Tra le righe della pioggia...
~ 2° parte ~
 
La mattina seguente ci equipaggiammo a dovere e partimmo con gli zaini in spalla verso la villa abbandonata. Inforcammo le biciclette verso le nove e pedalammo veloci. Fu una settimana indimenticabile. Il tempo si era volto al bello stabile e non diede cenni di cedimento. L’aria era fresca e la pioggia aveva lavato il cielo.
Negli zaini avevamo preso di tutto: roba da magiare, bottigliette d’acqua, carta, penna ecc. Ma non avevamo fatto i conti con il fango e l’erba bagnata che ci attendeva all’entrata. Quando mettemmo piede nell’atrio eravamo un misto di melma e ciuffi d’erba. Ma eravamo stati previdenti questa volta e i pantaloni di ricambio erano pronti per l’uso. Mettemmo ad asciugare gli altri su un davanzale della cucina e cercammo un posto dove sistemarci. La stanza del pianoforte al primo piano sembrava la migliore. Era quella più pulita e vi trovammo tanto di tavolino e sedie. Certo, togliere le ragnatele e rendere il tutto utilizzabile fu un’impresa che impiegò qualche ora, ma ne valse la pena. Alla fine delle nostre fatiche, un angolino di quella immensa villa secentesca era pulito.
L’idea di andare là a leggere il diario fu di Luc. Disse che sarebbe stato più divertente e non ci sarebbero stati scocciatori intorno. I nostri genitori sarebbero stati fuori tutto il giorno, quindi tanto valeva approfittarne per passare la giornata “sul teatro della scena”. Io non ebbi niente da obiettare, tanto più che la cosa si faceva intrigante. Era ovvio ormai che, io e lui, saremmo stati i detentori del segreto fino alla fine. Poi sarebbero arrivati gli adulti con i loro esperti, i loro scienziati, i loro musei e i loro soldi. Ma il piacere di vivere quel mistero sarebbe stato tutto nostro. Solo nostro. Nessuno dei due ha mai pensato alla fama, alla notorietà che ne sarebbe potuta derivare. Non in quei giorni almeno. Eravamo solo immersi in un presente che, all’improvviso, era diventato come un film: come nei Goonies, dove un gruppo di amici scopriva un tesoro sepolto dai pirati, vicino alle loro case. Per noi era uguale. Il diario era la nostra Arca Perduta.

23 luglio 1789
Rileggendo le pagine di qualche giorno fa mi sono reso conto della loro confusione, della totale mancanza di logica. Vorrei allora, cercare di essere più chiaro, di mettere ordine nei miei ricordi e intraprendere così un viaggio che, spero, mi porterà a rischiarare la tenebra della mia vita.
Mettere in pratica quell’idea, quel tarlo che mi corrodeva la mente ebbe le sue complicazioni. Decisi, innanzitutto di allontanarti il prima possibile da tua madre, dalle tue sorelle. Avrebbero potuto avere un’influenza negativa su di te. Ciò mi ossessionava. Dovevi vestire come un maschio, avere i giocattoli che ogni bambino possiede, ma soprattutto dovevi pensare come un uomo. I primi anni furono facili. Crescevi a vista d’occhio e già si profilava in te una bellezza che era tutt’altro che mascolina. Di questo fui felice. Sì, perché nonostante tutto, una parte di me si ostinava a non far finta di niente, era consapevole che tu eri una bambina. Una bellissima bambina dai capelli dorati e dagli occhi azzurri come il mare.
Ma c’erano altri problemi da affrontare. Tua madre non voleva accettare il fatto compiuto. Con la sua dolcezza, la sua tenerezza sapeva cogliere il mio lato debole. Non sapevo rifiutarle niente e ogni giorno di più mi ritenevo fortunato ad averla accanto. Il nostro era un felice matrimonio dove le esigenze di casato si sposavano con quelle del cuore. Lei imparò ad usare la sua persuasione come un arma. Indirettamente, con frasi equivoche e, a volte, con occhiate esplicite, non mancava di farmi notare la mia pazzia, la sua disapprovazione e la mia testardaggine:
“Perché non vuoi capire François che questa è un’idea assurda. Non riuscirai a fare di lei un uomo. Non è in tuo potere.” Io mi irritavo davanti a questa affermazione. Secondo lei, se Dio aveva voluto che Oscar nascesse femmina è perché doveva crescere come una donna. Non si poteva cambiare la volontà di Dio. Non era in mio potere. E io questo non potevo sopportalo. Dio non era stato clemente con me, ormai sapevo che non avrei più avuto un’altra occasione. Niente maschi. Solo femmine. Ma nella casa di un generale c’è bisogno di un maschio! Era questo che ripetevo di continuo, così come adesso mi ripeto di continuo che non era in mio potere. Non era in mio potere. E mia moglie ha pietà di me. La sua pietà, ora, è la mia punizione. Io che non ho mai sopportato di essere compatito e che ti ho insegnato a darla la pietà, Oscar, ma mai a riceverla, io adesso chino il capo. Adesso capisco che tua madre aveva ragione.

“Poveraccio…” disse Luc.
“Che fai, lo compatisci?” risposi io ironica. Lui rise divertito e si rimise al lavoro. Fu allora che capii:
“Il quadro” dissi. Dovevo avere lo sguardo un po’ spiritato perché Luc mi guardava interrogativo:
“Il quadro cosa?”
“Il quadro nel salone, quello di Marte. E’ lei. E’ Oscar.” Ci precipitammo giù a rotta di collo. Davanti al quadro gli sussurrai:
“Capelli dorati e occhi azzurri come il mare. Coincide.” Lui non rispose. Adesso era Luc ad essere rapito dalla bellezza del dipinto:
“La prima cosa che hai detto è che, secondo te, questo Marte era gay. E anch’io mi sono stupita per questa figura androgina. Marte è un dio maschile, lo è sempre stato. Neanche i pittori dell’Arcadia avrebbero immaginato tanta ambiguità. Si può spiegare solo col fatto che il modello fosse a sua volta ambiguo. Proprio come una donna vestita da uomo. Proprio come Oscar.”
Luc non mi rispose subito. Adesso ammirava la tela con occhi ben diversi. Quella che seguì fu una delle sue battute più classiche:
“Ah bè, allora è una gran bella figa.”
L’atmosfera fu smorzata in un battibaleno. Mi ricordo di averlo massacrato a colpi di destro e sinistro, che lui incassava senza rispondere, ma ridendo come un matto. In realtà non gli stavo facendo male.
Tornammo su, al nostro tavolo per continuare il lavoro:

Il tempo passava e tu iniziasti ben presto a camminare e a parlare. Il precettore era contento perché diceva che imparavi in fretta. Diventavi ogni giorno più grande e il tuo temperamento deciso e focoso già si delineava. Ti misi su un cavallo e tu fosti felice.Ti misi una spada in mano e tu sorridesti. Ed io ero più felice di te. Allora, la mia illusione di vederti in uniforme divenne una certezza.
L’arrivo di Andrè fu una benedizione. Quando la nostra anziana governante mi raccontò la disgrazia che era capitata al suo giovane figlio, non potei che rattristarmi. Quando le offrii di portare il bambino a Palazzo Jarjayes non avevo altre mire se non quella di aiutare quel povero orfano. La fortuna fece il resto. Tu avevi bisogno di un compagno, di un amico. Qualcuno che ti stesse vicino a parte me.
Andrè era perfetto. Era un maschio. Aveva la tua età. Il suo carattere tranquillo ma deciso andava perfettamente d’accordo con la tua irruenza. Vi trovaste subito.
Rivedere quegli anni alla luce dei recenti avvenimenti mi fanno intendere molte cose. Adesso comprendo lo sguardo triste e rassegnato di tua madre che ti osservava da lontano. Io mi dicevo: che ci sarà mai da rattristarsi? I piccoli stanno bene insieme. Troppo bene, e tua madre, con la sensibilità tipica del suo sesso,  lo vide prima di me.
Ma in quei giorni tutto scorreva liscio. Andrè era un po’ timido, ma ben educato e aveva quella capacità di comprenderti che io non ebbi mai. Sapeva persuaderti: sapeva convincerti con il suo silenzio: forse ti diceva le parole giuste al momento giusto, non so. Resta il fatto che tu lo ascoltavi. La sua tattica era chiara. Iniziava col darti ragione, così tu non ti arrabbiavi e poi finiva per farti credere che avevi torto. Smontava le tue difese pezzo dopo pezzo e con una sistematicità impressionante. Il tuo alzare la voce, il tuo arrabbiarti con lui non lo confondevano. Se aveva un progetto, lo portava a termine. Era determinato. Proprio come te.
Ricordo che le prime settimane litigavate spesso, ma poi tu ti calmasti. Con lui ridevi, scherzavi, parlavi tranquillamente, senza indossare maschere.
Quelle che indossavi con me invece. Crescesti e ti allontanasti da me. Ora lo so per certo. Le ore di estenuante allenamento ci obbligavano a trascorrere molto tempo insieme. Io e te, una spada o una pistola. E alla sera, se parlavano, era sempre di tattica, di strategia militare, di reggimenti e uniformi. Ma ogni volta tu eri un passo più distante. Più trascorrevano i giorni, più tu ti allontanavi. Il tuo sguardo divenne sempre più impenetrabile e i tuoi silenzi duri e pesanti come macigni. Non potevo rimproverarti nulla: i tuoi risultati erano ottimi, in tutti i campi. Eri la mia gioia, quella del precettore e del maestro di musica. Solo mi domandavo perché con Andrè non fossi così.
Se c’è una cosa che mi rimprovero ora più che mai è di non averti toccata. Mai un abbraccio, un bacio, un gesto di affetto. Anche questo ti ha portata lontana, lo so. Avevi bisogno di calore umano ed era la sola cosa che non potevo darti. Non potevo Oscar, cerca di capire. Dovevi diventare un soldato. Avresti dovuto affrontare situazioni nella quale il sangue freddo e il coraggio sono doti fondamentali. Comandare uomini e guidarli nelle cariche sono cose che non ammettono debolezze. Questo dovevo insegnarti. Era questo il mio compito. Perché se era difficile per un uomo, lo sarebbe stato doppiamente per te. Ne ero consapevole sai, sempre per via di quella parte di me che si ostinava a vederti come una donna. E sapevo anche che una donna è più sensibile ed emotiva, cosa che non ti avrebbe giovato affatto sul campo di battaglia. Ti stavo facendo male, per il tuo bene.
Stolto. Stolto e stupido che fui. E tu mi facesti capire la mia dabbenaggine e la mia idiozia con la tua prima ribellione. Capii così, troppo tardi, quanto tu ti fossi allontanata da me, quanto ti avessi già perduta. Quello che rimase tra di noi, fino alla fine, fu il tuo doveroso affetto filiale: niente di più.

Io e Luc ci sedemmo sul davanzale della finestra. Davanti a noi, il giardino era un groviglio di fiori ed erba. Al limitare del bosco, un roseto selvatico si era fatto strada tra i ciuffi alti e sgraziati. Rose bianche puntellavano un confine immaginario, oltre il quale cominciavano gli alberi:
“Non doveva essere molto diverso nel 1700” notai.
“No, infatti. Anche se la campagna attorno a Versailles è parecchio cambiata, da questo lato sembra rimasto tutto uguale.”
“E’ che non hanno potuto costruire. Se guardi bene quella laggiù deve essere la Reggia. Quindi alla fine di questa proprietà inizia il Parco, e poi i Giardini. Questo significa che nessuno ha potuto tirare su case e centri commerciali. Del resto, guardati intorno. Ci sono solo campi coltivati.” Luc assentì. Anche a lui piaceva la campagna. Facevamo chilometri insieme, in mezzo al nulla della pianura circostante Parigi. Le biciclette ci portavano via dai rumori della città, dal traffico del martedì mattina, dalla quotidianità delle nostre vite. Potevamo ancora sognare di scoprire il mondo come quando giocavamo da piccoli. E dopo tanti anni di fantastiche peregrinazioni, finalmente avevamo trovato un tesoro.
Eravamo assai turbati dalla lettura e più andavamo avanti più il quadro si delineava ai nostri occhi:
“Dunque, riassumiamo” mi disse Luc addentando il suo panino: “Un certo Generale…come si chiamava?…”
“Jarjayes”
“Sì, Jarjayes…vissuto nella seconda metà del ‘700, ha la bellezza di cinque figlie femmine. Alla nascita della sesta e ultima pargoletta, il povero Cristo decide di allevarla come un maschio, cosicché possa diventare erede della casata dei Jarjayes. La bambina cresce e nella famiglia si va ad aggiungere un nuovo elemento, un certo Andrè che diventa il suo compagno d’arme e di giochi (buono ‘sto panino). Ma chi era questo Generale Jarjayes, poi? I libri di storia non ne parlano. Tu ti ricordi un tizio che si chiamava così durante la Rivoluzione?”
Io negai:
“No, ma che vuoi: nei libri di storia compaiono sempre gli stessi personaggi: Maria Antonietta, Luigi XVI, Robespierre, Danton, Marat. Gli altri non esistono.”
Luc era d’accordo con me:
“E’ vero. Ma se andiamo in biblioteca sono convinto che troveremo qualcosa di più. Dopotutto era un ufficiale di Luigi XV e XVI…e molto vicino alla corona pare.”
Anch’io addentai il mio panino mentre rispondevo:
“Già. Potremmo fare un salto domattina e vedere cosa c’è da scoprire.” La decisione fu presa. Restammo in silenzio ad ascoltare gli uccellini canticchiare, con le mandibole piene. C’era una pace quasi innaturale. Sembrava davvero un paradiso terrestre, un eden tutto nostro:

4 settembre 1789
E’ difficile fare ordine nella propria memoria. Tanto quanto fare ordine in questi giorni a Parigi. Dalla presa della Bastiglia le cose vanno di male in peggio. Il popolo non riconosce più l’autorità del sovrano e tutti i reggimenti del mondo non serviranno a sedare i disordini. Io faccio il mio dovere ogni giorno e resterò al fianco del nostro re fino all’ultimo. Anche se non ci sono molte speranze, io non sono un traditore. Non volterò loro le spalle e non scapperò. I Jarjayes non sono traditori. Non erano traditori.
Sei stata tu la prima a ribellarti Oscar e con il tuo gesto hai infangato il nostro nome. Perché Oscar? Perché mi hai dato questo dolore?
Avrei dovuto capirlo subito il mio errore, ma non ne fui capace. Eppure le tue intenzioni erano chiare. Non dimenticherò mai il tuo volto mentre dicevi: “E’ che io non ho nessuna intenzione di proteggere una donna, padre.” Avrei dovuto capire il vero significato di quelle parole: “Non ho intenzione di prendere un uniforme.” Era questo che intendevi. Avevi 14 anni. Eri poco più di una bambina e stavi per buttare all’aria tutto il mio lavoro, i miei sogni, le mie illusioni, nonché la mia vita. Non potevo permettertelo. La rabbia e la paura s’impossessarono di me. Ti scaraventai giù per le scale, ti presi a schiaffi nelle scuderie dopo il tuo duello con il giovane conte di Girodelle, che avevi sfidato impunemente, perché se non avessi ubbidito con le buone lo avresti fatto con le cattive. Tu non avevi il diritto di decidere della mia vita.
E io non ne avevo di farlo della tua.
Inconsciamente capivo ciò che stava succedendo. Ormai non eri più convinta di essere un maschio, eri in un età in cui queste differenze ormai si sanno. Un’età difficile nella quale si scopre che il mondo può essere molto più cattivo di quanto non si creda. Probabilmente era la prima volta che ti sentivi veramente sola. Non potevi appoggiarti ad Andrè, lui era un uomo e non avrebbe capito certi tuoi sentimenti di donna. Non potevi andare da tua madre, lei non avrebbe capito certi tuoi pensieri di uomo. Forse, per la prima volta ti sei chiesta chi eri e hai realizzato la tua situazione. Quella nella quale io ti avevo messa. Non eri né uomo, né donna. Il mio esperimento era fallito perché allora tu comprendesti di essere intrappolata tra i due ruoli, senza appartenere realmente a nessuno delle due metà del cielo.
Se il mio piano avesse funzionato tu avresti accettato quell’uniforme con gratitudine e con gioia, perché saresti stata un uomo e avresti pensato e agito come un uomo. Invece scegliesti di farlo solo grazie all’intervento provvidenziale di Andrè, e dopo aver preso in considerazione, anche se pur lontanamente, l’altra possibilità: essere una donna. Ormai la tua consapevolezza era destata, non c’era più nulla da fare.
Lo so. Tu a me certe cose non le hai mai dette. Ma adesso che mi ritrovo solo con me stesso, ora che ho deciso di sondare il vuoto che c’è nel mio cuore, comprendo anche il tuo. Capisco il male che ti ho fatto e capisco che mille vite non basteranno a ripagare il torto. Quindi vedi Oscar, tutte le volte che ti rimprovero qualcosa mi ritrovo a fare i conti con me stesso.
Queste mie memorie stanno diventando un lungo dialogo con la mia amata figlia. Ma nessuno le leggerà mai, quindi non vedo perché preoccuparsi della forma. Sono solo una semplice, confusa e dolorosa confessione di un uomo che ormai, non ha più nulla da perdere.

Quella sera, quando io e Luc ci lasciammo, non ci dicemmo molto. Le frasi del Generale Jarjayes erano ancora troppo vive nelle nostre menti a tal punto da esserne frastornati. Stavamo leggendo la vita di un uomo del quale non si poteva, che lui lo volesse o no, che avere compassione. Quella sera ci salutammo consapevoli che, a volte, le colpe dei padri, oltre che ricadere sui figli, ricadevano anche su loro stessi.

La mattina dopo incontrai Luc davanti alla biblioteca comunale. Sbadigliava appoggiato al muro, vicino alla sua bicicletta. Mi sorrise e fece cenno di entrare:
“Hai l’aria di uno che ha dormito poco” gli dissi:
“Lascia perdere. Ho avuto gli incubi.”
“Ah sì? E cosa hai sognato?”
“Boh, battaglie, generali con la parrucca e il moschetto in mano, e mia madre che mi diceva di non fare tardi per cena. Deve essere stato il tonno e cipolla di ieri sera.”
Appena varcata la soglia della biblioteca i rumori del traffico divennero un lontanissimo sottofondo, mentre le nostre scarpe da ginnastica scricchiolavano insolenti sul pavimento lucido.
Io e Luc andammo a chiedere informazioni alla ragazza al banco che, molto gentilmente ci tirò fuori tonnellate di volumi. A quanto pare Jarjayes non era poi sconosciuto:
“Quanto meno non è sconosciuta la Rivoluzione Francese” mi fece notare Luc. Scartabellammo per un bel po’, prendendo appunti e tirando giù nomi e date. Alla fine quello che venne fuori non era molto:

Generale Francois Augustin Reyner De Jarjayes
Nato a Grenoble il 24 ottobre 1745
Morto a Torino il 11 settembre 1822
Rampollo di una nobile famiglia dalle antiche tradizioni militari, proveniente dalla regione delle Haute-Alpes, fu ufficiale sotto i regni di Luigi XV e Luigi XVI. Monarchico fedele, rimase accanto ai sovrani durante tutta la Rivoluzione Francese. Fu lui ad organizzare l’ultimo tentativo di fuga della regina Maria Antonietta dalla Francia (8 marzo 1793), tentativo rifiutato dalla regina stessa perché troppo rischioso per la vita dei figli. Nello stesso anno si rifugerà in Italia, a Torino dove morirà l’11 settembre 1822.

Restammo perplessi. In tutte quelle pagine, in tutte quelle ore passate a leggere e rileggere non avevamo mai visto il nome di Oscar de Jarjayes:
“Possibile che sia scomparsa nel nulla? Diavolo, se quel conte di Girodelle era ufficiale delle Guardie Reali anche lei doveva essere nello stesso reggimento no? Altrimenti non si spiegherebbe il duello.” disse Luc. Io non ero così convinta. Il duello poteva avere mille altri motivi che un semplice, chi vince diventa capitano. E poi, negli scritti del Generale non si menzionava il grado né il ruolo che svolgeva Oscar sotto Luigi XVI:
“Almeno, non ancora. Non ci resta che trascrivere il resto del diario e vedere se diventa più esplicito.”
Ricordo ancora lo sguardo abbattuto di Luc. Sembrava stanco:
“No, non sono stanco. E’ che credevo di saperne di più, invece qui non ci caviamo un ragno da un buco.” Io cercai di tirarlo su di morale:
“Nessuno ha detto che sarebbe stato facile. Ma siamo i soli che possiamo scoprirlo. Facciamo così, vado in bagno e poi diamo un’ultima occhiata ai volumi. Se non viene fuori nulla ce ne andiamo ok?”
Mi replicò un poco sentito ok. Ma quando tornai dalla toilette la scena che vidi fu del tutto inaspettata. Pensai subito che fosse diventato matto, uno perché aveva tirato fuori il diario nel bel mezzo della sala lettura della biblioteca comunale di Versailles (per la serie: guardatemi, sono qui): due perché l’espressione di giubilo nei suoi occhi non aveva paragoni. Un cambiamento totale da qualche attimo prima. Mi avvicinai a lui con malcelata calma:
“No dico, sei impazzito!  Mettilo via!” gli sussurrai indicando il volume blu. Lui se lo appoggiò aperto sulle sue gambe, sotto il tavolo e con un sorriso trionfante mi disse:
“Leggi un po’ qua” mi porse il diario indicandomi una frase. Io feci di tutto per non dare nell’occhio:
“…Ora eri il Comandante delle Guardie Reali, colonnello Oscar Francois De Jarjayes…”
Confesso che venne un attacco euforico anche a me. A quanto pareva, dentro a quel diario c’era proprio tutto. Adesso sapevamo perfettamente cosa cercare.
Passammo il resto della giornata in quel luogo, sotto gli occhi incuriositi della giovane bibliotecaria che non aveva mai visto tanto amore per lo studio in vita sua. Da bravi topi di biblioteca ci documentammo a fondo, e il risultato fu sconfortante ma avvincente.
Nessuna traccia di Oscar Francois. Il padre era nominato in diversi contesti e in vari volumi, ma della figlia niente. Come mai?:
“Secondo me c’è una sola spiegazione possibile” dissi mentre ci rituffavamo nel caos cittadino. Erano le cinque di pomeriggio e Versailles era impazzita di automobili e motorini:
“Jarjayes parla di tradimento, e dice esplicitamente che Oscar ha tradito la Corona. Ciò significa che ad un certo punto, lei è saltata dall’altra parte della barricata e ha combattuto dalla parte del popolo. Di certo ha tirato un brutto tiro a Maria Antonietta e C. Il fatto non viene perdonato, quindi lei perde il titolo nobiliare e il grado militare.” Luc terminò la frase per me:
“Questo spiegherebbe la cancellazione del suo nome dalla memoria pubblica.”
“Esatto. Ha tradito, quindi deve essere dimenticata.” Il sole era pallido sulle nostre teste, ma vivo. Ci ritrovammo davanti alle cancellate della Reggia che vomitava turisti giapponesi, italiani, inglesi e chi più ne ha più ne metta. Era triste, ma sapevamo di non sbagliarci: di Oscar Francois de Jarjayes ormai non restava traccia se non in quel diario, ultima, debole fiammella, custode del suo ricordo.

Fine 2° parte
 

                                                                                                                            Trinity
 

 

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