L'impegno culturale e il pensiero di
LUCIANO GRUPPI




Si riporta qui il testo della dispensa La concezione dello Stato, stampata a cura di Tilde Bonavoglia per uso interno delle scuole di partito. 
Il testo fu tradotto e pubblicato in Brasile (edizione L&PM, Porto Alegre, 1980) con l'interessante titolo Tudo começou com Maquiavel (Tutto cominciò con Machiavelli). Sulla base di quelle lezioni Luciano Gruppi venne invitato a tenere conferenze a Rio de Janeiro e a San Paolo nell'aprile del 1982, con grande successo di pubblico (pagante!) e notevole risonanza su giornali e riviste del Paese. 

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Luciano Gruppi


La concezione dello Stato

- in Marx ed Engels
- in Lenin e Gramsci


Bozze di stampa riservate agli istruttori e allievi dei corsi di partito
Lezioni tenute presso l'Istituto Togliatti, Frattocchie, 1978









Sommario
La concezione dello Stato

 I - IN MARX ED ENGELS
Cenni a: Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Kant, Rousseau, Constant, Tocqueville, Croce, Hegel
La critica di Marx
Genesi dello Stato secondo Engels
L'eguaglianza giuridica
Estinzione dello Stato e libertà dell'uomo
La dittatura del proletariato
Sulla Comune di Parigi
 
II. - IN LENIN E GRAMSCI
Kautsky, «rinnegato» e non
Il Bernstein-debatte
Stato e rivoluzione
Un parallelo tra i Soviet e la Comune
Non tutto è da spezzare
Democrazia e dittatura del proletariato
Contro il burocratismo
Da Lenin a Gramsci
I consigli di fabbrica
Necessità della ricognizione nazionale
Egemonia e blocco storico
La nozione di intellettuale
Il partito, moderno «Principe»
Quale pluralismo





La concezione dello Stato

I.- in Marx ed Engels


Prima di arrivare alla teoria dello Stato in Marx ed Engels, vorrei dare un'idea di come si sia sviluppata tale teoria nella fase precedente, cioè un'idea, sia pure sommaria, delle grandi concezioni cui si trovò di fronte Marx: la concezione liberale dello Stato e la concezione democra­tico-borghese.
Quando si compie una ricerca è bene che indaghiamo, sapendo che una prima definizione non può che essere prov­visoria e può, nel seguito della ricerca, rivelarsi completa­mente sbagliata e da cambiare.
Partirei quindi da una definizione di che cosa si intende per Stato.
Nella Treccani si legge: «con la parola Stato si de­signa modernamente la maggiore organizzazione politica che l'umanità conosca, riferendosi tanto al complesso territoria­le e demografico su cui si esercita una signoria, il potere po­litico, quanto al rapporto di coesistenza e di coesione di leggi e di organi che su quello imperano ».
Lo Stato è cioè un potere politico che si esercita su un territorio e su un complesso demografico, cioè su una po­polazione o un popolo, e lo Stato è la maggiore organizzazio­ne politica che l'umanità conosca. Forse è bene analizzare questa definizione.
Essa ci dice che nello Stato sono presenti tre elementi: il potere politico, il popolo, il territorio. È necessaria la pre­senza di questi tre elementi perché si possa parlare di Stato in senso proprio. Quindi, per esempio, il Vaticano non è uno Stato nel senso proprio della parola, ma lo è per con­venzione, nel senso che ha il potere, nel senso che ha il territorio (è piccolo, ma questo non ha rilevanza), però non ha il popolo.
Questa, tuttavia, è semplicemente una descrizione este­riore dello Stato; non una spiegazione della sua intima na­tura.
Nella nostra ricerca partirei dallo Stato moderno.
Lo Stato moderno, lo Stato unitario, dotato di un suo potere indipendente da qualsiasi altro potere (su questo ri­tornerò), comincia a nascere nella seconda metà del 1400 in Francia, in Inghilterra, in Spagna e poi si allarga gradata­mente all'Europa e molto piu tardi all'Italia.
Ora, quando si formano gli Stati nel senso moderno della parola nasce, come sempre avviene, anche una rifles­sione sullo Stato. Dagli inizi del 1500 ci troviamo di fronte al nostro Machiavelli che è il primo a riflettere sullo Stato. Nel Principe di Machiavelli voi trovate questa affermazio­ne: «tutti gli Stati, tutti i domini che hanno avuto ed han­no imperio sopra gli uomini sono stati e sono o repubbliche o principati ».
Anche qui lo Stato è il dominio e quello che viene sot­tolineato è il dominio sugli uomini. Quello che interessa è questa sottolineatura dell'elemento del dominio e del do­minio esercitato piu sugli uomini che non sul territorio.
Gramsci, in tutta la sua lunga ed attenta riflessione sul Machiavelli, dice come il Machiavelli sia il teorico della for­mazione degli Stati moderni. Egli riflette vivendo in una Italia dove è fallita la rivoluzione comunale, dove il paese è spezzettato in tanti staterelli, dove vi è una perdita del­l'indipendenza nazionale con l'ingresso in Italia dei fran­cesi, delle truppe di Carlo VIII, alla fine del 1400. Riflet­te sull'esperienza di altri Paesi: la Francia, la Spagna, l'Inghilterra, particolarmente la Francia, e vede il modo con cui si dovrebbe in Italia costituire uno Stato moderno ed uni­tario per iniziativa del Principe.
Machiavelli è in realtà un repubblicano e un democra­tico legato all' esperienza della Repubblica fiorentina, del Comune fiorentino, è anche un uomo che afferma che nes­sun principe, per saggio che sia, può essere saggio come il popolo. Ma quando scrive invece il Principe parte della con­sapevolezza che vi è in Italia una situazione di crisi di tutti i vecchi ordinamenti e che si può uscire dalla crisi, si può ricostruire lo Stato, rinnovare la società, solo se vi è un po­tere assoluto di un principe che si ponga alla testa di que­sto movimento".
Vi è in un altro scritto del Machiavelli, nei suoi com­menti alla storia di Roma, La prima decade di Tito Livio, una riflessione su Romolo e Remo, su questa leggenda. Egli dice: Romolo fece bene ad uccidere Remo, perché quando si fonda oppure si rifonda o si rigenera uno Stato uno solo deve comandare.
Qui in Italia si trattava di fondare uno Stato e di ri­fondare una organizzazione politica della società italiana. Per questo, un repubblicano e democratico come il Machia­velli, legato nel sentimento alla repubblica fiorentina, pensa invece al potere di un Principe.
Un momento importante della formazione dello Stato moderno è la ribellione dell'Inghilterra, più esattamente di Enrico VIII, al potere del Papa. La Chiesa d'Inghilterra si separa dalla Chiesa cattolica e il monarca Enrico VIII vie­ne proclamato capo della Chiesa anglicana. Siamo nel 1534.
È chiaro che la questione del divorzio dalla moglie spagnola per sposare Anna Bolena, divorzio che gli viene rifiutato dal Papa, perché il Papa non vuole perdere l'ami­cizia con la Spagna (essendo la prima moglie di Enrico VIII una principessa spagnola e la Spagna un grande impero che aveva una sua presenza in Italia), per una motivazione po­litica, è una cosa puramente occasionale. In realtà, è ma tura la proclamazione di una piena indipendenza inglese e di una piena sovranità dello Stato e del monarca che imper­sona, rappresenta e realizza la sovranità dello Stato, procla­mandosi anche capo della Chiesa Anglicana (una formula che, giuridicamente, verrà perfezionata dopo). Ma di fatto che cosa si dice? Che il potere dello Stato è assoluto, che la sovranità statale è assoluta e non deriva da altra autorità, cioè non deriva dall'autorità del Papa; la sovranità del mo­narca è sovranità in quanto egli è monarca e non in quanto la riceve dal Papa; si proclama l'assoluta autonomia dello Stato, l'assoluta sovranità dello Stato.
Ci sono già, quindi, nel nascere dello Stato moderno, due elementi diversi rispetto agli Stati del passato, che non troviamo nello Stato antico greco-romano. Questa autono­mia, piena sovranità dello Stato, che non fa dipendere da alcuna altra autorità la propria autorità, è la prima caratte­ristica dello Stato moderno.
La seconda, che si delineerà nel XVII secolo, prima di tutto in Inghilterra, con l'emergere della borghesia è la di­stinzione tra lo Stato e la società civile. Lo Stato è una or­ganizzazione distinta dalla società civile anche se ne èl'espressione.
In terzo luogo si delinea una differenza rispetto allo Stato medievale.
Lo Stato medievale è proprietà del signore. Lo Stato medievale è Stato patrimoniale, lo Stato è patrimonio del monarca, del marchese, del conte, del barone, ecc., e il signore è padrone del territorio con quello che esso comprende (uomini e ricchezze). Può venderlo, può regalarlo, alienandolo in qualsiasi momento, come si trattasse di una riserva di caccia.
Con lo Stato moderno invece vi è un'assoluta identifi­cazione tra lo Stato e il monarca, che rappresenta la sovra­nità statale.
Più tardi, alla fine del 1600, Luigi XIV di Francia di­rà: l'Etat c'est moi, lo Stato sono io, nel senso che io ho il potere assoluto, ma anche nel senso che io mi identifico completamente nello Stato.

Machiavelli
indice
Ora, con il Machiavelli [Niccolò Machiavelli, politico e scrittore italiano, 1469-1527] che riflette su queste realtà, noi abbiamo non una teoria dello Stato moderno, ma una teoria di come si formano gli Stati, di come in realtà si forma lo Stato moderno. Abbiamo già l'inizio della scienza della politica o, se volete, della teoria e della tecnica della politica, come una tecnica autonoma che si distingue dalla morale e dalla religione.
Lo Stato non ha la funzione di assicurare la felicità e la virtu, come per Aristotele. Non è, come per i pensatori medioevali una preparazione degli uomini al regno di Dio. Lo Stato ha una sua caratteristica; fa politica, segue una sua tecnica e sue leggi. Proprio all'inizio del Principe Machiavelli scrive: «Sendo l'intento mio, [essendo l'intento mio] scrivere cosa utile a chi l'intende, mi è parso più convenien­te andare dietro alla verità effettuale della cosa che all'immaginazione di essa [cioè io studio la realtà effettiva] ».
È già la linea del pensiero sperimentale, in cui Machiavelli si ricollega a Leonardo da Vinci: lo studio delle cose come esse sono, la realtà politica, sociale come essa è, oc­corre studiare la verità effettuale.
Egli infatti dice: «e molti si sono immaginati repubbli­che e principati che non si sono mai visti né conosciuti es­sere in vero », molti si sono immaginati stati ideali che però non sono mai esistiti, per esempio la Repubblica di Platone.
E poi: «perché egli è tanto discosto [c'è tanta differenza] da come si vive a come si dovrebbe vivere che co­lui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare impara piuttosto la ruina che la perseverazione sua [che la sua salvezza] perché un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono conviene rovini in fra tanti che non sono buoni ».
Noi cioè dobbiamo studiare le cose come sono e dobbiamo vedere quello che si può e si deve fare, non quello che si dovrebbe, dobbiamo considerare il modo in cui si vive, non come si dovrebbe, perché uno che volesse essere buono tra tanti uomini che non sono buoni andrebbe in rovina. Bisogna tener conto della natura dell'uomo e muo­versi nella realtà effettuale.
In questo modo viene ripreso qui un tema che è di Aristotele: la politica è l'arte del possibile, è l'arte della realtà effettuabile, che tiene conto di come le cose stanno e non di come dovrebbero essere. Poiché è la morale che si occupa del « dover essere », c'è qui una distinzione netta tra politica e morale.
La politica tiene conto di una natura degli uomini che per Machiavelli è immutabile, sicché la storia ha alterne vicende, ma è sempre la medesima, e la tecnica della poli­tica è sempre la medesima (il che non è vero). Machiavelli dice: «nasce da questo una disputa se gli è meglio essere amato che temuto o il converso [il contrario], rispondesi che si vorrebbe essere l'uno e l'altro, amato e temuto, ma perché gli è difficile accozzarlo insieme [mettere insieme le due cose] è molto più sicuro essere temuto che amato quando si abbia a mancare dell'uno dei due», se si deve scegliere tra l'essere temuto e l'essere amato allora è meglio essere temuto.
E continua; «perché degli uomini si può dire questo generalmente; che siano ingrati, volubili, simulatori e dis­simulatori, fuggitori dei pericoli, cupidi di guadagno e men­tre fai loro bene sono tutti tua, offerenti il sangue [ti of­frono il sangue], la roba, la vita, i figlioli, quando il biso­gno è discosto [quando tu non ne hai bisogno] ma quando ti si appressa [quando tu hai bisogno di loro] essi rivoltan».
Il Principe, che per i benefizi fatti ai sudditi spera gratitudine, sarà invece sconfitto.
«Gli uomini hanno meno rispetto ad offendere uno che si faccia amare che uno che si faccia temere perché l'amore è tenuto da un vincolo di obbligo il quale per essere degli uomini tristi [malvagi] da ogni occasione di propria uti­lità è rotto [l'amore è tenuto da un vincolo che gli uomini essendo malvagi infrangono, un vincolo morale di sentimen­to], ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai» e allora tu devi instaurare il timore, il potere dello Stato è fondato, lo Stato moderno è fondato sul timore.
Con questo il Machiavelli contraddice profondamente le cose che aveva detto invece nei Discorsi sulle decadi di Tito Livio, cioè che il potere è fondato sulla democrazia, sul consenso del popolo, intendendosi per popolo la bor­ghesia dei suoi tempi. Ma qui egli pensa alla costruzione di uno Stato unitario moderno, quindi dello Stato assoluto e descrive quello che sarà il processo reale della formazione degli Stati unitari.
A ben vedere, Machiavelli non si occupa della morale, si occupa della politica e studia le leggi specifiche della po­litica, comincia a fondare la scienza politica. In realtà (come osservarono Hegel e poi De Sanctis e Gramsci) fonda una nuova morale che è la morale del cittadino, dell'uomo che costruisce lo Stato; una morale immanente, terrena, che vive nel rapporto tra gli uomini e non è più la morale del­l'anima individuale da presentare al giudizio divino «bel­la », pulita.

Bodin
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Machiavelli ci dà una teoria realistica, è il primo a vedere scientificamente, criticamente, sperimentalmente, la politica. Non ci dà però una teoria dello Stato moderno, bensl di come si costruisce uno Stato. Una riflessione su che cosa è lo Stato moderno la ritroviamo un po' più tardi in Francia, con Bodin [Jean Bodin, filosofo ed economista francese, 1530-1596], Bodinus, alla latina. Nei suoi sei libri sulla Repubblica, del 1576, Bodin polemizza contro il Machiavelli. Gramsci dice: Machiavelli doveva costruirsi lo Stato, progettarlo, Bodin invece teorizzava uno Stato uni­tario come quello francese, già esistente, e quindi per lui si poneva soprattutto il problema del consenso, dell'ege­monia.
Bodin è il primo che comincia a teorizzare la autono­ma sovranità dello Stato moderno, nel senso che il monarca interpreta le leggi divine, ad esse obbedisce, ma in modo autonomo. Non ha bisogno di essere investito dal Papa del suo potere. Lo Stato è essenzialmente costituito dal potere, non è tanto il territorio e il popolo a fare lo Stato quanto il potere.
Egli dice: è la sovranità il vero fondamento, il cardine su cui poggia tutta la struttura dello Stato e da cui dipen­dono i magistrati, le leggi, le ordinanze; è essa, la sovranità, il solo legame e la sola unione che fa di famiglie, corpi, col­legi singoli, un unico corpo perfetto, quale è appunto lo Stato, lo Stato come sovranità, come potere assoluto, come coesione di tutti gli elementi della società.

Hobbes
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Cominciano così a gettarsi le basi della teoria moderna dello Stato che poi troverà una formulazione più compiuta nel '600 e nel '700 con Hobbes [Thomas Hobbes, filosofo inglese, 1588-1679], filosofo inglese, che ha già di fronte la rivoluzione democratica inglese del 1648, guidata dai puritani di Cromwell [Oliver Cromwell, 1599-1658] e che ad essa si oppone da un punto di vista aristocratico. Questa la teoria dello Stato secondo Hobbes: quando gli uomini primitivi vivono allo stato di natura, come animali, sono l'uno contro l'altro, per il desiderio di possesso, di potere, di ricchezza, di pro­prietà. L'impulso alla proprietà guida gli uomini: già si sente la società borghese che si sviluppa in Inghilterra e, Homo homini lupus, l'uomo è per l'uomo un lupo. Ma, poiché, a questo modo, gli uomini si distruggono a vicenda, essi sentono il bisogno di stabilire tra loro un accordo, un contratto. Un contratto per costituire uno Stato che tenga a freno i lupi, che impedisca lo scatenarsi degli egoismi e la distruzione reciproca. Il contratto che si stabilisce fra gli uomini per costituire lo Stato ne fa uno Stato assoluto, di assoluto dominio. (Vi sono accenti in Hobbes che ri­cordano il Machiavelli). La nozione dello Stato come con­tratto rivela il carattere dei rapporti sociali borghesi, il loro carattere mercantile. Il fine o il disegno degli uomini, che per natura non sarebbero portati a dar vita ad uno Stato che limita la loro libertà, nell'introdurre le restrizioni entro cui vivono nello Stato, è di ottenere in tal modo la propria conservazione e una vita più confortevole. Di uscire dalla miserabile condizione di guerra che è la necessaria conse­guenza delle passioni naturali.
E poiché i patti senza le spade sono solo parole prive di forza, il patto sociale che consenta agli uomini di vivere in società e di superare i loro egoismi deve dare luogo ad uno Stato assoluto, durissimo nel suo potere.
Rousseau più tardi rivolgerà un'obiezione brillante a Hobbes: quando questi dice che l'uomo allo stato di natura è per l'altro uomo un lupo, non descrive l'uomo allo stato di natura, ma descrive gli uomini del suo tempo. Rousseau non dice che Hobbes descrive i borghesi del suo tempo, ma in realtà egli descrive i borghesi, il sorgere del mercato, il formarsi della borghesia, la lotta di mercato e la sua spie­tatezza.

Locke
indice
Non dimentichiamo che l'Inghilterra è già diventata un impero mercantile nella seconda metà del '500 con la grande regina Elisabetta. È quindi una concezione tipicamente borghese quella che troviamo in Locke [John Locke, filosofo inglese, 1632-1704] il caposcuo­la dell'empirismo filosofico moderno ed il teorico della ri­voluzione liberale inglese. Non della rivoluzione del 1648, ma della seconda rivoluzione che si conclude nel 1689. Una rivoluzione di tipo liberale che segna un accordo tra la monarchia e l'aristocrazia, da un lato, e la borghesia, dal­l'altro, l'inizio di norme parlamentari, una direzione dello Stato fondata su una dichiarazione dei diritti del parlamen­to che viene definita nel 1689 e che era stata preceduta, negli anni settanta, dall' habeas corpus (che tu abbia corpo), cioè da una legge che prescrive che nessuno può essere arre­stato arbitrariamente, senza una precisa denunzia, che deve essere presentata in tribunale entro un determinato tempo, e con alcune garanzie che fanno del «suddito» un « citta­dino ». Nasce il cittadino, il primo Paese in cui nasce è ap­punto l'Inghilterra, e Locke ne è il teorico.
Egli osserva che l'uomo che vive allo Stato di natura è pienamente libero, e tuttavia sente la necessità di porre un limite alla propria libertà. Perché?
Per garantire la propria proprietà. Finché gli uomini sono totalmente liberi vi è tra di loro una lotta che non garantisce la proprietà e di conseguenza una libertà durevole.
Il fine maggiore e principale, dice sempre Locke, del fatto che gli uomini si uniscono in società politiche e si sot­topongono ad un governo è la conservazione della proprie­tà, mentre lo stato di natura (cioè la mancanza dello Stato) non garantisce la proprietà. È necessario quindi il costituirsi di uno Stato che garantisce l'esercizio della proprietà, la si­curezza della proprietà.
È per questa ragione che si stipula fra gli uomini un contratto che dà luogo sia alla società che allo Stato (per Locke le due cose vanno insieme). Il contratto, l'accordo dà luogo alla società e allo Stato. Qui è evidente il fonda­mento borghese di tale concezione. Siamo ormai in una società in cui è nato il mercato, in cui il rapporto tra gli uomi­ni è un rapporto tra individui che stabiliscono tra di loro dei contratti di compra-vendita, di passaggio di proprietà, ecc. ecc. È questa realtà individualistica della società bor­ghese, che è tutta fondata su rapporti mercantili e di con­tratto, che si esprime nell'ideologia politica, nella conce­zione dello Stato. Anche lo Stato nasce da un contratto, ma, mentre per Hobbes il contratto dà luogo ad uno Stato assoluto, per Locke, invece, lo Stato, come ogni contratto, si fa e si scioglie. Cioè, se lo Stato, il governo non rispetta il contratto, questo viene sciolto; quindi il governo deve garantire determinate libertà, deve garantire la proprietà, e deve anche garantire quel margine di libertà politiche e di sicurezza personale, senza cui l'esercizio della proprietà e la tutela della libertà non sono possibili. C'è già implicito il fondamento di alcune libertà politiche che vanno garantite: di assemblea, di parola e cosl via, in primo luogo la libertà dell'iniziativa economica.
Cosicché, da un lato abbiamo l'individualismo tipico borghese, nel senso che l'individuo umano preesiste alla so­cietà, preesiste allo Stato, gli uomini partono da uno Stato di natura in cui sono individui singoli. (Nella visione di Marx invece l'uomo è un essere sociale e si fa uomo solo in quanto vive in società e in società lavora, altrimenti sarebbe una bestia, un bruto). Per questi pensatori c'è un individuo umano che preesiste alla società umana ed è dal contratto tra individui che nasce la società. Questo è chiaramente fantastico dal punto di vista storico, non si può pensare che l'uomo diventi uomo se non vivendo in società con altri uomini, se non organizzando socialmente la propria vita. Prefìgurare questo individuo umano come già uomo prima di organizzarsi in società è una tipica proiezione ideologica dell'individualismo borghese, perché nel rapporto economi­co borghese ogni individuo si pone in rapporto con un altro individuo e non ha coscienza del carattere sociale dei rap­porti economici.
Lo Stato è sovrano, ma la sua autorità deriva soltanto dal contratto che lo fa nascere: questo è il fondamento libe­rale, senza dubbio progressivo, del pensiero di Locke. Lo Stato non riceve la sua sovranità da altra autorità. Il curioso è che infatti Locke non polemizza contro l'assolutismo di Hobbes, come si potrebbe pensare, essendo egli un liberale, ma polemizza contro un altro autore, il Filmer [Robert Filmer, politologo inglese, 1588-1653], secondo cui il potere statale deriva dal potere divino. Contro questi polemizza per affermare proprio la piena autonomia, l'as­soluta sovranità dello Stato moderno, come Hobbes.
Il nesso quindi proprietà-libertà è evidentissimo: il potere supremo non può togliere ad un uomo una parte del­la sua proprietà senza il suo consenso, perché dal momento che il fine di un governo e di tutti quelli che entrano in società è la conservazione della proprietà, ciò necessaria­mente presuppone ed esige che il popolo abbia una proprie­tà, senza di che si dovrebbe supporre che, con l'atto di en­trare nella società, si perda ciò che costituisce il fine per cui si entra in società. Lo Stato quindi non può togliere il potere sovrano ad un uomo sulla sua proprietà. Non è pos­sibile nessun atto arbitrario dello Stato in violazione della proprietà, quindi, per esempio, le imposte devono essere approvate in parlamento: il monarca non può stabilire le imposte senza il consenso del parlamento, tradizione ormai già affermatasi in Inghilterra, e cosl via.
Vi è una stretta connessione proprietà-libertà: la liber­tà è in funzione della proprietà e la proprietà è il fondamen­to della libertà borghese progressiva in quel momento.
Ripeto, è la visione borghese che sta alla base di que­sta concezione. È interessnte osservare però come, in locke, si afferma già una distinzione tra lo Stato e la società civile, quella che poi si chiamerà la società civile del '700, quindi tra il pubblico e il privato, tra la società politica e la società civile. In che senso nasce questa distinzione?
Egli dice: la proprietà si eredita, il padre trasmette ai figli in eredità la proprietà; il potere politico, invece, il go­verno non si trasmette in eredità, deve avere una sua ori­gine democratica, parlamentare.
L'elemento interessante qui è che nello Stato medie­vale si trasmette in eredità e la proprietà e il potere politico: il re trasmette ai suoi figli la proprietà patrimoniale dello Stato e il potere; il latifondista trasmette la terra, il mar­chese il marchesato, il conte la contea, cioè tutti i beni e tutto il potere su questi beni e sugli uomini che vivono nella contea e nel marchesato.
Nella società medievale società e Stato, potere politico, sono inseparabili, si connettono insieme, vengono trasmessi insieme; nella società borghese moderna i due momenti si separano, nella società civile c'è la trasmissione della pro­prietà, non c'è la trasmissione del potere politico. Società politica e società civile obbediscono a norme e a leggi diver­se e tutti i diritti di proprietà si esercitano nella società civile. Lo Stato non deve intromettersi, lo Stato deve ga­rantire l'esercizio della proprietà, la sua tutela e il suo libero esercizio.
La separazione delle due sfere sta pure a fondamento delle stesse libertà politiche, che sono le garanzie neces­sarie per poter tutelare a livello politico la proprietà e quin­di la libera iniziativa economica.
Anche il matrimonio viene concepito da Locke come un contratto fra individui. La mentalità mercantile si riflet­te sulla concezione del matrimonio. Il matrimonio appar­tiene alla società civile, al diritto civile non al diritto pubblico, è un fatto esclusivamente privato. Così non era, per esempio, nella società antica, nella società greca, romana, in cui il matrimonio è un fatto pubblico che interessa lo Stato.

Kant
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Si ha una separazione formale, non reale, tra Stato e società civile. Si ha un diverso modo di manifestarsi della società civile e dei rapporti economici al livello del potere statale. La borghesia comincia a forgiare il proprio Stato. Ciò si vede anche più lucidamente in Kant [Immanuel Kant, filosofo prussiano, 1724-1804].
Kant parte da una affermazione che tiene conto della rivoluzione francese e delle teorizzazioni di Rousseau, come vedremo. Kant afferma che la sovranità appartiene al po­polo, il che è già un principio democratico. In Locke non lo si trova: la società nasce da un contratto, ma la chiara affermazione che la sovranità appartiene al popolo non c'è, perlomeno così distintamente, mentre in Kant è esplicita.
Affermato questo, ci dice però che ci sono cittadini indipendenti e cittadini non indipendenti. I cittadini indipendenti, che possono esprimere un giudizio politico, che possono decidere della politica dello Stato, sono i cittadini che non dipendono da altri cittadini, cioè i proprietari.
Non si può pensare che sia capace di giudizio indipen­dente il servo della fattoria, il garzone della bottega artigia­na. Questi quindi non possono avere il diritto di voto e non possono essere eletti. I diritti politici attivi appartengono soltanto ai proprietari.
Questo è il criterio che guiderà tutta la concezione liberale. In Italia nel'800 ha diritto di eleggere e di essere eletto solo chi paga un determinato livello di imposte, cioè solo i proprietari. Questa distinzione tra proprietari e no è a fondamento del liberalismo, e viene con estrema lucidità espressa da Kant.
Dopo aver affermato che la sovranità appartiene al po­polo, nega in realtà l'effettivo esercizio della sovranita al popolo, lo affida soltanto ad una parte del popolo. Qui il nesso proprietà-libertà è evidentissimo. È libero soltanto chi è proprietario (si tratta essenzialmente della proprietà della terra, in Kant come in Locke). Il nesso indissolubile pro­prietà-libertà è proprio l'essenza del liberalismo.
Bisogna precisare che quando si parla di popolo lo si intende in senso generale, ma poi nel popolo si fa distin­zione tra chi può esercitare dei diritti civili perché è indi­pendente, in quanto proprietario, e quindi ha indipendenza di giudizio e di decisione politica, e chi non l'ha.
Kant arriva poi alla conclusione che una legge è così sacra, così inviolabile che il solo metterla in discussione è un delitto. Così dopo aver affermato la sovranità del popo­lo, in realtà la cancella, e avverte che il monarca non puòche essere un interprete giusto della sovranità del popolo, del diritto naturale, sicché le leggi non possono che corri­spondere al diritto naturale, alla sovranità stessa del popolo. La legge si sovrappone alla sovranità del popolo. È la tipica concezione liberale dello Stato di diritto, per cui la sovranità del popolo deve essere contenuta nell'ambito di alcune leggi che la sovrastano e che sono inviolabili e non discutibili: il diritto di proprietà, la libertà di parola, di espressione, di riunione, di associazione, libertà che, nella pratica, vengono esercitate da chi ha i mezzi per esercitarle.
Viene fuori dalla concezione liberale dello Stato di di­ritto questo elemento: lo Stato è Stato di diritto in quanto vi sono alcuni diritti che non possono mai essere messi in discussione e nel cui quadro si esercita la sovranità popo­lare. La sovranità popolare è inquadrata e dipendente da alcuni diritti, come dire, permanenti, eterni, diritti natu­rali, i quali sono la tipica espressione degli interessi dell'alta borghesia, o dell'aristocrazia che si borghesizza, e afferma i suoi diritti cominciando da quello fondamentale di pro­prietà, tutelato con la libertà di parola, di associazione e la rappresentatività nel parlamento.

Rousseau
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Abbiamo visto sommariamente alcuni momenti della concezione liberale, del nascere dello Stato moderno. Al tempo stesso nasce la concezione democratico-borghese con Rousseau [Jean-Jacques Rousseau, filosofo francese, 1712-1778]. Anche per Rousseau esiste uno stato di natura degli uomini. Esso è uno stato di felicità, di virtu e di libertà, che viene distrutto e cancel­lato dalla civiltà. È la concezione opposta a quella di Hobbes.
Rousseau infatti diceva: Hobbes non ha descritto l'uo­mo allo stato di natura, ma ha descritto l'uomo dei suoi tempi.
È invece la civiltà che turba i rapporti umani, che vio­la l'umanità, perché gli uomini nascono liberi ed uguali (ecco il principio che si affermerà nella rivoluzione bor­ghese), ma sono ovunque in catene, una frase stupenda. Gli uomini invece non nascono né liberi, né uguali, ma lo diventano per un processo politico. Anche qui si attri­buisce ad uno stato di natura quello che è invece una conquista della storia sociale, dell'ideologia.
Gli uomini, quindi, non possono rinunciare a questi beni essenziali del loro stato di natura: la libertà e l'ugua­glianza. Essi si devono costituire in società. Anche per Rousseau la società nasce da un contratto. V'è la stessa mentalità mercantile del borghese e c'è lo stesso individua­lismo. L'individuo preesiste alla società e dà luogo alla società, attraverso un accordo, attraverso un contratto. Ma mentre per Locke il contratto dà luogo alla società e al governo, quindi allo Stato, per Rousseau il contratto dà luogo soltanto alla società, che deve servire alla piena espan­sione della personalità dell'uomo. La società, il popolo non può mai alienare la propria sovranità, la sovranità appar­tiene al popolo, soltanto al popolo. Quindi il popolo non deve mai creare uno Stato da lui distinto o separato. L'unico organo sovrano è l'assemblea (il primo teorico dell'assemblea è Rousseau), ed è nell'assemblea che si esprime la sovranità.
L'assemblea, il popolo, può commettere, affidare a ta­luni dei compiti amministrativi, relativi all'amministrazio­ne dello Stato, può revocarli in qualsiasi momento. Ma il popolo non aliena mai la sua sovranità, non trasferisce mai la sua sovranità ad un corpo statale separato.
I governanti sono soltanto dei commissari del popolo. (L'espressione «commissari del popolo », che sarà usata dalla rivoluzione russa, risale a Rousseau, è ricavata deliberatamente da Rousseau).
L'affermazione dell'uguaglianza è fondamentale in Rousseau. Solo se l'uomo è uguale può essere libero, appena nasce una diseguaglianza tra gli uomini cessa la libertà. Mentre per il liberale la libertà esiste a condizione che si tenga conto delle diseguaglianze tra proprietari e non proprie­tari e l'uguaglianza uccide la libertà, per Rousseau il solo fon­damento della libertà è l'eguaglianza, dove non c'è ugua­glianza non c'è libertà.
Rousseau pensa all'uguaglianza di fronte alle leggi, pensa all'uguaglianza giuridica, ma arriva anche a capire che c'è un problema di uguaglianza economica, economi­co-sociale. Infatti dice che il primo uomo che, avendo re­cintato un terreno, affermò: «questo è mio! », e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. «Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe rispar­miato al genere umano chi strappando i paletti o colmando il fosso avesse gridato ai suoi simili: "guardatevi dal dare ascolto a questo impostore, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno siete perduti"».
Questa è la negazione della proprietà privata. Egli non vede però che il formarsi della proprietà privata è un grande progresso rispetto alla società barbarica, un dolo­roso progresso e pensa che la proprietà nasca dall'atto di uno che mette i paletti e dice: è mio! e gli altri, sciocchi, gli credono. Invece è tutto un processo economico di svi­luppo delle forze produttive che dà luogo alla proprietà. Questo Rousseau evidentemente non lo può supporre. La sua concezione è individualistica: la proprietà deriva da un rapporto tra individui, dall'iniziativa di un individuo. È sempre lo stesso individualismo borghese in realtà che sta alla base del formarsi della proprietà.
È interessante però osservare che in lui cade la di­stinzione dei tre poteri che già aveva fissato il Montesquieu all'inizio del 1700: il potere legislativo (parlamento), il potere esecutivo (governo), il potere giudiziario. Monte­squieu aveva fatto questa distinzione per ridurre il potere esecutivo, che era nelle mani del monarca, guardando ad una monarchia di tipo costituzionale. Rousseau nega in­vece la distinzione dei poteri per affermare al di sopra di tutto il potere assembleare. Non ci può essere un potere esecutivo distinto da quello assembleare, da quello rappre­sentativo (è l'idea che Lenin riprenderà in pieno: nei So­viet il potere legislativo ed esecutivo si identificano e il potere rappresentativo domina). Certo Rousseau s'imbatte in molte difficoltà che egli stesso sente. Dice: dalla pro­prietà nascono tutti i mali, ma non propone come abo­lirla. Anzi, la sua società è una società piccolo-borghese, di artigiani. La sua ideologia è l'espressione di questo ceto, come lo è la fase robespierriana nella rivoluzione francese. Non a caso Robespierre è un discepolo di Rousseau. Que­sta fase esprime gli interessi della piccola borghesia francese, della borghesia artigiana francese, c'è una continuità in questo senso.
Comunque, Rousseau non sa indicare come si supera la proprietà privata.
Allo stesso modo per quanto riguarda la sovranità dell'assemblea. L'assemblea non deve delegare, il popolo non può mai alienare la sua sovranità neanche per un mo­mento. Vi è quindi identità di società politica e di società civile - però Rousseau afferma: un popolo non può sem­pre star riunito in assemblea; c'è una difficoltà pratica, reale. Del resto egli ha ideologizzato l'esperienza della de­mocrazia ginevrina (era di Ginevra) che si era instaurata dopo l'avvento della riforma calvinista.
Democrazia quindi di una piccola città, assemblea di una piccola città, mentre c'è un'enorme difficoltà per uno Stato moderno ad organizzarsi in questo modo. Rousseau guarda anche alla democrazia ateniese che riponeva nell'assemblea, nell'ecclesia, la sovranità.
Dalla ecelesia venivano estratti a sorte i 500 com­ponenti della bulé, il consiglio (nell'età di Pericle). Ve­nivano estratti a sorte, non eletti. L'elezione è già una scelta. Questi invece erano estratti a sorte. Cosa che po­teva toccare a tutti. Il consiglio dei 500 restava continua­mente riunito, salvo nei giorni delle festività religiose. Poi, siccome i cinquecento venivano scelti in numero di 50 per ognuna delle dieci tribù, che era la divisione amministra­tiva di Atene, a turno i cinquanta di una tribù esercita­vano i compiti governativi ma per poche settimane. In pratica non vi era distinzione tra potere legislativo, rap­presentativo e il potere esecutivo. Non vi era distinzione quasi tra società civile e Stato. I soldati erano cittadini in armi e cosi via. Però quel modello era possibile perché mentre i cittadini erano riuniti in assemblea, in consiglio, gli schiavi lavoravano ed anche quelli che senza essere schiavi non erano cittadini a pieno titolo, i Meteci. Una democrazia come quella ateniese presuppone che il citta­dino non lavori, ma gli altri lavorino per lui.
Della difficoltà di questo modello, anche Rousseau si rende conto: la democrazia di cui io parlo non esiste, non è mai esistita e forse non esisterà mai; anche quello stato
di natura a cui si deve tendere, cioè l'uomo che non aliena ,.
la propria sovranità, la propria libertà, questo stato di na­tura forse non è mai esistito e non esiste e forse non esi­sterà mai. È una mèta ideale a cui tendere. Lo stesso Rousseau si rende conto dell'elemento utopico presente nel­la sua concezione.

Constant
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Molto più tardi, arriviamo a Benjamin Constant [Benjamin Constant de Rebecque, scrittore francese, 1767-1830]. A quel tempo il liberalismo comincia ad essere un ideale cui si ispira tutta l'Europa, dopo l'esperienza della Rivolu­zione francese. È il momento in cui la fase democratica della rivoluzione francese, la fase Robespierriana (1793) viene respinta e si tende a società liberali come quelle che si formeranno in Francia dopo il 1830, con la rivoluzione del 1830, in Italia con il '48, in Piemonte e più tardi con l'unificazione del regno. In Inghilterra, dopo la rivolu­zione del 1689, c'è sempre stata una società liberale.
Benjamin Constant è interessante perché qui la distin­zione tra Stato e società civile è portata al massimo della consapevolezza. Nel fare distinzione fra la democrazia romana e la democrazia greca, ateniese, e il liberalismo moderno egli sottolinea che la libertà degli antichi si esercitava nella sfera pubblica della società, dello Stato, non si esercitava nella sfera del privato. La vita privata era vincolante, mentre invece la libertà del cittadino moderno si esercita nella sfera del privato essenzialmente, mentre è molto debole ed inconsistente, parziale nei confronti del­lo Stato.
«Che cosa intende oggi per libertà un francese, un inglese, un abitante degli Stati Uniti d'America? È per ognuno di loro il diritto di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né tenuto in carcere, né condannato a morte, né maltrattato in alcun altro modo per la volontà arbitraria di uno o più individui, è per ognuno il diritto di esprimere la propria opinione, di eser­citare il proprio lavoro, di disporre della sua proprietà e persino di abusarne, di andare e venire senza chiedere per­messi, ecc. ecc. È infine il diritto per ognuno di esercitare la propria influenza  sull'amministrazione del governo sia concorrendo alla nomina di tutti o di alcuni dei suoi fun­zionari, sia con rimostranze, petizioni, domande che l'auto­rità in qualche modo è obbligata a prendere in conside­razione».
Constant osserva, in un altro passo, che, mentre nella sfera del privato la libertà dell'uomo moderno è grande, nella sfera del pubblico la libertà è limitata, si può influire in modo limitato sull'andamento del governo.
Per gli antichi è l'opposto. La libertà degli antichi consisteva nell'esercitare collettivamente (ma direttamente, non delegandole al governo) molte funzioni della sovra­nità, nel deliberare sulla pubblica piazza sulla guerra, e sulla pace, nel concludere con gli Stati stranieri trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunziare giudizi, nell'esaminare i bilanci, gli atti dei magistrati, nel farli comparire davanti a tutto il popolo, nel metterli sotto ac­cusa, nel condannarli e nell'assolverli.
Nella sfera del pubblico, quindi, erano enormi i di­ritti del cittadino della repubblica romana oltre che della democrazia ateniese. Il governo non decideva della pace e della guerra al di fuori dell'assemblea dei cittadini, mentre il governo moderno decide al di fuori.
Era questo che gli antichi intendevano per libertà, ma contemporaneamente ammettevano che questa libertà col­lettiva era compatibile con l'asservimento completo dell'in­dividuo all'autorità dell'insieme. Invano, o quasi, si cercherebbe presso di loro la possibilità di usufruire di quei vantaggi che fanno parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono sottomesse ad una sorveglianza se­vera, niente è concesso all'indipendenza individuale, né per quanto riguarda le opinioni personali, né in materia di attività economica, né soprattutto in materia di religione (non c'è la libertà di coscienza), le attività economiche sono tutte controllate, ecc. Tutta la sfera del privato è assor­bita nel pubblico, nella vita politica. Invece per i moderni la libertà, dice Constant, si esercita soprattutto nella sfera del privato ed è una rivendicazione di libertà nella sfera del privato.
È netta la distinzione che egli fa tra società civile, società statale, società .politica, e l'affermazione dei diritti di libertà come di diritti che si esercitano soprattutto nella sfera privata perché sono diritti di iniziativa economica (diritti della borghesia). Di qui tutta la sua polemica con Rousseau: l'eguaglianza di Rousseau distrugge ogni libertà e le sue concezioni vanno perciò respinte come una grande minaccia alla libertà. Il nesso proprietà-libertà, e quindi libertà come differenza e non eguaglianza, viene fortemente sostenuta.

Tocqueville
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È questo il dilemma di fronte al quale in pieno ot­tocento si troverà quel grande liberale che è Tocqueville [Charles Tocqueville, storico e uomo politico francese, 1805-1859], abbastanza intelligente e realista da capire che la demo­crazia è destinata a vincere, l'eguaglianza giuridica è desti­nata ad affermarsi. Ma si chiede se l'uguaglianza verso cui l'umanità andrà non distruggerà la libertà e se riusciremo ad affermare l'uguaglianza e a salvare l'umanità al tempo stesso, se cioè l'uguaglianza non diventerà tirannide.
Sono queste le due diverse concezioni progressiste dello Stato che si affermano travagliosamente in Europa: la concezione liberale (il nesso proprietà-libertà, la libertà esige la diseguaglianza), la concezione democratica (la li­bertà posa sulla eguaglianza, ma sulla eguaglianza giuridica
essenzialmente, anche se Rousseau arriva a porre il problema della proprietà).
La corrente democratica che si era affermata con la rivoluzione francese, con Robespierre, in realtà fu scon­fitta dalla storia europea. Avremo poi dei regimi liberali, avremo, dopo il sessanta e il settanta, in Europa, il fon­darsi delliberalismo e della democrazia, cioè un'estensione del suffragio universale, della uguaglianza giuridica, una commistione di liberalismo e democrazia, che però afferma sempre il diritto della proprietà e tutela sempre la inizia­tiva economica e lo sviluppo capitalistico.

Croce
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E così Benedetto Croce [Benedetto Croce, filosofo italiano, 1866-1952] potrà, negli anni '30 del nostro secolo, nella sua Storia d'Europa, dal suo punto di vista liberale, mettere le cose in chiaro. In un'epoca in cui non si distingue più tra Stato di diritto liberale e Stato democratico, in cui, cioè, non si distingue tra liberalismo e democrazia, poiché nella realtà delle cose i due elementi sono intrecciati, Croce precisa che si tratta di due conce­zioni molte diverse. E dice: nonostante l'affinità di alcuni elementi del cattolicesimo e delle monarchie assolute col liberalismo, e nonostante la disposizione di questo a riceverli in sé e a far suoi i due sistemi, cioè quello cattolico­clericale e la monarchia assoluta, gli rimanevano contro nemici ed esso nemico a loro (ovviamente il liberalismo era nemico della monarchia assoluta e del clericalismo), così accadeva di un terzo sistema e di una terza fede che pareva confondersi col liberalismo o perlomeno unirvisi: l'ideale democratico.
Sembrava che nell'800 si fondesse l'ideale democra­tico con l'ideale liberale. Le concordanze erano, tra libe­ralismo e democrazia, non soltanto al negativo (comune opposizione al clericalismo e all' assolutismo), ma anche al positivo (comune richiesta di libertà individuale, di egua­glianza civile e politica e di sovranità popolare). Ma qui per l'appunto, dice il Croce, si annidava la diversità. In­fatti i democratici concepivano l'individuo, l'eguaglianza, la sovranità, il popolo in un modo e altrimenti i liberali.
Per i democratici, gli individui erano centri di forze pari cui bisogna assegnare un'eguaglianza, come dicevano, di fatto: per i liberali gli individui erano persone uguali come uomini, quindi da rispettare sempre, ma non erano uguali nel diritto, come cittadini. Ma il Croce non vede che la libertà di movimento e di gara, che per lui è libertà di capacità, in realtà è gara di forza economica.
Il popolo, inoltre, non era una somma di forze uguali, per i liberali, come lo era per i democratici, ma un mec­canismo differenziato valido nelle sue componenti e nella loro associazione, complesso nella sua unità, con governati e governanti, con classi dirigenti aperte e mobili, ma sem­pre necessarie a quest'ufficio. La sovranità era dell'intero nella sua sintesi e non delle parti nella loro analisi, cioè la sovranità si incarnava nella sintesi politica dei gover­nanti e non dei governati. Per i liberali c'è una classe di­rigente, che secondo Croce è la dirigenza della cultura, ma in realtà è la dirigenza della base economica.
I democratici nel loro ideale politico postulavano una religione della quantità, della meccanica, della ragion calcolante o della natura come era stata quella dell'ottocento. I liberali - una religione della qualità, dell' affinità, della spiritualità, quale si era levata ai primi dell'800. Anche in questo caso il contrasto era di fede religiosa, cioè di condizioni generali: quantitativa la democrazia, egualitaria, che appiattisce meccanicamente; selezionante delle capacità, qualitativo, spirituale, non materialistico e non meccanico il liberalismo. Ecco la riaffermazione di queste due dif­ferenze.

Hegel
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Un cenno ad una concezione diversa, con cui Marx si misura, la concezione di Hegel [George Wilhelm Friedrich Hegel, filosofo tedesco, 1770-1831].
In Hegel ritorna in pieno la distinzione tra Stato e società civile assunta dai pensatori del '700, ma lo Stato sta a fondamento della società civile e della famiglia e non viceversa. Non vi è cioè società civile se non c'è uno Stato che la costruisce, che la connette, che la mette insieme; non c'è popolo se non c'è Stato; è lo Stato che fonda il popolo, non è il popolo che fonda lo Stato. È il contrario della concezione democratica secondo la quale la sovranità è del popolo e quindi il popolo la esprime nello Stato, ma è nel popolo il fondamento della sovranità.
Per Hegel è viceversa. Lo Stato fonda il popolo e la sovranità è dello Stato, quindi la società civile viene in­corporata nello Stato e, in un certo senso, annullata nello Stato. Vi è in lui la critica alla concezione liberale della libertà, come concezione individualistica. È una critica che coglie nel giusto per arrivare ad una soluzione conser­vatrice.
Se in Rousseau lo Stato si risolve nella società e la società civile trionfa nella società statale, in Hegel invece lo Stato trionfa sulla società civile e l'assorbe in sé. I due momenti sono - Stato e società civile - distinti soltanto concettualmente, mentre abbiamo una con­cezione organicistica dello Stato, lo Stato come organismo che abbraccia tutto, Stato etico, che rende concreta una concezione morale. Lo Stato liberale invece non è etico, non educa, deve soltanto garantire la sfera delle libertà, inviolabilità della persona, della iniziativa privata in campo economico, ecc.
Lo Stato, quindi, per Hegel, si incarna nel monarca: è il monarca che rappresenta la sovranità statale. Marx dirà: in Hegel abbiamo la Costituzione del monarca e non il monarca della Costituzione, cioè è il monarca che dà la Costituzione che fissa i diritti e le funzioni del monarca perché nel monarca si incarna la sovranità statale Vi è dunque una continuità col vecchio assolutismo, sia pure temperato da una visione di monarchia costituzio. naIe. Non è vero che Hegel esaltasse lo Stato prussiano com'era allora. Voleva determinate riforme, moderate, di tale Stato.
Dal rapido sguardo alle concezioni fondamentali dello Stato che vengono avanti nella fase della costruzione dello Stato borghese moderno, sorge un quesito: esiste una teo­ria borghese dello Stato?
A mio parere non esiste. Esiste una giustificazione ideologica dello Stato, dello Stato che c'è, di quello che si vorrebbe costruire, ma non esiste una teoria scientifica che ci spieghi come nasce lo Stato, perché nasce lo Stato, per quali motivi, e quale è veramente la natura dello Stato. Vi sono volumoni in cui tutta la vita dello Stato viene descritta, le sue istituzioni definite, viste nei loro rapporti, ma non c'è mai una teoria che ci spieghi che cosa è vera­mente uno Stato. Abbiamo la giustificazione ideologica, cioè non critica, non cosciente, dello Stato esistente.
E c'è da chiedersi se una teoria borghese, scientifica possa esistere. Non è certo scientifica la concezione che dice: gli uomini esistono individualmente prima e poi per contratto si costituiscono in società. Non è una spiega­zione scientifica quella per cui lo Stato fonda la società civile, ecc.
In realtà una visione scientifica di che cosa è lo Stato può iniziare soltanto quando si prende coscienza del con­tenuto di classe dello Stato. La borghesia questo non può farlo, perché farlo significherebbe indicare che lo Stato bor­ghese, anche nella forma più democratica, è in realtà il dominio di una minoranza su una maggioranza, sarebbe riconoscere che quella libertà non è la libertà per tutti, riconoscere che quell'uguaglianza è - per la maggioranza dei cittadini - puramente formale, non reale. Ecco perché la borghesia è costretta a rimanere in una visione ideologica della concezione dello Stato.


La critica di Marx
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Una visione critica di che cosa è lo Stato comincia con la concezione marxista.
La critica alla concezione borghese dello Stato, e quin­di alla democrazia borghese o al liberalismo, comincia, su­bito dopo la Rivoluzione francese, con Babeuf, Buonarroti, comincia col comunismo utopico, il quale individua che quella libertà, che quell'eguaglianza di cui ha parlato la Rivoluzione francese, non è in realtà la libertà e l'ugua­glianza universali, come essa affermava o si intendeva che fosse, ma è una libertà e un'eguaglianza per una parte della società, per la parte economicamente dominante, per la borghesia.
I milanesi durante il periodo dell'occupazione napo­leonica lo dicevano alla buona: «liberté, egualité, frater­nité - i fransé en carrozza e nu a pé [i francesi in carrozza e noi a piedi] ».
L'affermazione tipica, centrale, del comunismo uto­pico è che bisogna far seguire alla rivoluzione politica (che ha dato l'eguaglianza giuridica) la rivoluzione economico-­sociale che dà l'eguaglianza economico-sociale, l'eguaglianza effettiva, senza di che l'eguaglianza giuridica è una pura parvenza che nasconde, anzi sancisce reali disuguaglianze.
C'è in questo modo di esprimersi una distinzione sche­matica fra rivoluzione politica e rivoluzione economico-so­ciale, perché la Rivoluzione francese fu una rivoluzione po­litica ed economico sociale ad un tempo, a favore della bor­ghesia. Ma il significato di questa distinzione è chiaro. Vuol dire: facciamo seguire all'uguaglianza delle leggi, giuridica, una eguaglianza effettiva, economica e sociale.
Ed è da questa distinzione, ancora schematica, che parte Marx [Karl Heinrich Marx, 1818 - 1883] nel momento in cui aderisce al movimento comunista, al comunismo.
Nel suo scritto, La questione ebraica del 1843 che segna l'inizio della sua adesione al comunismo, si individua il rapporto vero tra società civile, intesa come un insieme dei rapporti economici, e società politica, Stato. Si vede cioè il rapporto tra quella società civile e quella società statale che il pensiero liberale aveva separate. Esse invece sono connesse, e l'una è l'espressione dell'altra. La società politica, lo Stato, è l'espressione della soci civile, cioè dei rapporti di produzione che sono in essa instaurati.
Del resto, Gramsci, che parla molto di società civile e di società politica, avverte che è una distinzione metodica, non una distinzione organica, cioè che nella realtà i due elementi sono strettamente intrecciati e non separati.
Marx era partito proprio dal vedere la connessione tra società civile e società statale, nel suo scritto: Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cioè del libro Lineamenti della filosofia del diritto di Hegel (del 1827). Questo scritto di Marx è del '42 (venne pubblicato per la prima volta nel 1927). È lo scritto di un Marx che non è ancora comunista, ma democratico-radicale. Però per la critica  ad Hegel si muove già in una direzione che lo porterà al comunismo.
Il succo di questa critica alla concezione dello Stato di Hegel egli ce l'ha data nella Prefazione (Prefazione a Per la critica dell'economia politica, 1859, Opere scelte, Editori Riuniti, 1974, pp. 745-749) del '59 quando dice: «la mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici piuttosto nei rapporti materiali dell'esistenza, il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi del secolo diciottesimo, sotto il termine di società civile, e che l'anatomia della società ci­vile è da cercare nell'economia politica ».
Non è quindi lo Stato che fonda la società civile, che assorbe in sé la società civile, come Hegel dice, ma è invece la società civile, come insieme dei rapporti econo­mici (l'anatomia della società civile sono appunto i rap­porti economici), che ci spiega il sorgere dello Stato, il suo carattere, la natura delle sue leggi e cosi via.
Ed è passando di qui, attraverso la critica alla demo­crazia borghese nella Questione ebraica, che Marx approda nell'Ideologia tedesca del 1845 (che non fu allora pubbli­cata) ad elaborare l'essenziale del suo metodo-concezione e a vedere il rapporto che esiste tra lo sviluppo dei rapporti economici e lo Stato e le ideologie, quel rapporto che trova una definizione limpida, anche se sommaria, nella famosa Prefazione del '59, ove si dice: «l'insieme di questi rap­porti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una super­struttura giuridica e politica alla quale corrispondono forze determinate della coscienza sociale».
Affermato così il rapporto di determinazione tra i rapporti economici e le forme politiche, lo Stato, il diritto e la stessa cultura, si ha un metodo che consente di capire che cosa è lo Stato, come sorge e perché sorge, e che con­sente di fondare scientificamente una teoria dello Stato. Non è lo Stato che determina la struttura economica, ma viceversa.
Dire che lo Stato è una superstruttura non significa dire che è un qualche cosa di accessorio o di superfluo. Non significa neanche separarlo dalla società civile.
In realtà, la società civile, cioè i rapporti economici, vivono nel quadro di un certo Stato, in quanto lo Stato garantisce quei rapporti economici. Si può dire che lo Stato è parte essenziale della struttura economica, è elemento essenziale della struttura economica proprio perché la garantisce.
Lo Stato schiavistico garantisce il dominio sugli schiavi, lo Stato feudale garantisce le corporazioni, lo Stato capitalistico garantisce la predominanza dei rapporti di proprietà capitalistici, li tutela, li libera dai vincoli del servaggio alla rendita fondiaria assoluta (o parassitaria), garantisce la riproduzione allargata del capitale, l'accumu­lazione capitalistica. È quindi elemento integrante degli stessi rapporti di produzione capitalistici, ma è da questi determinato.
Si pensi, per esempio, all'abolizione della servitù del­la gleba come condizione dello sviluppo capitalistico. In alcuni paesi la fine della servitù della gleba precede l'av­vento della borghesia, in altri paesi invece viene decisa dallo Stato, per permettere uno sviluppo di tipo borghese capitalistico, come in Russia quando la servitù della gleba viene abolita nel 1861.
Ora, per analizzare il nesso che esiste tra il modo di produzione capitalistico e lo Stato della borghesia capi­talistica, Marx voleva terminare Il Capitale con un capi­tolo dedicato alle classi sociali ed un capitolo dedicato allo Stato. Anche se non terminato, Il Capitale - definendo l'anatomia economica della società capitalistica - ci dà lo scheletro su cui si regge lo Stato borghese e ci dà il fondamento di una teoria scientifica dello Stato. Marx non la poté elaborare, ma è nel Capitale che va ritrovata la teo­ria marxista dello Stato, implicita nell'analisi dei rapporti economici.
In Marx manca una trattazione organica del problema dello Stato e della teoria dello Stato. Vi è però la teoria di base su cui si può costruire la teoria dello Stato: la struttura economica sta alla base dello Stato stesso, questo è il fondamento da cui partire.


Genesi dello Stato secondo Engels
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Possiamo chiederei se vi sia questa teoria organica dello Stato in Engels [Friedrich Engels, 1820-1895], che su questo tema ha scritto un libro famoso, che Lenin consigliava come testo fondamen­tale per la teoria dello Stato: L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, del 1894.
Engels scrisse questo libro sulla base di appunti che Marx aveva redatto leggendo un'opera di Morgan (Lewis Henry Morgan, etnologo americano (1818-1881), La società antica, che studiava la vita tribale degli Indiani Irochesi dell' America del Nord. Siamo nel periodo in cui inizia quella che si chiama l'etnologia o antropologia.
La trattazione che Engels elabora, sulla base di questi appunti di Marx e del testo del Morgan, va oltre la que­stione dello Stato, mostra il nesso storico tra famiglia­-proprietà-Stato e vede qui la genesi dello Stato.
La cosa è molto importante perché poi i fenomeni, le realtà si capiscono a vederle dal loro «cominciamento», come diceva il nostro Gianbattista Vico. Ma per giungere a capire la genesi, l'origine dello Stato bisogna avere di fronte la forma dispiegata, piena dello Stato moderno ca­pitalistico. In realtà Engels parte dalla conoscenza dello Stato capitalistico per andare a rintracciarne nella storia l'origine e la genesi: dall'anatomia dell'uomo all'anatomia della scimmia, come dice Marx nell'Introduzione del '57 (Introduzione a Per la critica dell'economia politica, 1857, in Opere scelte, E.R., 1971, pp. 713 e segg.).
Prima di tutto Engels ci dice che la società non è una somma di famiglie che formano la società o la tribù, come pensava Aristotele e come per secoli si è pensato fino ad Engels. Il costituirsi della società e della famiglia sono due cose che vanno insieme, in quanto la società organizza i rapporti intersessuali ai fini della sua vita e della sua sopravvivenza e soprattutto al fine delle sue ne­cessità economiche. Il momento del sorgere della società nelle forme più primitive e la regolazione dei rapporti sessuali, secondo determinate norme, sono due momenti che coincidono. Pensare ad una famiglia esistente prima della società è un non senso, evidentemente.
La società originaria, la tribù, ci dice Engels, non conosce ancora la proprietà privata, non conosce la subordinazione della donna, la discendenza è matrilinea. Engels parla di matriarcato, non nel senso del potere delle donne sugli uomini, ma nel senso della discendenza; si è figli della e non del, perché il rapporto di generazione donna-figlio è evidentemente molto più chiaro del rapporto di generazione uomo-figlio, quindi è logico che si parta dalla discendenza matrilinea.
Quando però si forma la proprietà? La proprietà privata si forma dalla caccia, dal sorgere dell'allevamento del  bestiame. Ecco che il cacciatore si fa proprietario di armenti e cacciatore è l'uomo. C'era già questa divisione elementare di lavoro nella tribù per cui la caccia era attribuzione prevalente degli uomini.
Col formarsi della proprietà privata si afferma anche la discendenza patrilinea o patriarcato: si è figli del padre e questo garantisce la successione ereditaria. Comincia da quel momento la subordinazione della donna.
Si forma un ordinamento patriarcale della società, la famiglia si regge sull'autorità del padre. Questo è tipico della società greca e ancora più della società romana. Il padre è la suprema autorità. Per famiglia si intende tutta la proprietà: gli schiavi, il bestiame, la proprietà nel suo complesso. Il pater familias ha l'autorità assoluta sulla vita dei figli, della moglie oltre che degli schiavi.
Quando si sviluppa l'economia, però, quando si formano, all'interno di tutta la discendenza familiare (di tutta la stirpe, di tutta la parentela, perché per familia si intende tutta la parentela, non solo marito, moglie e figli), differenziazioni economiche, differenziazioni di classe, l'ordinamento gentilizio - cioè la discendenza, la gens, la familia - si dissolve, va in crisi e proprio dalla crisi della gens, dell'ordinamento gentilizio, emerge l'organizzazione dello Stato che tende a dominare la società.
Engels ci dice quindi che lo Stato non esiste dall'eter­nità. Vi sono state società che ne hanno fatto a meno e non avevano alcuna idea di Stato e di potere statale. Tutte le società tribali (dagli indiani pellirossa del Nordamerica agli indigeni che oggi vivono nell'Amazzonia o nell'Ocea­nia) non avevano alcuna idea di Stato, non esisteva la legge, non esisteva il tribunale e così via. Esistevano le norme sociali e morali della convivenza.
Ad un determinato grado di sviluppo economico, ne­cessariamente legato alla divisione della società in classi, proprio a causa di questa divisione, lo Stato è diventato una necessità. Lo Stato comincia ad emergere quando emergono le classi, e, quando abbiamo l'emergere delle classi sociali, emerge la lotta di classe.
Questo avviene, cioè, quando la posizione degli uomi­ni nei rapporti di produzione si differenzia. Da una parte hai gli schiavi dall'altra il proprietario di schiavi; da una parte il proprietario della terra e dall'altra coloro che col­tivano la terra, sottomessi ai proprietari; quando si pro­ducono queste differenziazioni nei rapporti di produzio­ne, che determinano il prodursi delle classi sociali e quindi la lotta di classe, nasce la necessità dello Stato: la classe che detiene la proprietà dei principali mezzi di produ­zione deve affermare il suo dominio economico e lo af­ferma in organismi di dominio politico, con un ordina­mento giuridico, con tribunali, con forze repressive e così via.
Lo Stato quindi è il risultato del processo attraverso cui la classe economicamente più forte, cioè quella che detiene i mezzi di produzione decisivi in quella determi­nata società, afferma tutto il suo potere su tutta la società e sancisce anche giuridicamente il suo potere, la sua prevalenza di carattere economico.
In un altro punto Engels scrive: «lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è per regola lo Stato della classe più potente, economicamente dominante, che per mezzo suo (per mezzo dello Stato) diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato antico fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al fine di mantenere sottomessi gli schiavi, così lo Stato feudale fu l'organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini, servi o vincolati, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale». Ecco la connessione tra modo di produzione, classe sociale e Stato.
Lo Stato nasce in mezzo al conflitto delle classi per mettere un freno a tale contrasto, che altrimenti diventa lacerante, e per affermare il dominio della classe economicamente più forte, che detiene i mezzi principali di  produzione.
In un altro punto Engels dice: «lo Stato, dunque, non è affatto una potenza imposta dalla società dall'esterno e nemmeno la realtà dell'Idea etica», come afferma Hegel. «Esso è piuttosto un prodotto della società giunta ad un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa, in antagonismi inconciliabili che è impotente ad eliminare ». È la confessione del nascere di classi antagonistiche, di antagonismi che non si risolvono col dominio di quella determinata classe e che vanno tenuti a freno. « Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto, non distruggano se stesse e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei li­miti dell'ordine e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e si estranea sempre più da essa, è lo Stato».
Lo Stato è allora l'espressione del dominio di una classe, è la necessità di regolare giuridicamente la lotta di classe, di mantenere determinati equilibri fra le classi a seconda dei rapporti di forza che esistono, in modo che la lotta di classe non sia un elemento lacerante. Lo Stato è dunque espressione del dominio di una classe, ma anche momento di equilibrio giuridico, politico, di mediazione.
L'elemento della direzione da parte dello Stato, l'ele­mento dell'egemonia, che poi Gramsci metterà tanto in ri­lievo, qui è implicitamente, soltanto implicitamente, pre­sente. Lo Stato non è soltanto dominio brutale, ma è an­che ricerca di un equilibrio giuridico, contraddittorio, prov­visorio, transitorio (quando salta se ne deve ricostruire un altro) .
Qui c'è un'affermazione molto importante: lo Stato nasce dalla società, nasce dalle classi, è l'espressione della lotta di classe e del dominio di una classe, e al tempo stesso si estrania sempre più dalla società, cioè diventa un corpo a sé. Oggi si insiste molto nel dire: è un corpo separato, ma - attenzione - apparentemente separato. In realtà, un determinato modo di regolare la società non è realmente separato, ma è certo che lo Stato viene costi­tuendosi sempre di più come un organismo con le sue leggi interne, con sue norme interne, con una sua burocrazia, con un suo ordinamento tanto da sembrare una cosa indi­pendente. Questa apparente indipendenza può spiegare la teoria di Hegel per cui è lo Stato che fonda la società. Lo Stato si afferma come una realtà in un certo senso indi­pendente dalla società e fondatore della società stessa. Hegel vive questa apparenza dello Stato borghese, quan­do parla di uno Stato che si estrania dalla società.
Lo Stato è cosi un'enorme macchina con le sue leggi interne, con una logica interna, che non è identica alla logica della società e che appare incomprensibile alla società, ma che corrisponde ad un determinato tipo di potere e serve indirettamente a quella società.
Fin qui abbiamo una definizione generale dello Stato,  non abbiamo però un'analisi specifica, se non per cenni, riferita alla storia romana, alla storia greca, al capitalismo. Non abbiamo un' analisi specifica dello Stato a seconda delle formazioni sociali o economico-sociali, che dir si voglia, e quindi una teoria dello Stato feudale o dello Stato antico, schiavistico o, quella che più ci interessa, dello Stato capitalistico.
Un'analisi specifica di questo genere manca. Ciò che Engels dice della natura dello Stato è giusto, ma è estremamente generale e quindì generico. Costituisce un passo avanti enorme rispetto alle precedenti concezioni, un passo rivoluzionario, dirompente, perché rivela ciò che l'ideologia borghese ha sempre tenuto nascosto: la natura di classe dello Stato. È il punto di partenza di ogni teoria, ma molto in generale, quindi non costituisce ancora una teoria organica dello Stato capitalistico.
Ora Marx nell'Introduzione a Per la critica dell'economia politica, del 1857, osservava che vi sono leggi economiche generali, valide per ogni formazione sociale o per ogni sistema economico, che vanno tenute presenri, ma con le quali non si spiega nessun sistema economico. Per esempio, Marx dice: ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell'individuo entro e mediante una determinata forma di proprietà. Questo è sempre vero, ma ci spiega la diversità che esiste tra un'economia schiav stica e un'economia capitalistica? No.
Altra affermazione: esistono, dice Marx, determinazioni comuni a tutti gli stadi della produzione (per esempio, bisogna lavorare la natura per produrre) che vengono fissate dal pensiero come generali, ma le cosiddette condizioni generali di ogni produzione non sono altro che momenti astratti con i quali non viene spiegato alcuno stadio storico concreto della produzione.
Marx, quindi dice: attenti alle leggi generali. Non è che non esistano, a livello di astrazione esistono, ma con queste non si spiega che cosa è il capitalismo, che cosa è il feudalesimo, che cosa è loschiavismo. Bisogna indivi­duare le leggi specifiche, come lui stesso fa nel Capitale.
E ancora Marx: le determinazioni che valgono per la produzione in generale debbono venire isolate, cioè con­siderate generali, e l'unità tra il soggetto (l'umanità) e l'og­getto (la natura) non deve far dimenticare la differenza un essenziale. In ogni formazione economica c'è sempre un rap­porto uomo-natura, società-natura, ma questa è una deter­minazione molto generale con cui non si spiega nulla di specifico.
Ora questo avvertimento di Marx, relativo alla scienza economica, vale per la teoria dello Stato?
Quando, cioè, si sia affermato che lo Stato è l'organizzazione del dominio su tutta la società della classe che detiene la proprietà dei mezzi di produzione decisivi, non bisogna poi passare a vedere quali sono i mezzi di produzione decisivi e come in rapporto a questi si orga­nizzano lo Stato schiavista, lo Stato feudale, lo Stato ca­pitalistico?
lo direi di sì, e direi che questo passaggio non c'è in Engels. Se non quando, per esempio, si dice che il rapporto uomo-natura mediante il lavoro è alla base di ogni attività economica, si dice una cosa che hanno detto tutti gli economisti. Per questo Marx dice: a me non basta, voglio andare a vedere lo specifico.
Quando invece si dice che lo Stato è 1'espressione del dominio della classe economicamente più forte sulla società, si afferma già una tesi dirompente, rivoluzionaria, di enor­me portata, ben diversa dal dire: il lavoro è sempre rap­porto società-natura. Però è sempre un'affermazione molto generale che non ci appaga, manca quel famoso capitolo sullo Stato che Marx voleva finire di scrivere come conclusione del Capitale.
Si enuncia la tesi di Marx per una teoria dello Stato, ma manca ancora una teoria organica dello Stato.
Vi sono, nel pensiero di Marx ed Engels, elementi, tracce della teoria dello Stato, spunti di eccezionale interesse, non una trattazione organica dello Stato borghese.
Vediamo alcuni momenti: La questione ebraica, del '43. Qual è il ragionamento che sta alla base di questo opuscolo?
Marx osserva che nella società medievale, feudale, la posizione economico-sociale degli uomini corrispondeva alla  loro posizione politica. Gli aristocratici, proprietari della terra in latifondo, avevano determinati diritti politici che il borghese artigiano, e ancor meno il servo della gleba, non aveva. Essi potevano sedere in assemblea, essere consultati dal monarca, presiedevano i tribunali, potevano essere giudicati soltanto da tribunali di loro pari, e così via.
Diverse erano le leggi per gli aristocratici e per i borghesi. Vi era quindi una corrispondenza tra posizione  economica, posizione nei rapporti di produzione, e posizione politica, potere politico; non vi era quella distinzione tra società civile e società politica che viene avanti con la società borghese. 

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L'eguaglianza giuridica

Ora, con la democrazia borghese tutti vengono di­chiarati uguali di fronte alla legge, e non vi è diversità di diritti, giuridicamente parlando, tra l'uno e l'altro cittadino.
Se il borghese, nella società medievale, non poteva essere rappresentato in un'assemblea, ora tutti possono es­sere eletti in Parlamento (quando si afferma il suffragio universale) e la legge è uguale per tutti. Questo, dice Marx, è un enorme progresso. Il fatto - per fare un esempio attuale - che il voto di Agnelli conti per uno, come il voto di un qualsiasi operaio della Fiat, è indub­biamente un enorme passo avanti:  il fatto che ad Agnelli, per essere eletto, occorrano tanti voti come ad un qual­siasi operaio della Fiat è un enorme passo avanti; il fatto che se Agnelli commette un reato compaia di fronte allo stesso tribunale di fronte a cui comparirebbe un operaio della Fiat, e sia giudicato sulla base delle stesse leggi, è un enorme passo avanti perché sono eguali di fronte alla legge. In realtà non è così.
Si sa che Agnelli può dire: vorrei essere eletto se­natore e trova chi lo elegge, ecc. La diversità sostanziale è la diversità dei rapporti di produzione. Allora, questa eguaglianza giuridica, dice Marx, a che serve?
Serve a separare l'elemento della vita economica del­l'uomo, la collocazione dell'uomo nel rapporto di produ­zione dalla sua figura giuridica, dal cittadino, e fa del cit­tadino una astrazione.
Questi cittadini tutti uguali di fronte alla legge, in realtà sono un'astrazione: tu operaio sei uguale al padrone come cittadino, ma quando entri in fabbrica non sei uguale al padrone, tutt'altro, cessi di essere cittadino, conquisti il tuo diritto di cittadino con lunghissime lotte, comun­que non c'è mai l'uguaglianza tra il padrone della fabbrica e l'operaio. Una tale eguaglianza viene creata realizzando una figura formale giuridica astratta, quella del cittadino, che rompe l'unità dell'uomo, l'unità tra l'uomo che lavora e l'uomo di fronte alla legge.
Il cittadino è un'ipotesi giuridica, una forma giuridica.
Il problema è dunque quello di far seguire alla rivoluzione politica la rivoluzione economico-sociale, per sta­bilire una reale uguaglianza economico-sociale, ricongiungere il cittadino con il lavoratore e riconquistare l'unità
dell'uomo, che è uomo quando lavora, che è uomo nella sua posizione nei rapporti di produzione e di scambio. Far seguire così alla nozione borghese della libertà una nozione di libertà effettiva. La libertà del borghese, dice Marx, concepisce l'uomo come una monade, cioè come una entità a sé stante, chiusa, incomunicante. Concepisce gli individui separati, come se non vivessero in società, mentre invece possono vivere e vivono solamente in società.
C'è un passo in cui Marx dice: solo vivendo in so­cietà l'uomo può isolarsi, non potrebbe isolarsi se non vivesse in società. Anche l'isolamento è reso possibile dalla società. Bisogna allora uscire da questa concezione della libertà come esercizio puramente individualistico e capire che invece la libertà è cooperazione, solidarietà, è lavoro collettivo. Bisogna insomma passare dalla figura del cit­tadino alla figura del compagno o, se si vuole, dalla figura del lavoratore sfruttato alla figura del produttore, come dirà poi Gramsci.
Vi è un dualismo, una separazione tra uomo e cittadino, da superare per conquistare l'unità dell'uomo.
Nel Manifesto del partito comunista abbiamo degli spunti interessanti. Per esempio si dice: ogni governo è un comitato d'affari della classe dominante, della borghesia.
Abbiamo già visto sopra come il primo passo nella rivoluzione operaia sia l'elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia. Dominio e con­quista della democrazia coincidono per il proletariato. Il processo rivoluzionario di trasformazione della società esige precisamente la conquista del potere. Marx dice: «il pro­letariato si servirà della sua supremazia politica per strap­pare alla borghesia a poco a poco tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire il proletariato stesso, organizzato come classe dominante, e per aumentare con la massima rapidità
possibile la massa delle forze produttive».
Il potere della classe operaia è la classe operaia che fa proprio lo Stato, socializza i mezzi di produzione e guida un processo, che verrà chiamato più tardi dittatura del proletariato, che porta alla società comunista. Infine, quando, nel corso dell'evoluzione, le differenze di classe saranno sparite, quando il potere della classe operaia avrà strap­pato alla borghesia la proprietà privata dei mezzi di produzione e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, allora il potere pubblico perderà il carattere politico, vale a dire non sarà più dominio de­gli uomini sugli uomini, non sarà pia dominio statale. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato da una classe per l'oppressione di un'altra. Se cessa con l'appropriazione collettiva dei mezzi di produzio­ne la differenza di classe, se si crea col comunismo una società senza classi, cade la ragione dello Stato, lo Stato si estingue.

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Estinzione dello Stato e libertà dell'uomo

Poiché il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e come tale distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzio­ne, esso abolisce insieme a questi rapporti di produzione anche le condizioni di esistenza dell'antagonismo di classe e le classi in generale, quindi anche il suo proprio domi­nio di classe. La classe operaia parte dal suo dominio di classe per eliminare la proprietà privata, per rendere so­ciale la proprietà dei mezzi di produzione, elimina le classi antagonistiche, elimina le differenze di classe ed elimina anche se stessa come classe, perché tutti diventano lavo­ratori. Quindi elimina la stessa ragione dello Stato: «Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi di classe subentra un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti ».
Solo col comunismo si ha la piena libertà e l'eser­cizio pieno della personalità umana nella proprietà sociale dei mezzi di produzione, mentre la proprietà privata priva gli altri, opprime gli altri e non consente la libertà. L'obiet­tivo che Marx vuole raggiungere, come aderente al comu­nismo, è la libertà, non, come si dice a volte, la giustizia o l'eguaglianza, ma la libertà. L'eguaglianza sociale è con­dizione del pieno dispiegamento della libertà. Del resto, già Engels diceva, nel 1847, nei Princìpi del comunismo: « il comunismo è la creazione delle condizioni della libe­razione dell'uomo »; l'obiettivo è la liberazione, l'obiet­tivo è la libertà, sempre.
C'è, appunto, una fase di transizione, per arrivare a questa società senza classi, e quindi senza Stato. Deve es­sere una fase di transizione guidata dal potere statale ad opera del proletariato. Marx non parla ancora di dittatura del proletariato e non pone ancora la questione della ne­cessità di spezzare lo Stato borghese, questi elementi non sono ancora presenti nel Manifesto del partito comunista.
È ancora interessante vedere come Marx invece de­linea lo sviluppo della società, dello Stato borghese, per esempio, nel suo libro: Le lotte di classe in Francia (che con­sidera le vicende francesi dal '48 al '50, questo scritto è del '50). Egli dice: il proletariato, sconfitto nel giugno del , 48 dalla borghesia, mentre consentiva la nascita della Re­pubblica borghese del '48, costringeva anche quest'ultima a presentarsi nella sua forma genuina, come lo Stato il cui scopo riconosciuto è di perpetuare il dominio del capitale, la schiavitù del lavoro.
Poiché la Repubblica parlamentare francese del '48 na­sceva dalla repressione violenta, sanguinosa, della classe operaia nel giugno, il carattere di classe della repubblica borghese capitalistica non era pia nascosto, diventa evidente.
Qui ritorna un concetto già espresso nel Manifesto: col costituirsi della grande industria e del mercato mon­diale la borghesia si è impadronita finalmente della po­testà politica esclusiva nel moderno Stato rappresentativo. Il potere politico dello Stato moderno non è che un co­mitato il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese.
In un altro passo rileva che nella Francia del '48-'49­'50, continuamente, di fronte ad ogni rivendicazione, si grida: questo è socialismo! Perché?
La borghesia vedeva giustamente che tutte le armi da lei forgiate contro il feudalesimo volgevano la punta contro di lei, che tutti i mezzi di lotta da lei escogitati insorgevano contro la sua propria civiltà, che tutti gli dèi creati da lei l'abbandonavano; capiva che tutte le cosid­dette libertà e istituzioni progressive borghesi attaccavano e minacciavano il suo dominio di classe, tanto nella sua base sociale quanto nella sua sommità politica, erano cioè diventate socialiste. La stessa rivendicazione della libertà politica, della democrazia, favorendo la maggioranza, es­sendo terreno di lotta della classe operaia, si volgeva con­tro la stessa borghesia. La borghesia si rivolge a questo punto contro la democrazia borghese, vede la necessità per la conservazione del suo potere di passare alla dittatura di Napoleone III, Luigi Bonaparte.
Inoltre, in un altro scritto successivo sul colpo di Sta­to di Luigi Bonaparte, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Marx scrive: «questo potere esecutivo con la sua enorme organizzazione burocratica e militare, col suo meccanismo complicato, e artificiale, con un esercito di impiegati di mezzo milione accanto ad un altro esercito di mezzo mi­lione di soldati, questo spaventoso corpo parassitario che avvolge come un involucro il corpo della società francese e ne ostruisce tutti i pori si costituì nel periodo della mo­narchia assoluta al cadere del sistema feudale e ha perfe­zionato l'accentramento statale »; l'ha perfezionato con Napoleone il Grande e poi ancora con Luigi Bonaparte, ecc. Ecco un processo di costante accentramento burocratico, mili­taresco e poliziesco dello Stato, il quale diventa sempre più un corpo a sé che opprime tutta la società, ma al tempo stesso esprime il dominio della classe dominante.
Prende forma il concetto del potere statale come mec­canismo di oppressione, che poi ritroveremo in seguito. Nasce di qui la necessità di contrapporre ad una dittatura della borghesia la dittatura del proletariato. Marx non de­finisce lo Stato democratico dittatura della borghesia. Sarà Lenin a definirlo così1. Però questo concetto di meccanismo oppressivo, in Marx, consente, naturalmente, di definire lo Stato borghese come dittatura. Una dittatura alla quale un'altra dittatura va contrapposta: la dittatura rivoluzio­naria.
Marx riceve da Blanqui, da questo socialista francese rivoluzionario, la nozione di dittatura che non è origina­riamente sua. Di una dittatura che non semplicemente si impadronisca dello Stato borghese, ma lo spezzi.
Questo è l'elemento che nel '50 si introduce nel pen­siero di Marx: non basta impadronirsi dello Stato, occorre spezzarlo per creare un altro tipo di Stato, lo Stato della dittatura del proletariato.
Si badi, però, che, se la nozione di dittatura rivolu­zionaria è tratta da Blanqui, l'idea di una necessità di una dittatura rivoluzionaria viene dalla borghesia, perché la borghesia ha fatto le sue rivoluzioni passando quasi sem­pre attraverso una dittatura. C'è stata la dittatura di Crom­well, in Inghilterra nel '49-59 dopo la rivoluzione del 1648; c'è stata la dittatura robesperriana nel '93, la dit­tatura del Termidoro contro Robespierre nel '94, la ditta­tura di Napoleone. È la borghesia che ha creato le ditta­ture rivoluzionarie. Il concetto di dittatura rivoluzionaria non è un'invenzione della classe operaia, e tanto meno del marxismo. È una riflessione sull'esperienza delle rivoluzioni borghesi. 
Marx dà un enorme valore a questa sua nozione di dittatura tant'è vero che in una lettera del '52 a Weyde­meyer scrive: «per quello che mi riguarda, a me non appartiene il merito di aver dimostrato 1'esistenza delle classi nella società moderna, né quello di aver mostrato la lotta fra di esse. Da molto tempo prima di me gli storici bor­ghesi avevano esposto l'evoluzione storica di questa lotta delle classi ed economisti borghesi avevano esposto la na­tura economica delle classi». Il che è vero, ma Marx è qui un po' modesto perché non dice di aver visto il pro­cesso attraverso cui si origina la proprietà borghese, at­traverso cui si originano le classi. Gli altri hanno descritto la lotta di classe, hanno visto la connessione classe-pro­prietà, ma non vedono l'origine della proprietà.
Marx dice: «quello che ho fatto di nuovo è stato di dimostrare 1° che 1'esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione, quin­di le classi non sempre sono esistite e cambiano a seconda delle fasi della produzione; 2° che la lotta delle classi ne­cessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3°che questa dittatura costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi ».
 La dittatura del proletariato è una fase del potere proletario transitoria, indispensabile per arrivare ad una società senza classi e quindi senza potere da parte della classe operaia, dove tutta la società è una società di lavo­ratori e perciò lo stesso proletariato, in quanto tale, è su­perato. .

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La dittatura del proletariato

Una riflessione maggiore certo Marx può sviluppare quando ha di fronte un'esperienza di rivoluzione a carat­tere già proletario e cioè la Comune di Parigi, nel 1871. Nel 1870 avevamo avuto la guerra tra Francia e Prussia, la sconfitta militare della Francia di Luigi' Bonaparte, a Sédan, poi la Comune di Parigi.
Marx ed Engels avevano appoggiato la guerra prussiana, vedendo in essa un momento dell'unificazione tedesca e quindi un fatto progressivo. Avevano poi condannato la condotta di Bismarck quando questa lotta di liberazione era diventata una lotta di oppressione, quando la Prussia aveva annesso l'Alsazia e la Lorena.
Di fronte alla sconfitta, il governo francese apre le porte di Parigi ai prussiani per cedergli i cannoni che di­fendevano Parigi e che potevano diventare pericolosi nelle mani del popolo. Lo stesso governo francese cerca di por­tare via i cannoni dalle mura di Parigi e a questo punto il popolo insorge per non lasciar portare via i cannoni e per non lasciare entrare i prussiani a Parigi. La Comune di Parigi è una rivoluzione di classe, ed una lotta patriottica. Nel momento in cui la borghesia francese si dimette come classe nazionale, dirigente della nazione, come classe pa­triottica, questa posizione patriottica viene assunta dal pro­letariato ed è il proletariato parigino che dice: no, i prus­siani a Parigi non entrano. E siccome per far questo bi­sogna abbattere il potere della borghesia, la cosa coincide anche con la rivoluzione di classe, con una guerra civile. Momento nazionale, quindi, e momento di classe coincido­no nella Comune di Parigi.
Ora, prima della insurrezione della Comune di Parigi, Marx afferma nei suoi scritti che l'idea di un'insurrezione sarebbe stata una follia, un suicidio. Ma quando l'insurre­zione scoppia, l'Internazionale comunista appoggia in pieno l'insurrezione, cioè il tentativo dei proletari parigini di « da­re la scalata al cielo », impresa impossibile eppure altissi­ma e in quel momento decisiva. Allora Marx redige quel­l'Indirizzo del Consiglio generale dell'Associazione inter­nazionale degli operai o Prima internazionale, oggi noto col titolo: La guerra civile in Francia.
Anche qui Marx torna a porre in rilievo il processo di accentramento che si è storicamente compiuto nella sto­ria dello Stato, passato dalla monarchia assoluta alla rivoluzione francese, a Bonaparte e infine a Napoleone III, a Luigi Bonaparte, dove si ha il massimo di accentramento burocratico e poliziesco, corrispondente alla concentrazione dei mezzi di produzione. Ma se lo Stato borghese è questo, il potere proletario che cosa deve essere? Deve essere l'op­posto dell'accentramento, e quindi ad uno Stato accentrato bisogna contrapporre uno Stato che si decentra.
Uno Stato, quindi, organizzato in comuni che si auto­governano. Il Comune di Parigi è l'esempio di tanti co­muni che devono sorgere in tutta la Francia nel quadro del. l'unità nazionale, di una Costituzione nazionale per tutta la Francia.
Se lo Stato è un corpo che tende a separarsi dalla società, la Comune deve riavvicinare invece la società e lo Stato. La costituzione della Comune avrebbe restituito al corpo sociale tutte le energie fino ad allora asservite dallo Stato parassita che si nutre alle spalle della società e ne intralcia i liberi movimenti.
Tutto il processo della costruzione dello Stato in co­muni è un processo di avvicinamento dello Stato alla so­cietà civile: è la società civile che riprende il primato sullo Stato e che assume funzioni che prima erano statali. Non più l'esercito separato, professionale, ma i cittadini in ar­mi; non più polizia ma gli stessi cittadini che esercitano funzioni di polizia; non più un corpo burocratico separato, ma cittadini che eleggono gli amministratori e li revocano. Il problema della specializzazione nelle funzioni ammini­strative, della formazione professionale, viene qui in un certo senso sottovalutato, ma, per quanto complesso fosse, lo Stato di allora era più semplice di quello che è oggi.
La magistratura è eletta, può essere revocata. Tutti gli elementi di distinzione e di separazione dello Stato dalla società vengono annullati e la società riassorbe le funzioni statali, esercito, polizia, amministrazione, magistratura: ab­biamo quindi l'attuarsi dell'autogoverno della società. Marx parla dell'autogoverno dei produttori (idea che i comunisti jugoslavi hanno ripreso da questi scritti di Marx). L'auto­governo dei produttori (Marx non dice di più) però proba­bilmente non è l'autogoverno dei produttori all'interno del­l'azienda, ma è l'autogoverno dei produttori a livello di tutta la società, è tutta la società che si fonda sull'autogo­verno dei produttori.

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Sulla comune di Parigi

A proposito della Comune di Parigi è nata la leggenda che Marx abbia indicato nella Comune di Parigi il primo esperimento, il primo esempio ancora embrionale di ditta­tura del proletariato.
Marx non parla mai a proposito della Comune di Pa­rigi di 'dittatura del proletariato, non la ritiene ancora una dittatura del proletariato. Questa attribuzione è nata da una frase polemica di Engels. Lenin ha allargato enormemente questo concetto che la Comune è stato un primo esempio, sia pure fallito, di dittatura del proletariato. In Marx questo concetto non c'è. È un grosso merito di Er­nesto Ragionieri aver ristabilito la realtà delle cose in un saggio su Marx e la Comune del 1871 (in Studi storici).
Ragionieri compie un confronto tra le varie stesure di questo Indirizzo generale preparato da Marx. La Comu­ne viene definita governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe ap­propriatrice, la forma politica finalmente scoperta nella qua­le si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro. Senza quest'ultima condizione la posizione della Comune sarebbe stata una cosa impossibile e un'infamia, il dominio politico dei produttori non può coesistere con la perpetua­zione del loro asservimento sociale, potere politico e libe­razione economica coincidono.
In un discorso del settembre '81, Marx dice: «l'ultimo movimento degli operai fu la Comune e fu il più grande di tutti, non è possibile avere due opinioni a que­sto riguardo: la Comune è stata la conquista del potere politico da parte della classe operaia, la Comune è stata oggetto di numerosi malintesi, la Comune non ha potuto fondare una nuova forma di governo di classe [è durata solo 70 giorni] distruggendo le condizioni di oppressione esistenti e trasferendo tutti gli strumenti di lavoro nelle mani dei lavoratori produttori, di tutti gli individui fisicamente idonei a lavorare. In tal modo non si era affatto di­strutta la base di ogni dominio di classe e di ogni oppres­sione, ma prima che un tale cambiamento possa essere compiuto sarà necessaria una dittatura proletaria e la sua prima condizione è un esercito proletario».
Ecco, secondo Marx, la Comune non aveva mandato avanti il processo dell'abolizione del capitalismo, per far questo occorre una dittatura del proletariato, il che signi­fica: la Comune non è stata propriamente una dittatura del proletariato, avrebbe potuto diventarlo se non fosse stata sconfitta.
È invece Engels che va per questa strada e si avvicina a chiamarla dittatura, ma per una precisa ragione. Engels in una lettera dice che le tendenze inconsapevoli della Co­mune nella guerra civile le sono state attribuite come pia­ni più o meno coscienti. Si è considerata tendenza cosciente ciò che nella Comune non era cosciente, quindi sono stati tirati fuori dalla Comune una serie di significati po­litici che nella Comune esplicitamente non c'erano, una vi­sione dello Stato proletario che nella Comune non c'era. Ancora di più ha fatto Lenin.
Riferendosi sempre alla Comune, Engels dice: «il fi­listeo socialdemocratico recentemente si è sentito preso, ancora una volta, da salutare terrore sentendo l'espressione dittatura del proletariato. Ebbene signori, volete sapere co­me è questa dittatura? Guardate la Comune di Parigi, que­sta fu la dittatura del proletariato ».
Nasce di qui, per ragioni polemiche, l'attribuzione della natura di dittatura del proletariato alla Comune di Parigi. Ma la dittatura del proletariato che cosa è?
È il decentramento del potere, il decentramento e non l'accentramento, è la sburocratizzazione del potere e non la burocratizzazione, è il popolo che diventa armato, i la­voratori in armi, quindi è il passaggio di una serie di fun­zioni statali alla società. In questo senso la dittatura del proletariato spezza lo Stato tradizionale, lo Stato borghese, spezza l'elemento accentrato, burocratico, poliziesco, mili­taresco, gli elementi di separazione della società e di op­pressione, di soffocamento della società.
La dittatura del proletariato è il massimo della artico­lazione democratica, ed è il massimo della democrazia, è la rappresentanza diretta, è, dice Marx, vedendo la Co­mune, la supremazia del potere legislativo su quello esecu­tivo, anzi l'unificazione dei due momenti. Il potere legisla­tivo è anche potere esecutivo, non c'è più il Parlamento come sede di chiacchiere. Gli organi della Comune, gli or­gani eletti amministrano lo Stato, rendono conto della loro funzione. È un concetto che Lenin riprenderà pienamente a proposito dei Soviet.
La critica al programma di Gotha, infine, l'ultimo scritto in cui Marx parla dello Stato, è del 1875; allora non fu pubblicato e Engels lo pubblicò nel '91 per appoggiare la sua critica al programma di Erfurt redatto da Kautsky, il programma della socialdemocrazia. La critica al programma di Gotha è la critica del programma con cui sorgeva il partito socialdemocratico tedesco, dall'unificazione dei seguaci di Lassalle (questo socialista tedesco con cui Marx ed Engels avevano rotto) e il movimento degli « eisenachiani », diretto da Bebel e Liebknecht.
In questo suo scritto Marx critica il programma del congresso di Gotha, e dice alcune cose essenziali:; tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra, ad esso corrisponde anche un pericolo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzio­naria del proletariato, come stadio di transizione~ tra lo Stato borghese e la società comunista senza Statoi ma quali sono le caratteristiche di questa fase di transizione?
Abbiamo l'affermazione dell'eguaglianza reale del cit­tadino, non più dell'eguaglianza puramente giuridica, for­male. Il diritto diventa veramente uguale per tutti. Ma qui Marx osserva: l'uguale diritto è però ancora sempre se­condo il principio del diritto borghese, benché principio e pratica non si azzuffino più, mentre lo scambio equivalente esiste solo nella media e non per il caso singolo. Vale a dire come vi è nel mercato borghese una eguaglianza tra coloro che si scambiano le merci (se si fa una media) cosi questa eguaglianza viene espressa anche dal diritto borghese: tutti uguali di fronte alla legge.
Nella dittatura del proletariato questa uguaglianza di fronte alla legge, che è apparente in quanto vale solo per alcuni, diventa effettiva, per tutti.
Marx dice: nonostante questo progresso, nonostante il diritto diventi veramente uguale per tutti, questo eguale diritto contiene sempre un limite borghese, perché?
Perché - risponde - ognuno produce secondo le sue capacità e a ognuno viene dato secondo il suo lavoro, ma i bisogni sono diversi, i lavori sono diversi, quindi può ac­cadere che chi ha meno bisogno produca di più e riceva di più; chi ha più bisogno produce di meno, è meno capace e riceve di meno. Rimane quindi, dietro all'eguale diritto, una diseguaglianza.    .
Marx osserva, riprendendo un concetto di Aristotele, che il diritto per essere giusto deve essere diseguale, il diritto cioè dovrebbe tenere conto delle diseguaglianze tra gli uomini. Ma il diritto non può essere diseguale, il diritto è tale se è uguale per tutti. Questa è la forma suprema del diritto: l'uguaglianza di fronte alla legge, per tutti.
Questa uguaglianza è un'ingiustizia. In realtà infatti non tiene conto delle differenze fra gli uomini. Ma questa ingiustizia non può essere superata nella prima fase, nella fase della dittatura del proletariato (che più tardi, nella Seconda Internazionale, si chiamerà la fase socialista). Per Marx è soltanto la prima fase della società comunista, la chiama cosi: prima fase della società comunista.
Questi inconvenienti, però, sono inevitabili nella prima fase della società comunista. In questa prima fase, dopo i lunghi travagli del parto dalla società capitalistica, il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale della società; il dirit­to che vige corrisponde allo sviluppo della società in quel momento, non può andare più avanti.
In una fase più elevata della società comunista, scompare la subordinazione asservitrice degli individui alla di­visione del lavoro e quindi anche il contrasto tra lavoro in­tellettuale e lavoro fisico, il lavoro non è più soltanto mez­zo di vita, ma anche il primo bisogno della vita (l'uomo non lavora per sopravvivere, ma lavora perché sente il bi­sogno umano di lavorare, di produrre, di creare, di espri­mere nel lavoro la propria intelligenza. Il lavoro non è più asservimento, ma è liberazione, è potenziamento delle fa­coltà umane). Arrivati a questo punto, dopo che con lo sviluppo onnilaterale, cioè completo, dei diritti sono cresciute anche le forze produttive e le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, cioè solo quan­do si è giunti alla piena espansione delle forze produttive e al più alto benessere (il comunismo esige un altissimo grado di sviluppo delle forze produttive. Marx si oppone al comunismo rozzo che eguaglia nella povertà, che stabi­lisce la giustizia nella distribuzione dei beni di consumo. Il comunismo di Marx è proprietà sociale dei mezzi di pro­duzione, eguaglianza a partire dalla produzione, altissimo sviluppo delle forze produttive come è possibile solo quan­do esse sono sociali, liberate dalle contraddizioni capitalistiche, alto livello quindi anche di benessere, allora si può dare a ciascuno secondo i suoi bisogni), solo allora l'angu­sto fronte giuridico borghese può essere superato, solo al­lora si esce dal diritto borghese per cui la legge è uguale per tutti.
Se ne trae una conclusione: che la dittatura del pro­letariato è lo Stato borghese senza la borghesia perché man­tiene intatto il carattere di Stato (mentre nella società co­munista non esiste Stato) e mantiene la legge uguale per tutti che è una connotazione dello Stato borghese. Solo nella società comunista si può superare 1'angusto limite giuridico borghese e la società può scrivere sulle sue ban­diere: da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secon­do i suoi bisogni.
E l'eguaglianza livellatrice della legge viene superata (non si è comunque mai concepita un'eguaglianza livella­trice nemmeno nella fase della dittatura del proletariato, per essere precisi); viene superata e si ha il pieno dispie­gamento delle libertà nel lavoro, nel lavoro che è creazione, non più asservimento.
Allora la libertà è questa espansione totale della per­sonalità dell'individuo. In questa fase lo Stato non c'è più, perché si ha una società di produttori che si fonda sul loro autogoverno, non una società anarchica. C'è una profonda differenza fra il comunismo e l'anarchia non solo perché l'anarchismo vuole l'immediata abolizione dello Stato al momento della rivoluzione, mentre il marxismo dice che questo è impossibile: si deve instaurare un potere, addi­rittura dittatoriale, per eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione, gradualmente.
Questa è una prima diversità. L'anarchismo inoltre concepisce la società senza Stato come la società della spon­taneità individualistica, la sua visione di società comuni­sta è ancora individualistica piccolo-borghese. Invece il mar­xismo concepisce il comunismo come una società altamente organizzata in cui si ha la piena espansione di tutte le forze produttive e il regolamento della produzione e della ric­chezza, in cui, quindi, direzione e autogoverno, direzione e spontaneità, disciplina e spontaneità coincidono e in cui coincidono anche individuo e società; non c'è il contrasto tra individuo e società, il contrasto tra la società e la na­tura. Sono concetti del giovane Marx dei Manoscritti eco­nomico-filosofici.
Si capisce che il comunismo è una proiezione ideale, una mèta a cui tendere. Quando si dice che a ciascuno verrà dato secondo i suoi bisogni, si sa che soddisfatto un biso­gno ne nasce un altro. Non c'è mai soddisfacimento defini­tivo dei bisogni, è questo, quindi, un processo. Quando si dice la libertà di ciascuno come condizione della libertà di tutti, è chiaro che questa è una mèta a cui tendere, un processo che si svolge continuamente, non uno stadio finale che allora diventerebbe cosa utopica.
Posso finalmente concludere che vi è una teoria dello Stato marxista. Vi è una prima tesi che consente di costrui­re una teoria dello Stato; l'individuazione della natura di classe dello Stato e come lo Stato nasca dalla lotta di classe.
In Marx abbiamo la teoria organica dello Stato bor­ghese. Ancora non poteva esserci la teoria organica della dittatura del proletariato, intanto perché, come dice Engels, la dittatura del proletariato, lo Stato del proletariato non è più lo Stato nel senso proprio della parola. Di fatti lo Stato nel senso proprio della parola è il potere accentrato, è il potere burocratico, in questo senso l'ultimo tipo di Stato è lo Stato borghese capitalistico.
Con la dittatura del proletariato, cioè con lo Stato del proletariato, alcune connotazioni essenziali dello Stato co­minciano a venire meno: l'accentramento burocratico, po­liziesco, ecc. quindi lo Stato comincia subito ad estinguersi con la dittatura del proletariato, dirà poi Lenin, nel senso che alcune forme sono già forme di autogoverno, che si avvia un processo di estinzione dello Stato.
Inoltre, uno Stato di dittatura del proletariato Marx ed Engels davanti agli occhi non ce l'avevano e da marxisti non potevano costruire la teoria del non esistente, perché altrimenti si costruisce un'ideologia, una falsa coscienza, un'utopia, un'astrazione metafisica.
Il marxismo è l'analisi dei processi storici reali, il co­munismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti, scrive Marx nell'Ideologia tedesca. Una teoria dello Stato proletario o dittatura del proletariato essi non potevano e non dovevano, da marxisti, scrivere; potevano solo individuare alcuni elementi essenziali e più o meno li hanno individuati, anche con alcuni elementi di utopia ri­spetto all'esperienza storica e politica. Avrebbero potuto dare, invece, una teoria organica dello Stato capitalistico in questo senso, e questo non è stato fatto, e non è stato fatto in modo completo neanche successivamente.
Alla domanda se esista una teoria marxista dello Stato in Marx ed Engels, come teoria organica compiuta, rispon­derei di no. Esiste però la tesi fondamentale e la condizione di una teoria scientifica dello Stato.
Colletti dice: cercare in Marx una teoria dello Stato è sbagliato perché il marxismo è la teoria dell'estinzione dello Stato, è la teoria del comunismo, del comunismo co­me società senza Stato e Marx non ci poteva dare una teo­ria dello Stato dal momento che la sua teoria è quella della estinzione dello Stato.
È una risposta intelligente, ma, secondo me, sbagliata. Ad essa ha risposto lo stesso Marx. Marx dice bene che, per passare dallo Stato borghese alla società senza Stato, si deve avere un potere statale, il quale non è più il potere statale nel senso proprio della parola (comincia già l'estin­zione dello Stato) ma è ancora uno Stato. In Marx c'è l'ana­lisi dello Stato borghese perché, per abbattere lo Stato bor­ghese e costruire una società senza Stato, bisogna cono­scere lo Stato borghese. Marx ha approntato la base della conoscenza vera dello Stato borghese nel Capitale. Nel Ca­pitale è la chiave.
La risposta di Colletti mi pare abile, intelligente. Ma se è vero che il marxismo è la teoria del comunismo e quindi è la teoria della fine dello Stato, per teorizzare la fine dello Stato occorre sapere come è lo Stato e occorre avere una teoria dello Stato.
Questo mi pare che in Marx c'è, ripeto, non organicamente, c'è per alcune implicazioni fondamentali e con l'indicazione della metodologia, del metodo-concezione sulla base del quale va costituita la concezione dello Stato.





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La concezione dello Stato

II. - in Lenin e Gramsci


Dalla concezione dello Stato di Marx e di Engels pas­siamo ora a quella di Lenin non senza tener conto della Seconda Internazionale, fondata a Parigi nel 1889 ed en­trata in crisi nel 1914 con la prima guerra imperialistica (anche se formalmente non venne sciolta e continuò la sua attività dopo la prima guerra mondiale).
Non si. può non tener conto della Seconda Internazio­nale perché, se è vero che Lenin ripensò criticamente la concezione di Marx ed Engels, forse identificando un po' troppo i due, non vedendo talune differenze, ritrovò in fondo la sostanza rivoluzionaria della loro concezione, che si era attenuata e deformata nel corso della Seconda Inter­nazionale. Tuttavia, la concezione di Lenin, non solo ri­gWlrdo allo Stato, ma riguardo a tutti i problemi, e quella di Marx non costituiscono un blocco unico, compatto che si possa propriamente definire, come è stato fatto per tanto tempo, marxismo-leninismo, traendo questo concetto di le­ninismo ad un anno dalla morte di Lenin. Fu Zinoviev, aIIora presidente deII'Internazionale comunista, ad usare per primo questo termine. Zinoviev poi passò all'opposizione rispetto aIIa maggiolanza del Comitato Centrale e venne tra­volto dai processi del '33-34 e fucilato nel '34.
E perché non si può parlare di un blocco compatto nel senso che indica l'espressione marxismo-Ieninismo?
Per tante ragioni, ma anche perché tra Marx e Lenin continuò ad operare la mediazione della Seconda Interna­zionale. In un determinato modo operò sino al '14, sino allo scoppio della grande guerra imperialistica, in un altro modo dopo la rottura di Lenin e dei bolscevichi con la Seconda Internazionale, e in un certo senso operò anche dopo la rottura.
Sino alla guerra del '14, sino alla capitolazione della Seconda Internazionale di fronte alla guerra imperialistica, i bolscevichi, Lenin in particolare, ritenevano che si potesse sconfiggere l'opportunismo - che si era diffuso, ed essi lo vedevano, nella Seconda Internazionale - all'interno dell'Internazionale stessa.
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Kautsky, «rinnegato» e non

È solo dopo, è con la votazione dei crediti di guerra da parte della socialdemocrazia tedesca e dei socialisti fran­cesi, a favore dei loro governi, è con lo schierarsi di questi partiti dalla parte della guerra imperialistica che i bolsce­vichi e Lenin videro la necessità di rompere nettamente con la Seconda Internazionale. In modo particolare Lenin ruppe col maggiore e piu autorevole teorico della Seconda Internazionale, Carlo Kautsky, il capo redattore e direttore di Neue Zeitung che era la rivista teorica piu autorevole nel mondo, nel movimento operaio internazionale, la rivi­sta della socialdemocrazia tedesca.
Una influenza di Kautsky su Lenin è, per esempio, chiaramente presente nella concezione del partito che è pro­pria di Lenin e direi che è felicemente e positivamente pre­sente anche se la concezione di Lenin non si riduce certo a quella di Kautsky. 
È presente anche nel rapporto che Lenin stabilisce tra democrazia e socialismo nella rivoluzione russa appog­giandosi all'autorità di Kautsky, è presente in piu di un punto, e anche dopo la rottura, Lenin continuò a parlare di un Kautsky ancora marxista, cioè di prima del '14, che non rinnegò mai.
Lenin rinnegò il Kautsky dal '14 in poi. Non seppe però spiegare come un maestro del marxismo fosse poi di­ventato un rinnegato del marxismo, come lo chiamò in un suo libro famoso, La dittatura del proletariato e il rinne­gato Kautsky. Come fa una persona a diventare da marxi­sta improvvisamente un rinnegato? È un interrogativo che Lenin non scioglie e che probabilmente va sciolto andando ad individuare anche nel Kautsky anteriore alla guerra del '14 gli elementi non genuinamente marxisti e quindi peri­colosi dal punto di vista della fermezza rivoluzionaria. Questo non significa che dopo il ' 14, e soprattutto dopo
la rivoluzione russa del '17, non vi sia stato in Kautsky un rapido scivolamento verso posizioni opportunistiche, ri­nunciatarie e di abbandono anche di capisaldi della teoria, con conseguente scivolamento su posizioni non rivoluzio­narie, oserei dire reazionarie, certo apertamente antico­muniste.
Anche prima si può individuare in Kautsky una pe­netrazione delle concezioni filosofiche positivistiche, vale a dire una concezione dello sviluppo storico-sociale come uno sviluppo evolutivo continuo, senza salti, senza rotture, senza fratture dialettiche, perciò una visione deterministica in senso gretto del rapporto tra base economica e istituzio­ni sociali, statali, culturali e forme della vita culturale.
Non è un caso, per esempio, che manchi in Kautsky la nozione di formazione sociale che invece Lenin riprese nel 1894 andando piti in là di Kautsky, quando Kautsky era ancora per lui un grande maestro.
Non vi è in Kautsky questa nozione di formazione sociale e caratterizzata dal modo di produzione in essa pre­valente e che comprende poi tutti i rapporti economici, sociali, politici tipici di una determinata formazione socia­le, sia essa capitalistica o feudale o schiavistica, e cosi via.
Si può anche dire che la funzione del soggetto rivo­luzionario, del partito, dell'iniziativa politica assunse sem­pre in Lenin ben altro rilievo che non in Kautsky, già pri­ma del '14, per esempio, nei suoi testi sul partito: Che fare? del 1901-2, Un passo avanti e due indietro del 1904, dove anzi vi è una netta differenza tra la concezione del partito di Lenin e quella di Kautsky (come vedremo a suo tempo affrontando le questioni della teoria del partito).
Lenin non polemizza in quell' occasione apertamente con Kautsky, che invece è dalla parte dei menscevichi quan­to alla concezione del partito, probabilmente per ragioni di opportunità, non vuole mettersi contro questa autorità del marxismo, vuole piuttosto utilizzarla, per quel che può, per sostenere le proprie concezioni.
Fino al '14, per esempio, non vi è una differenziazione tra la concezione che Lenin ha dello Stato (anzi non dedica nessun testo appositamente alla questione dello Stato) e la concezione che aveva Kautsky: le differenze sono im­plicite.
È cosi che i primi scritti di Lenin che investono diret­tamente la concezione dello Stato sono del 1917. Prima Lenin non differenziava la propria concezione da quella di Kautsky anche perché si muoveva in una situazione del tutto diversa. Il partito tedesco era in una situazione di legalità democratica, di partecipazione alla vita parlamen­tare, agli enti locali e cosi via, di partecipazione elettorale almeno dal '90 in poi, dopo la fine delle leggi antisocia­liste di Bismarck. Invece il partito russo è - tutti i partiti russi sono - nella piena illegalità, non esiste nessun re­gime parlamentare, nessuna libertà di organizzazione sin­dacale, nessun diritto di sciopero e così via. Il problema di come ci si deve muovere nella legalità democratica per conquistare il potere è perciò un problema che non si pone ai bolscevichi; per i bolscevichi si tratta, semmai, di con­quistare il regime parlamentare, di conquistare la demo­crazia borghese.
E forse, è questa l'ipotesi che avanzo, questa diffe­renza di situazione spiega anche perché non ci sia un con­fronto fra le posizioni di Lenin e quelle della Seconda In­ternazionale di Kautsky sul problema dello Stato.
Kautsky espresse già chiaramente una sua concezione dello Stato commentando il Programma di Erfurt della socialdemocrazia tedesca nel 1891, programma fondamentale che fece poi da guida ai programmi dei partiti socialisti europei, ivi compreso quello russo.
Nel suo libro, Il programma socialista (si noti che era stato Kautsky a scrivere in gran parte il programma di Erfurt, tenendo conto di alcune critiche di Engels), che è di commento al Programma, egli scrive: «Come ogni siste­ma di Stato, anche lo Stato moderno è essenzialmente uno strumento per la difesa degli interessi delle classi domi­nanti». Quindi caratterizza nettamente lo Stato come espressione del dominio della classe economicamente più forte della società. A proposito del capitalismo monopoli­stico di Stato poi dice che questo non altera la natura di classe dello Stato, perché lo Stato utilizza il capitalismo mo­nopolistico di Stato, il settore pubblico dell'economia per aiutare l'industria privata capitalistica e quindi sottomette queste forme all'industria privata capitalistica.
Le cose possono mutare, fra parentesi, se si vive in una società in cui i rapporti di forza tra le classi siano per lo meno equilibrati, tali da riuscire a costringere il settore pubblico dell'economia ad adempiere ad un'altra funzione non strettamente di classe. È ciò che tentiamo di fare oggi, con la lotta che conduciamo.
Nello stesso tempo Kautsky scrive: «Qualsivoglia partito politico deve però proporsi come fine il dominio po­litico; deve quindi studiarsi di volgere il potere dello Stato a profitto suo proprio, ossia degli interessi della classe che esso rappresenta; di divenire il partito dominante nello Stato». Compito e ragion d'essere di ogni partito è quello della conquista del potere statale, ma vi è un tema, un con­cetto che viene meno in Kautsky, che si attenua fino a quasi sparire. È il concetto che non ci si può semplicemente im­padronire dello Stato borghese così come esso è per vol­gerlo agli scopi della classe operaia, bisogna, come diceva Marx, spezzare questo Stato (Marx vide nella Comune un inizio di come spezzarlo) accentrato, burocratizzato, poli­ziesco per realizzare un tipo di Stato decentrato, fondato su autonomie, con l'assimilazione delle funzioni statali da par­te della società, esercito, magistratura, amministrazione, ecc.
Questa nozione di spezzare lo Stato in Kautsky non c'è, di conseguenza viene meno anche l'altro concetto, pre­sente in Marx ed in Engels, che lo Stato della classe ope­raia, la dittatura del proletariato, non è più lo Stato nel senso proprio della parola, secondo le parole di Engels, perché non è più lo Stato in senso accentrato, burocratico, ma è già uno Stato che si decentra, già le funzioni statali passano direttamente alla società.
La stessa prospettiva dell'estinguersi dello Stato, attraverso la dittatura del proletariato e grazie alla dittatura del proletariato, viene a cadere.
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Il Bernstein-debatte

Si sviluppa poi dal 1895 in poi quello che si chiamò storicamente il Bernstein-debatte, il dibattito sollevato dalle posizioni di Edward Bernstein che fu legato testamentario di Engels, suo discepolo e seguace fedele, ma che poi intro­dusse tutta una discussione nel movimento operaio inter­nazionale e soprattutto nel partito tedesco.
Intorno al '95, subito dopo la morte di Engels, Bernstein osservò che nella socialdemocrazia tedesca si era verificata una dissociazione tra la teoria e la pratica, la teoria continuava ad essere quella di Marx, ma i tempi erano profon­damente diversi, la classe operaia lottava in forme e situazioni profondamente diverse da quelle del '49 e di quelle rivoluzioni su cui Marx aveva riflettuto: la classe operaia operava nella legalità democratica, nelle elezioni, nel parlamento e cosl via, si trattava quindi di elaborare e di sviluppare la teoria in rapporto alla nuova situazione che si era determinata soprattutto in Germania dopo il '90 con la fine delle leggi antisocialiste proposte da Bismarck.
Bisognava, dunque, rivedere la teoria marxiana. Il termine di revisionismo nasce allora. Della revisione ope­rata da Bernstein dirò sommariamente che essa tocca i pun­ti decisivi della concezione marxista, attribuisce a Marx una teoria dell'impoverimento assoluto degli operai per cui il valore reale del salario tende continuamente a scendere e l'operaio diventa più povero incessamente. E dice: que­sta concezione di Marx è falsa. Però Marx non aveva mai detto questo, ma aveva indicato una tendenza nella società capitalistica al polarizzarsi della ricchezza da una parte e della povertà dall'altra, al divaricarsi delle due cose e aveva anche indicato le controtendenze, le lotte degli operai, ecc. È ovvio che le controtendenze, le lotte sindacali, ecc. si era.­no sviluppate al tempo di Bernstein molto di più che non al tempo di Marx, in cui quasi non esistevano sindacati legali, tranne che in Inghilterra.
In Marx, non c'è mai stata la teoria dell'impoverimen­to assoluto della classe operaia, ma di un impoverimento relativo rispetto alla situazione storica ed alle condizioni sociali .
Inoltre Bernstein dice: è falsa la previsione di Marx di un crescente polarizzarsi delle classi, capitalisti da un lato, proletari dall'altro, e del proletarizzarsi degli strati intermedi.
Aveva in parte ragione. Anche Marx però aveva indi­cato una tendenza, più che un fatto destinato fatalmente a verificarsi. La storia è stata più complicata delle previsioni di Marx. Kautsky, però, fa osservare molto acutamente che, se le piccole e medie industrie non sono diminuite di numero, la loro funzione economica è mutata perché esse ven­gono a trovarsi subordinate al grande capitale e quindi emar­ginate da una funzione autonoma economica come avevano nel passato. Perciò una polarizzazione di forze c'è lo stesso, anche se in forme molto più complesse.
Inoltre Bernstein concepisce tutto lo sviluppo verso il socialismo come risultato di conquiste elettorali, della conquista della maggioranza elettorale col suffragio univer­sale e nel parlamento fino ad un pieno dispiegamento della democrazia. Viene a negare la validità della concezione del­la dittatura del proletariato.
Attacca anche la concezione del metodo dialettico del pensiero di Marx: la dialettica va abbandonata, è un re­siduo hegeliano, dice Bernstein. La dialettica indica un pro­cesso di sviluppo sociale attraverso contraddizioni, cioè at­traverso la lotta di classe, 1'esplosione delle contraddizioni e i salti di qualità. Quello che Bernstein propone è invece uno sviluppo evolutivo, graduale, per cui si passa senza scosse, senza rotture dal capitalismo al socialismo.
Egli parte da un presupposto che enuncia così: «il principio della democrazia è la soppressione del dominio di classe».
Ora è vero questo, il principio della democrazia è il principio della sovranità del popolo, demos è popolo, cratia è potere, quindi potere del popolo, principio del dominio della maggioranza sulla minoranza, ma non per questo è soppressione delle classi. Se questo non è vero concettualmente lo era tanto meno storicamente ai tempi di Bernstein. Lo sviluppo della democrazia acutizza i contrasti di classe in Germania, in Francia, in Italia, ecc.; entravamo nella fase del capitalismo monopolistico, entravamo nella fase in cui i contrasti di classe diventavano più forti.
Lo sviluppo della democrazia può portare alla soppressione del dominio di classe solo quando la democrazia è già socialismo, è socialismo al suo massimo sviluppo, è già arrivata ad eliminare nel socialismo le differenze di classe e sta passando al comunismo. Ma a questo punto finisce anche la democrazia, dice Lenin, come potere della maggioranza sulla minoranza, ed entriamo nel regno della piena libertà. Mentre la democrazia pone sempre limiti alla libertà, si esercita con uno Stato, ha un elemento coercitivo rivolto contro le vecchie classi dominanti, contro le vecchie classi privilegiate.
Bernstein invece fa della democrazia un po' la chiave magica dei superamenti dei contrasti di classe e la base per teorizzare che ormai, in quella fase della vita europea, la acutezza della lotta di classe va attenuandosi e sempre più si attenuerà. Il carattere di classe dello Stato sempre più si attenuerà in un'epoca in cui l'Europa sta marciando net­tamente in senso opposto, sta marciando verso la prima guerra mondiale (Engels lo aveva già previsto nel '93).
Kautsky si batte fortemente contro le tesi di Bernstein, Rosa Luxemburg anche, Lenin polemizza invece contro le varianti russe del revisionismo, contro gli economisti all'inizio del 1900, sostiene però le posizioni di Kautsky nella polemica contro Berstein in una sua recensione ad un libro di Kautsky.
Tuttavia la risposta di Kautsky, della Seconda Interna­zionale, alle tesi di Bernstein che vengono condannate (Bernstein accetta la condanna e resta abilmente nel par­tito) non tiene conto del problema reale che, secondo me, Bernstein aveva posto, cioè la necessità di adeguare la teo­ria ai nuovi sviluppi della strategia del movimento operaio. La risposta di Kautsky, che è una risposta prevalentemente dogmatica, lascia scoperto il terreno della teoria e questa è una delle ragioni per cui il revisionismo nella pratica en­trò ed operò nella socialdemocrazia sotto forma di oppor­tunismo.
Un fenomeno più limitato, ma di questo tipo, si ebbe in Italia con la destra del partito socialista (Bonomi, Bis­solati). Bonomi riprese in Italia le teorizzazioni di Bernstein soprattutto in quel suo libro che si chiama Le vie nuove del socialismo. Essi furono poi espulsi dal partito socialista nel 1912, al Congresso di Reggio Emilia, dopo che si erano recati in visita al re per uno scampato attentato, poi furono a favore della guerra di Libia, mentre il partito socialista si oppose alla guerra di Libia, infine crearono un altro par­tito che è la radice poi del partito socialdemocratico di oggi.
Nella risposta a Bernstein, però, in tutta la sua teo­rizzazione, Kautsky si colloca sul terreno della conquista del potere statale per via parlamentare e con la conquista della maggioranza parlamentare, questa è essenzialmente la sua visione: lo sviluppo del capitalismo comporta lo svi­luppo delle forze produttive, comporta lo sviluppo e la cre­scita numerica delle forze produttive, comporta lo sviluppo e la crescita numerica del proletariato, crea le condizioni oggettive sociali della conquista della maggioranza elet­torale da parte del partito socialista.
Vi è qui una visione meccanica dello sviluppo sociale. Non è affatto automatico che lo sviluppo del numero dei proletari comporti un aumento dei voti per il partito socialista. Le cose sono un po' più complicate.
Il rapporto tra base di classe e posizione politica, tra struttura economica e orientamento politico, viene visto come rapporto meccanico, con l'illusione parlamentaristica che basti conquistare la maggioranza, che la lascino con­quistare, che si rispetti la democrazia.
È inutile ribadire, aprendo una parentesi, che la no­stra concezione è profondamente diversa, che Togliatti respingeva con disprezzo nel '62 le teorie del 51% dei voti dicendo: la borghesia non ci lascerebbe mai arrivare al 5 %, ha ogni mezzo per impedirlo, e se anche questo non fosse vero (oggi invece si può anche far l'ipotesi che si possa arrivare al 51% ), resta il problema di come si possa governare con quel 51%. Cioè la borghesia non lascerà governare né col 51%, né col 58% e né col 60%. La questione non è parlamentare. Per noi, la questione è di aggregazione di forze, è di rompere il blocco di potere avversario e di aggregare un nuovo fronte di potere.
Ecco il senso del rapporto coi cattolici, ecco il senso del compromesso storico, ecco il senso del nostro rapporto con la Democrazia cristiana. La nostra è una visione che conta soprattutto sui rapporti di forza reali il cui risul­tato parlamentare è importantissimo per la lotta, ma non ne è il momento decisivo, non è la chiave per la conquista del potere. Noi non dimentichiamo, per esempio, che la Democrazia cristiana all'opposizione sarebbe sempre più forte di noi al governo, molto più forte per i suoi legami con le forze economiche, con l'apparato statale, con l'imperialismo straniero, con la Chiesa, ecc. ecc.
Ora, proprio perché la socialdemocrazia tedesca si muove in un quadro di una democrazia parlamentare e la socialdemocrazia russa no, non vi è scontro fra Lenin e Kautsky su queste questioni fino al '14. Il confronto con Kautsky sulla questione dello Stato s'impone per i bolsce­vichi quando in Russia si pone direttamente la questione della conquista del potere statale e della conquista del po­tere statale nella forma della dittatura del proletariato e non semplicemente di una democrazia di tipo borghese.
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Stato e rivoluzione

E allora abbiamo la prima opera teorica di Lenin sullo Stato: Stato e rivoluzione, scritta nell'agosto-settembre del 1917 quando, dopo la momentanea sconfitta subita dal movimento operaio russo nel luglio, Lenin è costretto alla clan­destinità e ne approfitta per scrivere questo libro sulla base di appunti che aveva già abbondantemente raccolto prima, quando era in Svizzera, il che fa pensare che egli avesse già pensato alla necessità di una polemica con Kautsky.
Il libro non è finito perché nel settembre Lenin ri­torna a Pietroburgo, alla piena attività, pure è una prima teoria dello Stato. Lenin si propone di ristabilire la genuina, la vera concezione di Marx e di Engels, quella concezione che è stata deformata, deturpata dalla Seconda Interna­zionale e da Kautsky particolarmente. La sua polemica è rivolta da un lato contro i socialdemocratici, dall'altra con­tro gli anarchici che hanno influenza in Russia e che affon­dano le radici nel movimento populista degli anni fra il '70 e il '90. Ogni scritto di Lenin, anche quando è di filosofia, come Materialismo ed empiriocriticismo ha un fine pratico, politico, cioè vuole armare il partito russo, il partito bolscevico ormai, la classe operaia di una concezione dello Sta­to rivoluzionaria. Proprio perché la classe operaia sta andando all'assalto dello Stato deve avere una concezione ri­voluzionaria dello Stato, questo è tipico di Lenin.
In Lenin lo sforzo teorico, l'impegno teorico si ac­centua quando i compiti pratici diventano più incombenti. Quando bisogna agire Lenin si impegna al limite del pos­sibile nello sforzo teorico. Questo libro poi non ce l'ha fatta a finirlo, nessun uomo fa miracoli, naturalmente, ma il suo sforzo era teso a questo.
In questo ristabilire, si potrebbe anche dire restaura­re, nel senso di ritrovare i colori iniziali, in questo ristabi­lire sta il merito, ma anche il limite di questa opera perchéa tanti anni dal '70 o dal '75 (data degli ultimi scritti di Marx sullo Stato) al '17 sono accadute tante cose,e non basta ristabilire, ma occorre sviluppare, cosa che in realtà Lenin fa. In questa opera Lenin ribadisce con grande fer­mezza il carattere di classe dello Stato e di ogni Stato, pur non ignorando che vi possono essere situazioni di re­lativo equilibrio tra classi opposte, per cui lo Stato puòmomentaneamente avere una posizione equidistante tra le classi, ma sono momenti eccezionali, di breve durata. Pren; dendo pienamente da Marx l'idea che lo Stato è una mac­china per l'esercizio del potere, Lenin afferma: ogni Stato è una dittatura di classe.
Questa espressione: ogni Stato è una dittatura di classe, quindi anche lo Stato borghese è una dittatura di classe, in Marx - se non ho letto male - non l'ho trovata, que­sta espressione è di Lenin, però ricavata, anche con coeren­za, dal concetto di macchina oppressiva dello Stato che èpropria di Marx.
E perché ogni Stato è una dittatura?
Perché anche quando si ha la repubblica democratica parlamentare borghese più avanzata, in essa c'è sempre lo esercizio del potere da parte di una minoranza che detiene l'essenziale, l'elemento decisivo, cioè i mezzi di produzione sulla grande maggioranza dei lavoratori, dei ceti medi ecc. Dietro 1'apparenza di una grande democrazia e di una grande libertà è in realtà celato il dominio di una minoranza.
In questo senso Lenin dice: la repubblica parlamen­tare è il miglior involucro politico per il capitale, la forma in cui il capitalismo riesce meglio ad esercitare il suo do­minio, noi oggi diremmo anche la sua capacità di guida, la sua egemonia. Lenin invece sottolinea soprattutto l'ele­mento di dominio.
Quando dice che ogni Stato è sempre una dittatura di classe e che anche lo Stato più democratico è sempre una dittatura di classe, Lenin dà alla parola dittatura un significato estremamente ampio e molto diverso da quello tra­dizionale, e persino da quello giuridico, perché tradizionalmente si intende per dittatura il potere assoluto di un individuo o di un gruppo, esercitato al di fuori di ogni controllo e al di fuori di ogni limite di legge. Quando si dice che è dittatura anche una repubblica parlamentare, non si concepisce più la dittatura come arbitrio sfrenato e non limitato da alcuna legge, ma anche quando si esercita attraverso leggi, anche leggi molto democratiche.
Originariamente il termine di dittatura aveva un al­tro significato. Per la repubblica romana il dittatore era il magistrato eletto dal senato in una situazione eccezionale, cioè in una situazione di guerra in cui il potere veniva esercitato solo per sei mesi, appunto perché il designato non diventasse un vero dittatore. Il termine di dittatore deriva da dictator, colui che detta legge, che comanda.
Dalla nozione che ogni Stato, qualunque sia la sua forma, è una dittatura, deriva questa contrapposizione: la democrazia borghese, anche nella sua forma piti avanzata, è una dittatura della minoranza sulla maggioranza, cioè è democrazia reale, ma per la grande maggioranza del popolo. non è una democrazia reale, è una forma di oppressione.
Bisogna quindi contrapporre alla democrazia borghese la dittatura del proletariato perché la dittatura del prole­tariato è democrazia della maggioranza e per la maggioran­za, e dittatura sulla minoranza capitalistica che deve essere estirpata come classe.
Si capovolgono quindi i rapporti. Da democrazia per la minoranza e dittatura sulla maggioranza a democrazia per la maggioranza e dittatura sulla minoranza, questo è lo scambio dialettico che avviene passando dalla demo­crazia borghese alla democrazia proletaria o dittatura del proletariato.
Come vedete c'è un forte elemento polemico in que­sta contrapposizione, c'è lo sforzo di smascherare l'illusione democratica contenuta nel democraticismo borghese per ri­velarne il reale contenuto.
La dittatura del proletariato è in realtà la più ampia, reale forma di democrazia che si possa concepire, è final­mente la democrazia, cioè il potere della maggioranza sulla minoranza, il che non significa la libertà per tutti.
In questa democrazia le libertà politico-borghesi ven­gono tutte assunte e diventano reali. Libertà di riunione: ma nella democrazia borghese i proletari non sanno dove riunirsi, mentre con la dittatura del proletariato hanno i saloni dei palazzi principeschi dove riunirsi. Ecco che que­sta libertà diventa effettiva, cessa di essere formale e va­lida solo per la minoranza ricca. Libertà di stampa: diventa reale perché i lavoratori hanno i mezzi che prima non avevano per esercitarla. Prima avevano il diritto, nessuno glie­la vietava, ma i mezzi per fare un giornale dove li trova­vano? Insomma, la democrazia proletaria, la dittatura del proletariato invera, realizza, dà sostanza alle libertà poli­tiche e dilata enormemente la sfera di tutte le libertà.
Dall'una dittatura all'altra, però, si passa attraverso lo spezzare lo Stato; non si può prendere lo Stato borghese così come esso è ed usarlo ai fini del proletariato perché tale Stato non serve all'edificazione del socialismo, non serve all'edificazione della democrazia proletaria. È uno Stato accentrato, burocratico, poliziesco, deve essere spez­zato in tutti questi suoi elementi. Lenin riprende a fondo questo concetto dello spezzare lo Stato che è proprio di Marx e ne fa uno dei centri della propria concezione.
Lenin in genere lega lo spezzare lo Stato alla rivolu­zione proletaria come rivoluzione violenta, armata. E a chi osserva che Marx ed Engels avevano parlato di un possibile sviluppo pacifico della rivoluzione negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, si risponde: si, ma ne avevano parlato in una fase in cui quegli Stati non erano ancora militarizzati, polizieschi, burocratizzati. Oggi nella fase dell'imperialismo questo non è più valido.
Tuttavia Lenin aveva prospettato per la rivoluzione russa uno sviluppo pacifico, aveva detto: si sono realizzati i Soviet, i consigli degli operai, dei contadini e dei soldati, che hanno in realtà nelle proprie mani tutto il potere per­ché l'esercito è dalla parte dei Soviet. Niente può impedire ai Soviet di impadronirsi del potere, ciò che lo impedisce è la direzione a maggioranza socialista e rivoluzionaria e menscevica dei Soviet. Occorre che i bolscevichi - affinché venga dato ai Soviet tutto il potere - conquistino la mag­gioranza dei Soviet. Allora la parola d'ordine fondamen­tale è: tutto il potere ai Soviet, come via pacifica della ri­voluzione.
Quando, nel luglio, il movimento operaio è sconfitto e i bolscevichi messi nella illegalità, quindi i Soviet non sono più strumento rivoluzionario, ma nelle mani dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi divengono strumento di lotta antioperaia, cade la parola d'ordine tutto il potere ai Soviet, cade la prospettiva di una via pacifica. È il mo­mento in cui Lenin scrive questo testo.
Nel settembre Lenin riprenderà, quando l'inchiostro con cui ha scritto questo libro è ancora fresco, la parola d'ordine della via pacifica perché, in risposta al tentativo del colpo di Stato reazionario del generale Kornilov, nel­l'agosto si era realizzata una tale unità alla base dei bolscevichi, socialisti rivoluzionari e menscevichi che Lenin dice: se noi realizziamo l'unità questa è l'ultima possibilità di uno sviluppo pacifico in Russia, della libera formazione delle maggioranze e delle minoranze all'interno dei Soviet (dei partiti all'interno dei Soviet, legati al movimento ope­raio e non dei partiti capitalistici), comunque del libero alternarsi delle maggioranze e delle minoranze, e così via.
Menscevichi e socialisti rivoluzionari non accettarono questa prospettiva unitaria. Bisognava tornare a preparare l'insurrezione, quindi le prospettive della lotta mutavano rapidamente da mese a mese, nel giro dei nove mesi che durò il processo che portò alla rivoluzione del proletariato.
Qui, però, Lenin ci dà una teoria generale dello Stato e indica la legge generale della rivoluzione: la rivoluzione proletaria deve avvenire mano a mano attraverso l'insurrezione, l'esercizio della violenza, che a mio parere resta tesi valida anche oggi, generalmente parlando, con eccezioni che oggi diventano più numerose o possono diventare più numerose.
(Noi lottiamo per uno sviluppo pacifico sapendo che questo è un obiettivo di lotta, incerto come tutti gli obiet­tivi di lotta, ma sapendo che quando fossimo portati sul terreno dello scontro armato questa sarebbe una sconfitta, un insuccesso iniziale).
I bolscevichi possono prendere il potere in quanto esistono i Soviet. I Soviet realizzano tutto un processo di rottura, per spezzare il vecchio apparato statale con istituti di massa, unitari, rappresentativi degli operai, dei conta­dini e dei soldati. Sono forme quindi di democrazia diretta dal basso, strettamente legati all'assemblea legislativa, cui devono rendere conto del loro operato.
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Un parallelo tra i Soviet e la Comune

Qui Lenin riprende l'esempio della Comune, ma dilata ancora di più il significato della Comune, di quanto non sia storicamente valido e di quanto non abbiano già fatto Marx ed Engels, lo dilata enormemente a fini politici, at­tribuendo alla Comune molte cose che non c'erano o c'era­no ad uno stadio del tutto embrionale, inconsapevole, come Engels osservò.
Nella Comune egli vede un precedente dei Soviet, perché dice: i Soviet riprendono l'esperienza della Comune e la portano avanti, finisce la separazione tra il potere legislativo e quello esecutivo, il Soviet è un'assemblea che de­cide ed opera, non è più una sede di chiacchiere come il parlamento (dopo di che il governo marcia per conto suo e la burocrazia non è controllata). Nel Soviet i due elementi legislativo ed esecutivo coincidono come era, egli dice, nella Comune di Parigi.
Il Soviet fa passare alcune funzioni dello Stato alla società. L'esercito, per esempio, non è più esercito professionale, ma è il popolo in armi, i lavoratori in armi, i pro­letari in armi; la polizia non è più un corpo separato, le funzioni di polizia vengono esercitate dal popolo stesso perché il potere non è più di una minoranza, è della maggioranza e quindi non esistono ragioni di una sovversione, la maggioranza è in grado di controllare la minoranza. I magistrati sono eletti, la burocrazia viene eletta e cosi via, come nella Comune di Parigi.

Il Soviet fa passare alcune funzioni dello Stato alla società. L'esercito, per esempio, non è più esercito professionale, ma è il popolo in armi, i lavoratori in armi, i proletari in armi; la polizia non è più un corpo separato, le funzioni di polizia vengono esercitate dal popolo stesso perché il potere non è più di una minoranza, è della maggioranza e quindi non esistono ragioni di una sovversione, la maggioranza è in grado di controllare la minoranza. I magistrati sono eletti, la burocrazia viene eletta e cosi via, come nella Comune di Parigi.
Naturalmente ci si può chiedere se qui non esistano degli elementi utopici, nella visione di Lenin, io ritengo di sì. Si può parlare del popolo in armi come esercito quando l'arma principale è il fucile, ma quando diventa il carro armato, il missile, questo è difficile. Si può abolire la polizia fino ad un certo punto, non è che con la società socialista le ragioni sociali della delinquenza scompaiano da un momento all'altro. Lenin pensava che vengano meno rapidamente le ragioni oggettive, sociali della delinquenza. Non è cosi, il processo è molto più lento e molto più complicato.
Allora qualcuno che fa il mestiere di prendere i ladri e gli assassini ci deve essere, una certa specializzazione ci deve essere, anche l'apparato dello Stato, sia pure sovietico, è pur sempre un apparato che esige specializzazione, competenze, formazione. Tale apparato potrà essere controllato democraticamente in modi nuovi, ma la sua esistenza e quindi il problema della separazione dell'apparato dalla società, problema drammatico della democrazia moderna e del socialismo, oggi non è cosi facilmente superabile.
Bisogna tener conto, però, di una questione essennziale. Quando Lenin indicava questo tipo di Stato e questo tipo di democrazia socialista, di dittatura del proletariato, egli pensava alla rivoluzione russa come a un preludio immmediato di una rivoluzione mondiale, o per lo meno tale da estendersi subito alla Germania, alla Francia da dove avrebbe poi dilagato, non pensava alla instaurazione del socialismo in un paese solo.
Un'ipotesi di questo genere comincia ad affacciarsi appena appena in Lenin nel '23, verso la fine della sua vita, e non è neanche chiaramente enunciata da lui: sarà enunciata da Stalin e teorizzata da Bucharin, credo giustamente nonostante certi limiti.
Il problema di far da soli, di come resistere da soli si pone per Lenin dopo il 1920, quando vede che la rivoluuzione negli altri paesi va un po' a rilento, ma fino al 1918-19 i bolscevichi pensano che è inconcepibile una dittatura del proletariato in Russia se essa resta isolata, se in suo soccorso non vengono altri paesi con la loro rivoluzione, e paesi piu avanzati come la Germania, prima di tutto, e poi come la Francia. Quindi anche questi elementi utopici in parte si spiegano col fatto che Lenin non pensa ad una dittatura del proletariato isolata, che quindi deve armare uno Stato, deve avere momenti di centralizzazione del potere perché è isolata. Con una dittatura non isolata, verrebbero a cadere anche le ragioni di guerra e dei dissidi internazionali, della penetrazione dell'avversario all'interno, ecc. ecc.
Infatti Lenin insiste su questo elemento che con la dittatura del proletariato lo Stato - in quanto cade lo Stato tipico, accentrato, burocratico, ecc - comincia subito ad estinguersi.
Bisogna stare attenti alle parole: comincia, comincia soltanto, non è che si estingue. Però comincia subito, cioè cominciano subito ad attuarsi forme di autogoverno della società. Resta lo Stato, ma è uno Stato che si decentra, che passa a forme di autogoverno della società, che affida alla società compiti che prima erano dello Stato tradizionale, e in questo senso si realizza come piena democrazia.
Qui sta l'effettiva democrazia della dittatura del proletariato, il superamento dei «corpi separati» (separati dalla democrazia, dal controllo popolare, dal controllo dei cittadini, espressione del potere statale).
Nonostante questo, Lenin mantiene il concetto del centralismo del potere statale, forzando il pensiero di Marx. Marx infatti aveva detto che il decentramento nelle comuni si compie nella unità nazionale, mantenendo l'unità nazionale, ma non aveva precisato questo tipo di rapporto.
Lenin parla addirittura di centralismo, attribuendolo a Marx, che non aveva parlato di centralismo. Lenin trasfeerisce il concetto di centralismo democratico dal partito allo Stato, già nel '17, e qui c'è, certamente, uno degli elementi del restringersi (forse inevitabile storicamente, forse obbbligatorio) della democrazia in regime socialista.
Ma il limite di questo libro dov'è?
A mio parere sta nella prefazione (le prefazioni si scrivono sempre dopo) dove Lenin scrive: la guerra imperialiistica ha accelerato ed acutizzato ad un grado estremo il proocesso di trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato. Questo è avvenuto con la prima guerra mondiale, vi è stata un'enorme crescita del capitalismo monopolistico di Stato, questa fase dello sviiluppo monopolistico è caratterizzata dal capitalismo monopolistico di Stato, non come fase diversa, ma come fase congenita allo sviluppo monopolistico.
Questo è per Lenin, secondo la prefazione, il dato saliente del momento: il formarsi e il dilatarsi del capitalismo monopolistico di Stato.
Ora nel testo invece non si ritrova piu nessun riferimento al capitalismo monopolistico di Stato (di cui non avevano parlato neppure Marx ed Engels; ne aveva accennnato negli ultimi suoi scritti Engels ma non in riferimento diretto allo Stato). In tutto il testo di Lenin il potere statale è fondato su tre elementi: l'esercito permanente, separato dal popolo, professionale insomma, la burocrazia, la polizia, questi sono i tre elementi reazionari, tre elementi separati dal popolo che devono essere spezzati.
Lenin insiste sul carattere di macchina oppressiva delllo Stato se non piu di Marx certo piu di Engels, perché Engels pone in rilievo che lo Stato nasce dal contrasto delle classi, ma anche per contenere il contrasto fra le classi e quindi ravvisa nello Stato, oltre che una funzione di dominio, anche una funzione di mediazione, di equilibrio giuridico seppur contraddittorio, instabile e provvisorio.
Questo elemento in Lenin viene a cadere, c'è soltanto l'elemento della oppressione. Lenin ci dà qui una teoria dello Stato in generale, però ha certamente l'occhio volto alla Russia, alla Russia zarista, dove questi elementi dello Stato sono evidenti, dove il carattere oppressivo dello Stato è più evidente che altrove, ma certo forza, a mio parere, in un certo senso la stessa concezione marxista, e, ancor più, engelsiana dello Stato.
L'elemento mediatore che nello Stato è presente, l'elemento dell'egemonia, della direzione è lasciato in ombra.
La polemica era volta contro i socialdemocratici in quanto essi non vedevano la necessità di spezzare lo Stato, lo Stato borghese, era volta contro gli anarchici perché per gli anarchici la rivoluzione proletaria deve coincidere con l'abolizione dello Stato, intesa non come successiva estinzione, ma proprio come abolizione immediata dello Stato.
Per gli anarchici lo Stato, il potere statale, è la fonte di ogni male, è lo Stato che stabilisce la proprietà privata, è lo Stato che genera il capitalismo. Abolendo lo Stato le differenze di classe sparirebbero, pensano, e non vedono che invece lo Stato è l'espressione di determinati rapporti di produzione e di scambio di una determinata struttura economica che esso tiene insieme e garantisce. Per Marx, come per Lenin, è necessario invece che, infranto lo Stato borghese, si instauri uno Stato proletario che non ha più le caratteristiche dello Stato tradizionale e che faccia da periodo di transizione verso l'estinzione dello Stato, la quale sarà graduale, indolore e non più violenta.
Questa è la differenza rispetto agli anarchici. Bisogna osservare però che se questo libro di Lenin è senza dubbio fondamentale, e su di esso si sono formate, non sempre bene, generazioni e generazioni di comunisti, il pensiero di Lenin non è mai riducibile ad un solo libro, anzi è di una ricchezza e di un'articolazione estrema proprio perché è sempre aderente alla realtà, si pone sempre obiettivi politici concreti. Egli stesso dice: ogni mio libro deve essere letto sapendo che l'ho scritto per un fine pratico, per un fine politico. Se non si sa questo, Lenin non lo si capisce, lo si legge in un modo dogmatico.
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Non tutto è da spezzare

Difatti, contemporaneamente alle cose che dice in Stato e rivoluzione, scrive anche altre cose, per esempio proprio nello stesso periodo scrive un opuscolo: I bolscevichi conserveranno il potere statale?, per rispondere ad un' obiezione dei liberali, i quali dicevano: i bolscevichi non potranno mai conquistare il potere statale (avevano proprio indovinato, lo scrivevano qualche mese prima della conquista del potere), non potranno, ma se lo conquistasssero non potrebbero mantenerlo, non sarebbero in grado di amministrare lo Stato, di dirigerlo.
Lenin risponde: sì, è vero, noi non sapremo amministrare questo Stato, ma noi non vogliamo amministrare questo Stato, noi ne vogliamo creare un altro, lo Stato dei Soviet. In quanto ci sono i Soviet noi potremo amministrare e guidare la società russa e lo Stato.
Lenin poi individua gli elementi preesistenti che consentono l'esercizio del potere statale e scrive: nello Stato moderno, accanto all'apparato essenzialmente oppressivo che consiste nell'esercito permanente, nella polizia e nella burocrazia, esiste un apparato legato alle banche e ai trust che svolge, se così si può dire, un vasto lavoro di statistiche e di registrazione. Non è necessario spezzare questo apparato e non lo si deve spezzare, bisogna strapparlo al dominio dei capitalisti, c'è tutto un apparato amministativo che non deve essere spezzato.
E aggiunge: senza le grandi banche il socialismo sarebbe irrealizzabile, le grandi banche sono l'apparato statale che ci è necessario per la realizzazione del socialismo, e che noi prendiamo già pronto dal capitalismo. Ovvero le banche non vengono spezzate, tutto il capitalismo monopolistico di Stato non viene spezzato, ma viene liberato dal capitalismo, sottratto al capitalismo, democratizzato, gestito in un modo diverso. Cioè, c'è tutto un settore nell'apparato statale che non deve essere spezzato, queste cose egli le scrive contemporaneamente a Stato e rivoluzione, dove c'è solo l'elemento dello spezzare. In questo scritto invece (I bolscevichi conserveranno il potere statale?) si indica quello che deve essere spezzato: esercito professionale, burocrazia, polizia e quello che non si deve spezzare. È inutile dire che noi estendiamo la sfera di quello che deve essere non spezzato anche alle istituzioni democratitche borghesi, quindi al parlamento, alle regioni, ma diciamo: non possono funzionare come adesso, devono essere poste in un altro rapporto, integrate con forme di democrazia diretta dal basso, decentrate, ecc.
Anche per Lenin, non tutto deve essere spezzato, questo è importante, non il settore pubblico dell'economia.
D'altra parte, non bisogna dare dello spezzare un'interpretazione semplicistica, cioè nel senso che lo spezzare coincide con l'insurrezione armata. L'insurrezione armata non spezza niente, con l'insurrezione armata si prende il potere, si caccia il governo.
Spezzare lo Stato è tutto un processo di riorganizzazione dello Stato, che può essere lungo, molto lungo. Già nel '22 Lenin diceva: noi abbiamo dato soltanto una spolveratina sovietica all'apparato statale, ma l'apparato statale è rimasto quello che era con lo zarismo, non l'abbiamo rinnovato, siamo stati impegnati nella guerra civile ecc., ed è rimasto il vecchio apparato.
Non solo, ma la sua condanna della democrazia borghese come democrazia capitalistica non deve portare alla formulazione, che fu tipica di Bordiga, che tutti gli Stati borghesi sono sempre la stessa cosa perché sono sempre una dittatura della borghesia. Fra democrazia parlamentare e fascismo, diceva Bordiga, non c'è nessuna sostanziale differenza, cioè il fascismo è una variante della dittatura della borghesia, è sempre la stessa cosa in sostanza.
Questo è estraneo al pensiero di Lenin. Basti pensare alla sua posizione nella rivoluzione russa del 1905: quando la destra del Partito operaio socialdemocratico russo (i menscevichi) diceva che quella era una rivoluzione democratico-borghese e quindi toccava alla borghesia farla, assumersene la responsabilità, il proletariato appoggiò la rivoluzione democratico-borghese secondo la posizione dei bolscevichi e di Lenin, i quali sostenevano che non si poteva lasciare alla borghesia la guida della rivoluzione democratico-borghese, perché essa non sa portarla ai suoi ultimi sbocchi e la forza egemone (qui Lenin usa due volte il termine di egemonia nello scritto: Le due tattiche della socialdemocrazia) deve essere la classe operaia perché solo la classe operaia può portare all'ultimo sviluppo la democrazia borghese. Non è vero che per la classe operaia qualsiasi tipo di democrazia borghese sia la stessa cosa. C'è democrazia borghese e democrazia borghese, una più avanzata e l'altra meno, a noi conviene che sia la più avanzata possibile perché favorisce la lotta per il socialismo.
Non è vero che la rivoluzione democratico-borghese sia utile soltanto alla borghesia. Certo, è utile allo sviluppo del capitalismo in una sfera enorme, ma al tempo stesso è più utile alla classe operaia che alla borghesia stessa perché dà alla classe operaia l'esercizio di quelle libertà democratiche che le servono per la lotta rivoluzionaria.
Il marxismo, dice Lenin, insegna alla classe operaia non ad appartarsi dalla rivoluzione democratico-borghese, a mostrarlesi indifferente, a lasciarne la direzione alla borghesia, ma insegna a parteciparvi nel modo più attivo, più conseguente, più combattivo, per portarla ai suoi sviluppi proletari, e aggiunge: possono stupirsi di questa affermazione solo quelli che ignorano l'abbiccì del comunismo scientifico.
Funzione, quindi, anche di direzione del proletariato nel passaggio dalla fase borghese della rivoluzione del 1917, dalla fase del febbraio, marzo secondo il nostro calendario, alla fase successiva che si prepara con aprile per culminare il 7 novembre.

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Democrazia e dittatura del proletariato

Nello stesso Stato e rivoluzione, però, cosa dice Lenin? La democrazia è, come ogni altro tipo di Stato borghese, l'applicazione sistematica, organizzata della costrizione sugli uomini, la democrazia è costrizione, non è libertà.
Questo da un lato (si parla della democrazia borghese), ma dall'altro lato la democrazia è il riconoscimento formale dell'uguaglianza fra i cittadini, del diritto uguale per tutti di determinare la forza dello Stato e di amministrarlo. Ne deriva che ad un certo grado del suo sviluppo la democrazia unisce contro il capitalismo la classe rivoluzionaria, il proletariato, e gli dà la possibilità di spezzare la macchina dello Stato borghese.
Qui la quantità si trasforma in qualità, arrivato a questo grado il sistema democratico esce dal quadro della società borghese e comincia a svilupparsi verso il socialismo. Se tutti gli uomini partecipano realmente alla gestione dello Stato il capitalismo non può piu mantenersi, quindi sviluppando al massimo grado la democrazia all'interno della democrazia borghese mettiamo in crisi la democrazia borghese, perché quando si va al pieno esercizio della democrazia ci si rende conto che c'è un limite, e che quel limite è la proprietà privata dei mezzi di produzione. Nasce allora l'esigenza del socialismo e c'è il trapasso dalla democrazia borghese alla democrazia socialista, ma non come trapasso indolore, graduale, bensì come salto qualitativo, come crisi profonda di tutta una società.
Perciò, anche in Stato e rivoluzione Lenin non disprezza affatto la democrazia e vede il nesso tra democrazia borghese e rivoluzione proletaria.
Sulla dittatura del proletariato Lenin che cosa ci dice? La rivendicazione dell' Assemblea costituente era stata una rivendicazione fondamentale dei bolscevichi e dopo la rivoluzione d'Ottobre, nel febbraio '18, ci furono le elezioni all'Assemblea costituente su liste che erano già state presentate prima della rivoluzione di Ottobre. Nelle elezioni all'Assemblea costituente i bolscevichi, che avevano la maggioranza assoluta nei Soviet principali, Mosca, Pietrogrado, ebbero la maggioranza relativa, piu del 40% dei voti. L'Assemblea costituente divenne quindi il punto di raccolta di tutte le forze antibolsceviche e antisovietiche, vale a dire che l'organismo democratico piu avanzato, l'Assemblea costituente (tutti l'avevano voluta, anche i bolscevichi) era una splendida piattaforma, uno splendido punto di raccolta per la lotta contro la rivoluzione d'Ottobre e contro il potere diretto dai bolscevichi.
I bolscevichi sciolsero con i marinai armati l'Assemblea costituente. Questo è uno dei grandi temi della polemica di Kautsky contro la dittatura del proletariato in Russia che sopprime le libertà democratiche. Ed è una critica mossa da una concezione formale della democrazia, cioè non coglie i contenuti di classe della democrazia. Un' Assemblea costituente eletta da tutto il popolo si presenta, certo, nella forma di un'istituzione estremamente democratica, ma in determinate situazioni storiche può assumere una funzione reazionaria. (Come da noi l'istituto del Referendum, che sembra tanto democratico, è sempre stato usato in senso reazionario: per salvare la monarchia; per condannare la legge sul divorzio).
Bisogna sempre vedere il contenuto di classe. Kautsky non vede il contenuto di classe antirivoluzionario che stava assumendo la Costituente, mentre i bolscevichi, che stanno alla sostanza della cosa, la sciolgono come centro di organizzazione reazionaria.
Questo non significa che intervenire di forza contro una istituzione democratica e liberamente eletta non sia stata cosa gravosa anche di conseguenze nello sviluppo della democrazia socialista naturalmente, non costituisca un precedente pericoloso per la stessa democrazia socialista. Era però in quel momento una questione di vita o di morte, o salvavi a quel modo la rivoluzione proletaria, o la perdevi, e quindi lo scioglimento era un atto democratico.
Ormai abbandonata una posizione marxista, il socialdemocratico Kautsky questo non lo vede, ed è proprio in polemica con questi che Lenin definisce nel '18 la dittatura del proletariato come l'esercizio della violenza aperta contro i nemici di classe, esercizio non limitato da alcuna legge (per altro le leggi non c'erano, c'erano quelle vecchie, zariste, che non servivano).
Ed è di quel momento l'indicazione del partito bolscevico che sabotatori, nemici di classe, rapinatori, devastatori di negozi (c'era la fame piu nera) presi sul fatto venissero immediatamente fucilati sul posto.
Anche qui, però, il pensiero di Lenin è ricco, è articolato, va visto nel suo variare. Per esempio l'anno dopo, anzi ancora nel ' 18 - a mano a mano che il compito del potere non sarà piu la repressione di carattere militare, ma l'amministrazione - la tipica manifestazione della repressione e della coercizione non sarà piu la fucilazione sul posto, ma il processo in tribunale. Questo Lenin lo dice immediamente dopo: bisogna costruire una legalità rivoluzionaria ed esercitare la dittatura nel quadro di una legalità rivoluzionaria.
Nel '19, agli operai ungheresi egli scrive, al momento della rivoluzione vittoriosa in Ungheria: questa dittatura del proletariato presuppone l'uso implacabilmente duro, rapido e deciso della violenza per schiacciare la resistenza degli sfruttatori, ma non la sola violenza e neppure principalmente la violenza. L'essenza della dittatura del proletariato, la sua essenza fondamentale sta nell'organizzazione e nella disciplina del reparto piu avanzato dei lavoratori, della loro avanguardia e del loro unico dirigente: il proletariato.
Se, quindi, la violenza è elemento essenziale della dittatura o non eliminabile nella dittatura, però l'elemento decisivo ed essenziale veramente è la capacità dirigente della classe operaia. Qui - cioè un anno dopo - l'accento si sposta dalla violenza alla direzione, alla disciplina, all'organizzazione.
Poi, nel '20, in Russia il proletariato ha potuto vincere (ormai è vinta la guerra civile sostanzialmente) superando difficoltà inaudite perché ha compreso giustamente i suoi compiti di dittatore, cioè di dirigente, di organizzatore, di educatore di tutti i lavoratori. Essere dittatore qui significa dirigere, organizzare, educare.
In un altro passo dello stesso periodo Lenin dice: la dittatura del proletariato ha vinto perché ha saputo combinare la coercizione e la persuasione, i due elementi. La espressione sembra quasi gramsciana.
Inoltre Lenin insiste sempre sul fatto che non si può neanche parlare di dittatura del proletariato e di socialismo se l'enorme maggioranza dei lavoratori non partecipa attivamente alla direzione della società e dello Stato. Questo è il grande punto su cui egli insiste sempre, inesorabilmente, costantemente.
Qui bisogna, però, smentire la leggenda secondo cui per Lenin anche una cuoca doveva saper amministrare lo Stato. La frase di Lenin, come la ricordo, è: noi non siamo degli utopisti e non pensiamo che un semplice manovale o una cuoca possano amministrare lo Stato: diciamo che l'amministrazione dello Stato, parola piu, parola meno, non può essere affidata soltanto ai figli delle famiglie ricche, ma che tutti i piu semplici lavoratori devono essere messi subito all'apprendistato dell'amministrazione dello Stato. Quindi anche la cuoca, ma prima deve fare l'apprendistato, non è che diventa subito Ministro dell'alimentazione, prima deve imparare a farlo.
Noi non siamo degli utopisti i quali pensano che la burocrazia possa essere eliminata da un giorno all'altro, noi dobbiamo lottare subito contro la burocrazia sapendo che sarà una lotta di anni e che ciò comporterà quella che Lenin chiama una rivoluzione culturale, cioè l'accesso a nuovi livelli di cultura delle grandi masse operaie e contadine russe profondamente ignoranti, ecc. È questo, dice Lenin, ad impedire il superamento della burocrazia, è l'arretratezza culturale oltre che tutte le tradizioni.
Lenin non esita a vedere i limiti, le contraddizioni dello Stato socialista che è stato instaurato. C'è una polemica del '21 con Trockij che non sto a rievocare. Nel dicembre del '20, Lenin ammette: il nostro Stato è uno Stato operaio con una deformazione burocratica. Riconosce apertamente che non si è di spiegato questo carattere democratico e la burocrazia persiste. Noi abbiamo in primo luogo uno Stato operaio che ha questa particolarità: nel Paese predomina la popolazione contadina e non quella operaia, e in secondo luogo è uno Stato operaio con una deformazione burocratica, dice Lenin.

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Contro il burocratismo

E si rende bene conto del dilemma, del dramma della rivoluzione russa quando dice (siamo nel '19): combattere fino in fondo· il burocratismo, combatterlo fino alla completa vittoria è possibile unicamente se tutta la popolazione partecipa all'amministrazione. Nelle repubbliche borghesi questo non soltanto sarebbe impossibile, ma la legge stessa lo impedisce, le migliori repubbliche borghesi, anche le piu democratiche, hanno migliaia di pastoie legislative che impediscono ai lavoratori di partecipare all'amministrazione. Noi abbiamo fatto si che tutte queste pastoie non esistano piu qui da noi, ma finora non abbiamo ancora ottenuto che le masse lavoratrici possano partecipare all'amministrazione. Oltre alla legge c'è anche il livello culturale che non si può sottomettere a nessuna legge. Questo basso livello di cultura fa si che i Soviet, ecco qui il punto, i quali, secondo il loro programma, sono gli organi del governo esercitato dai lavoratori, (sottolineato da Lenin) so

no in realtà l'organo del governo per i lavoratori esercitato dallo strato di avanguardia del proletariato, ma non dalle masse lavoratrici.
Ecco, i Soviet non sono ancora la partecipazione della maggioranza, ma di una avanguardia, il proletariato. I comunisti poi amministrano lo Stato per i lavoratori, a favore dei lavoratori, appoggiandosi ai lavoratori, ma non c'è una partecipazione dei lavoratori. Questa è la contraddizione in cui viene a trovarsi il regime sovietico, di qui la lotta accanita di Lenin negli ultimi anni contro i metodi amministrativi di dirigere. Ho notato - dice Lenin in alcuni nostri compagni, capaci di influire in modo decisivo sugli indirizzi degli affari di Stato, un' esagerazione dell'aspetto amministrativo che certamente è necessario a suo luogo e a suo tempo, ma che non bisogna scambiare con l'aspetto scientifico, con la comprensione della nostra realtà, con la capacità di guadagnare a sé le persone, cioè di conquistare il consenso.
Si veda la sua critica a Stalin nei confronti della questione georgiana, dove nazionalismo e burocratismo si intrecciano con una funzione nefasta, per la frettolosità di Stalin e la sua tendenza ad usare i metodi amministrativi (rimprovero che lui fa a Trockij). Stalin tende a risolvere le cose in un modo amministrativo anche se è in quel tempo l'uomo piu capace nel comitato centrale del partito bolscevico.
Di qui l'invito di Lenin ad allontanare Stalin dalla segreteria del partito e non perché non sia capace politicamente, ma per una questione di atteggiamento, in quanto Stalin, divenuto segretario generale, ha concentrato nelle proprie mani un grande potere e non è certo che egli sappia servirsene sempre con sufficiente prudenza. E Lenin aggiunge: Stalin è troppo grossolano, e questo difetto, del tutto tollerabile nell'ambiente e nei rapporti con noi comunisti, diventa intollerabile nella funzione di segretario generale, perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico e di designare a questo posto un altro uomo che, a parte tutti gli altri aspetti, si distingua dal compagno Stalin solo per una migliore qualità, cioè quella di essere più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso. Lenin però non sa indicare con quale compagno sostituire Stalin.
Per concludere questa parte: Lenin pensò ad un determinato tipo di rivoluzione russa che aprisse la strada ad una rivoluzione mondiale. Ebbe invece una rivoluzione che rimase isolata e quindi un esito rivoluzionario molto diverso da quello che egli si aspettava: il regime sovietico che opera per i lavoratori, ma che non è la democrazia dei lavoratori, ad esempio. Lenin costrui una certa teoria dello Stato, perché è indubbio che in Stato e rivoluzione c'è una teoria dello Stato, anche se il libro non è stato finito, ma quella teoria intanto non corrisponde più alla natura dello Stato borghese, perché non tiene conto del capitalismo monopolistico di Stato, che diventa, quando c'è, una leva decisiva del potere. L'elemento decisivo non è più l'esercito, la polizia, la burocrazia, ma è il capitalismo monopolistico di Stato, è li il centro del potere.
Questo elemento non viene esaminato da Lenin. Egli configura un tipo di Stato che non sarà lo Stato che si attua, lui vivente. Lenin stesso si muove in una contraddizione perché capisce la necessità di dirigere quella società casi disgregata (guerra civile, miseria, fame) in un modo molto accentrato e dall'alto. Egli respinge l'idea di una direzione collettiva delle fabbriche da parte dei sindacati, che snatura la natura dei sindacati (qui ha ragione). Ma una forma di direzione collettiva in fabbrica ci deve essere, oltre alla dittatura del direttore che è nominato dal Ministero e risponde al Ministero, Lenin dice: bisogna unire la dittatura del direttore durante le ore di lavoro alla democrazia tumultuosa dell'assemblea, dopo le ore di lavoro, ma combinare le due cose insieme non è facile.
In realtà, egli mantiene una direzione di vertici. I ministeri nominano i direttori, i direttori sono dittatori in fabbrica, hanno potere assoluto in fabbrica, il che era forse un modo obbligato per rimettere insieme quell'economia in sfacelo, quelle fabbriche paralizzate e cosl via. Lenin si muove nel tormento di questa contraddizione e nel tormento della lotta anche contro il burocratismo e contro il nazionalismo che sono strettamente apparentati.
Qui una citazione vale la pena farla. Riferendosi al rispetto della nazionalità di minoranza, sempre a proposito della questione georgiana, dice: «di fronte a questo apparato burocratico e nazionalista dei russi è vano richiamarsi al principio che le repubbliche che aderiscono alla Repubblica socialista federativa sovietica russa mantengano la libertà di uscirne. Tale principio si rivela un inutile pezzo di carta incapace di difendere gli allogeni della Russia (cioè le altre nazionalità) dalla invasione di quell'uomo veramente russo, da quello sciovinista grande-russo in sostanza vile e violento, che è il tipico burocrate russo ».
« Vile e violento»: certo Lenin si riferisce alla burocrazia zarista, ma i burocrati si assomigliano sempre un po'.
Ora, Lenin si trova nella morsa di queste contraddizioni che Stalin risolverà a favore di una centralizzazione burocratica e poliziesca e di una direzione accentrata.
Lenin vuole risolvere queste contraddizioni in senso opposto, nel senso della democrazia. Ce l'avrebbe fatta? Non lo sappiamo.
Rinasce quindi la questione: è possibile una teoria marxista dello Stato? Qui ce l'abbiamo, ma in quanto ce l'abbiamo non corrisponde alla realtà, meno è costruita e più corrisponde al processo reale, la stessa vita dello Stato è un processo. Allora sino a che punto è possibile una teoria dello Stato conclusa?
Il marxismo poi è essenzialmente un processo di critica. Quando Marx critica e analizza le leggi del capitalismo critica il capitalismo, mette in luce le sue contraddizioni e la necessità del suo superamento; quando Marx definisce lo Stato «l'espressione del potere di una classe sulla società », definisce lo Stato e critica lo Stato, cioè ne smaschera la falsa neutralità, la falsa indipendenza dalle classi e pone l'esigenza della sua estinzione e quindi della sua negazione. Il marxismo va concepito cosi, come processo di costruzione teorica che accompagna il processo reale; è continua critica del processo reale e delle precedenti teorizzazioni, quindi critica anche di se stesso e delle sue inadeguate formulazioni e delle sue inadeguate teorizzazioni. Altrimenti diventa dogma, filosofia in senso tradizionale, filosofia speculativa e cessa di essere marxismo.
Il regime sovietico deve, nel '19-20, limitare determinate libertà democratiche, per esempio sopprimere i giornali dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari. Lenin dice che questi provvedimenti non sono tipici, essenziali della dittatura del proletariato, sono la variante russa della dittatura del proletariato legata all'arretratezza russa, allo stato di guerra civile, ma che, se in Russia la dittatura del proletariato non può esprimere tutto il suo contenuto democratico, ben altrimenti essa lo potrà esprimere nei paesi capitalisticamente avanzati.
Sottolinea anche le differenze che vi sono tra forme di dittatura del proletariato a seconda dei paesi, delle loro caratteristiche, della loro struttura economica, del loro livello culturale.

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Da Lenin a Gramsci

Passiamo ora a Gramsci. Gramsci è senza dubbio quello che allaccia, se così si può dire, congiunge il movimento operaio italiano agli insegnamenti di Lenin, è giustamente il primo bolscevico italiano, come disse Togliatti, il primo leniniano del nostro Paese. Attraverso un processo che fu complicato e che parte dalla sua comprensione non completa, ma sostanzialmente giusta del valore della rivoluzione d'Ottobre, arriva ad affermare che la rivoluzione d'Ottobre è una rivoluzione contro Il Capitale di Carlo Marx, cioè contro un'interpretazione meccanica, schematica del Capitale, secondo cui bisognava aspettare lo sviluppo delle forze produttive del capitalismo, ecc. ecc. Già coglie l'importanza dell'elemento soggettivo, della funzione del partito come guida dei processi rivoluzionari.

Gramsci sempre più si avvicina ad una comprensione del pensiero di Lenin con un processo che va dal '19 sino al '25-26 e che anche nei Quaderni del carcere è un approfondimento del pensiero di Lenin.
Gramsci si aggancia direttamente al concetto di dittatura del proletariato come si trova in Lenin, individuando nella dittatura del proletariato, non solo un profondo mutamento della struttura economica e politica del paese, ma una profonda rivoluzione culturale, una profonda trasformazione del modo di pensare degli uomini non solo in Russia, ma in tutto il mondo. Il pensiero degli uomini non può più essere la stessa cosa dopo l'instaurazione della dittatura del proletariato in Russia.
La dittatura non è soltanto un fatto politico, ma di cultura e di pensiero, secondo quello stretto nesso che Gramsci stabilisce tra politica e filosofia affermando che la filosofia vera di ciascuno sta nel suo modo di agire, sta nella sua politica più che nelle dichiarazioni teoriche. Da questo egli ricava che il principio teorico-pratico dell' egemonia (e qui egemonia significa dittatura del proletariato) ha anch'esso una portata gnoseologica, cioè di conoscenza, e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico massimo di Lenin alla filosofia della prassi, cioè al marxismo.
Lenin avrebbe fatto progredire la filosofia come filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. C'è stretto nesso, quindi, tra i due elementi.
In un altro punto dei Quaderni dice: «Tutto è politico, anche la filosofia o le filosofie. La sola filosofia è la storia in atto, cioè è la vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica tedesca, come aveva detto Engels, e si può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell'egemonia fatta da Ilic [Lenin], è stato anche un grande avvenimento metafisico, cioè nel senso di pensiero generale, non nel senso negativo di filosofia astratta».
Il processo attraverso cui Gramsci nei Quaderni arriva a queste conclusioni è complesso. Gramsci al tempo dell'Ordine nuovo, già nel '19, parte da una riflessione sullo Stato che non è una riflessione sullo Stato in generale, ma sullo Stato borghese italiano, una individuazione della sua specificità.
In un articolo dell'Ordine nuovo, del febbraio del '20, scrive: «Lo Stato italiano che - secondo un parlamentare - starebbe alla repubblica dei Soviet come la città all'orda barbarica, non ha mai neppure tentato di mascherare la natura spietata della classe proprietaria.
Si può dire che lo «Statuto albertino» sia servito ad un solo fine preciso: a legare fortemente le sorti della corona alle sorti della proprietà privata. I soli freni che funzionano nella macchina statale per limitare gli arbitri del governo dei ministri del re sono quelli che interessano la proprietà privata del capitale. Soltanto qui si pongono limiti all'esercizio del potere per garantire la proprietà, la libera iniziativa.
Lo «Statuto albertino » non ha creato nessun istituto che presidi almeno formalmente le grandi libertà dei cittadini: la libertà individuale, la libertà di parola e di stampa, la libertà di associazione e di riunione, mentre negli altri Stati democratico-borghesi almeno una garanzia, almeno formale, esiste, in Italia non c'è neanche la garanzia formale.
Negli Stati capitalistici che si chiamano liberal-democratici l'istituto massimo di presidio delle libertà popolari è il potere giudiziario. Nello Stato italiano la giustizia non è un potere, è uno strumento del potere esecutivo, è uno strumento della corona e della classe proprietaria, cioè è agli ordini del ministro della Giustizia. Si pensi che ancor oggi la nomina del Pubblico ministero avviene ad opera del ministro della giustizia. La direzione generale delle carceri, le direzioni particolari, gli agenti della pubblica sicurezza, tutto l'apparato repressivo dello Stato dipendono dal ministero degli Interni, si capisce perché in Italia il presidente del consiglio si riservi sempre il ministero degli Interni, come era tipico nello Stato prefascista, in modo che tutto l'apparato di forza armata del paese sia completamente nelle sue mani.
Il presidente del consiglio è l'uomo di fiducia della classe proprietaria - alla sua scelta collaborano le grandi banche, i grandi industriali, i grandi proprietari terrieri e lo Stato maggiore. Egli si prepara a conquistare la maggioranza parlamentare con la frode e con la corruzione; il suo potere è illimitato non solo di fatto - come è indubbiamente in tutti i paesi capitalistici - ma anche di diritto, il presidente del consiglio è l'unico potere dello Stato italiano.
La classe dominante italiana non ha avuto neppure l'ipocrisia di mascherare la sua dittatura, il popolo lavoratore è stato da essa considerato un popolo di razza inferiore che si può governare senza complimenti, come una colonia africana. Il Paese è sottoposto ad un permanente regime di stato d'assedio: in ogni ora del giorno e della notte un ordine del ministro dell'interno ai prefetti può fare entrare in movimento l'amministrazione poliziesca, gli agenti vengono sguinzagliati nelle case, nei locali di riunione, senza mandato dei giudici, che sono passivi. In pura via amministrativa la libertà individuale e di domicilio è violata, i cittadini sono ammanettati, confusi coi delinquenti comuni in carceri luride e nauseabonde, la loro integrità fisiologica è in difesa contro la brutalità ed i contatti, i loro affari sono interrotti o rovinati. Per il semplice ordine di un commissario di polizia un locale di riunione viene invaso e perquisito, una riunione viene sciolta, per il semplice ordine del prefetto un censore cancella uno scritto il cui contenuto non rientra affatto nelle proibizioni contemplate dai decreti generali [c'era la censura sulla stampa] per il semplice ordine di un prefetto i dirigenti di un sindacato vengono arrestati, cioè si tenta di sciogliere un'associazione, ecc.».
È un'analisi spietata dei limiti liberali e democratici dello Stato liberale italiano, della sovrapposizione del potere esecutivo sul potere legislativo, sul potere giudiziario, è una descrizione di questo ordinamento che discende dall'esecutivo ai prefetti, ai questori e sospende in qualsiasi momento ogni libertà.
Ora a questa visione, a questa definizione, a questa analisi dello Stato italiano, Gramsci ne contrappone un'altra che nasce dal movimento reale. Anche per lui, come per Lenin, la conquista dello Stato non è puramente un momento negativo, di distruzione, ma è il processo di crescita di un nuovo tipo di Stato, che si organizza sin da prima della conquista dello Stato. E la rivoluzione, come per Lenin, viene concepita come un processo, non come un atto subitaneo che si compie in un determinato momento.
La domanda infatti, che egli si pone nel ' 19, la domanda da cui parte con tutto il lavoro del giornale, dell'Ordine nuovo, è precisamente questa: se ci sia in Italia, a Torino, un embrione di Soviet, un inizio di Soviet, e la risposta è: sì, sono le commissioni interne. E aggiunge: bisogna trasformare le commissioni interne in qualche cosa di piu, bisogna far nascere dalle commissioni interne, cioè dall'esistenza dei Consigli di fabbrica eletti da tutti i lavoratori indipendentemente o meno dalla loro iscrizione al sindacato. Con rappresentanti quindi per reparti, per officina, per mestieri, e cosi via, in modo che il Consiglio di fabbrica sia il momento non solo della difesa dei diritti sindacali o delle conquiste sindacali, ma un organismo attraverso cui gli operai si impadroniscono del processo della produzione, della organizzazione del lavoro, intervengono sul processo della produzione, stabiliscono un potere nella fabbrica, un potere democratico della fabbrica e un potere che poi dalla fabbrica si irradi alle campagne e salga a diventare potere nella società e nello Stato.
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I consigli di fabbrica

Gramsci dice che questo trasforma l'operaio da semplice salariato - schiavo del capitale, non cosciente della funzione storica della propria classe - in produttore (egli prende da Sorel questo termine), ma esso è presente anche in Marx quando parla della Comune come l'autogoverno dei produttori e non più degli operai salariati, cioè dell'operaio che ha superato ogni limite corporativo, che non ragiona più come mentalità di categoria, di classe sociale chiusa in sé, intesa solo alla difesa dei propri interessi immediati di classe, ma che si sente come produttore, protagonista e interprete degli interessi generali della società e quindi come componente essenziale, forza dirigente del nuovo Stato che si vuole costruire.

Egli scrive nell'Ordine nuovo: l'officina con le sue commissioni interne, i circoli socialisti e le comunità contadine sono i centri di vita proletaria nei quali occorre direttamente lavorare, le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitraggio e di disciplina, sviluppate ed arricchite dovranno essere domani come organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione. Cioè bisogna imparare prima a dirigere le fabbriche se vogliamo abolire il capitalismo.
Fin d'ora gli operai dovrebbero procedere già all'elezione di vaste assemblee di delegati scelti tra i migliori e più consapevoli compagni sulla parola d'ordine: «tutto il potere all'officina, ai comitati d'officina », coordinata all'altra: «tutto il potere dello Stato ai consigli operai e contadini».
Vi è, quindi, un tentativo di risposta alla domanda: come facciamo in Italia a fare come in Russia, dove ci sono i Soviet? E i Soviet li inventa Gramsci: li va a cercare nel movimento reale, li va a cercare in quello che già esiste, cioè le commissioni operaie da sviluppare in organismi con molto più potere e molta più capacità rappresentativa.
A questa concezione di elevamento della funzione dirigente della classe operaia prima della conquista del potere, come condizione della conquista del potere, qui Gramsci ragiona già alla leniniana, a questa sua concezione si contrappone un'obiezione di Bordiga e del suo giornale, Il Soviet, sul quale egli dice: è illusorio, utopico pensare che la classe operaia possa avere una funzione dirigente nella fabbrica prima della conquista del potere, fino ad allora resta subalterna ai capitalisti, solo quando la classe operaia prenderà il potere essa potrà esercitare il potere nella fabbrica. Ma Bordiga non risponde alla domanda: il potere come lo prendi?
Questo perché Bordiga vede il processo sociale come il processo di crescenti contraddizioni dell'economia capitalistica, finché si arriva alla grande crisi che è il momento fatale della rivoluzione proletaria, a cui il proletariato e il Partito comunista devono prepararsi mantenendosi puri, intatti, non contaminando si in alleanze, in compromessi e in cose del genere. Vi è cioè in Bordiga una visione meccanicistica, di materialismo volgare, meccanicistico del processo rivoluzionario che ignora la funzione del soggetto, del partito.
Non a caso Bordiga dice che non bisogna partecipare alle elezioni parlamentari. Il Parlamento è borghese e quindi non interessa il proletariato. Riprende cioè una tesi di Bakunin e degli anarchici contro cui già Marx ed Engels avevano polemizzato, come Lenin polemizza in Estremismo malattia infantile del comunismo contro queste posizioni di Bordiga.
Per Gramsci, invece, ripeto, la rivoluzione è intesa come processo. Non sto ad illustrare tutte le vicende dell'Ordine nuovo, le grandi lotte del ' 19, lo sciopero dell'aprile del '20, detto lo «sciopero delle lancette », che poneva proprio la questione dell'autorità e del potere dei consigli di fabbrica perché il padronato decise di passare dall'ora legale, usata in guerra, all'ora solare senza avvertire i consigli di fabbrica.
Gli operai arrivarono in fabbrica e trovarono le lancette dell'orologio spostate e fu lo sciopero. Era in gioco una questione di principio: il potere democratico del consiglio di fabbrica. L'ingenuità fu il non aver unito alla questione altre rivendicazioni piu sostanziose che potessero legare a questa lotta le masse operaie. Fu solo una lotta di principio che poi fini con una sconfitta grave, dopo di che la classe padronale passò all'attacco e l'occupazione delle fabbriche fu, è vero, il momento più avanzato della lotta, ma un momento di difesa.
Funzionarono, però, i consigli di fabbrica, diressero la produzione, tennero la disciplina, ma nell'occupazione delle fabbriche appare chiaramente un elemento cioè il movimento dei consigli fallisce per essere rimasto troppo torinese, non essersi esteso alle altre regioni italiane, per essere rimasto chiuso all'interno della fabbrica, e anche per una debolezza nel vedere un'alleanza con i contadini e soprattutto una grave debolezza nel vedere l'alleanza con i ceti medi, tipico limite dell'Ordine nuovo.
Dalla sconfitta, quindi, del movimento dei consigli con l'occupazione delle fabbriche si pone l'esigenza del partito, come momento unificante di tutto il movimento a livello nazionale, cosa che Gramsci aveva visto, ma in modo incompleto, e aveva privilegiato un movimento, aveva privilegiato i consigli rispetto alla questione del partito stesso.
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Necessità della ricognizione nazionale

La riflessione di Gramsci, però, va oltre e nel '23, in un articolo: Che fare? scritto per una rivista di studenti comunisti, si pone l'interrogativo: perché siamo stati sconfitti?

Siamo stati sconfitti perché il movimento operaio non conosce il proprio Paese, non conosce l'Italia, non è uscito fino ad oggi un libro sulle stratificazioni sociali, sulle classi in Italia, sulla storia delle classi, non è uscito un libro sulla storia dei partiti italiani, c'è un'infinità di domande a cui non sappiamo rispondere: perché in Sicilia i contadini sono autonomisti e in Sardegna no, mentre in Sardegna sono autonomisti i latifondisti e in Sicilia non altrettanto, perché dove son forti gli anarchici sono forti i repubblicani? e così via. Non sappiamo rispondere perché non conosciamo il nostro Paese. Eppure abbiamo un metodo, il marxismo, che Marx ed Engels hanno impiegato per conoscere la realtà concreta. Ecco l'esigenza di usare il marxismo non come strumento di propaganda, ma come strumento di analisi, di comprensione della realtà.
Certo, spiegare la sconfitta del '20-21 col fatto che non si conoscesse bene l'Italia è insufficiente, è unilaterale, è polemico, però è senza dubbio uno degli elementi della verità.
Il gruppo dell'Ordine nuovo, alla testa del partito col '24, cercherà di arrivare ad un'analisi dell'Italia, ad una conoscenza del processo storico italiano. Le tesi del terzo Congresso di Lione sono un'analisi del processo attraverso cui si è formato lo Stato unitario italiano per individuare da questa analisi concreta, storica, le forze motrici della rivoluzione nella classe operaia del Nord e nei contadini del Mezzogiorno e delle Isole. Si veda il saggio sulla Questione meridionale, contemporaneo alle Tesi di Lione. 
Gramsci riprende un concetto di egemonia che nel '25 aveva già usato in polemica contro Bordiga dicendo: Bordiga non ha capito il concetto leniniano dell'egemonia, dell'alleanza della classe operaia con gli altri ceti e soprattutto con i contadini e si è attenuto ad una posizione astratta per cui la classe operaia deve restare chiusa in se stessa, ha temuto che ogni alleanza fosse una contaminazione piccoloborghese della classe operaia, per questo non ha capito l'essenziale di quello che è il leninismo, alleanza operai contadini, costruzione dell'egemonia.
Nella Questione meridionale inoltre Gramsci pone non solo la questione meridionale come elemento nazionale decisivo e quindi chiave della egemonia della classe operaia, ma entra in una definizione pili precisa della egemonia. Che la questione meridionale sia elemento decisivo della egemonia è un momento molto importante, perché non aver capito questo aveva reso il movimento socialista subalterno alla politica della borghesia e di Giolitti, cioè aveva accettato la politica di Giolitti assai limitata, da un lato, e, dall'altro, riformistica senza riforme in un certo senso, che però faceva concessioni alle cooperative del Nord, al diritto di associazione, alla funzione dei sindacati, non interveniva come Stato nei conflitti del lavoro, ecc., facendo pagare tutto questo al Mezzogiorno. Nel Mezzogiorno faceva la politica della camorra, degli «ascari», cioè dei deputati che andavano in Parlamento per votare sempre « Sì », reclutati attraverso le clientele, ecc. Il modo in cui si spezza l'egemonia della borghesia è il modo in cui si rompe questo blocco industriale e agrario tra la borghesia capitalistica del Nord e i grandi proprietari terrieri, latifondisti del Sud, e si salva l'alleanza classe operaia del Nord e contadini del Sud.
A questo proposito Gramsci dice: il proletariato può diventare classe dirigente e dominante, nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, il che significa in Italia (nei reali rapporti di classe esistenti in Italia): nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe masse contadine.
La questione delle alleanze, quindi, è vista come questione decisiva per conquistare il dominio e la direzione, e la questione contadina viene vista come essenziale. Ma non la questione contadina in generale (tra l'altro non esiste). La questione contadina in Italia è storicamente determinata, non è la questione contadina ed agraria in generale, in Italia la questione contadina ha, dice Gramsci, per la tradizione italiana, per il determinato sviluppo della storia italiana, assunto due forme tipiche e peculiari: la questione meridionale e la questione vaticana, cioè il rapporto con i contadini del Sud e con i contadini legati alla Chiesa cattolica, di ispirazione cattolica.
Ora che cosa si può dire in proposito? Si può dire che c'è un altro passo in cui egli si richiama alla dittatura del proletariato, che l'egemonia viene vista come una direzione che si conquista nella società civile e la dittatura del proletariato è concepita come la forma statale, politica dell'egemonia, anzi essenzialmente come la forma. statale.
Inserisce qui una distinzione tra società civile e Stato. Nella società civile l'egemonia, nello Stato la dittatura del proletariato, che però in Gramsci non è così schematica. I due momenti sono fusi e Gramsci, nei Quaderni, avverte che la distinzione tra Stato e società civile, società politica e società civile è una distinzione puramente di metodo, metodologica, non organica, perché in realtà questi due elementi sono fusi. Società civile e Stato non SI separano nella realtà.
Come è noto la parola egemonia deriva da un verbo greco che significa dirigere, guidare, condurre. Gramsci usa il termine egemonia non nel significato tradizionale che sottolinea soprattutto il « dominio », ma nel senso originario, etimologico, greco: «direzione », «guida ». Trae questo termine da Lenin, perché Lenin l'aveva impiegato nel 1905 proprio per indicare la funzione dirigente della classe operaia nella rivoluzione democratico-borghese; Lenin non lo usa più nel 1917, quando usa ormai il concetto di dittatura del proletariato. Ma non c'è dubbio che la capacità dirigente della classe operaia nel processo rivoluzionario congiunge nel '17 strettamente la rivoluzione democratica alla rivoluzione proletaria, in modo che la dittatura del proletariato si assume gli obiettivi della rivoluzione democratica, quegli obiettivi che la borghesia non sa realizzare, e nella dittatura del proletariato vengono infatti indicati, come obiettivi primi, obiettivi democratici e non obiettivi socialisti: la terra ai contadini, la nazionalizzazione delle banche e cose di questo tipo.
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Egemonia e blocco storico
Gramsci riprende nei Quaderni il concetto di dittatura del proletariato, ma riferendosi alla dittatura del proletariato teorizzata e realizzata da Lenin. Poiché l'egemonia della classe operaia nella rivoluzione del 1905 fu sconfitta, significa che Gramsci usa il termine di egemonia nel senso di dittatura del proletariato, quella teorizzata e realizzata.
Ora Gramsci sa bene che nella dittatura del proletariato c'è il dominio e il consenso, la coercizione e la persuasione, ma perché la chiama egemonia?
La chiama egemonia perché vuole sottolineare nella dittatura del proletariato la funzione dirigente, la conquista del consenso, l'azione di tipo culturale e ideale che l'egemonia deve compiere, non c'è altra spiegazione a questo diverso uso dei termini. Sottolinea questo elemento, nella dittatura del proletariato, sia perché era quello rimasto più in ombra, quello che si era capito di meno (si era sempre intesa la dittatura soprattutto come violenza, limitazione delle libertà, e non come l'essenziale capacità dirigente, come Lenin aveva sempre più sottolineato, man mano che veniva avanti la costruzione del regime sovietico negli ultimi anni della sua vita). Gramsci usa questo termine, la egemonia, perché egli conduce una riflessione sulle esperienze del '19-20-21 e si pone ancora la famosa domanda: perché non abbiamo vinto?
Non abbiamo vinto, dice Gramsci, perché bisogna capire le differenze che esistono tra una società e un potere politico come quello russo, zarista, e un potere politico in una società come esiste in Italia e nei paesi capitalisticamente sviluppati. La domanda - si poteva fare la rivoluzione nel '19 o nel '20? c'erano le condizioni oggettive? non c'erano? cosa è mancato? - trova in realtà una risposta in questa analisi di Gramsci.
Gramsci dice: in Oriente, cioè in Russia, lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatina sa (ecco il punto); nell'occidente tra Stato e società civile c'è un giusto rapporto e nel tremoli o dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile, lo Stato era solo una trincea avanzata dietro a cui stava una robusta catena di fortezze, di casematte (più o meno diversa da Stato a Stato) ma questo richiedeva un'accurata ricognizione di carattere nazionale.
Ecco la grande differenza: in Russia lo Stato era tutto, ed era indubbiamente casi, in una società molto fluida, gelatinosa, non articolata, non robusta, una enorme burocrazia zarista gestiva ogni momento della vita statale per cui quando lo Stato andava in crisi o in sfacelo a causa ovviamente della disfatta militare e durante la guerra del '14-18, dietro allo Stato non c'era più niente che resisteva.
In Occidente è diverso, dietro al tremolio dello Stato, e lo Stato italiano tremò fortemente nel '19 e '20, c'era però la robusta struttura della società civile, c'era l'apporto del capitalismo, le sue organizzazioni, la sua tenuta culturale e cosi via.
Questo, secondo me, è un tentativo di risposta di Gramsci al perché nel '19-20 siamo stati sconfitti, ma è al tempo stesso una riflessione molto più generale sul modo in cui si pone il problema della rivoluzione in Paesi capitalisticamente sviluppati.
Di qui egli trae la necessità di una diversa strategia rivoluzionaria, dice in altre pagine . Mentre in Russia la società civile era fluida ed embrionale, gelatinosa, era possibile la guerra manovrata, cioè lo scontro di classe rapidamente risolutivo, in Occidente è necessaria la guerra di posizione, che qui non significa stare fermi. 'è un altro passo in cui con guerra di posizione Gramsci indica una relativa staticità dei processi sociali e politici, qui non significa questo, qui guerra di posizione è la guerra di trincea, per cui vai all'assalto delle trincee, delle fortezze, delle casematte, cioè individui i gangli essenziali della vita sociale e statale e conduci quindi una politica (attualizzando un po') che investe la totalità della società e che tiene conto di tutte le complesse articolazioni della società. Cioè Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia rivoluzionaria, di un modo nuovo di concepire la rivoluzione.
Questo è l'enorme passo che egli ha fatto partendo dall'Ordine Nuovo del '19-20, attraverso La questione meridionale per arrivare ai Quaderni, perché il problema dell'Ordine Nuovo era: come facciamo a fare anche in Italia come in Russia? Ma il problema era fare come in Russia partendo dal movimento reale, non astrattamente.
Nel '26 già individuiamo che cosa distingue la questione contadina in Italia dalla questione contadina in Russia. Come noi risolviamo questo problema decisivo della egemonia proletaria che Lenin risolse in Russia con l'alleanza con i contadini? Qui che cosa è l'alleanza con i contadini? Qui è questione meridionale, qui è questione vaticana che l'origina.
Nei Quaderni del carcere Gramsci pone l'esigenza di una strategia, cioè dice: non possiamo fare come in Russia, abbiamo bisogno di una ricognizione del terreno nazionale, cioè di una analisi concreta della situazione concreta italiana, di calarci nel processo storico, nella originalità dei processi sociali, politici e culturali del nostro Paese.
L'interessante è, però, che egli si riferisca a Lenin quando dice: «mi pare che Ilic [Lenin] avesse compreso che occorreva un mutamento della guerra manovrata) applicata vittoriosamente in Oriente nel )17) alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente», cioè Gramsci attribuisce alla tattica del fronte unico della classe operaia, proposta dai bolscevichi, da Lenin alla Terza Internazionale, al suo Quarto congresso del 1922, la individuazione di un tipo diverso di lotta rivoluzionaria, di lotta di posizione. Fa dire a Lenin, a mio parere, molto di più di quanto Lenin non volesse dire, forza il suo pensiero, lo porta oltre.
Lo porta oltre però partendo da intuizioni che in Lenin ci sono, perché vi sono scritti di Lenin che forse Gramsci nemmeno conosceva in cui Lenin dice: in Occidente tutti i lavoratori sono organizzati, non è come in Russia dove non c'erano sindacati, dove i partiti avevano scarse radici, non avevano avuto una vita legale, ci sono cooperative, sindacati, partiti, municipi, ecc. Cioè Lenin dice: « in Occidente tutti i cittadini partecipano in qualche modo alla democrazia, non è come in Russia », quindi Lenin intuisce delle diversità in Occidente e propone una tattica, non una strategia, diversa, cioè il fronte unico.
Gramsci parte da questa intuizione di Lenin e la porta, secondo me, molto oltre e sottolinea fortemente la necessità di una ricognizione del terreno nazionale: una classe di carattere internazionale, cioè il proletariato, in quanto guida strati sociali strettamente nazionali e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristici e municipalistici, come i contadini, deve nazionalizzarsi in un certo senso, cioè deve calarsi profondamente nella realtà nazionale se è internazionalista, in quanto è internazionalista, se vuole dirigere i contadini, gli intellettuali, ecc., deve individuare la specificità del processo rivoluzionario. Dove si vede che l'egemonia è impensabile al di fuori della ricognizione nazionale, la egemonia è proprio la capacità di individuare la specificità nazionale, i caratteri specifici di una determinata società, l'egemonia è conoscenza, oltre che azione, e quindi è conquista di un nuovo livello di cultura, scoperta di cose che non si conoscevano.
Questo nazionalizzarsi, questo calarsi nella realtà nazionale e la conquista dell'egemonia sono in Gramsci strettamente congiunti. L'egemonia è individuazione della tattica e della strategia nuove che si devono usare in determinate situazioni.
Come nasce in Gramsci l'idea dell'egemonia? Marx aveva detto nella Ideologia tedesca, del 1845, che le idee dominanti in una società sono le idee della classe dominante, cioè la classe dominante diffonde le sue idee, la sua cultura, la sua ideologia in tutta la società. più esattamente Marx dirà nella prefazione a Per la critica dell'economia politica del '59, che sono i rapporti di produzione, quindi il modo di proprietà prevalente, che determinano non solo le istituzioni politiche e statali, ma il modo di pensare, la coscienza. Il modo di produzione però - i rapporti di produzione e il loro nesso con le forze produttive - è contraddittorio e quindi questa contraddizione, la contraddizione che esiste nel modo di produzione capitalistico, tra classe operaia e capitalisti per esempio, pone in discussione non solo la politica economica, le questioni sindacali immediate, ma anche la politica e la cultura delle idee della classe dominante.
Non appena la classe antagonistica nel sistema capitalistico, il proletariato, assume coscienza del suo antagonismo al sistema capitalistico, elabora non soltanto delle lotte sindacali immediate, ma anche una linea politica e una concezione del mondo, il marxismo, l'ideale socialista, una nuova morale che contrappone ai valori ed alla morale della società dominante. Attraverso un processo enormemente faticoso, attraverso una piccola avanguardia, poco alla volta, cerca di strappare all'egemonia ideale e politica della classe dominante una parte sempre più grande della classe operaia e dei suoi alleati, contadini, ceti medi, cerca di conquistare gli intellettuali.
Ora Gramsci si chiede come si tiene insieme una determinata società, cioè un determinato «blocco storico», un nesso di forze politiche e sociali, come si tiene insieme questo rapporto tra la struttura economica, i rapporti di produzione e di scambio, e lo Stato, come si può spiegare insomma che un determinato Stato, una determinata classe dominante tenga insieme e abbia il consenso di forze i cui interessi sono opposti.
Questo «blocco storico» trova il consenso tra gli operai, tra i contadini, i cui interessi sono opposti a quelli della società capitalistica, non solo con l'influenza politica, dice Gramsci, ma con l'ideologia. È l'ideologia che tiene insieme il blocco storico, che lo salda, che consente di tenere insieme classi sociali non solo di tipo differente, ma con interessi addirittura opposti, antagonistici. L'ideologia è il grande cemento del blocco storico, ed è momento della sua edificazione, che non è solo ideologica, è culturale, è politica in primo luogo, ma non può essere dissociata dal momento dell'ideologia e delle idee.
Noi allora abbiamo un processo per cui le classi, antagoniste per interessi, sono subalterne all'origine, Cloe non hanno una propria concezione del mondo, una propria cultura, ma hanno assorbito la cultura delle classi dominanti, in un modo eterogeneo, disorganico, passivo. Cosicché, il modo di pensare delle classi subalterne è privo di organicità, di capacità critica. Le classi subalterne sono però spinte alla ribellione, ma tale ribellione è un sussulto che non riesce ad organizzarsi in una politica perché c'è subalternità ideale, culturale.
È necessario tutto un processo perché le classi subalterne diventino autonome, si diano un partito, una linea politica, una concezione culturale, e allora da autonome lottano per diventare egemoni, dirigenti. Già prima della conquista del potere possono diventare egemoni, cioè. diffondere la propria concezione non solo politica, ma culturale, in tutta la società.
L'egemonia si conquista prima della conquista del potere ed è una condizione essenziale per la conquista del potere.
Il processo di egemonia è quindi un processo di unificazione del pensiero e dell' azione perché - quando le classi sono subalterne - può esserci per esempio una insurrezione contadina unita all'affermazione che i proprietari della terra ci sono sempre stati, e magari sempre ci saranno, un'insurrezione che spera nel re per sistemare le cose. Può accadere che gli operai di Pietroburgo, nel 1905, vadano in corteo al palazzo dello zar perché lo zar intervenga e faccia finire le ingiustizie. E lo zar pensa bene di farli mitragliare e allora gli operai cambiano idea. Prima erano subalterni, pensavano che lo zar fosse un «piccolo padre », il padre della chiesa ortodossa, che la soluzione delle ingiustizie dipendesse da lui.
Gramsci allora dice: c'è nelle classi subalterne una filosofia reale che è quella della loro azione, del loro comportamento. C'è una filosofia dichiarata che vive nella coscienza, che è in contraddizione con la filosofia reale. Bisogna sogna congiungere questi due elementi attraverso un processo di educazione critica per cui la filosofia reale di ciascuno, la sua politica, diventi anche la filosofia cosciente, la filosofia dichiarata. Per giungere a quel processo di unificazione di teoria e pratica, di costruzione di una cultura nuova, rivoluzionaria, di riforma intellettuale e morale. Le due cose sono strettamente congiunte per Gramsci.
Gramsci riprende questo concetto di riforma intellettuale e morale ancora una volta da Sorel, ma cambiandone completamente i contenuti. Riprende anche un tema tipico della cultura italiana del suo tempo che si ritrova nella destra, in Alfredo Oriani, per esempio, come nella sinistra, in Gobetti: l'idea cioè che all'Italia sia mancato qualcosa di simile alla riforma protestante, cioè una riforma della concezione del mondo e morale che arrivasse in profondità, nel popolo. In Italia c'è stata invece la controriforma, il distacco della Chiesa dal popolo, la sovrapposizione del dogma, l'irrigidimento gerarchico della Chiesa, la limitazione della libertà scientifica, di espressione artistica, c'è stata l'Inquisizione, l'ipocrisia, che ha viziato profondamente il carattere degli italiani, ne ha fatto dei cortigiani, ne ha fatto dei servi.
È mancata una riforma protestante. Gramsci dice che non solo è mancata una riforma protestante, ma è mancato qualche cosa ben di più della riforma protestante; qualche cosa di analogo all'illuminismo francese del settecento che preparò la rivoluzione francese, qualche cosa di simile alla rivoluzione democratico-borghese.
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La nozione di intellettuale
Gramsci aggiunge: in Italia i laici hanno fallito il loro compito che era di diffondere una nuova concezione culturale, un nuovo umanesimo :fino agli strati più profondi e più incolti del popolo. Come era necessario fare. Gli intellettuali democratici laici non l'hanno fatto perché si sono mantenuti come una casta separata, con un suo linguaggio separato, con una sua vita culturale separata. È mancato l'elemento essenziale della costruzione democratica e di una riforma intellettuale e morale nel nostro Paese, cosa che solo la classe operaia può fare, non la Chiesa cattolica, perché la Chiesa cattolica tiene separati gli intellettuali e i semplici, parla due linguaggi, uno per gli intellettuali ed un altro per i semplici, ma sta bene attenta che gli intellettuali non rompano il rapporto con i semplici al tempo stesso.
Gli idealisti, Benedetto Croce, Gentile, hanno fatto una riforma intellettuale per i grandi intellettuali, non per il popolo. Al popolo lasciano la religione che è la filosofia di quelli che non hanno filosofia cosciente.
Questo processo di unificazione tra intellettuali e semplici lo può fare la classe operaia guidata dal marxismo, grazie al marxismo, e creando nuovi quadri intellettuali, organici alla classe operaia, che sono i suoi quadri, i suoi dirigenti.
Qui muta completamente la nozione di intellettuale, l'intellettuale non è chi sa il latino o il greco, lo scrittore o cose del genere, l'intellettuale è il dirigente della società, il quadro sociale. Un caporale dell'esercito anche se analfabeta è un intellettuale, secondo Gramsci, perché dirige i soldati, un intellettuale è il capo-lega bracciante, anche se analfabeta, come tanti lo erano al tempo di Gramsci, perché organizza i braccianti, perché li guida, perché li educa. Questi sono gli intellettuali secondo Gramsci, il tessuto connettivo del blocco storico, gli elaboratori della egemonia della classe dominante la quale senza gli intellettuali non potrebbe essere egemone, dirigente: sarebbe solo dominante e oppressiva e le mancherebbe la base di massa, il consenso necessario per esercitare il suo dominio.
La cosa interessante è che Gramsci elabora queste idee attraverso un'analisi del processo storico italiano. C'è sempre concretezza nel suo pensiero. Ad esempio analizza come si sia formata in Italia l'egemonia dei liberali, come i liberali con un'azione molecolare ed empirica abbiano assimilato, isterilito le forze repubblicane, mazziniane, ecc., e disgregato il blocco opposto con un'opera, egli dice, di direzione intellettuale e morale. Gramsci sottolinea l'importanza di questo momento ideale e morale nella direzione dei liberali moderati.
Ed è qui che egli introduce il concetto di supremazia. Un gruppo sociale, una classe ha una supremazia in quanto ha la direzione e il dominio, la classe che è all'opposizione non ha ancora il dominio, ma deve conquistare la direzione, cioè l'egemonia, se vuole conquistare anche il dominio e una volta conquistato il dominio deve mantenere la direzione.
Come si presenta, quindi, per Gramsci la rivoluzione? La rivoluzione si presenta in realtà come una c risi di egemonia, cioè come una crisi di capacità dirigente da parte di coloro che hanno il dominio perché non riescono più a risolvere i problemi del Paese, non riescono più a tenerlo insieme con l'ideologia. Pensate ai processi che oggi si sono compiuti. Lo spostamento a sinistra degli studenti, pur caotico ed anche pericoloso che sia, contiene molti elementi di individualismo borghese esasperato - e quindi resta nel quadro dell' egemonia culturale borghese molto più di quanto non si pensi -, ma è anche il segno della disgregazione di questa egemonia culturale, una disgregazione che non riesce ad uscire da se stessa, che si rigira e si tormenta intorno a se stessa. Ma che è il segno di questa crisi. Basta vedere come le idee del marxismo si sono diffuse e si diffondono.
Qui c'è un allargamento della nozione di rivoluzione.
Marx aveva detto: la rivoluzione si ha quando le forze produttive entrano in una contraddizione incontenibile con i rapporti di produzione. (Gramsci parte di qui, ma vede la totalità sociale). Lenin aveva detto: la rivoluzione si ha quando la classe dominante non riesce più a dominare, quando le classi oppresse non accettano più di essere dirette e oppresse alla vecchia maniera e abbiamo una grande ribellione di massa. Gramsci, in modo più preciso, la definisce la crisi di egemonia, come uno scollarsi tra dominio e direzione, come il venir meno della direzione, quindi come una crisi che investe tutta la totalità sociale, in cui il momento culturale, morale, ideale ha un'enorme importanza.
Noi stiamo vivendo un momento di questo genere. Si è rotto il vecchio blocco di potere che aveva come asse la Democrazia cristiana, è venuta meno la capacità dirigente del vecchio blocco di potere (che è sempre stata molto limitata del resto), non si è ancora costruito un nuovo blocco di potere che possa portare ad un nuovo blocco storico. Blocco di potere è un'espressione che Gramsci non usa, la usa Togliatti, intendendo la fase di preparazione di un nuovo blocco storico e di una nuova società, di una nuova base sociale, di un nuovo tipo di Stato, di un nuovo rapporto tra base sociale e Stato.
Il momento di questa crisi di egemonia è dunque un momento anche di crisi ideale, di crisi culturale, di crisi morale. Gramsci dà grande valore al momento del soggetto, della coscienza, delle idee nel processo rivoluzionario. L'egemonia è iniziativa, è intervento sul processo e guida del proletariato, come già Lenin aveva detto nel 1905, quando rimproverava ai menscevichi di alterare il materialismo storico, di deformarlo perché non capivano la funzione dei partiti i quali, avendo individuato e compreso la realtà oggettiva, intervengono nel processo per condur1o in una determinata direzione. Lenin diceva: i menscevichi non hanno capito la prima tesi su Feuerbach, la funzione del rapporto soggetto-oggetto. Non è a caso che Gramsci chiama il marxismo «filosofia della prassi», usando una terminologia che fu usata da Gentile. Però Gramsci l'usa in tutt'altro senso; non la prassi dell'intelletto, come intendeva Gentile, ma la prassi trasformatrice, rivoluzionaria, unità di soggetto-oggetto, intervento del soggetto sulla realtà.
Attenzione però. Gramsci parla sempre di egemonia della classe operaia, non del partito, perché Gramsci non ha mai rinnegato l'esperienza dei consigli di fabbrica e ritiene che la classe operaia debba darsi una molteplicità di organizzazioni per conquistare il potere. Mai Gramsci ha pensato che la classe operaia conquisti il potere solo col partito, essa deve avere altri collegamenti, altre organizzazioni, deve essere presente nelle istituzioni statali oltre che di massa.
Inoltre Gramsci non mortifica mai il movimento, dice che l'elemento cosciente deve saper depurare il movimento spontaneo da quanto c'è in esso di contraddittorio, di arretrato, di reazionario anche, deve depurarlo e portarlo al livello della scienza moderna, cioè del marxismo. Ma non si deve né disprezzare, né trascurare la spontaneità, che bisogna però aiutare. Bisogna partire da quello che egli chiama il senso comune e vedere quanto c'è di sano in questo senso comune, nelle sue contraddizioni, nelle sue superstizioni, nelle sue posizioni arretrate.
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Il partito, moderno «Principe»

È compito del partito cogliere questo elemento sano, tirarlo fuori dal guscio (il nocciolo razionale, direbbe Marx) e portarlo al livello di una coscienza scientifica della realtà. Il partito è il momento decisivo della formazione dell'egemonia della classe operaia; non è possibile egemonia della classe operaia senza il partito, perché esso è l'unificatore dell'azione e del pensiero, della filosofia istintiva, non consapevole, presente nell'azione, e della filosofia consapevole che bisogna fare acquisire, dando la prospettiva, dando la visione dell'insieme.
In questo senso egli chiama il partito il moderno principe, riferendosi al Machiavelli e valorizzando enormemente Machiavelli. Un principe moderno non più come individuo, perché nella società moderna questo non è più possibile, ma come intelligenza e volontà collettiva, personificazione di una grande volontà collettiva: il partito è il moderno principe.
Del partito Gramsci mette molto in rilievo l'elemento della coscienza e della direzione. In ogni partito, secondo Gramsci, ci sono tre strati: uno di dirigenti, molto ristretto, a livello nazionale, uno di base che aderisce soprattutto per entusiasmo o per fede, e uno intermedio che collega questi due elementi. Senza questi tre elementi il partito non c'è, però Gramsci dice: attenzione, con l'elemento di base voi non formerete nulla, non formerete mai il partito; occorre l'elemento dirigente. Ovvero, un esercito non forma il capitano, ma alcuni capitani formano l'esercito. Per Gramsci la formazione del partito va dall'alto in basso, come per Lenin, cioè parte dal congresso, parte dal punto più alto della consapevolezza, il che non è una visione burocratica, ma è una visione di intervento della coscienza, della direzione sul movimento spontaneo. Educazione del movimento spontaneo, perché tutta la concezione pedagogica di Gramsci, dell'educazione come sforzo, come disciplina, dello studio anche come fatica, ci dice chiaramente come egli intenda la direzione.
Il partito è il grande riformatore intellettuale e morale, quello che supera la vecchia concezione e ne costruisce una nuova. C'è in Gramsci il superamento del meccanicismo materialistico tipico di Bordiga, di tutto il movimento socialista da cui lui veniva. Il suo ragionamento sul blocco storico è un ragionamento sulla totalità sociale, su gli elementi sociali, politici e culturali: l'egemonia costruisce un determinato blocco storico e il blocco storico si tiene insieme grazie all'egemonia, grazie alla direzione. L'egemonia è il momento di saldatura.
Ecco quindi un'egemonia che rompe il precedente blocco storico. Rompe il vecchio tipo di totalità sociale ormai in crisi e costruisce un nuovo tipo di totalità sociale, anzi, direi, sociale, politica e culturale.
Dicevo che Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia, non di più. A mio parere di più non poteva fare negli anni trenta: ha smesso di scrivere i Quaderni nel '35, quando la sua malattia si era tanto aggravata da togliergli la forza fisica di scrivere.
In questa elaborazione noi siamo andati avanti, cercando di dare una risposta a che cosa è la strategia rivoluzionaria in paesi capitalisticamente sviluppati. L'abbiamo cominciato a fare durante la guerra di Liberazione, parlando di democrazia progressiva, di democrazia di tipo nuovo, come diceva Togliatti.
Secondo Togliatti non ci si poteva più rifare al modello russo della rivoluzione perché la rivoluzione ha modi e scadenze diverse a seconda dei paesi, non c'è un unico modello. La ricerca del nuovo modello avrebbe potuto avvenire attraverso l'azione dei CLN (Comitati di Liberazione Nazionale) che Togliatti valorizza quando dice: avremmo preso una strada più rapida e più sicura se avessimo potuto mantenere in piedi i CLN. Lo afferma al quinto congresso del PCI.
Lavorando su questa indicazione di Gramsci, e non solo, lavorando sulla realtà oggettiva, riprendendo l'esperienza della guerra di liberazione, siamo venuti costruendo quella strategia che è, che chiamiamo la via italiana al socialismo. Questa strategia non può grettamente rinchiudersi in una sola nazione, deve per forza avere delle convergenze con la strategia di altri partiti, del movimento operaio in altri paesi capitalistici. Quello che gli altri chiamano euro-comunismo è fatto di accordi tra noi e il partito comunista francese, il partito spagnolo ed altri partiti.
Abbiamo naturalmente esteso il concetto di egemonia.Per noi l'egemonia, la capacità dirigente della classe operaia è capacità di realizzare tutte quelle alleanze che sono indispensabili affinché la classe operaia abbia accesso al potere in una società di capitalismo monopolistico e di capitalismo monopolistico statale. Perciò la classe operaia deve andare al di là dell'alleanza operai-contadini poveri (tra l'altro i contadini oggi sono solo il 15% della popolazione, comprendendo anche quelli ricchi), ma deve arrivare ai ceti medi delle città e delle campagne, deve arrivare al settore della piccola e media industria. Si tratta di un sistema di alleanze assai articolate e, badate bene, contraddittorio. perché, tra gli operai della piccola e media industria e il proprietario della piccola e media industria c'è indubbiamente una contraddizione, una contraddizione che noi dobbiamo indirizzare verso la contraddizione principale, come direbbe Mao-Tse-Tung, ovvero contro il capitalismo monopolistico.
Ora alleanze sociali cosi ampie non possono che esprimersi a livello politico, cioè in partiti politici. Questa è una cosa che Gramsci non aveva presente, per lui un partito solo faceva la rivoluzione: il Partito comunista. Al Partito socialista bisognava tagliare le radici. Gramsci non arrivava a questa visione cosi ampia delle alleanze, non ci poteva arrivare.
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Quale pluralismo

Per noi invece questa visione si esprime in una pluralità di partiti, e d'altra parte le democrazie popolari ci danno un esempio di pluralità di partiti. In Polonia, nella RDT, vi sono partiti che hanno una scarsa autonomia forse, ma esistono realmente.
Come mandare oltre questa esperienza? Sviluppando un sistema di alleanze, anche a livello politico, che è fatto di contrasto, che è fatto di confronto, che è fatto di lotta. Ad 'esempio, la nostra alleanza col partito socialista è anche lotta, è anche discussione non priva di asprezze, naturalmente. Questo sistema lo possiamo chiamare pluralismo, pluralismo sociale e politico, assumendo un termine che non è nostro, che è estraneo al marxismo, ma che viene dalla sociologia cattolica e dalla sociologia americana.
La sociologia cattolica intende per pluralismo una pluralità di istituzioni che si equilibrano l'uno con l'altra: la famiglia, la Chiesa, lo Stato, la scuola e cosi via. Il suo pluralismo è fondato sull'interclassismo, cioè sulla collaborazione tra classe operaia e capitalisti e sul superamento della contraddizione tra l'una e gli altri.
La sociologia americana dice: il pluralismo è una pluralità di istituti che impedisce a una sola forza di avere l'egemonia, il dominio, la prevalenza.
Per noi il pluralismo è invece un'ampiezza di alleanze sociali e politiche tale da isolare il grande capitale monopolistico, la sua logica e la logica da cui oggi è dominato il capitalismo di Stato in questa società, 1ìno a sconfiggerlo. Cosi si realizza il vero pluralismo, perché noi diciamo che fino a quando esiste il grande capitale il pluralismo reale nella società non ci sarà mai, sarà sempre apparente.
La nostra Costituzione è pluralistica, ma il pluralismo reale della nostra vita è apparente. Invece vi è il monopolio dei mezzi di informazione, dell'economia e cosi via.
Ad esempio il pluralismo della società americana nasconde la realtà di una società in cui il potere economico e politico è al massimo grado concentrato, e la partecipazione democratica dei cittadini è puramente formale. In realtà, devono votare per due partiti che si confondo l'un con l'altro, che si mescolano, non si sa bene che differenza ci sia tra democratici e repubblicani. A volte i democratici su certe cose sono d'accordo con i repubblicani, su altre sono d'accordo solo con certi repubblicani. Si può dire che negli Usa ci sia un pieno trasformismo. Un reale pluralismo si ha quanto più si batte il capitalismo, quanto più si avviano forme di autogoverno della società, di partecipazione. Il nostro pluralismo è anche statale, di istituzioni statali e sociali. L'autonomia del sindacato, poi, è un momento decisivo. Quando diciamo pluralismo delle istituzioni statali intendiamo parlamento, regioni, comuni autonomi, comprensori, consigli di quartiere o di circoscrizione, sino ad arrivare ai consigli di fabbrica che non sono un istituto statale, ma sono sanciti dai contratti e riconosciuti dallo Statuto dei lavoratori. Perciò pluralità di istituzioni sociali e politiche. Inoltre l'autonomia dei sindacati significa che il pluralismo è già dentro la classe operaia, che esso non caratterizza semplicemente il rapporto della classe operaia con forze sociali non proletarie e il rapporto del Partito comunista con partiti non proletari, ma che vive nella classe operaia. Infatti nella classe operaia ci sono i comunisti, ci sono i socialisti, ci sono anche i democristiani, c'è anche il sindacato autonomo, c'è il consiglio di fabbrica, che ha anche esso una sua dialettica nei rapporti col sindacato e coi partiti.
Il pluralismo vive nella classe operaia e per questo può attuarsi nella società. Egemonia nel pluralismo, dunque, e non: egemonia e pluralismo, come diceva bene Ingrao, e fra i due termini c'è un rapporto dialettico. Più egemonia c'è, e più c'è pluralismo, non come confusione di forze, ma come forma di lotta, la più ampia, la più acuta, la più caratterizzata dal punto di vista di classe oggi. D'altra parte, senza pluralismo non si ha egemonia, ma isolamento della classe operaia e suo ritorno a posizioni subalterne. Di tale nesso dialettica tra i due termini i nostri avversari ovviamente non capiscono nulla, e dicono: se parlate di egemonia non potete parlare di pluralismo, e viceversa.
Dal punto di vista della sociologia cattolica e americana hanno ragione, ma noi usiamo questo termine con tutt'altro significato. Legato a questo si pone anche il tema della dittatura del proletariato. Come ci collochiamo?
Quando i socialdemocratici escludevano la dittatura del proletariato, e anche Kautsky la escluse dopo la rivoluzione d'Ottobre, in realtà dilatavano una concezione della democrazia tale per cui nell'esercizio della democrazia si arriva al socialismo, ma smarrivano la questione dell'autonomia e dell'egemonia della classe operaia, concepivano il processo come puramente elettorale e non come un'egemonia che rompe il blocco avversario, che aggrega e costruisce un nuovo fronte, quindi un'egemonia fondata sull'iniziativa e sulla lotta.
Noi abbiamo parlato di dittatura del proletariato nella Dichiarazione programmatica del nostro VIII congresso, nel '56, per sottolineare come cambino le forme della dittatura del proletariato a seconda dei paesi. Abbiamo mantenuto il concetto, ma abbiamo sottolineato questo elemento: cambiano le forme.
Abbiamo ripreso questo concetto al decimo congresso, nel '62, per sottolineare che della dittatura del proletariato emerge sempre di più l'elemento della direzione e del consenso. In seguito non abbiamo più ripreso questa nozione, l'abbiamo lasciata cadere.
Mi chiedo se sia compito dei documenti del partito affrontare questa questione tipicamente teorica o se invece non si debba sviluppare la discussione e il dibattito a livello teorico su questo problema.
Ad ogni modo la mia opinione, che altri possono naturalmente confutare, è che la nozione della dittatura del proletariato è nella situazione italiana dialetticamente superata, il che può voler dire assunta ad un livello superiore.
Cosa significa? Significa che la classe operaia deve, at· traverso tutto un processo (oggi un accordo programmatico, poi un governo unitario), costruire un nuovo blocco di potere in cui essa sappia avere una funzione dirigente.
D'altra parte, un nuovo blocco di potere o si costituisce sotto la direzione della classe operaia o non si costituisce.
Blocco di potere certamente contraddittorio dal punto di vista sociale e politico che dovrà saper risolvere le sue stesse contraddizioni in modo progressivo se ne sarà capace. L'egemonia si conquista, la direzione si conquista ogni giorno.
Ecco allora che è il blocco di potere ad esercitare la coercizione sulla società attraverso la legalità dello Stato. L'elemento della coercizione non può essere eliminato, non si costruisce il socialismo senza coercizione, anche dura, ma essa viene esercitata dal blocco del potere, non direttamente dalla classe operaia.
Del resto anche nella concezione di Lenin e nella realtà, la classe operaia ha esercitato la coercizione contro i nemici di classe e non verso i contadini poveri, non verso gli intellettuali. Lenin diceva: gli specialisti li dobbiamo conquistare, qui la coercizione non serve, li dobbiamo convincere a lavorare per noi, bisogna pagarli molto, ecc. ecc. Anche allora nel blocco di potere c'è un elemento di consenso e un elemento di costrizione.
Se si allarga il blocco di potere, come da noi deve allargarsi, si allarga anche la sfera del consenso, ma di un consenso molto travagliato, ottenuto con le lotte, tra contrasti, anche, tutt'altro che scontato. L'altro elemento è che non solo la classe operaia non esercita direttamente la coercizione, ma non impone nemmeno il suo modello di Stato a tutta la società. Nella rivoluzione russa è avvenuto questo: i Soviet, che sono un istituto tipicamente operaio, nato dal movimento operaio russo, si sono estesi ai contadini e ai soldati, e poi son diventati l'istituto statale. La classe operaia ha creato cioè la società a sua immagine e somiglianza, per riprendere una frase biblica, cioè ha impresso la sua visione statale su tutta la società.
Noi questo non lo facciamo e non lo proponiamo, noi assumiamo il parlamento dalla storia della democrazia ateniese, noi assumiamo i comuni, le stesse regioni derivano da una tradizione non nostra, e introduciamo, come elementi nostri invece, i consigli di fabbrica, il decentramento nei quartieri e cosi via, i quali sono gli elementi di una democrazia diretta che supera il parlamentarismo.
In questo senso allora mi pare che non si possa parlare di dittatura del proletariato, perché della dittatura del proletariato cade un elemento: la coercizione esercitata direttamente dalla classe operaia nelle sue forme e nei suoi modi. La coercizione resta ma è di tutto il blocco di potere che esercita anche la direzione sulla società, non sola la coercizione.
Inoltre all'interno del blocco di potere la classe operaia deve sapere esercitare la sua funzione dirigente per costruire lo stesso blocco di potere, per tenerlo insieme, per trasformarlo in senso progressivo. Mano a mano che si va avanti nel senso del socialismo, anche il blocco di potere si trasforma e diventa più avanzato, più omogeneo dal punto di vista di classe e cosi via.
Allora si mantiene della dittatura del proletariato questo elemento essenziale: l'autonomia e l'egemonia o direzione della classe operaia, superando l'altro elemento, lo elemento della coercizione inquadrandolo in un ambito più ampio.
Questa è soltanto la mia opinione in proposito. 
Luciano Gruppi


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