N.d.A. questa mia prima fic dedicata a Versailles no bara, mio grande amore, si colloca tra gli episodi 28 e 29 della serie animata, ossia dopo la celebre dichiarazione di Andrè e prima dell’incarico di Oscar tra i soldati della Guardia. Forse non è molto originale.
Ho scelto un’apertura latina e una chiusura trecentesca perchè, a mio parere, descrivono entrambe, perferttamente, un momento di tensione emotiva totale.
Infine, i personaggi sono frutto del genio di Riyoko Ikeda.
Buona lettura
~ Odi et Amo ~
 
Odi et amo. quare id faciam, fortasse requiris.
nescio, sed fieri sentio et excrucior.
.~.~.~
(Odio ed amo. Perchè lo faccia, forse chiederai.
Non so, ma lo sento accadere e mi torturo)
(Catullo, LXXXV)
 

Quando si svegliò, la prima cosa che vide emergere dalla nebbia fu la parete del muro, bianca e ruvida e fredda. Cercò di aprire la bocca, ma era talmente impastata e secca che fu una sensazione quasi dolorosa, quanto il mal di testa che lo aggredì di soppiatto. Si sollevò a sedere sul letto e si prese la testa tra le mani, cercando di mettere a fuoco il campo visivo. Naturalmente, quello non era il suo letto; non dormiva a casa da almeno tre giorni. Le lenzuola erano altrettanto ruvide e fredde sul suo corpo nudo. Cominciò a massaggiarsi le tempie, ma quel dolore pulsante rendeva impossibile formulare un solo pensiero sensato. Si girò piano e vide una sagoma al suo fianco. Sollevò lo sguardo fino alla testa appoggiata al cuscino, coperto da lunghi capelli color del miele. Allungò una mano e sfiorò la pelle della ragazza, ma non appena il calore del contatto si fece percepibile la ritrasse e sgusciò fuori dal letto. La stanza ondeggiò, ma lui mantenne un saldo controllo del proprio stomaco e si trascinò verso lo specchio.
Fissato malamente alla parete e attraversato da una lunga crepa, quest’ultimo gli restituì un volto stropicciato dal sonno e disgustosamente malridotto. Appoggiò la fronte a quella del suo gemello dall’altra parte e, sorridendo a fatica, mormorò a se stesso un flebile e sarcastico “Buongiorno..” Immerse le mani nella bacinella di ceramica colma d’acqua gelida e si sciacquò il viso e la bocca. Miliardi di spilli gli punsero la pelle e avvertì un sapore strano, che non aveva niente a che fare con l’alcol.
Frammenti della notte precedente cominciarono a ricomporsi nella sua mente come un delirante mosaico.

***

“Amico, tu hai bisogno di qualcosa che ti distragga!”
“Già, forse hai ragione..” mormorò sistemandosi il berretto in testa.
“E io conosco il posto che fa per te, anzi... per noi!” ammiccò il gigante. Era incredibile come un corpo tanto massiccio potesse convivere impunemente con un sorriso tanto fanciullesco e ingenuo. L’insieme era quasi spaventoso, poichè non era mai chiaro quale dei due elementi avrebbe preso il controllo l’attimo successivo. Il suo nuovo amico era imprevedibile come il cielo in certe stagioni dell’anno, quando il sole esce all’improvviso da dietro un temporale o la pioggia sorprende nel bel mezzo di un pomeriggio caldo e assolato.
Aprì la porta della locanda con un gesto deciso, come se fosse casa sua, e in effetti vennero accolti da una selva di saluti e inviti a sedersi al tavolo, a giocare a carte, a baciare labbra invitanti. Per la maggior parte erano soldati come loro, le uniformi sbottonate o gettate alla rinfusa ai piedi delle sedie. Si diressero al bancone attraversando la stanza fumosa, presero il primo boccale e trovarono un tavolo lontano dal caos, per quanto possibile.
“Allora, non vuoi proprio dirmi che cosa ti tormenta?” chiese Alain al secondo boccale scolato in silenzio, in netto contrasto con l’ambiente che li circondava.
“Non mi tormenta niente, te l’ho già detto”, rispose il compagno, mentre con un cenno della mano richiamava l’attenzione dell’oste per un terzo boccale.
Alain si allungò sulla sedia e piazzò i piedi sul tavolo, incrociando le braccia dietro la testa.
“Come vuoi”, annuì pensieroso. “Beh, spero almeno ne valga la pena.”
Andrè vuotò il boccale in un fiato e lo sbattè sul tavolo, chiedendone un altro a gran voce.

La ragazza che gli stava davanti era bionda, lunghi capelli color del miele, luminosi, che ricadevano sulle spalle e la schiena in onde pesanti e voluttuose. Bionda, certo, l'aveva colpito anche per quello. Quando poi aveva catturato il suo sguardo, mentre recuperava i bicchieri vuoti dal tavolo, il desiderio appena abbozzato era diventato una certezza. Occhi turchesi e maliziosi, luccicanti. Non freddi e taglienti, non muti e spaventati, non di quel punto d’azzurro che nessun pittore avrebbe mai saputo riprodurre in maniera adeguata. Ma potevano bastare, per quella notte.
Bastavano sempre.
"Bel soldato, tienimi con te", aveva detto prendendolo per mano e costringendolo ad alzarsi sulle gambe malferme. Dopo il terzo boccale aveva smesso di contarli e, nonostante si ritenesse un buon bevitore, eccellente anzi, ai limiti del patologico, le pareti del salone sembrarono allungarsi a dismisura, una parodia dei sotterranei della città, e fu costretto appoggiarsi al corpo della ragazza. Anzi, per essere precisi le crollò addosso, stringendo le sue curve in un goffo abbraccio che i nuovi compagni interpretarono subito come un approccio diretto e sfrondato degli inutili preliminari.
"Aspetta almeno di raggiungere la camera, ragazzo", aveva gridato uno dei veterani battendosi una mano sulla coscia, e Alain e gli altri erano scoppiati a ridere. Gli avevano affibbiato pacche vigorose sulle spalle e commenti da caserma si erano mescolati alle risate quando lei lo aveva trascinato verso le scale che conducevano al piano superiore della taverna.
"Hai capito il falegname! Sono anni che cerchiamo di farci Isabelle e lui se la porta a letto al primo colpo!"
"Dacci dentro, ragazzo, e non fare complimenti se hai bisogno di una mano!"
Lui aveva sorriso distratto a tutto quel chiasso, concentrato com'era a non perdere l'equilibrio e rovinare a terra.
"Isabelle!" Dal fondo del bancone, Alain le strizzò l'occhio. "Trattalo bene, è un mio amico!", disse sollevando un bicchiere colmo di birra e rovesciandone buona parte sull'uniforme. Isabelle annuì e passò una mano dietro la nuca del ragazzo, avvolgendo il suo volto in un bacio che scatenò gli spettatori del Vieux Grenier.
Fischi, grida, applausi e sedie rovesciate esplosero nella stanza fumosa, accompagnati da bicchieri che si infrangevano al suolo. Isabelle assaporò quella bocca centimetro per centimetro, compiacendosi dell'immediata, violenta risposta che ricevette, quindi staccò le labbra e rivolse ad Alain uno sguardo languido e trionfale. Il ragazzo rise forte, e lei si unì a quella risata rovesciando il capo all'indietro, una cascata di luce nella penombra delle scale. Era un suono sguaiato, ma anche cristallino e caldo, sincero, perfino.
Da quanto tempo non sentiva ridere a quel modo, pensò Andrè. E quanto tempo era passato, dall'ultima volta in cui lui stesso aveva riso? Stringendo saldamente la mano fredda di Andrè, la ragazza fece di corsa gli ultimi gradini che la separavano dal secondo piano.

Isabelle chiuse la porta a chiave e si appoggiò alla parete, osservando attraverso gli occhi socchiusi il ragazzo seduto sul letto, che si stava togliendo la giacca dell'uniforme. I rumori della sala al piano inferiore giungevano adesso attutiti, risate e bestemmie e tavoli rovesciati. Qualcuno doveva aver barato di nuovo, si disse, e Alain lo stava conciando per le feste. Alain, Alain! chi diavolo è questo tizio che da giorni ti segue come un cucciolo sotto la pioggia? E' diverso da noi, Alain, le mani, il portamento, come fai a non accorgertene?
Con un fruscio di gonne si avvicinò al letto e si piazzò davanti ad Andrè, che finì di togliersi gli stivali e le rivolse uno sguardo incerto.
Isabelle gli sfiorò la fronte, scostando la ciocca di capelli corvini che gli copriva l'occhio destro. Andrè fu tuttavia molto più rapido, afferrandole il polso e bloccando il movimento prima che lei potesse scorgere la cicatrice. Nessuno l'aveva vista, e nessuno doveva vederla.
Come se potesse fare qualche differenza, pensò acido.
"Infatti, non fa alcuna differenza." Andrè si riscosse. "Ho visto di peggio, credimi", proseguì Isabelle con una nota divertita e Andrè capì di aver pronunciato l'ultima frase ad alta voce. "Hai un bellissimo viso." La voce della ragazza si era fatta più dolce e suadente, e le sue dita si intrufolarono di nuovo tra i capelli neri e di nuovo scostarono la ciocca. Questa volta Andrè non la trattenne.
"Tutto qui?"
Andrè sorrise. L'occhio perduto, il viso sfigurato, una vita che se ne andava in pezzi giorno dopo giorno. Una furia che si annidava nel profondo del suo cuore, del suo ventre, impedendogli a volte di respirare, prendendo il controllo delle sue azioni e dei suoi pensieri, una donna bellissima e intoccabile che l'aveva improvvisamente lasciato solo, una donna che avrebbe voluto prendere a pugni, come tanti anni prima sulle rive di un fiume tranquillo, per scuoterla dal torpore che l'affliggeva e liberarsi finalmente della catena che lo teneva legato.
Tutto qui, mi chiedi? "Tutto qui", confermò.
"Mi piace", disse lei seguendo con la punta del dito il percorso della cicatrice. "Ti dà un'aria più adulta."
Una risata ironica uscì dalle labbra di Andrè, e la ragazza lo spinse via con violenza, mandandolo a cadere sul materasso. Sdraiato sulla schiena, Andrè continuò a ridere per qualche secondo.
"Reagisci sempre così agli apprezzamenti?" chiese Isabelle. "Voi soldati della Guardia siete tutti uguali, anche dietro un bel faccino come il tuo si nasconde uno stronzo qualsiasi." Fece per allontanarsi ma Andrè le afferrò la mano e la trattenne vicino al letto. Il movimento brusco le fece perdere l'equilibrio, e Isabelle finì sul torace nudo del ragazzo.
"Scusami", disse lui tra i suoi capelli. "Non sono abituato a ricevere complimenti."
"A chi vuoi darla a bere, soldato? E' inutile che cerchi di commuovermi con la parte dell'incompreso! Avrai più donne tu che l’intera guarnigione!", gli bisbigliò un attimo prima di sollevarsi a baciarlo, la cortina di capelli biondi che offuscava la luce della lampada a olio. Andrè la strinse in un abbraccio convulso e replicò al bacio con foga, i lineamenti cesellati di Oscar che si sovrapponevano ai suoi. Quando però le dita scesero a sciogliere le stringhe del corsetto, lo sguardo di Isabelle non si dilatò per il panico, nè il suo respiro si mozzò all'improvviso, ma al contrario si fece più caldo e rapido e gli occhi virarono dal luminoso turchese al blu intenso del velluto. Lo aiutò a liberarsi degli ultimi lacci e passò a occuparsi dei suoi pantaloni.
Andrè si abbandonò alle mani di Isabelle e respinse il volto della donna che amava, pur sapendo che si trattava di un rifiuto solo momentaneo. Al risveglio, come sempre, se lo sarebbe ritrovato davanti, e come sempre avrebbe occupato l’intero campo visivo.

***

Isabelle si era sollevata a sedere sul letto, la schiena appoggiata al cuscino, e guardava pigramente nella sua direzione.
“Buongiorno, soldato..” Ben attento a non guardarla in faccia, Andrè si mosse in direzione dei propri abiti, sparsi sul pavimento.
“Buongiorno.” La stanza stava rincominciando a vorticare e un senso di nausea l’assalì con violenza. Si portò la mano alla bocca e si piegò in avanti, ma non successe niente.
“Stai bene?”
Rispose con un cenno del capo, mentre scivolava a terra lungo la parete.
La ragazza si alzò dal letto e, drappeggiandosi il lenzuolo sotto le ascelle, si inginocchiò davanti a lui e gli sollevò il mento con un dito. Nella luce impietosa del mattino, che colpiva dolorosa dalle persiane accostate, ogni traccia dell’intimità che avevano condiviso fino a poche ore prima si era dissolta. Andrè avvertì ancora una volta quella sensazione, delusione mista a fallimento e disperazione, anche se non sapeva esattamente per che cosa essere deluso o disperato, in una situazione del genere.
Deluso dal comportamento di Oscar, che per la seconda volta nella sua vita confondeva una scelta con una fuga?
O deluso di se stesso, che per la seconda volta non era forte abbastanza da fermarla, che non riusciva a farsi capire, a farsi ascoltare, che non riusciva non solo a infrangere la cortina che avvolgeva l’animo di Oscar, ma neppure ad aggirarla, a scostarla poco a poco, il fedele Andrè, imprigionato in un ruolo che cominciava a odiare, ammesso che l’avesse mai amato.
Andrè, che tutto quello che poteva fare era seguirla, ancora una volta, ostinato come il ricordo di quella sera a palazzo Jarjayes, quando anche lui era caduto nello stesso errore e aveva finito col confondere la forza con la violenza.
Scacciò il pensiero come un’immaginaria mosca, agitando una mano nell’aria, ma le parole di lei risuonarono nelle sue orecchie. “In quanto a quello che è successo ieri sera, preferisco dimenticare.”
Oh, certo, Oscar, tutti noi preferiamo dimenticare quello che non ci piace, quello che ci fa soffrire. Ma nessuno ci riesce. Aveva cercato rifugio in Normandia come lui nell’alcol, tra due giorni avrebbe preso servizio tra i soldati della Guardia e si sarebbe servita di quel nuovo incarico per allontanare i fantasmi, come lui trascorreva le notti da una locanda all’altra, da una donna all’altra, per allontanare i suoi. Allontanare, non cancellare. I fantasmi sanno essere molto tenaci.
Sono stanco, Oscar.
Quali parole ancora devo trovare, per raggiungerti? Quali gesti? Può il mio silenzio essere abbastanza forte da scuoterti? Può la mia lontananza, davvero, esserti d’aiuto?

Si riscosse dai suoi pensieri solo quando sentì la porta chiudersi. Isabelle se n’era andata, era rimasto solo nella stanza. Si guardò attorno. Era questo, dunque? Una camera pidocchiosa, abiti puzzolenti, pensieri ed emozioni che turbinavano come fiocchi di neve in una tempesta ma che non avevano niente su cui appoggiarsi, niente da ricoprire e tenere al caldo se non un paesaggio desolato e arido.
Per te, Oscar? Tutto questo solo per te?
Finì di vestirsi e scese al piano inferiore. Il fuoco doveva essersi spento a un certo punto della notte, e nessuno si era ancora preoccupato di ravvivarlo. L’oste uscì dalla cucina e lo squadrò con fare inquisitorio, le mani sui fianchi.
“Se cerchi Isabelle, non c’è.” Andrè si guardò attorno e rabbrividì, una vaga sensazione di imbarazzo che gli scivolava lungo la schiena. “In compenso, il tuo amico ti sta aspettando.” Con un cenno del capo indicò una delle panche di legno accostate alla parete, dove Alain stava russando ancora immerso nel sonno. La giacca dell’uniforme era sparita chissà dove, la camicia sbottonata scopriva buona parte del torace. Un braccio ciondolava vicino al pavimento, l’altro era nascosto sotto la testa. Andrè sorrise suo malgrado. Sembrava davvero un bambino, in quella posizione. Avrebbe dato qualunque cosa per dormire con la stessa espressione serena sul viso.
Invece, da quella notte di settimane prima continuava a sentirsi lacerato, sfilacciato e logoro come un tessuto antico e dimenticato dal tempo. Come se pensieri, eventi e persone non riuscissero ad allinearsi tra loro in un insieme compiuto.
Aveva dato voce ai suoi sentimenti, ma subito dopo si era ritrovato improvvisamente muto. Le parole si erano rattrappite nell’aria, si erano spezzate come cristalli colorati, schiacciate da anni e anni di silenzio opprimente.
E la rabbia che provava lo stava consumando giorno dopo giorno, respiro dopo respiro. Era come masticare sabbia tra i denti, la medesima orribile sensazione.
Il fatto era che, da quel momento, non era più riuscito a fermarsi. Non riusciva a trovare un punto fermo, perchè l’unico che aveva creduto di possedere, e lo aveva creduto davvero, con tutto se stesso, in realtà si era dissolto nel nulla allo stesso modo dei sogni al mattino.
“E adesso, Andrè? Che cosa hai intenzione di fare?” La voce flebile di Oscar, incrinata dalle lacrime, gli salì dallo stomaco al cuore. Andrè abbandonò il corpo contro il tavolone di legno, cercando un sostegno che fosse almeno fisico. L’eco di quella domanda portò con sè un significato diverso, chiarissimo per quanto sottinteso. ma la risposta adeguata, di nuovo, si ostinava a sfuggirgli.
Che cosa ho intenzione di fare?
Andrè fece un passo avanti e sfiorò la gamba di Alain.
“Sveglia, amico. Torniamo in caserma.”
 

Pace non trovo, e non ho da far guerra,
E temo, e spero, ed ardo, e son un ghiaccio:
E volo sopra 'l cielo, e giaccio in terra;
E nulla stringo, e tutto 'l mondo abbraccio.
(Francesco Petrarca, Rime, Sonetto No. 54)
 
Fine
 

                                                                                                                 Aurelia (aka Stella)