La paura
(1882)

       Risalimmo sul ponte, subito dopo la cena. Davanti a noi il Mediterraneo non aveva un’increspatura su tutta la parte visibile, marezzata di luna. Il grande piroscafo continuava la sua rotta gettando nel cielo seminato di stelle un gran serpente di fumo nero; dietro di noi l’acqua bianchissima, mossa dal veloce passaggio del bastimento, battuta dall’elica, era tutta una spuma. sembrava s’avvolgesse su se stessa provocando innumerevoli scintillii simili al bollore d’una liquida luce di luna.
       In sei o sette ce ne stavamo lì in silenzio e pieni di ammirazione, con lo sguardo rivolto verso l’Africa ancora lontana e dove ci stavamo dirigendo.
       Il Comandante, che stava fumando un sigaro in mezzo a noi. all’improvviso riprese una conversazione che era cominciata durante la cena.
       «Già, quel giorno ho avuto paura. Per sei ore la mia nave era rimasta con quello scoglio conficcato dentro, battuta dal mare in continuazione. Verso sera, per fortuna, fummo raccolti da una carboniera inglese che ci aveva avvistati.»
       Un uomo alto col viso abbronzato e l’aspetto serio, una di quelle persone che si capisce subito abbiano attraversato grandi paesi sconosciuti, tra continui pericoli, e il cui occhio sereno sembra conservare qualche cosa, nella sua profondità, degli strani paesaggi che ha veduto, un uomo insomma ben temprato dal coraggio, entrò allora per la prima volta nella nostra conversazione.
       «Comandante, lei dice d’aver avuto paura? Non lo credo.
       Forse equivoca sulla parola o forse sulla sensazione che ha provato. Un uomo coraggioso non ha mai paura nell’incombere d’un pericolo. E’ emozionato, agitato, nervoso; ma la paura è un altra cosa.»
       Il Comandante replicò ridendo:
       «Accidenti! E invece le garantisco che ho avuto paura!».
       Allora l’uomo abbronzato aggiunse parlando con estrema lentezza:
       «Mi permetta di spiegarmi. La paura — anche gli uomini più coraggiosi possono provarla — è un sentimento orrendo, una sensazione atroce, simile alla decomposizione dell’anima, uno spasimo spaventoso del pensiero e del cuore, il cui semplice ricordo provoca brividi d’angoscia. Ma, quando si è coraggiosi di natura, questo non avviene né davanti a un attacco pericoloso, né davanti a una morte inevitabile, né davanti a tutte le forme note del pericolo: ha luogo in circostanze anormali, sotto certe influenze misteriose, di fronte a rischi indefiniti. La vera paura è simile al ricordo dei terrori fantastici d’un tempo. Un uomo che crede ai fantasmi e che s’immagina di scorgere uno spettro nella notte, lui si che proverà la paura in tutto il suo orrore.
       Io ho intuito cos’era la paura in pieno giorno, circa dieci anni fa. L’ho provata l’inverno scorso durante una notte del mese di dicembre.
       Eppure m’ero trovato in frangenti e in avventure che parevano mortali. Ho combattuto spesso. Sono stato lasciato per morto dai banditi. Sono stato condannato all’impiccagione come insorto in America e gettato in mare aperto dal ponte d’una nave in Cina. Ogni volta mi son creduto spacciato e mi sono rassegnato subito, senza commozione e anche senza rimpianti.
       Ma questa non è la paura.
       Io l’ho presentita in Africa. Eppure essa è figlia del Nord: il sole la dissipa come una nebbia. Fate attenzione a questo, signori. Per gli orientali la vita non conta niente: si è subito rassegnati; le notti sono chiare e senza le cupe inquietudini che opprimono gli uomini dei paesi freddi. In Oriente si può conoscere il panico, si ignora la paura.
       Ebbene, ecco quel che m’è accaduto in terra d’Africa.
       Attraversavo le grandi dune a sud di Ourgla. E’ uno dei più strani paesi della terra. Voi conoscete la sabbia distesa, la sabbia delle interminabili spiagge oceaniche. Adesso figuratevi che l’oceano sia diventato sabbia in mezzo a un uragano: immaginatevi una tempesta silenziosa di immobili onde di polvere gialla. Sono alte come montagne, queste onde ineguali, diverse, sollevate in alto come cavalloni, ma ancora più grandi e striate come un’immensa pezza di amoerro. Su questo mare furioso, muto e apparentemente immobile, il divorante sole del Sud sparge la sua fiamma implacabile e diretta. Bisogna oltrepassare queste onde di cenere dorata, ridiscendere e ancora salire, salire senza sosta, senza riposo e senza ombra. I cavalli rantolano, sprofondano fino al ginocchio e poi si lasciano scivolare quando raggiungono l’altro versante di queste sorprendenti colline.
       Eravamo due amici seguiti da otto spahis e da quattro cammelli coi loro guidatori. Non parlavamo, oppressi dall’afa, dalla stanchezza, inariditi dalla sete come quel deserto ardente.
       D’improvviso uno dei nostri uomini lanciò uno strano grido:
       tutti si fermarono e restammo senza muoverci, sorpresi da un fenomeno inesplicabile, conosciuto solo da chi viaggia in quelle sperdute contrade.
       Chissà dove, eppure vicino a noi, da una direzione che non si riusciva a determinare, rullava un tamburo: il misterioso tamburo delle dune. Rullava distintamente, ora più ora meno vibrante, interrompendosi ogni tanto, ma subito dopo riprendendo il suo ritmo fantastico.
       Gli arabi, spaventati, si guardarono tra loro e uno disse nella sua lingua: "Sopra di noi c’è la morte!".
       Ed ecco che all’improvviso il mio compagno e amico, più che un fratello per me, cadde da cavallo a testa in giù, fulminato da una insolazione.
       E per due ore, mentre cercavo inutilmente di salvarlo, quel tamburo misterioso m’echeggiò nelle orecchie col suo ritmo monotono, intermittente e incomprensibile. Io sentivo insinuarmisi nelle ossa il terrore, la vera paura, la paura schifosa, davanti a quel cadavere, in quella buca incendiata dal sole, tra quattro montagne di sabbia, mentre un’eco sconosciuta ripercuoteva contro di noi, a duecento leghe da qualsiasi villaggio, il rullo veloce del tamburo.
       Quel giorno compresi che cosa sia aver paura, e lo seppi anche meglio un’altra volta...».
       Il Comandante interruppe il narratore:
       «Scusi, signore, ma quel tamburo... Che cos’era?».
       «Non ne so nulla. Nessuno lo sa. Gli ufficiali, sorpresi da quel rumore singolare, ne attribuiscono la causa a un eco ingrandita, smisuratamente ampliata dagli avvallamenti delle dune e prodotta da una grandinata di grani di sabbia trasportati dal vento a urtare contro qualche ciuffo d’erba secca, poiché s’è osservato che il fenomeno si produce sempre vicino a certi arbusti arsi dal sole e duri come cartapesta.
       E dunque quel tamburo non sarebbe che una sorta di miraggio, un miraggio sonoro. Tutto qui. Ma questo lo seppi soltanto più tardi.
       Vengo alla mia seconda emozione.
       Accadde l’inverno scorso, in un bosco della Francia nord-orientale. La notte era scesa con due ore d’anticipo, tanto scuro era il cielo. In un sentiero molto stretto avevo per guida un contadino che camminava al mio fianco, sotto una cupola di abeti, da cui un vento scatenato traeva lunghi lamenti. Fra le cime dei monti distinguevo correre nuvole in rotta, certe nuvole impazzite che sembrava scappassero incalzate dal terrore. A tratti tutto il bosco sembrava inclinarsi con un gemito di sofferenza sotto una raffica di vento molto forte; e il freddo mi passava da parte a parte nonostante il passo rapido e le vesti pesanti.
       Dovevamo andare a cena e fermarci a dormire da una guardia forestale. La casa non era molto lontana da lì e io ci andavo per cacciare.
       Di quando in quando la mia guida alzava gli occhi e borbottava: "Diavolo d’un tempaccio!". Poi mi parlò della famiglia che ci avrebbe ospitato. Il padre aveva ucciso un bracconiere due anni prima, e da allora era sempre cupo, come se fosse ossessionato da quel ricordo. I suoi due figli, entrambi sposati, vivevano con lui.
       Le tenebre erano profonde. Non vedevo niente davanti a me, né intorno a me. Tutto il frascame degli alberi si urtava in continuazione e riempiva la notte d’un continuo fruscio.
       Finalmente scorsi una luce e subito il mio compagno bussava a una porta. Come risposta arrivarono acute grida di donne; poi una voce maschile, una voce rauca domandò: "Chi è?".
       La mia guida disse il suo nome. Entrammo. Mai dimenticherò quel che vidi.
       Un vecchio dai capelli bianchi, dall’occhio folle, con un fucile carico in mano, ci aspettava in mezzo alla cucina, mentre due giovanotti armati di scure erano di guardia ai lati della porta.
       Negli angoli oscuri in fondo alla stanza distinsi due donne inginocchiate col viso rivolto verso il muro.
       Demmo le spiegazioni necessarie. Il vecchio riappoggiò il fucile alla parete e ordinò che mi fosse preparata una stanza: ma poi, visto che le due donne non si muovevano, dette questa brusca spiegazione:
       "Sa, signore? Sono due anni stanotte da quando ho ammazzato un uomo. L’anno scorso è venuto a chiamarmi. E così l’aspetto anche questa notte". Concluse con un tono che provocò il mio sorriso: "Ecco perché non siamo tranquilli".
       Feci del mio meglio per rassicurarlo. Ero felice d’essere arrivato proprio quella sera e di poter assistere a quello spettacolo di terrore superstizioso. Mi misi a raccontare qualche storiella e così mi riuscì di calmare, almeno un poco, tutta la famiglia.
       Accanto al focolare un vecchio cane, mezzo cieco e baffuto, uno di quei cagnacci che somigliano a qualcuno di nostra conoscenza, dormiva, col muso tra le zampe.
       Una tempesta senza requie percuoteva il casolare e da un finestrino stretto stretto, proprio uno spiraglio accanto alla porta, vedevo alla luce dei lampi un gruppo di alberi scompigliato dal vento.
       Nonostante tutti i miei sforzi, percepivo chiaramente che un profondo terrore dominava gli animi di quelle persone. Ogni volta che smettevo di parlare tutte le orecchie si tendevano verso un punto molto lontano. Stanco di assistere a quei vani spaventi, stavo per chiedere di andar a dormire, quando la vecchia guardia forestale balzò improvvisamente dalla sedia e riafferrò il fucile sussurrando con evidente smarrimento: "Eccolo! eccolo! Lo sento!".
       Le donne tornarono a inginocchiarsi nel loro angolo nascondendo il viso; i figli impugnarono di nuovo le scuri.
       Mi preparavo a calmarli ancora una volta, quando d’improvviso si risvegliò il cane addormentato e, tendendo il collo verso il fuoco e guardandolo con l’occhio quasi spento, emise uno di quei lugubri ululati che la sera spaventano in campagna i viandanti. Tutti ci volgemmo a guardarlo: era rimasto immobile, ritto sulle zampe, come in preda a una visione. Poi ricominciò a urlare verso una cosa invisibile e spaventosa perché tutto il pelo gli s’era rizzato. Livido in volto, la guardia gridò:
       "Lo sente! Lo sente! Mi ha visto ucciderlo!".
       Anche le due donne si misero a urlare come forsennate, all’unisono col cane.
       Mio malgrado, un brivido mi corse tra le spalle, lunghissimo. La visione di quell’animale a quell’ora e in mezzo a quella gente terrorizzata era spaventosa. Per un’ora intera il cane ululò senza muoversi, come nell’angoscia d’un sogno premonitore. La paura, la schifosa paura m’invase. Paura di che cosa? Lo sapevo forse? Era la paura, tutto qui.
       I nostri visi erano violacei nell’immobilità e nell’attesa di qualcosa di tremendo, con l’orecchio teso, il cuore in tumulto, sempre più sconvolti a ogni minimo rumore. Il cane si mise a girare attorno alla stanza, fiutando i muri e continuando a mugulare.
       Quella bestia ci faceva impazzire! Allora il contadino che mi aveva fatto da guida, in una specie di parossismo furibondo, gli si buttò addosso, l’afferrò e la gettò fuori in un cortiletto interno.
       Il cane tacque di colpo, noi rimanemmo immersi in un silenzio ancor più terrificante. D’improvviso sussultammo tutti insieme: qualcuno strisciava contro il muro esterno, dalla parte del bosco; poi passò verso la porta, sembrò sfiorarla con mano tremula. Per due minuti non sentimmo più alcun rumore, due minuti che ci portarono alla soglia della demenza; quindi quella presenza misteriosa tornò a sfiorare il muro e grattò leggermente come farebbe un bambino, con l’unghia d’un dito.
       All’improvviso apparve contro il vetro del finestrino una testa bianca, con occhi luminosi come quelli delle belve. E dalla bocca uscì un suono indistinto, un mormorio lamentoso. Fu un attimo. Un fragore improvviso rimbombò nella cucina. La vecchia guardia aveva sparato. E subito i figli si precipitarono, tapparono lo spiraglio rizzandovi contro il grande tavolo, che poi puntellarono con la credenza. Vi giuro che allo scoppio della fucilata che non m’aspettavo ebbi una tale angoscia nel cuore, nell’animo e nel corpo che mi sentii mancare, prossimo a morire di terrore.
       Restammo così in attesa sino all’aurora, incapaci di muoverci, di dire una sola parola, contratti da un orrore senza nome.
       Osammo rimuovere la barricata soltanto quando scorgemmo dalla fessura d’un’imposta un pallido raggio di luce.
       Ai piedi del muro, contro la porta, giaceva il vecchio cane col muso sfracellato dalla fucilata.
       Era uscito dal cortiletto scavandosi un varco sotto la palizzata.»
       L’uomo dal volto abbronzato tacque, poi soggiunse:
       «Quella notte non corsi alcun pericolo, eppure preferirei rivivere tutte le ore nelle quali ho affrontato situazioni davvero terribili piuttosto che il solo istante di quella fucilata sparata contro la testa villosa apparsa nello spiraglio».