Omaggio a un Maestro
Riflessi

Pier Maria Pasinetti

Rosso veneziano (1957) - incipit

Benché fosse il pomeriggio del venerdì santo, Elena Partibon non era uscita a compiere il giro dei sette sepolcri; si era appartata in un salotto a leggere, aspettando che il fratello Giuliano arrivasse d'improvviso dalla casa della nonna ad annunciarne la morte. Nel dare l'annuncio Giuliano avrebbe avuto una faccia grave e timida come se la colpa della morte fosse un po' sua.
Oltre a uno dei gatti, la sola cosa in movimento che Elena aveva veduto durante il pomeriggio era il riflesso dell'acqua dal canale, quella specie di pulsazione, spettri di fiamme inquiete sulle pareti alte, sulle travature del soffitto. L'ingresso di Giuliano sarebbe stato perciò impressionante. "Dov'è papà?" avrebbe chiesto. E lei avrebbe detto: "Su in studio, si capisce, che dipinge", e Giuliano si sarebbe accostato, mormorando a capo basso: "È finita, sai", e quei riflessi d'acqua avrebbero continuato indisturbati sull'alto soffitto; e vi sarebbero state cose da dire; e tutte le norme familiari, conversazioni, ore di pranzo, sarebbero crollate.

La confusione (1964) - incipit

Attraversata l'anticamera ingombra di impermeabili bastò a Genziana Horst entrare nel salotto dei Solmi e guardarsi intorno un attimo per capire che la serata sarebbe stata inutile: di importante non c'era nessuno. Invitata per le nove e mezzo, Genziana arrivava poco prima delle undici accompagnata dall'alta figura di un giovane non noto nell'ambiente Solmi; era improbabile che la situazione potesse essere salvata dall'arrivo di nuovi ospiti; nulla ormai poteva mutare ciò che Tranquillo Massenti, suo amico giornalista superato da tempo ma i cui modi di dire le erano rimasti attaccati addosso, avrebbe chiamato "la composizione" o "l'impasto" del ricevimento.
Vedeva prima di tutto i Solmi stessi, al completo: Orlando, il padre, sempre più pretensiosamente taciturno con l'andare degli anni e degli insuccessi, il capo chino e gli occhi lucidi e interrogativi sopra occhiali calati sul naso: un'aria che voleva essere scaltra e tradiva invece l'incertezza e le visioni di fallimento. E vedeva Aurora, sua moglie, al contrario di lui sicura ed espansiva, ma di un'espansività in fondo un po' sospetta di follia, intenta ora a parlare accanitamente con il "buon" D'Abbate, anch'egli, come Orlando Solmi, giornalista laborioso e minore. Ed ecco i tre figli, Duilio, Amerigo e Sebastiano ("Ai tre giovani Solmi - Tranquillo Massenti aveva detto una volta - hanno messo nomi di unità della Marina"), che per il fatto stesso di somigliarsi tanto parevano negati a qualsiasi possibilità di successo; e le tre nuore, due delle quali erano insignificanti mentre la terza, di Milano, attraentissima, dotata di un accento nasale e astioso, "nasceva assai meglio" delle altre due e perciò si teneva sempre in un suo atto di provocante impazienza.

Il ponte dell'Accademia (1968) - incipit

Gilberto Rossi:
Quel pezzo dell'Autostrada Pacifica, che scende a mezzogiorno da Palos Rojos a Bredley in direzione del confine messicano, ha sul lato interno una catena non interrotta di monti con colori che vanno da quello della terra bruciata a quello della nebbia, e sull'esterno ha una serie di spiagge, molto strette e inclinate in alcuni tratti, in altre invece lisce, bianche e larghe come piazze, sotto il sole pesante.
Fra spiagge e monti dunque si dilunga scintillante l'autostrada costiera del Pacifico, quattro piste nord-sud e quattro sud-nord. Per salire da noi all'Institute si può svoltare dalla costiera per uno qualunque dei tre canyons fra Palos Rojos e Bradley: il Palos Rojos Canyon, Il Bitter Canyon, il Bradley Canyon. Io finisco per scegliere quasi sempre il Bitter, sia che io venga da nord o da sud; è il più stretto e sassoso, quasi sempre deserto fra dirupi. In quell'abbandonato silenzio salta lo scoiattolo, la lucertola avanza a scatti, abbagliata; e ogni tanto si scoprono cespugli di fiori dalle tinte di una vivezza accecante.
È abbastanza tortuoso e dapprima è tutto preso in mezzo a pareti ripide, poi man mano che si sale il paesaggio si apre come un immenso fiore disseccato, scoprendo petalo a petalo le successive catene di monti, marrone gli strati vicini, grigio-azzurri i lontani, e ogni tanto, improvvise e lontanissime giù, giù in fondo, lastre d'acqua dell'oceano. Il Bitter a un certo punto finisce nel Palos Rojos, più importante e ampio, tutto bello asfaltato. A tre quarti di miglio da questo incrocio si distendono vasti spazi altipianeggianti che sono stati ottenuti segando via qualche cima di monte. Vi sorgono i vari edifici universitari dislocati quassù, mentre nella cittadina di Palos Rojos a valle è rimasto il centro universitario vecchio, l'old campus, stucco bianco e tegole color mattone, chiostrini e patios fra le palme. Quassù invece, cristalli e metalli.
C'è quassù il Centro di Statistica Aziendale, edificio che possiede centralino telefonico proprio, oltre a elaboratori elettronici nuovissimi. Poi per esempio c'è qui una Stazione di Orticultura Subtropicale. E c'è l'Institute nostro, ossia l'Istituto per l'Analisi del Linguaggio e della Comunicazione.
Da quando ottenni il visto di immigrazione per gli U.S. e accettai l'offerta di impiego fattami dal direttore Alphonse Rossi, questo è il mio indirizzo di ufficio, che per fare l'effetto giusto andrebbe scritto a macchina, spaziatura uno, sul lato destro di una busta formato lungo:
Mr Gilberto Rossi
Palos Rojos Institute for Language and Communication Analysis,
University of Palos Rojos,
Palos Rojos, Calif.

Tante volte quell'indirizzo me lo scrivo da me, me lo batto a macchina su una busta o un foglio bianco per poi stare a guardarmelo con punte di stupefazione.
Sicché eccomi qua, io nato a Portogruaro, cresciuto fra Portogruaro e Venezia, laureato due-tre anni prima della guerra a Milano con un pallido 102/110, variamente impegnato nelle comuni sofferenze politiche e belliche e in modeste professioni culturali fra giovinezza e maturità, eccomi adesso sulla costa del Pacifico a fare parte di uno di quei centri di studio in cui si sta "analizzando il mondo di ieri e di oggi per essere preparati a quello di domani" o frase-chiave del genere; alloggiato bene in una casetta fra vegetazioni subtropicali; si spazia sui monti e sull'oceano dalla finestra della mia stanza da letto; ho inoltre un ufficio comodo all'Institute e una scrivanietta metallica riservata alla biblioteca; stipendio sufficiente; mezzi di ricerca abbondanti: tutto ciò per analizzare documenti di storia degli ultimi cinquant'anni, in particolare italiana: analizzarmeli io, e anche distribuirli fra altri ricercatori più giovani, che con ogni semestre accademico crescono di numero. Nel mio settore teoricamente dovrei decidere io anche i quesiti da programmare per l'elaboratore elettronico che la Statistica Aziendale ci lascia usare per qualche fetta di tempo.
La Opportunity di venire qui sul Pacifico mi si presentò quando pareva che la mia vita in Italia stesse inavvertitamente andando in sfacelo. Si stava galoppando, notai d'improvviso, verso il ventennale dalla fine della seconda guerra; nella nostra stanza alla casa editrice Di Gaetano (io e altri due impiegati) fui il solo a notarlo. Mi accorsi anche che sarebbe poi trascorso un altro ventennio, molto più rapido, tanto da passare quasi inosservato. E già quello ci avrebbe portato, come età, vicini alla settantina. A tutti gli effetti pratici mi pareva di averli già, quei settant'anni lì.

Domani improvvisamente (1971) - incipit

Rodolfo Spada:
Effettivamente mi chiamo Rodolfo Piglioli-Spada. Col trattino. In Gran Bretagna i nomi doppi col trattino indicavano famiglie di gran marca. Nel caso nostro ce lo inserì mio padre il quale perlappunto aveva l'anglomania. Gliela potevo ancora leggere sul viso, sul labbro, sul baffo irrigidito quando nel '57 andai a salutarlo, morto, a baciarlo in fronte. Non lo vedevo da anni.
Abbreviai la firma a Rodolfo Spada quando incominciai, relativamente tardi nella vita, a scrivere per i giornali. Sono stato la grande rivelazione del giornalismo settimanale nel periodo che seguì la fine del dopoguerra. I miei articoli e rubriche fecero la fortuna dell'azienda periodici che mi impiegò. La sollevarono da una posizone di imminente bancarotta a tirature stupefacenti. Non ho dubbi su codesto punto. Non ho mai dubbi su nulla di quel che dico.
Ora che la nostra azienda periodici è stata incorporata dal Gruppo - uno dei soliti Gruppi industriali mastodonti - rinunziando così all'individualità, all'intelligenza e alla gioia di vivere, io mi son ritirato e nascosto nel Veneto, che conosco poco, a Brusò (credo siamo in provincia di Padova) con il proposito di preservare qui la mia testa e la mia mente con le loro particolari idee e visioni.
Abito due stanze di una villa non grande e dimolto trascurata, con facciata palladiana arrugginita, nell'entroterra fra pioppi. Proprietà del mio amico Angelantonio Fornasier, uomo d'affari e genio, che doveva essersi dimenticato di possederla. Glielo rammentai io e mi fece: "Sei sicuro? E allora va', va' là". Non pago pigione e mi nutro bene con pochissimo. date le spese minime, con il denaro che ho potrei sostenere qui un dieci-dodici anni di clandestinità. Fornasier e il suo figliolo sono i soli a sapere che io sono qui.
Non ho pazienza per le descrizioni di natura che trovo inutili. Al pratico: se dovessero braccarmi e costringermi a nuova fuga, c'è non lontano di qui una valle da pesca e da caccia in botte, con casa isolata al centro di estesissime acque, e là troverei ulteriore sicurezza, addirittura parecchie armi; è tutto proprietà di Angelantonio Fornasier; una specie di sconfinato acquitrino il cui estremo orizzonte è formato da una linea sfumata e bizantina di case e campanili che sarebbe poi la città di Venezia. Per raggiungere la casa di caccia camminerei prima un'oretta per campi e poi vogherei su acque deserte, in piedi, a remi incrociati, con arte bimillenaria che io, sportivo polivalente, apprenderò subito. Tutto ciò mi costerebbe un nulla di fatica: sono secco, minuto, e sembro tenuto insieme da fili d'acciaio.

Il Centro (1979) - incipit

P.M.P.
Più che altro io sono un compilatore. Per raccontare la storia di Arrigo Paolotti, delle sue azioni e vicende come direttore esecutivo del Centro e come uomo, e del suo decisivo viaggio europeo nel lontanissimo 1974, mi servirò di tre fonti: il Busa, il Lundquist, e lo stesso Paolotti. Indicherò queste fonti in cima ai rispettivi capitoli: Carte Busa, Carte Lundquist, Carte Paolotti. Il mio sarà una specie di montaggio o di collage.
Tenterò un minimo di ordine, sforbicerò carte in un punto per incollarle in un altro, ma questo non come mia azione di disturbo o di commento (le carte parlano da sé), piuttosto per tentare di chiarire le personalità degli individui e lo svolgimento dei fatti entro quell'entità, del resto tanto vaga, che è il tempo.
Busa scrive un italiano perfettamente scorrevole ma può darsi che qualche lettore sia disturbato da un gusto per le rime, le allitterazioni e altri giochi, che ogni tanto lo piglia come un tic, e che io credo sia una maniera di nascondere, sotto arabeschi verbali, il senso della disperazione. Capisco questo senso che Busa ha, perché, in fondo, lo condivido.
Quanto a Lundquist, ciò che uso delle sue carte è tratto da una specie di memoriale, in parte scritto, in parte trascritto da registrazioni al magnetofono. Sven Lundquist vi si serve principalmente dell'italiano che sa benissimo (lo parla con accento veneto) ma in certi casi anche dello svedese e dell'inglese; conosco abbastanza queste due lingue e credo che le mie traduzioni risulteranno completamente mimetizzate.
Il padre di Sven, Alf Lundquist, ebbe un posto eminente all'Istituto per l'Analisi del Linguaggio e della Comunicazione (me ne occupai in un lavoro intitolato Il ponte dell'Accademia) nella parte Ovest degli Stati Uniti d'America. Alf Lundquist, come risulta anche dalle carte Paolotti, fino alla morte rimase là, non più all'Istituto ma in un grande alloggio per vecchi di lusso, detti anche convalescenti terminali. Suo figlio invece, il nostro Sven, è adesso nella terra degli avi, la Svezia, degente d'un comodo ospedale psichiatrico dove ha prodotto il memoriale da me usato.

Dorsoduro (1983) - incipit

Annibale Tolotta Pelz, se calcolo bene, nel 1926 aveva tredici anni. Era il pių giovane della famiglia. Sempre stato anche il pių vivo e loquace, sia da ragazzino qui a Venezia, sia poi, da grande, in altre città d'Italia e del mondo. Ultimamente lo si è veduto qualche volta a Venezia; sere fa abbiamo cenato insieme, qui a Dorsoduro; forse anche per questo mi è capitato di aprire con il suo nome le note che ora incomincio a scrivere, su fatti abbastanza lontani ma che sono divenuti per me sempre più caldi e movimentati, nella lunga prospettiva degli anni.
Questi Tolotta Pelz, in un momento della loro storia, erano scesi dall'Alto Veneto, da una provincia come Trento o Belluno, verso la fine del secolo scorso, direi; fissati a Venezia, credo abbiano sempre abitato nel sestiere di Dorsoduro, anzi, almeno fino alla seconda Grande Guerra, sempre nello stesso appartamento al "piano nobile" di un palazzo con facciata sulle Zattere e sul Canale della Giudecca, e retro sul Rio degli Ognissanti; il palazzo, già da prima del 1866 cioè da quando Venezia stava ancora nell'impero austriaco, regno Lombardo-Veneto, apparteneva a una famiglia inglese come nazionalità ma un po' complicata come origine e incroci, i Bialevski.
Quasi superfluo ricordare che Venezia e specialmente il sestiere di Dorsoduro hanno sempre avuto l'abitudine di accogliere persone e situazioni da ogni parte del mondo in mescolanze svariate, e di amalgamarle. L'ultimo Bialevski, Edward o Edoardo, abitava al piano più alto dell'edificio e del resto ci sta ancora adesso, ultranovantenne. Io abito a due passi e ogni tanto vado lassù a trovarlo.

Melodramma (1993) - incipit

Amedeo Passina, ultraottantenne pieno di acciacchi ma ancora vivace, più di una volta a casa sua mi ha fatto vedere quel piccolo quadro che mostra un giovanotto di non grande formato in divisa di ufficiale ottocentesco con fascia a tracolla, bracciale all'omero e spadone al fianco; in quel marziale giovane dipinto a olio, Amedeo crede di riconoscere il proprio bisnonno e di poterne situare l'immagine nel tempo:
- Conte Gregorio Passina. Capitano. Guardia Civica. Ventidue marzo 1848... Due aprile 1849... E avanti, usque ad finem -. Amedeo qui ti guarda in faccia e traduce: - Fino alla fine. Fino a un altro ventidue. Quello della resa di Venezia agli austriaci. Ventidue agosto del 1849 verso mezzanotte-. Conclude in un sussurro rauco e rapido: - Noi siamo sempre stati dalla parte della rivoluzione e della repubblica. Ciò è cosa ovvia.
Non si chiamò mai ufficialmente repubblica, osserva mia cugina, Bianca Angelone; fu cosa singolare, unica; e nonostante questo lei è pronta a scommettere che quelle date sono per i più, tutt'al più, nomi di strade, la Calle Larga Ventidue Marzo, da Calle delle Ostreghe al Ponte San Moisè andando verso la Piazza, e la Due Aprile da San Salvador a San Bartolomeo; e invece, avverte Bianca, come date, sono quelle di Scene Madri nel dramma della rivoluzione veneziana del Quarantotto-Quarantanove, la liberazione e l'assedio e la resistenza, appunto fino alla fine; personaggi principali l'avvocato Daniele Manin e il Feldmaresciallo conte Radetzky.
Ecco allora che la nostra mente è invasa da parole, pezzi di frasi, schegge di immagini, come frammenti di storie a fumetti o come appunti presi in qualche lontana aula scolastica fra distrazioni e ironie, ma anche come cenni di melodie, di arie d'opera...

Piccole veneziane complicate (1996) - incipit

Alessandro Borg:
Sono appena arrivato da Padova guidando come un folle. Ora sono una pietra, immobile a una finestra di pietra, affacciato su campo San Polo guardando dall'alto i passanti scorrere. Questione più di ore che di giorni e io compirò ottant'anni.

Il mio fratello piccolo, settantatreenne per essere precisi, ha già annunciato che verrà a trovarmi per celebrare; è verosimile che egli progetti di condurre seco le figlie sue, Valeria e Clotilde, perché contemplino questo zio che secondo loro è tutt'altro che ridotto a vecchio rudere, anzi possiede notevoli forze mentali e cardiache. Chissà cosa possiedono loro, quanto alla mente, e ai moti del cuore.
Negli anni della crescita le ho seguite poco e a un certo momento, non molto dopo la morte della loro madre americana, le ho guardate meglio: Valeria e Clotilde erano divenute due sportive salutiste ma con forti cariche di sessualità.
La mia amica Justine Ampère, che dovrebbe avere occhio, le definisce stupende. Corinna mia moglie è meno espansiva, dice comunque che le danno un'impressione di contentezza, specie Clotilde che ha un po' l'aria della saffica felice, senza problemi.
Quanto al papà loro e fratello mio, ho sempre ritenuto non possieda somma altezza d'ingegno, ci vediamo poco, io molto a Padova, lui a Piombino. È vera la mia Padova, il suo Piombino è leggenda.
Andò, or sono parecchi anni, a quella città inconsueta per noi, onde assistere al fastoso funerale di un suo vecchio compagno di studi divenuto senatore nel frattempo, uomo che secondo mio fratello era uno dei non molti parlamentari dotati di buona salute pubblica. Mio fratello doveva trascorrere a Piombino un fine-settimana, restò invece in quella zona vari mesi e da allora frasi come non lo si trova mai, sai com'è, lui è a Piombino, le applichiamo non solo a lui ma a tutte quelle persone che uno cerca e che sono, secondo le loro segreterie telefoniche, via, come oggidì sono quasi tutte le persone quando uno le cerca.

A proposito di Astolfo (2005) - incipit

Sto facendo la sacca per partire da Venezia. Già da tempo Alice Weaver, mia moglie, le rare volte che ci vediamo non mi chiama per nome ma per cognome,
"Blatt, credo ragionevole che tu lasci Venezia, diciamo verso fine giugno"
"... verso fine giugno: E dunque, Alice, io sbagliavo credendo tu avessi notato che siamo a fine maggio e che io già sto mettendo insieme i miei 4 stracci e le mie 4 carte per partire. Gilberto Rossi ha lasciato a mia disposizione questo suo appartamento qui in Campo San Vidal ma non mi va di restarci solo, ora che lui è andato a Parigi".
Questo di Gilberto Rossi è un appartamento grande e a due piani e ci sarebbe ampio posto anche per Alice Weaver, mia moglie, addirittura senza doversi mai imbattere l'una nell'altro ma lei invece quando sta a Venezia sta da un'amica russa, di nome Astra, a Dorsoduro.
Da questa amica russa ci sta, quando č a Venezia, anche Marika Peck, una delle 3 sorelle Peck. Delle 3, Marika č la meno "intelligente" e quindi pių invadente e gossipy ossia pių vicina, come impostazione di vita, a mia moglie Alice Weaver nella sua fase attuale. Delle altre due Peck, Charlotte e Diane, Charlotte è nel servizio estero cioè foreign service, quindi, per lei, c'è Barcellona, Singapore, gli Emirati o altro, Venezia stessa talvolta per qualche congresso o vertice e allora rifiuta il grande albergo sul Canalazzo e sta dall'amica Astra anche lei.
La 3a Peck poi, ossia Diane, aveva annunciato che veniva qui addirittura con Astolfo suo figlio ma da settimane ormai non si hanno le coordinate né di Diane né di Astolfo e io intanto mi sono accorto di essere rimasto fermo qua in una solitaria, immotivata, gratuita, vacua eppure sgradevole irritazione, alleviata un po' quando mia moglie dà a questa mia irritazione un motivo, un oggetto, un corpo come ecco per esempio
"ma Blatt tu hai detto che avresti aspettato finché arrivavano la tua amica Diane e suo figlio Astolfo"
"ma Alice, né Diane né Astolfo sono poi arrivati"
"Blatt avevi detto che aspettavi finché arrivavano i tuoi amici Diane e Astolfo"
"sì Alice, ma vedi, non sono arrivati"
"ma Blatt l'avevi detto tu che arrivavano"
"sì Alice ma non li si è visti"
"da vario tempo non riesco più a capirti bene, Blatt"
"figurati io te"
eppure Alice e io non ci riusciamo antipatici; il mio, semmai, è dolore, sepolto, perduto nel fondo, anestetizzato, analgesizzato, ma dolore, che se riuscisse a salire e a farsi riconoscere sarebbe dolore da ricordo, ricordo delle lontane epoche in cui lei - userò il solito verbo sempliciotto e sbrigativo - mi amava e questo voleva dire che mi accudiva, mi teneva da conto, mi ascoltava, mi scuoteva, mi scossonava, mi svincolava, mi risvegliava dal coma dell'umor nero mediante i potenti farmaci del buonsenso e dell'ironia e poi con gli stessi farmaci proteggeva se stessa, si riparava, si immunizzava dalle angosce cosmiche, dalle angosce metafisiche contemplava gli abissi dell'ignoto e dell'irraggiungibile, serenamente sorridendo di fronte all'ovvia impossibilità di concepire, definire, pensare, l'inconcepibile, l'indefinibile, l'impensabile, di stabilire rapporti sensati con l'infinito, con l'Infinito nelle due direzioni del Minimo e del Massimo, dell'Istantaneo e dell'Eterno, del Contingente e dell'Illimitato ecc, per non parlare del Tutto, e del Nulla.


In questa pagina, un estratto del testo Appunti su due luoghi opposti, apparso nel 1983 in Antologia del Premio Campiello, editore Tornese, dedicato alle due città del cuore di Pasinetti, Venezia e Los Angeles ; con annotazioni di Marion (Chiara Sambo)