesticarono. Questi circondarono con mura, stabilita una legge sia divina che umana, sia le case per un'utilità comune, che chiamiamo pubbliche, sia le associazioni di uomini, che in seguito furono chiamate cittadinanze, sia le case unite (agglomerati di case), che chiamiamo città. E tra questa vita raffinata con l'educazione e quella bestiale non vi è alcuna differenza quanta non ve ne è tra la legge e la forza (come tra legge e forza). Se non vogliamo servirci dell'una, dobbiamo servirci dell'altra. Vogliamo che la violenza sia annientata: è necessario che prevalga la giustizia, cioè le sentenze sulle quali si fonda ogni diritto. Le decisioni o dispiacciono o non hanno valore: è inevitabile che la forza domini.

La discussione filosofica

Sed ut Aristoteles, vir summo ingenio, scientia, copia, cum motus esset Isocratis rethoris gloria, docere etiam coepit adulescentes et prudentiam cum eloquentia iungere, sic nobis placet nec pristinum dicendi studium deponere et in hac maiore et uberiore arte versari. Hanc enim perfectam philosophiam semper iudicavi, quae de maximis quaestionibus copiose posset ornateque dicere; in quam exercitationem ita nos studiose dedimus, ut iam etiam scholas Graecorum more habere auderemus. Nuper in Tusculano cum essent complures mecum familiares, temptavi quid in eo genere possem.
Ut enim antea declamitabam causas, quod nemo me diutius fecit, sic haec mihi nunc senilis est declamatio. Ponere iudebam de quo quis audire vellet; ad id aut sedens aut ambulans disputabam.
Itaque dierum quinque scholas, ut Graeci appellant, in totidem libros contuli. Fiebat autem ita, ut, cum is qui audire vellet dixisset quid sibi videretur, tum ego contra dicerem. Haec est enim - ut scis - vetus et Socratica ratio contra alterius opinionem disserendi.

Ma come Aristotele, uomo di estrema intelligenza, sapere e facondia, poichè fu spinto dalla gloria dell'oratore Isocrate, prese anche ad insegnare ai ragazzi e ad unire la saggezza all'eloquenza, così anche a me non abbandonare l'antico studio dell'oratoria e dedicarmi a questa più vasta e ricca arte. Infatti io ho sempre pensato che questa sia la perfetta filosofia: quella che possa parlare con abbondanza ed in modo raffinato sulle questioni più elevate; e mi sono già esercitato su questa con tanto impegno che avrei il coraggio di tenere persino delle lezioni alla maniera dei Greci. Non molto tempo fa a Tuscolano, mentre vi si trovavano parecchi miei parenti, ho sperimentato quali fossero le mie capacità in quel genere: Come infatti in precedenza declamavo le cause del tribunale, cosa che nessuno ha fatto più spesso di me, così ora questa attività è una declamazione fatta da vecchio. Ordinavo che ciascuno proponesse l'argomento del quale voleva sentir parlare.
Di quello parlavo seduto o mentre passeggiavo. Così ho raggruppato le lezioni - come le chiamano i Greci - di cinque giorni in altrettanti libri.
Accadeva tuttavia che, dopo che chi voleva ascoltare aveva espresso la sua opinione, allora io la confutassi. Questo è, infatti, il vecchio e socratico metodo - come sai - del discutere contro l'opinione di qualcuno.

Non temo la morte

Ego vero immortalitatem contra rem publicam accipiendam putarem, neque emori cum pernicie rei publicae vellem. Si tum illorum impiorum manu concidissem, res publica praesidium salutis suae perdidisset. Quin etiam, si me vis aliqua morbi consumpsisset, auxilia posteritatis essent immunita, quod peremtum esset mea morte id exemplum, qualis in me consule retinendo fuisse senatus populusque Romanus. An, si umquam in me vitae cupiditas fuisset, ego mense Decembri mei consulatus omnium parricidarum tela contra me commovissem?

Io veramente non avrei pensato di ricevere l'immortalità (andando) contro il mio paese, né avrei mai accettato di morire con la rovina del mio paese. Se fossi caduto allora, per mano di quegli scellerati, il paese avrebbe perduto una difesa della sua integrità. Che anzi, se mi avesse fatto morire qualche attacco di malattia, sarebbero venuti a mancare anche gli aiuti di altri, dopo di me, perché con la mia morte si sarebbe perduto l'esempio di come si era comportato il senato e il popolo romano per conservarmi console. Forse che, se ci fosse mai stato in me desiderio di vivere, io nel mese di dicembre del mio consolato, avrei fatto levare contro di me le armi di tutti quei delinquenti?

Il politico dovrebbe servire i cittadini

Qui rei publicae instituta defendunt, optimates sunt, cuiuscumque ordinis sunt. Qui autem praecipue suis cervicibus tanta munia atque rem publicam sustinent, hi semper habiti sunt optimatum principes, auctores et conservatores civitatis. Huic hominum generi fateor multos adversarios, inimicos, invidos esse, multa proponi pericula, multas inferri iniurias, magnos experiendos et subeundos labores. Sed ego de virtute, non de desidia, loquor, de dignitate non de voluptate, de iis qui se patriae, qui suis civibus, qui laudi, qui gloriae, non qui somno et conviviis et delectationi natos arbitrantur. Nam, si qui voluptativus ducuntur et se vitiorum illecebris et cupiditatum lenociniis dediderunt, missos faciant honores, neve attingant rem publicam, patiantur se otio suo perfrui vivorum fortium labore. Qui autem bonam famam apud bonos cives, quae sola vera gloria nominari potest, expetunt, aliis otium et commoda quaerere debent, non sibi. Sudandum est iis pro communibus commodis, adeundae inimicitiae, subeundae saepe pro re publica tempestates, cum multis audacibus, improbis, nonnumquam etiam potentibus, dimicandum est.

Coloro che difendono le istituzioni dello stato sono gli optimates, di qualsiasi ceto siano. Coloro che invece sostengono particolarmente sulle proprie spalle il peso dello stato e così grandi doveri, questi sono stati sempre considerati i primi fra gli optimates, fautori e salvatori dell'ordinamento cittadino. Ammetto che questo genere di uomini ha molti avversari, nemici, invidiosi, (gli) vengono minacciati molti pericoli, (gli) vengono recate molte offese, grandi pene da affrontare e sopportare. Ma io parlo del valore e non della pigrizia, dell'onore e non del piacere, di quelli che si reputano destinati alla patria, ai loro cittadini, al merito, alla gloria e non di quelli che (si reputano destinati) al sonno, non di quelli che (si reputano destinati) ai banchetti e al piacere. Infatti, se coloro che sono trasportati dai piaceri e si sono abbandonati alle attrattive dei vizi e agli allettamenti delle passioni, questi rinuncino alle cariche tralasciate, e non si occupino di politica, si accontentino di godere del proprio ozio grazie alle fatiche dei vivi forti. Coloro che invece desiderano una buona fama tra i cittadini onesti, la qual cosa si può considerare la sola vera gloria, devono riservare l'ozio e gli agi agli altri, non a sé stessi. Questi devono faticare per gli interessi comuni, devono assalire le inimicizie, devono sobbarcarsi spesso le sciagure in favore dello stato, devono combattere contro molti temerari, talvolta anche potenti.

Il creato, opera dell'intelligenza divina

Cum caelum suspeximus caelestiaque contemplati sumus, quid potest esse tam apertum tamque perspicuum quam esse aliquod numen praestantissimae mentis, quo haec regantur? Si quis in domum aliquam aut in gymnasium aut in forum venerit, cum videat omnium rerum rationem, modum, disciplinam, non possit ea sine causa fieri iudicare, sed esse aliquem qui praesit et cui pareatur. Multo magis in tantis motionibus tantisque vicissitudinibus, tam multarum rerum atque tantarum ordinibus, statuat necesse est ab aliqua mente tantos naturae motus gubernari. "Si enim" inquit Chrysippus "est aliquid in rerum natura, quod potestas humana efficere mon possit, certe id quod illus efficit, est homine melius; atqui res caelestes ab homine confici non possunt; est igitur id, a quo illa conficiuntur, homine melius". Id autem quid potius dixeris quam Deum?

Quando innalziamo (perfetto gnomico) lo sguardo al cielo e contempliamo le cose celesti, cosa può essere tanto palese e tanto manifesto quanto il fatto che essiste qualche divinità dall'intelligenza assai straordinaria, dalla quale le cose sono regolate? Se qualcuno venisse in qualche casa o in una palestra o nel foro, vedendo l'organizzazione, la giusta misura e la norma di condotta di tutte le cose, non potrebbe concludere che quelle cose sono fatte senza un motivo fondato, ma che esiste qualcuno che sovrasta e a cui si è sottoposti. Molto di più è inevitabile che si decida che, in così grandi movimenti, in così grandi mutamenti, nelle regolarità di cose tanto importanti e numerose, i così grandi moti della natura siano governati da una qualche intelligenza. Disse Crisippo: "Se infatti c'è qualcosa nella natura, che la potenza umana non può fare, certamente ciò che ha fatto quello, è migliore dell'uomo; eppure le cose celesti non possono essere fatte dall'uomo, pertanto quest'essere, da cui sono state fatte, è migliore dell'uomo". Ma quest'essere come lo chiameresti, se non Dio?

Maligno giudizio sui democratici

Fundamenta Romanae rei publicae haec sunt, haec membra, quae tuenda rectoribus vel capitis periculo et defendenda sunt: religio, potestates magistratuum, senatus auctoritas, leges, mos maiorum, fides, provinciae, socii, imperii laus, res militaris, aerarium. Harum rerum esse defensorem et patronum magni animi est, magni ingenii magnaeque constantiae. Etenim in tanto civium numero magna multitudo est eorum, qui, aut propter metum poenae peccatorum suorum novos motus conversionesque rei publicae quaerant, aut qui, propter insitum quendam animi furorem, discordiis civium ut seditione pascantur, aut qui, propter implicationem rei familiaris, communi incendio malint quam suo deflagrare. Qui cum nacti sunt duces suorum studiorum vitiorumque, in re publica fluctus excitantur, ita ut vigilandum sit iis, qui gubernacula patriae obtinent, enitendumque omni scientia ac diligentia ut, conservatis iis quae ego paulo ante esse dixi fundamenta et membra civitatis, tenere cursum poterint et capere portum otii.

I fondamenti dello stato Romano sono questi, queste le strutture che i governanti devono proteggere e difendere anche a costo della vita: la pratica religiosa, i poteri delle magistrature, autorità del senato, le leggi, il costume degli antenati, l'onestà, i governi delle province, gli alleati, la gloria del governo, la potenza militare, l'erario. Essere difensore e arbitro di queste cose è proprio di un animo coraggioso, di una grande intelligenza e di una grande fermezza. E infatti in un così grande numero di cittadini una grande moltitudine è di quelli (tali) che, o per la paura della punizione dei loro errori, chiedono per lo stato nuovi cambiamenti e mutamenti, o (tali) che, a causa di un certo furore insito nel carattere, si nutrono delle discordie dei cittadini come della rivolta, o che, a causa del dissesto del patrimonio, preferiscono bruciare in un incendio comune che da soli. E quando questi si sono imbattuti nelle guide dei loro desideri e vizi, smuovono dei moti nello stato, cosicché quelli che ottengono il governo della patria devono stare in guardia, e distinguersi in ogni modo cosicche, salvaguardati quelli che io poco sopra ho detto essere i fondamenti e le strutture della costituzione, si possa conservare la rotta e conseguire lo scopo della pace sociale.

Il programma di governo del console Cicerone

Ego quidem kalendis Ianuariis acceperim rempublicam, Quirites, intellego, plenam sollicitudinis, plenam timoris, in qua nihil erat mali, nihil adversi, quod boni non metuerant, improbi non exspecterant. Quae cum ego non solum suspicarer, sed plane cernerem, dixi in senatu me popularem consulem futurum. Quid enim est tam populare quam pax? qua non modo ii quibus natura sensum dedit, sed etiam tecta atque agri mihi laetari videntur. Quid tam populare quam libertatis? quam non solum ab hominibus, verum etiam a bestiis expeti atque omnibus rebus anteponi videtis. Quid tam populare quam otium? quod ita iucundum est ut et vos et maiores vestri et fortissimus quisque vir maximos labores suscipiendos putet ut aliquando in otio esse possit. Quin etiam maioribus nostris praecipuam laudem debemus quod eorum labore est factum ut impune in otio esse possemus. Itaque qui modo possum non esse popularis, cum videam haec omnia, Quirites, pacem externam, libertatem, otium domesticum, denique omnia, quae vobis cara sunt, in fidem et in patrocinium mei consulatus esse collata?

Io capisco, o Quiriti, quale Stato io abbia preso in mano il primo gennaio, pieno di affanni, pieno di paura, nel quale con c'era nessun male, nessun'avversione che glio onesti non temessero e i disonesti non aspettassero. Ed io, non solo sospettanto queste cose, ma vedendo(le) chiaramente, ho detto in senato che sarei stato console del popolo. E infatti cosa c'è di tanto popolare quanto la pace? E mi sembra che non solo quelli ai quali la natura ha dato la percezione, ma anche tetti e campi si rallegrino di questa. Che c'è di tanto popolare quanto la libertà? E vedete che essa e ricercata non solo dagli uomini, ma anche dalle bestia e che è anteposta a tutte le (altre) cose. Che c'è di tanto popolare che la tranquillità? Ed essa è così allegra che sia voi che i vostri antenati e tutti gli uomini più forti pensano che bisogna sobbarcarsi le fatiche più grandi affinché una buona volta si possa stare in tranquillità. Che anzi dobbiamo una lode precipua ai nostri antenati perché grazie alla loro fatica è avvenuto che noi possiamo stare tranquillamente in pace. Pertanto come posso non essere dalla parte del popolo, vedendo che tutte queste cose, Quiriti, (e cioè) la pace esterna, la libertà, la tranquillità interna e infine tutte le cose che vi sono care, sono state portate in garanzia e tutela del mio consolato?

Com'è nata la società degli uomini

Populus est non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus. Eius autem prima causa coëundi est non tam imbecillitas quam naturalis quaedam hominum quasi congregatio. Urbis condendae originem atque causam non unam intulerunt, sed alii eos homines, qui sint ex terra primitus nati, cum per silvas et campos erraticam vitam degerent nec ullo inter se sermonis aut iuris vinculo coharerent, bestiis et fortioribus animalibus praedae fuisse commemorant. Tum eos, qui laniai effugerant aut laniari proximos viderant, admonitos periculi sui, ad alios homines decurrisse, praesidium implorasse et primo nutibus voluntatem suam significasse, deinde sermonis initia temptasse. Cum autem nec multitudinem ipsam viderent contra bestias esse tutam, oppida etiam coepisse munire. Haec aliis doctis hominibus delira visa sunt, dixeruntque non ferarum laniatus causam fuisse coëundi, sed ipsam potius humanitatem, itaque inter se congregatos, quod natura hominum solitudinis fugiens et communionis ac societatis adpetens esset.

Il popolo non è ogni raggruppamento di uomini riuniti in qualche modo ma una consociazione di una moltitudine fondata sull'osservanza del diritto e sul comune vantaggio. La prima causa di quest'unirsi è non tanto la debolezza, quanto una certa aggregazione per così dire innata negli uomini. Alcuni non hanno addotto una sola causa originaria del fondare una città, ma altri ricordano che quegli uomini che che sono nati per primi dalla terra, trascorrendo una vita errabonda per le feste e i campi e non essendo uniti fra loro da alcun legame di legge o lingua, furono prede per le bestie e per gli animali più forti. (Ricordano) che allora quelli che erano fuggiti straziati e che avevano visto i simili dilaniati, consapevoli del pericolo per loro, sono vicini agli altri uomini e hanno chiesto protezione e per la prima volta manifestarono la propria volontà con gesti, in seguito sperimentarono delle forme di linguaggio. Ma, vedendo che tuttavia una moltitudine non era protetta contro le bestie, (ricordano) che cominciarono anche a fortificare i villaggi. Queste cose sono sembrate pazzie agli altri uomini sapienti, e hanno detto che la causa di unirsi non fu lo strazio delle bestie feroci, ma piuttosto la stessa umanità, e pertanto gli uomini si riunirono fra di loro perché la natura dell'uomo è incline a evitare la solitudine e desiderosa di comunanza e di una società.