Il tic
(1884)

       I clienti dell’albergo entravano lentamente nella grande sala da pranzo e si sedevano.
       I camerieri cominciarono a servire con la stessa lentezza, per permettere ai ritardatari di giungere in tempo, e per non dover più tardi recare una seconda volta le stesse vivande.
       I clienti più vecchi guardavano a ogni schiudersi d’uscio il sopraggiunto, in attesa di un viso nuovo. E questa la maggior distrazione delle città climatiche. Si attende l’ora dei pasti per conoscere i nuovi villeggianti, per indovinare chi sono, ciò che fanno, ciò che pensano. Un desiderio nasce in noi: quello di incontri gradevoli, di conoscenze piacevoli, forse anche di amori.
       E ogni vicino, ogni sconosciuto, assume una grande importanza. La curiosità è vigile, la simpatia in attesa, la socievolezza in fermento.
       Si hanno antipatie di una settimana e amicizie che durano un mese; si vedono le persone con occhi sempre diversi, sotto un’ottica speciale.
       Si scoprono negli uomini, a un tratto, durante una conversazione, dopo cena, sotto gli alberi, una intelligenza superiore e meriti eccezionali, ma, dopo un mese, i nuovi amici così simpatici nei primi giorni, sono già bell’e dimenticati.
       Si formano però anche legami durevoli e seri più presto che in qualunque altro luogo. Ci si vede tutti i giorni, ci si conosce molto presto e alla cordialità che comincia si mescola qualche cosa simile alla dolcezza e all’abbandono delle vecchie intimità.
       Più tardi si conserva il ricordo caro e commosso di quelle prime conversazioni attraverso le quali si fa la scoperta delle anime, e si serba il ricordo dei primi sguardi che interrogano e rispondono alle domande e ai pensieri segreti che la bocca ancora non dice, il ricordo della prima confidenza cordiale, il ricordo della deliziosa sensazione provata aprendo il proprio cuore a qualcuno che sembrava aprirvi il suo.
       E la tristezza della stazione climatica, la monotonia dei giorni sempre eguali rendono d’ora in poi più completo quello sbocciare d’affetti.
       Quella sera, dunque, come sempre, aspettavamo l’ingresso di facce nuove.
       Ne entrarono due, molto strane, un uomo e una donna, padre e figlia.
       Mi fecero l’impressione, subito, di due personaggi di Edgar Poe, quantunque notassi in loro una specie di soavità dolorosa. Me li immaginai come due vittime della fatalità.
       L’uomo era alto, magro, un po’ curvo, coi capelli bianchi, troppo bianchi per il suo viso ancora giovine; aveva nell’incedere, in tutto il portamento, un che di grave, di austero, di severo. La figlia, che dimostrava ventiquattro o venticinque anni, era piccola, magrissima, pallidissima, con un’aria stanca, affranta, accasciata.
       Se ne incontrano spesso di queste creature, che paiono troppo deboli per le fatiche e le necessità della vita, troppo fragili per muoversi, per camminare, per fare tutto ciò che ognuno fa di consueto.
       Era abbastanza bella, ma di una bellezza diafana e irreale. Mangiava con un’estrema lentezza, come fosse incapace di muovere la mascella.
       Era certo per lei che essi erano venuti alle terme.
       Si trovavano seduti proprio di fronte a me. Notai subito che il padre aveva un tic nervoso singolarissimo. Ogni qualvolta stava per afferrare un oggetto, la sua mano compiva una specie di moto convulso, un zig-zag febbrile, prima di pervenire a toccare quel che cercava.
       Dopo un poco, quel movimento mi esasperò a tale punto, che volsi altrove il capo per non vederlo. Notai che la giovane aveva la mano sinistra coperta da un guanto. Dopo cena, andai a fare un giretto nel parco dell’albergo.
       Eravamo in una stazioncina dell’Alvernia, a Chàtel-Guyon, una stazioncina nascosta in una gola, ai piedi di un’alta montagna, da cui si sprigionano sorgenti d’acqua calda, scaturite dal focolare profondo di antichi vulcani.
       Quella sera faceva molto caldo. Passeggiavo sotto un viale alberato, ascoltando dal poggio, che domina il parco, giungere, affievolita, la musica dello stabilimento.
       D’un tratto, vidi venirmi incontro sullo stesso viale i due nuovi ospiti. Salutai, come si è soliti salutare, nelle stazioni climatiche, i propri compagni di cura.
       L’uomo subito si fermò, chiedendo:
       «Potreste indicarci, signore, una passeggiata breve, facile e piacevole? Perdonate la mia indiscrezione».
       Mi offersi di condurli nel vallone, ove scorreva un esiguo corso d’acqua, un vallone profondo, una stretta gola chiusa tra due pareti rocciose e boschive.
       Essi accettarono e, naturalmente, il primo argomento ebbe per oggetto la virtù delle acque.
       Il padre diceva:
       «Mia figlia ha una strana malattia, della quale non si è riusciti a conoscere la causa. Soffre di accessi nervosi incomprensibili. La ritengono ammalata ora di cuore, ora di fegato, ora affetta da un indebolimento della spina dorsale. I medici affermano oggi che si tratta di mal di stomaco. Ecco perché siamo qui. Io credo invece si tratti piuttosto di nervi. In ogni caso, signore, è una faccenda seria».
       Mi ricordai subito del tic violento della sua mano, e chiesi:
       «Non è forse ereditario il male di cui soffre la signorina? Non siete anche voi ammalato dello stesso male?».
       Rispose, pacatamente:
       «Io ho... ho sempre avuto i nervi a posto».
       Poi, subitamente colpito, soggiunse:
       «Ah, volete forse alludere alla contrazione della mia mano? E la conseguenza d’una terribile emozione che ho provato. Figuratevi che questa povera figliuola mi è stata sepolta viva!».
       Diedi in un’esclamazione di stupore e di commozione.
       Egli riprese subito:
       «Ecco come si sono svolti i fatti.
       Juliette — si chiama così, la mia figliuola — soffriva da tempo di gravi disturbi di cuore. Sapendola affetta da questa pericolosa malattia, mi preparai a tutte le sorprese.
       Un giorno, me la riportarono in casa diaccia, esanime, morta. Era poco prima venuta meno in giardino. Il medico ne constato la morte. Vegliai presso di lei un giorno e due notti, la acconciai con le mie stesse mani nella bara, che accompagnai sino al cimitero, ove la feci inumare nella tomba di famiglia. Eravamo in piena campagna, in Lorena. Avevo voluto fosse seppellita con tutti i suoi gioielli, braccialetti, anelli, tutti i doni che le avevo fatto, e con la sua prima veste da ballo.
       Pensate in quale stato fosse la mia anima quando rincasai. Non avevo altri che lei, poiché ero vedovo da lungo tempo.
       Ritornai dal camposanto solo, estenuato, quasi folle. Allorché fui nella mia camera, mi abbandonai su di una poltrona, senza un pensiero, senza la forza di fare un movimento. Non ero più che una macchina dolorosa, vibrante, straziata, la mia anima somigliava ad una piaga viva.
       l mio vecchio domestico, Prosper, che mi aveva aiutato a deporre nella bara Juliette e ad adornarla per il suo ultimo sonno. entrò d’un tratto senza far rumore, chiedendo:
       "Signore, volete prendere qualche cosa?".
       Feci un segno negativo col capo.
       Insistette:
       "Avete torto, signore; vi farà male star tanto tempo digiuno. Volete che vi aiuti a coricarvi?".
      "No, lasciami solo."
      Uscì, chiudendosi dietro l’uscio.
      Quante ore trascorsi in quello stato d’animo? Non so. Che notte! Che notte! Faceva freddo; il fuoco s’era spento nel caminetto, e il vento, un vento invernale, diaccio, batteva contro le finestre con un rumore sinistro.
      Quante ore trascorsero così? Ero insonne, affranto, accasciato, con gli occhi sbarrati, le gambe allungate, il corpo afflosciato, lo spirito intontito dalla disperazione.
      Ad un tratto, il campanello della porta d’ingresso suonò. Ebbi un tale sobbalzo che la poltrona cigolò sotto di me.
      Il suono grave e pesante echeggiò nel castello come in un sepolcro vuoto. Mi voltai per vedere l’ora al mio orologio: erano le due del mattino. Chi poteva essere a quell’ora?
      Il campanello suonò di nuovo. I domestici non osarono alzarsi per andare a vedere chi fosse.
      Presi un lume e discesi. Ero in procinto di chiedere:
      "Chi è?".
      Ma poi ebbi vergogna del mio timore e tirai lentamente il chiavistello. Il cuore mi batteva forte: avevo paura, sì. Apersi di colpo la porta; scorsi allora nell’ombra una forma bianca, ritta, un fantasma.
       Indietreggiai, sconvolto dall’angoscia, balbettando:
       "Chi... chi... è?".
       Ma una voce rispose:
       "Sono io, babbo".
       Mia figlia! Era mia figlia!
       Mi credetti impazzito d’un tratto; arretrai, inciampando, dinanzi allo spettro che s’inoltrava, facendo con la mano un gesto come per scacciano, quel gesto che mi avete veduto fare a tavola e che non mi ha mai più abbandonato.
       L’apparizione riprese:
       "Non aver paura, babbo. Sono io, Juliette. Non sono morta: guardami! Hanno voluto togliermi gli anelli, tagliandomi un dito: il sangue ha preso a colare e mi ha risvegliata. Guardami, babbo!".
        Mi accorsi infatti che ella aveva tutte le vesti insanguinate.
        Caddi ginocchioni, affannato, singhiozzante.
        Poi, quando riuscii a riavermi, ma non ancora a sufficienza per capire tutta la felicità che mi era dispensata, feci salire Juliette nella mia camera, la feci sedere nella mia poltrona; quindi premetti il campanello per chiamare Prosper, perché venisse a riaccendere il fuoco e andasse a chiamare un medico.
       Prosper entrò, guardò mia figlia, aperse la bocca in uno spasimo di terrore e di orrore, poi si arrovesciò all’indietro, stecchito, morto di colpo.
       Era stato lui ad aprire il sepolcro, a mozzare il dito alla mia Juliette, lui che aveva sempre avuto la mia fiducia!
       Vedete, signore, come siamo stati provati duramente».
       Tacque.
       La notte era calata, avvolgendo il piccolo vallone solitario e triste. Una paura misteriosa mi avviluppò il cuore, sentendomi vicine quelle due strane creature, la rediviva e il padre dai gesti inquietanti. Non trovavo parole.
       Mormorai:
       «Che cosa orribile!».
       Poi, dopo un poco, aggiunsi:
       «Se ritornassimo? Fa un po’ freddo». E ci incamminammo verso l’albergo.