L'ambiente e le attività umane

La maggior parte delle foto d'epoca che seguono e le informazioni sulle persone, mi sono state gentilmente fornite da Italo Panella, Matteo (Decimo) Boscardin e Luigina Cadò.

 

Nel corso del tempo l’Altopiano e il Comune di Lusiana sono stati oggetto dell’interesse di storici locali ed esterni per le caratteristiche particolari del territorio, degli insediamenti, delle attività tradizionali e dell’organizzazione sociale. Inoltre un’antica lingua, il “cimbro”, ancora oggi presente in qualche angolo dell’altopiano, in alcune zone della Lessinia e nel Comune di Luserna e simile alla parlata dei “Mocheni” ha sempre destato curiosità e per certi aspetti anche confusione. Le ricerche linguistiche poi, più che ad interessi di tipo etnografico, sembrano quasi sempre finalizzate alla dimostrazione di una teoria sulla “terra cimbra” sostenuta più con i sentimenti che con la ragione. Il grande storico locale Agostino Dal Pozzo ha sostenuto, per esempio, l’ipotesi di una presenza ininterrotta dell’uomo sull’altopiano, dai primi popolamenti fino al suo presente, in base a valutazioni di tipo storiografico più che ad interpretazioni sull’organizzazione sociale e sulle probabili modificazioni. Si deve comunque tenere presente che alcuni elementi di valutazione sono recenti (gli atti notarili e l’uso dei cognomi diventano comuni solo attorno al 1500) ed altri possono modificarsi in breve tempo come per esempio contrada Maini che si chiamava “Esechele” fino a dopo il 1800 o il monte Gusella denominato “Monte Mosca” nelle carte militari della prima guerra mondiale. Materiali interessanti quali i documenti dell’archivio comunale di Lusiana che risalgono al 1400 e che sembrano testimoniare, con diversi verbali delle vicinie, una dinamica sociale molto attiva, sono in fase di sistemazione e si spera possano essere oggetto di studio in tempi brevi.
I PERCORSI E LE SISTEMAZIONI - La presenza dell’uomo è invece attestata nel territorio Lusianese fino al paleolitico medio e con ragionevole probabilità si è sviluppata in modo continuativo fino ai giorni nostri. Per arrivare a questo tipo di considerazione si può fare ricorso all’analisi di tutti quei segni che il territorio conserva del passaggio dell’uomo e dell’esercizio delle sue attività. In ogni caso l’uomo, i primi uomini, sono arrivati in questo territorio seguendo dapprima le orme e le piste degli animali in quella continua ricerca di cibo che caratterizzava il periodo. Seguivano gli animali per cacciarli e avevano bisogno dell’acqua. Con molta probabilità gli alvei dei torrenti non si sono modificati nel tempo ed hanno consentito o facilitato la penetrazione nella valle del Chiavone, nella valle di Laverda e, per altre vie, nella vallata di S. Caterina.


LA CONTRADA DELLA MEMORIA

I gruppi familiari spesso o prendono o danno il nome alla contrada. Il fenomeno è molto più accentuato in Lessinia mentre da noi esistono contrade storiche (Cavassi, Troio, Marziele, Quanello) che non sono cognomi, contrade che hanno cambiato nome e cognomi così diffusi da rendere inverosimile l’origine di tutti i Pozza dalla Pozza o di tutti i Ronzani dai Ronzani. Qualche volta la contrada è un qualcosa di unico e questo capita quando è la contrada di origine e

anche se uno va via resta la sua contrada un qualcosa a cui pensa quando si pensa a qualcosa di caro. Le case, le piazzette, le corti, le “stradele”, i pozzi non sarebbero niente senza la gente. Le persone con cui si va d’accordo, quelle che si vogliono bene, i parenti e via via tutta la gente della contrada ma non quella di adesso, ognuno con la sua macchina, i suoi “schei”, ciao, ciao, e “sciao”. No, la contrada della memoria, quella che si ricorda, quella animata da quei nomi strani come la Neta Turca, la Maria Otri, l’Angela de Augusto, el Napolion, el Bortolon, Piero Coche, Toni Scandola, Cero e avanti con una sequenza senza fine. Vita tribolata ma anche vissuta con un rapporto con altri e con la natura diverso da quello di oggi.

Tratto da un articolo di Antonio Cantele nel libro “Lusiana, natura, ambiente, paesaggio”

     

 

 

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DIDASCALIE DELLE PERSONE DELLA FOTO SCATTATA NELLA PRIMAVERA DEL 1929 IN CONTRADA MIOTTI

I riferimenti numerici della foto corrispondono esattamente alla descrizione sottostante.

1       Figlia di Piero della Regina (di contrada Cavassi).

2       Ida Lupato (Radiski).

3       Marietta Boscardin (Lusiati) – Sorella o sorellastra  di Virginia Boscardin (vedi n° 27).

4       Nina Postejona – Sposata con Esoppi, - proveniva da contrada Xausa – [Nonna di Pio della Betta].

5       Giovanna Boscardin (Mante) – Lei (o il marito) proveniva dai Vendramini [Mamma di Elia (Mante)].

6       Teresa (?) Boscardin – (detta “Temporale”) – Proveniva da contrada Passuelli. [Sorella di “Ciarcia” detto “Sbessolon” di Vitarolo morto nel giugno 2005.

7       Marietta  Ronzani – proveniva da Marziale, sposata con Lupato (Radiski) [Mamma di Virginio, Bele, Bortolo e Alice].

8       Passuello Francesca detta “Checca” [Mamma di Davide Boscardin – Ronco e nonna di Rita].

9       Busa Maria (Gala) – proveniva da Sciessere [Mamma di Giovanni, Toni, Angela …..].

10   La “Vecia” Vendetta – proveniva da contrada Xausa, Sposata a Passuello Bortolo fratello di Passuello Francesca detta “Checca” (vedi n° 8).

11   Ronzani Caterina (Catina de Ronco) [Moglie di Davide Boscardin – (Ronco) e mamma di Rita, Gino, Battista, Francesco], nacque a Miotti in quanto il padre Giovanni Battista, originario di Marziele, sposò la nonna di Rita Margherita Boscardin e venne ad abitare a casa della moglie (“marìo cucco”).

12   Boscardin Giovanni Battista [Figlio di Davide e Catina (n° 11) e quindi fratello di  Rita].

13   Maria Franco – proveniva da Laverda – Sposò Giovanni Boscardin, fratello di Bortola e del “Moro” (papà di Pio della Betta). [Mamma di Mattio di Laverda e zia di Pio della Betta].

14   Rosa Boscardin, figlia di Vincenzo “Boso”, Sposò in seconde nozze  Sandro Sartori. [E’ la mamma di “Lena” n° 15]

15   Maddalena Sartori (Lena). Figlia di Rosa Boscardin –(n° 14 ) e Sandro Sartori. (Lena ha pochi mesi o giorni).

16   Esoppi Elisabetta (“Betta”). Sposò “il Moro” (vedi n° 13) [Mamma di Pio]. Ha in braccio la figlia Emma (n° 17).

17   (vedi n° 16).

18   Giustina Boscardin [Figlia di Giovanni Boscardin e Maria Franco, sorella di Mattio di Laverda].

19   Matteo Boscardin (“Mattio di Laverda”). E’ in braccio a Giovanni (“Nane”) Boscardin (“Naske”).

20   Giovanni Boscardin (“naske”). (Papà di Oreste e “Toi” Naske). [Il cognome di sua moglie era “Rech”].

21   Maddalena Sartori (“Nei Cantona”), proveniva dalla contrada Piazza, la sua famiglia era soprannominata “Strambeti” [Matrigna di Catina “Ronco” (mamma di Rita), ha in braccio Gino Boscardin (n° 22) fratello di Rita].

22   (vedi n° 21).

23   Caterina Boscardin, proveniva da contrada Passuelli [Moglie di Bele Lupato (Radiski) e mamma di Maria, Vittorio e Franca].

24   Maria Lupato (Radiski), figlia di Caterina Boscardin (n° 23) e Bele Lupato.

25   Alice Lupato (Radiski) [Sorella di Bele, Virginio e Bortolo Lupato. Sposata a S. Caterina, è mancata nel 2001 circa].

26   Giuseppe Esoppi (“Bepi Postejon” o  “Bepi Scarparo”).

27   Virginia Boscardin (Lusiati) [Moglie di Passuello (“Baruti”) e zia di Don Giovanni Boscardin.

28   Teresina Boscardin (Lusiati) [Figlia di Matteo (“Mattio”) Boscardin (Lusiati) e della “Canepa” di S. Caterina, era sorella di  Don Giovanni Boscardin, morto parroco a Vighizzolo d’Este].

29   Lucia, Figlia di Marietta Boscardin (Lusiati) (vedi n° 3) e morta nel 1945 per bombardamento aereo a “Stradon dei Sandri].

30   Sartori Marcello Domenico (“Toni Gala”), figlio di Busa Maria “Gala” (n° 9).

31   Matteo Boscardin (“Pio della Betta”).

32   Angela Sartori (“Angela de Sandro”), da contrada Bacele [Figlia di Alessandro Sartori, sua mamma proveniva da contrada Lebele (Tratte) vicino Cobbaro].

33   (“Rina Vendetta”). [Nipote della “Vecia Vendetta” (vedi n° 10)] Sua mamma (“Catina Vendetta”) era nipote di Passuello Francesca detta “Checca” (n° 8) e sposò un certo Frello di S.Caterina che emigrò in America con un figlio senza dare più alcuna notizia di sé. La figlia Rina nacque nel 1918 e ambiva fin da piccola a fare l’attrice, sposò un barone milanese decaduto in compagnia del quale ritornò almeno occasionalmente a Lusiana.

34   Margherita (Rita) Boscardin (“Ronco”). [Vive a Levanto SP – Enciclopedia vivente, suggeritrice di tutte le informazioni qui riportate].

35   Rina, sorella di Pio della Betta

36   Angela, sorella di Pio della Betta.

37   Veronica Boscardin, figlia di Vincenzo (“Boso”) e zia di Maddalena Sartori (Lena) (vedi n° 15). Morì giovane (meno di 20 anni).

38   Giuditta Boscardin, figlia di Vincenzo (“Boso”) e zia di Maddalena Sartori (Lena).

 

Nota - I fiori che mostrano i bambini sono margherite.

 

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FOTO DEL 1961 DELLA STIRPE BOSCARDIN RADICATA E RIUNITASI A CURITIBA - PARANA' (BRASILE)

fornita da Soeli Pedrosa Boscardin

 

 

Le foto che seguono sono di persone di cui al momento non ho riferimenti. Spero a breve di riuscire a dar loro un nome. Se qualcuno si riconoscesse è pregato di comunicarmelo. Grazie.

FOTO RELATIVAMENTE RECENTE DI UNA FESTA DI "CLASSE 1922"(?)

 

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Lavori e tradizioni della gente di Lusiana (S. Giacomo, luglio 2005)

 

 

 

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La transumanza - “Quei del casarmon”. Così ci additavano, con una punta d’invidia, i compaesani tanto solerti nel solidarizzare dando prova di qualche magnanima azione quanto complici e restii nel rinunciare a sprigionare la quotidiana dose di atavica rivalità. Come quando infioravamo a festa con le canne di bambù e le bandierine multicolori il ponte per l’annunciato passaggio del vescovo il quale ci degnava della visita, ogni tre-quattro anni, per impartire la Cresima. Sembrava l’entrata di Gesù a Gerusalemme come descritta dal Vangelo nella festa delle Palme. Un’accoglienza trionfale, riservata solo a sua eminenza che ci dava l’occasione di vedere transitare da vicino la fiammante Millecento blu scuro, lucida, senza macchia d’ombra e che contribuiva a dare maggiore risalto alla papalina rossa cosiccome agli impeccabili paramenti. Dopo avere tanto lavorato per recuperare e disporre le canevere a formare un rigoglioso e festoso arco sempreverde ecco la penitenza di doverci inginocchiare sul selciato, di attendere il vescovo con le mani giunte e il capo chino in segno di venerabile rispetto e di religiosa sottomissione.
“Me racomando, gnente smorfie, fè i brai toseti” ordinavano in coro le madri tenendo la corona intrecciata fra le dita e il capo riparato dal velo bianco ricamato usato per assistere alla messa domenicale.
Le smorfie, quelle di dolore, c’erano eccome. Il martirio terminava non appena la macchina aveva oltrepassato a passo d’uomo il ponte. Prima di seguire in processione l’auto fino alla chiesa, ci si alzava doloranti e ci si doveva togliere uno ad uno i sassolini incastonati tra le pieghe delle ginocchia diventate per l’occasione un mosaico in miniatura. Restavamo piuttosto sorpresi per via di quelle parole pronunciate senza enfasi e in dialetto dal vescovo il quale, a nostra insaputa allora, amava in questo modo calarsi nella rustica realtà. Era nostra fondata convinzione che un presule di così alto rango ignorasse il nostro abituale dialetto.
“Vardè che i vescovi parla soeo de latin e de ‘talian” sottolineavano gli adulti della corte quasi a svelarci una profezia.
“Ma che brai toseti ghe xè mai da ‘ste parti!” si era lasciato andare al contrario il vescovo abbassando il finestrino, facendo segno all’autista di rallentare e impartendo una benedizione con un flebile movimento della mano.
A riscuotere convinti e calorosi consensi, molto più che la venuta stessa del vescovo, era a settembre inoltrato il passaggio delle mandrie di ritorno dall’alpeggio estivo. Erano momenti di palpitazione, di giubilo e di curiosità collettiva. Si celebrava la fine dell’estate trascorsa come eremiti in alta quota sui pascoli alpini e l’atteso ritorno alla pianura tra le mura domestiche. Quegli uomini dallo sguardo duro, impassibile, che ricambiavano il saluto sollevando appena il bastone o l’ala del cappello e che sembravano invecchiati in un’unica stagione molto più che in un lustro avanzavano fieri davanti alla mandria in camicia quadrettata e gilet con la giacca appesa ad una spalla da sembrare i protagonisti dell’imperiosa avanzata del “quarto stato” nel dipinto di Pellizza da Volpedo. Avrebbero poco dopo reincontrato le mogli e rivisto i figli e i vecchi rimasti in fattoria a coltivare i campi e gli orti garantendo le necessarie provviste per l’inverno. Non ero ancora stato in montagna, mi bastava immaginarla seguendo con la vista i profili dell’Altopiano da ben lontano. Con la discesa al piano delle mandrie immaginavo la montagna spopolata e pronta già a dormire sotto la prima neve della stagione. Lassù pascoli e boschi avvolti in un silenzio tombale rotto soltanto dal sibilare della tormenta. Non più muggiti, non più l’eco del ritmato scampanio, non più il richiamo dei malgari per radunare la mandria dispersa scandito con il battito delle scodelle sui secchi di legno al momento della mungitura. Le grida, il vociare, i muggiti, il fitto calpestio degli zoccoli, si erano trasferiti ora alla pianura e tutto ritornava a pulsare, a vivere.
L’imminente arrivo del corteo su quattro zampe era preannunciato da un soave e melanconico scampanio che via via si faceva sempre più rumoroso e per finire assordante. Le mucche affaticate dalla inedita maratona procedevano lentamente come un corteo pacifista seguendo ubbidienti il mandriano più esperto che stava davanti al gruppo con un bastone in mano. Nel mezzo della mandria spuntavano i muli con il basto, mentre gli asinelli riuscivano meglio a mimetizzarsi nel folto del gruppo. I cani con la lingua penzoloni ma mai domi correvano di lato dalla coda alla testa della mandria sostando a metà tragitto per controllare e vigilare meglio la situazione. Bastava un minimo abbaiare per riportare nei ranghi quella mucca che avesse cercato di trasgredire i più elementari canoni di buona condotta.
La transumanza si protraeva per un paio di settimane e ci faceva trovare puntuali sul portone del casarmon con gli occhi così incollati alla mandria da metterla sotto una lente di ingrandimento. Ce n’era per tutti. Chi a numerare sulle dita il numero dei capi, perdendo inevitabilmente il conto, chi più audace a contare le zampe, chi a contare le manze, chi i vitellini, chi a fare la conta di quanti campanacci, campanelle e campanellini di varia foggia e grandezza pendevano da quella cinghia di cuoio così vistosa e aderente al collo che le povere bestie sembravano essere sempre sul punto di rimanere strangolate oltre che infastidite. Ciascuno si assegnava un compito a propria scelta e a proprio piacere ma andava a finire che nel resoconto finale si mettevano solitamente in dubbio i dati forniti dagli altri: “Valà, tote de on tote che no te sì altro… sentosinquanta vache, on toro, sinque mussi, quatro can, tri omani… ma se no te sì gnanca bon de contare fina al novantanove!”.

 

Tratto da un articolo di Tommasino Giaretta da "Il giornale di Vicenza"

 

 

Angeleto Pernecchele -  La prima volta che lo vidi pensai che avrebbe potuto legarsi le scarpe senza chinarsi. Si sposta sempre a piedi e con l’incedere deciso e cadenzato di quel fisico esile e incurvato dalla fatica, non può passare inosservato. Se qualcuno fosse distratto o interessato ad altro, sarebbe risvegliato dall’allegra risata di Angelo, che sembra un inno alla gioia. Ogni mattina si alza presto e da contrada Mazze, dove abita, scende verso Lusiana con qualche attrezzo da contadino sulle spalle. Lo incontri sulla via ai primi bagliori dell’alba; forse non ama la notte perché gli riporta il sapore amaro della solitudine. Un berretto pesante calato sulla fronte, barba incolta ma mai lunga, due occhi color acqua di lago che scrutano con sospetto l’interlocutore di turno, una borsa di nylon nella mano e qualche volta un sacco di juta per non far vedere la merce; passa a piedi per le vie di Lusiana lasciandosi alle spalle una folata di allegria.
Nella sua vita Angelo ha sempre fatto l’unica cosa che ha imparato: lavorare la terra, la sua e, soprattutto, quella degli altri. Di domenica a Lusiana c’è il mercato e d’estate capita spesso di vedere, e soprattutto sentire, Angelo con la sua borsa di nylon che cerca di piazzare i funghi raccolti. L’affare gli riesce di rado perché, durante il tragitto, la sua borsa si scontra ripetutamente con le ginocchia; le mazze di tamburo, trasformate in poltiglia biancastra, non invogliano i possibili clienti.
Angelo ha un debole per le donne e cerca di catturarne l’attenzione portando loro fiori e frutti di stagione. La natura non si è certo sprecata per lui, ma Angelo ha il piglio e l’astuzia del Don Giovanni e nasconde i suoi regali nel sacco capiente per poi consegnarli uno ad uno. Egli fa in modo che ogni signora che riceve il suo regalo pensi di essere la preferita. Nella sua fantasia ci sono scritti diversi nomi di donna e lui li usa a piacimento per chiamare quelle che incontra nel suo cammino. Un altro sistema per accattivarsi le simpatie del gentil sesso è quello di rendersi sempre e comunque disponibile. Questo gli ha procurato un lavoro giornaliero che consiste nel portare fiori e ceri al cimitero del paese. Con il materiale nel sacco e una busta di fiammiferi in tasca si reca al camposanto. Le sue mani ruvide hanno smarrito la sensibilità e lasciano manciate di fiammiferi spezzati, sparsi accanto ai ceri sopra le tombe.
La sera, prima di rientrare nella sua malinconia, si ferma al bar e, fra una risata e l’altra, racconta la sua giornata fatta di donne innamorate e gelose. Cerca sempre di trovare chi gli offra un bicchiere di vino.
Gli anni sono passati anche per lui e forse i suoi sono passati più in fretta per la fatica. Un uomo stanco nel fisico, un calendario vivente, un menestrello di gioia e semplicità che cerca di vivere intensamente la sua stagione. La sua risata echeggia nel cielo di primavera come il garrito di una rondine, ed è un messaggio per dire a chi gli sta intorno:

“ESISTO ANCH’IO”.

Tratto da un articolo di Renzo Cappozzo da “Il Giornale di Vicenza”.

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