TEOLOGIA FONDAMENTALE
Il presente scritto è stato elaborato con riferimento ai miei appunti, alle dispense dell'insegnante e al testo "La Rivelazione, fenomenologia,dottrina e credibilità" di Carlo Greco - Ed. San Paolo Srl - 2000, integrati da mie personali riflessioni e si sviluppa su sedici tesi che toccano aspetti diversi inerenti al tema della Rivelazione
Tesi I
Dall'apologetica alla Teologia fondamentale; oggetto, compito, metodo e strutturazione
"Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della vostra speranza che è in voi" (1Pt 3,15).
Questa espressione potremmo considerarla come la "magna charta" della teologia fondamentale, che si propone, per l'appunto, di dare ragione delle motivazioni che sottendono la fede del credente. Potremmo considerarla un po' come la matematica della teologia. Essa punta a dare un fondamento razionale certo alla fede, senza volerla spiegare razionalmente, poiché essa è un dono che supera l'uomo e mai la conclusione di un bel ragionamento. Il credente, infatti, può arrivare razionalmente fino alle soglie della fede, ma poi, per credere veramente, credere con la propria vita, con tutto se stesso, deve fare un salto di qualità che supera ogni forma di ragionamento, anche se non si pone mai contro la ragione, poiché se ciò avvenisse la fede non sarebbe vera fede, ma sfocerebbe in sentimentalismi o, peggio, in fanatismi che offendono l'uomo. La vera fede, invece, punta all'affermazione piena dell'uomo e lo riconduce in seno al suo Dio, dove trova il senso del proprio vivere e la pienezza del proprio essere.
Sulla base di questa espressione scritturistica la Chiesa si è sempre impegnata nel corso dei secoli a motivare, a sostenere e a difendere le verità rivelate. Lo ha fatto con il sangue nei primi quattro secoli; lo ha fatto con autorità, assolutismo, polemica e aggressività nei secoli successivi; lo ha fatto con il dialogo, con la Parola di Dio, attraverso la comprensione e il rispetto di chi non condivide la nostra fede, pronta ad accogliere dal concilio Vaticano II (1963-1965) in poi.
Sono questi tre momenti storici che hanno segnato il cammino di testimonianza della propria fede da parte della Chiesa nel corso dei secoli.
Superata la prima fase della testimonianza del sangue, la Chiesa ha affrontato per molti secoli e fino al Vaticano II le aggressioni esterne alla propria dottrina con il metodo apologetico, che per sua natura era aggressivo, con forte tendenza alla polemica, chiuso al dialogo, autoritario, impositivo. Strumenti di tale metodo erano la ragione, la filosofia, la tradizione e, raramente, la Scrittura.
Queste furono le basi della teologia apologetica. Una teologia che risentiva molto del potere temporale della Chiesa e di un distorto e, talvolta, perduto senso della propria missione.
Tale teologia ebbe una forte spinta e un notevole influsso con il concilio di Trento (1545-1563), che fu una risposta decisamente autoritaria, dottrinale e di totale chiusura alla Riforma protestante. Da questo momento la Chiesa sviluppò notevolmente una teologia antiprotestantica e successivamente si rafforzò contro l'illuminismo, che, rifiutando ogni soprannaturalismo, accettava solo ciò che passava indenne il vaglio della ragione e che tendeva a ridurre tutto ad una mera comprensione naturalistica, irridendo i contenuto della fede e banalizzando, in particolar modo nel XIX secolo, le Scritture, la figura di Cristo, la sua opera e il suo messaggio. La teologia apologetica, certamente giustificabile ai tempi della Riforma e dell'Illuminismo, fu di fatto una teologia sostanzialmente sterile e scarsamente produttiva di nuovi spazi di comprensione della Verità, di cui la Chiesa è depositaria, poiché essa fu una teologia di difesa e d'assalto e certamente non adatta a convincere e a convertire.
Un esponente di tale teologia fu Hook, che approntò la dimostrazione della fede sulla sola base razionale attraverso tre passaggi: a) dimensione religiosa; b) dimensione cristiana; c) dimensione cattolica.
Questi passaggi in realtà non sono tre gradini che salgono, ma tre cerchi concentrici, che partendo dall’esterno giungono al cuore della questione : l’unica verità nel cattolicesimo.
Dimensione religiosa
E’ la dimensione dell’uomo razionale e illuminato che valuta ciò che è vero e che con la semplice ragione raggiunge la verità. Tuttavia, se così fosse, è da chiedersi che mi serve la Religione se la semplice ragione mi fa capire la verità di Dio. La risposta è che ci sono, in realtà, delle verità che la mia semplice ragione non può darmi, mentre lo può la Religione (V. ad es. la vita trinitaria di Dio).
Dimensione cristiana
E’ la dimensione di chi ha gia accettato la Religione e si chiede attraverso che cosa passa la Rivelazione della Verità. La risposta immediata è: attraverso Gesù, massima espressione della Rivelazione del Padre al punto tale che il Padre e Gesù si identificano (Gv. 14,8-9) e formano una cosa sola (Gv. 17,21). Si tratta, comunque, di dimostrare l’autorità di Gesù che viene rilevata nella guarigione del paralitico (Mt. 9, 2.6) (…. Ti sono rimessi i tuoi peccati; …. Alzati e cammina); nel rapporto con gli scribi e i farisei (Mt. 7,29) (..egli parlava loro come uno che aveva autorità e non come i loro scribi)
Dimensione cattolica
Vi fanno parte coloro che sono cristiani, ma non ancora cattolici a cui va dimostrato che quella verità depositata in Gesù è stata ereditata dalla Chiesa che è una, santa e cattolica.
Tutto questo è l’impianto dell’Apologetica.
Tuttavia questo impianto apologetico non potrà mai convincere uno alla fede; vi sono altri fattori che vi concorrono in quanto che la fede è essenzialmente un dono e non una conquista razionale dell’uomo. Non è sufficiente, quindi la ragione.
Altri aspetti e temi che formarono il contenuto della teologia fondamentale furono l'aprirorismo della Rivelazione, l'intellettualizzazione dell'idea di fede, l'estrinsicismo, il debito razionalistico, riduzione messianica, l'oggettivismo. Apriorismo della Rivelazione
E’ l’atto della rivelazione di Dio, della Verità. Cioè pongo all’origine del mio crede tale atto rivelativi di Dio, dandolo come fatto acquisito.
Intellettualismo dell’idea di fede
Io credo che Dio ha rivelato. Ed è intellettualismo perché accetto come fatto logico, razionale e dimostrato ciò che Dio ha rivelato, ritenendolo scontato.
Estrinsicismo
Così definito perché tende a spiegare la fede con fatti esteriori, come i miracoli, e non come ricerca interiore. Si tende a giustificare la fede con i fatti, quasi che la fede sia vera perché è sostenuta dai fatti, mentre la fede deve nascere dall’interno ed è un lungo e non semplice cammino di grazia donata.
Debito razionalistico
E’ l’atteggiamento di chi vuole dimostrare la verità della fede con la sola ragione.
Riduzione messianica
E’ l’atteggiamento di chi afferma, in modo aprioristico, che Gesù è l’inviato di Dio per rivelarci il messaggio del Padre. Tale posizione si aggancia all’Apriorismo.
Oggettivismo
L’oggettivismo tende a dimostrare che la fede è un fatto oggettivo, indiscutibile, è quello che è; ma essa non è una semplice dimostrazione razionale e fattuale della verità. La fede deve nascere dall’interno quale dono di Dio che chiama l’uomo alla salvezza.
L’impianto, fin qui illustrato, ha coloriture fortemente polemiche e tende ad affermare semplicemente che io ho ragione e tu torto. L’eccesso di polemica, tuttavia, in genere non dimostra niente e tende a soffocare la verità.
Quanto fin qui accennato riguarda il passato.
Con il concilio Vaticano II sia ha una svolta radicale nella storia della Chiesa sia nelle sue relazioni con il mondo, con le altre confessioni e religioni, sia al proprio interno e nella comprensione di se stessa. La rifondazione degli studi teologici e della stessa Teologia sono espressioni significative di questo mutamento storico. Essi trovano il loro bando costitutivo nel documento conciliare Optatam Totius, in cui si cambia radicalmente prospettiva, passando da una teologia dimostrativa e difensiva, basata sul ragionamento e la filosofia, ad una che punta alla comprensione e alla formazione e che ha come cardine fondamentale, attorno a cui tutto ruota e trova la sua ragione d'essere, Cristo, la sua opera, il suo messaggio. Da una teologia filosofica si passa quindi ad una cristologica, più precisamente cristocentrica.
Due sono i principi innovativi della teologia: a) la teologia deve avere finalità formative e pastorali; b) deve essere a base cristocentrica e scritturistica. Lo sfondo di tutto entro cui tutto si muove è la storia della salvezza.
Aspetti innovativi dell' Optatam totius
Prendiamo ora brevemente in esame alcuni aspetti innovativi di questo documento, che denota un mutato atteggiamento della Chiesa nei confronti della società e una nuova comprensione della propria missione: non più una conquista di un mondo che si guarda con sospetto e da cui difendersi, ma un'apertura e una disponibilità al dialogo con chi la pensa diversamente.
- Aspetto didattico: a) la Bibbia deve essere il punto di partenza della teologia; b) il suo studio deve avvenir tramite l'esegesi e la teologia biblica; c) lo studio deve essere graduale e approfondito.
- Aspetto metodologico: a) si passa da una teologia dimostrativa ed aggressiva ad una esegetica ed ermeneutica, da cui poi far derivare le verità fondanti la nostra fede. b) In questa prospettiva la Bibbia non è più un autorevole strumento dimostrativo, ma diviene la fonte da cui scaturisce il sapere teologico e ne diventa l'anima. c) Tutti gli studi teologici devono trovare la loro unità sui grandi temi biblici, che in tal modo vengono analizzati sotto vari aspetti, portando ad una loro migliore e più armonica comprensione.
- Aspetto formale: lo sfondo generale su cui si muove la teologia è la storia della salvezza, che è essenzialmente cristocentrica. L'aspetto formale è quindi il cristocentrismo e la Scrittura in genere.
- Aspetto contenutistico: la storia della salvezza che culmina in Cristo forma il contenuto principale della nuova teologia. La sua comprensione si attua nella rivelazione, in cui Dio non solo comunica delle verità, diversamente non raggiungibili, ma egli stesso si dona e intraprende un dialogo con l'uomo nella storia, facendo della storia il luogo privilegiato del suo incontro salvifico con l'uomo.
- Aspetto formativo: la teologia, in quanto studio della storia della salvezza, non solo forma intellettivamente, ma anche spiritualmente essendo l'oggetto dei suoi studi Dio stesso e il suo mondo, i suoi rapporti con l'uomo, che interpellano anche chi studia.
La nuova Teologia Fondamentale
Con il Vaticano II nasce la nuova teologia fondamentale, che è a base scritturistica e affonda le sue radici in quella apologetica, anche se le sue radici più profonde si trovano nella Scolastica e nei monasteri, dove si valutavano le ragioni del proprio credere.
- Oggetto della Teologia Fondamentale: è la rivelazione di Dio in Cristo e la sua credibilità e, quindi, i contenuti della nostra fede.
- Compiti della T.F.: sono il chiarire e il motivare, dandone ragione a noi stessi e agli altri, i contenuti della nostra fede. E' un riflettere sulla propria fede per dare le motivazioni del nostro credere. E' quindi l'intellectus fidei, cioè la comprensione della fede, il giustificare in modo razionale l'esistenza cristiana.
- Necessità della T.F.: la rivelazione, cioè l'autocomunicarsi di Dio nella storia, non è sempre prontamente raggiungibile dall'uomo, anche perché Dio non si rivela in modo da non lasciare più alcun dubbio su tale evento; anzi proprio in questo sta il valore della fede, quale assenso ragionevole, ma sovrarazionale della rivelazione.
Due dunque le funzioni della Teologia fondamentale: una fondante, cioè illustrativa della rivelazione; una apologetica, cioè giustificativa, rendendoli razionalmente accettabili i contenuti della fede.
La rivelazione nella Teologia fondamentale
La rivelazione è concepita come l'irrompere del divino nella storia, la sua manifestazione attraverso la storia e con modalità storiche accessibili all'uomo. E' quindi l'autocomunicarsi di Dio nel corso della storia mediante parole ed eventi, che ha il suo vertice in Gesù Cristo, Figlio di Dio.
L'esperienza religiosa e rivelativa è innanzitutto un'esperienza fatta dall'uomo, in cui egli riesce in qualche modo a cogliere intuitivamente ed elaborando poi nel proprio intimo un'idea, un pensiero, una riflessione su quanto ha esperito e in cui riesce a cogliere la presenza di un divino che gli si propone e lo interpella. Ciò avveniva nelle religioni primitive attraverso fenomeni naturali, a cui si attribuiva il senso di un manifestarsi del divino (ierofanie). Nelle religioni più evolute la rivelazione è affidata a degli uomini, che ne diventano mediatori e fondatori (Budda, Mosé, Gesù, Maometto).
Il cristianesimo si qualifica come religione rivelata sopratutto nell'età moderna in risposta all'illuminismo, che tendeva a ridurre ogni fenomeno soprannaturale razionalmente spiegabile, squalificando in tal modo l'aspetto essenziale del soprannaturale.
Saranno i due concili Vaticano I (1869-1870) e vaticano II (1963-1965) ad assegnare alla rivelazione una funzione centrale nel cristianesimo. Lo farà in termini apologetici e indiretti il Vaticano I nella "Dei Filius"; in termini più sviluppati, sistematici e specifici il Vaticano II nella "Dei Verbum".
La rivelazione, quindi, in quanto irrompere di Dio nella storia, non si sottrae ad una certa verificabilità, benché si debba tenere sempre presente che l'elemento finale (Dio e il suo mondo) sfuggono all'empirismo e chiedono sempre, in ultima analisi, un salto di qualità. Infatti, la fede non è mai la conclusione di un ragionamento, ma un dono, che chiede all'uomo di aprirsi ad esso e di accoglierlo nella propria vita.
Se l'obiettivo della T.F. è l'accettare la credibilità della rivelazione e nel mostrarne la ragionevolezza, il metodo per raggiungere tale obiettivo è di tipo fenomenologico, e in particolare fenomenologico-ermeneutico, cioè partendo da eventi storici, a cui si dà una interpretazione, si arriva ad intuire in questi eventi interpretati la presenza di un divino, che interpella e chiede una risposta.
Il secondo aspetto di questo metodo è critico-veritativo, cioè il sottoporre questi eventi interpretati al vaglio della ragione, per coglierne la ragionevolezza e la credibilità.
In ultima analisi, la T.F. per svolgere il suo compito deve innanzitutto raccogliere le esperienze di rivelazione, riportate nell'A.T. e nel N.T., analizzarle nel loro formarsi come eventi interpretati, sottoponendoli alla critica della ragione per giustificarne la ragionevolezza e credibilità, restituendoli al credente per la sua comprensione e la sua adesione sia intellettuale che esistenziale.
Apriorismo della Rivelazione
E’ l’atto della rivelazione di Dio, della Verità. Cioè pongo all’origine del mio crede tale atto rivelativi di Dio, dandolo come fatto acquisito.
Intellettualismo dell’idea di fede
Io credo che Dio ha rivelato. Ed è intellettualismo perché accetto come fatto logico, razionale e dimostrato ciò che Dio ha rivelato, ritenendolo scontato.
Estrinsicismo
Così definito perché tende a spiegare la fede con fatti esteriori, come i miracoli, e non come ricerca interiore. Si tende a giustificare la fede con i fatti, quasi che la fede sia vera perché è sostenuta dai fatti, mentre la fede deve nascere dall’interno ed è un lungo e non semplice cammino di grazia donata.
Debito razionalistico
E’ l’atteggiamento di chi vuole dimostrare la verità della fede con la sola ragione.
Riduzione messianica
E’ l’atteggiamento di chi afferma, in modo aprioristico, che Gesù è l’inviato di Dio per rivelarci il messaggio del Padre. Tale posizione si aggancia all’Apriorismo.
Oggettivismo
L’oggettivismo tende a dimostrare che la fede è un fatto oggettivo, indiscutibile, è quello che è; ma essa non è una semplice dimostrazione razionale e fattuale della verità. La fede deve nascere dall’interno quale dono di Dio che chiama l’uomo alla salvezza.
L’impianto, fin qui illustrato, ha coloriture fortemente polemiche e tende ad affermare semplicemente che io ho ragione e tu torto. L’eccesso di polemica, tuttavia, in genere non dimostra niente e tende a soffocare la verità.
Quanto fin qui accennato riguarda il passato.
Tesi II
Antico Testamento: la rivelazione nella storia e la sua struttura originaria
Dall'approccio con l'A.T. si rileva come per Israele la storia è il luogo e lo strumento in cui e per mezzo del quale Dio attua la sua rivelazione all'uomo e lo fa essenzialmente in due modi: con la Parola (Legge, Profeti e Libri Sapienziali) ed eventi storici. Parola ed eventi sono tra loro intimamente connessi e inscindibili, così che l'evento necessita della parola profetica per essere compreso ed essere letto in senso teologico; mentre la parola sarebbe incomprensibile se non fosse corroborata dall'evento.
La reciproca compenetrazione di Parola ed Evento danno origine ad un nuovo concetto di storia: essa è il sacramento d'incontro tra Dio, che in essa si lascia cogliere dall'uomo, diventando per lui dono; e l'uomo, che, istruito dalla parola, coglie Dio in essa e vi aderisce esistenzialmente con una risposta di fede.
Questa rivelazione originaria avviene nella storia secondo cinque parametri o strumenti:
· I sogni o le ispirazioni; · visioni di Dio · Comunicazione del Nome · Legge ed Alleanza · Profeti
e si struttura in tre momenti fondamentali: a) le origini; b) i Patriarchi; c) l'Esodo.
La vera storia di Israele incomincia con l'Esodo, che si presenta come l'elemento fondante e di senso dell'intero esserci del popolo. Soltanto tardivamente si aggiunsero la "Storia delle origini" (Gen 1-11), dall'incedere mitico e simbolico, e la "Storia dei Patriarchi" (Gen 12-20) per dare completezza logica alla nascita di Israele, che diviene in tal modo figlio della promessa.
- La storia delle origini venne aggiunta quando Israele comprese che Jhwh era anche il Dio creatore e il Signore universale di tutti i popoli. In questi primi undici capitoli, la cui natura è squisitamente mitica, ma proprio per questo altamente significativa, Israele cerca di dare una risposta ai problemi del presente: il dolore, la morte, lo stato di decadenza dell'uomo, il perché del peccato che caratterizza il presente. In essa viene tracciata anche una particolare visione dell'uomo, quale spirito incarnato e carne spiritualizzata, fatto ad immagine e somiglianza di Dio. In altri termini, Israele cerca, con una visione retrospettiva della storia dell'umanità, di dare una comprensione e una risposta al proprio presente. Si tratta, dunque, di una lettura interpretativa del passato che nasce da considerazioni sul presente.
- La storia dei Patriarchi fu introdotta a completamento del ciclo dell'Esodo per dare uno sviluppo logico al racconto della formazione del popolo. Esso va da Abramo e si conclude con Giuseppe in Egitto Questa storia è importante perché in essa è racchiusa la promessa fecondata dalla benedizione divina. Israele, quindi, non è nato per caso né è in balia di un destino capriccioso, né tantomeno si muove in balia del caso, poiché la sua origine è in un progetto divino di salvezza che si manifesterà concretamente e significativamente ai piedi del Sinai dove Israele riceverà da Dio una nuova identità e gli sarà fornito il senso del suo esistere (Es 19,5-6). In questa storia si realizzeranno le prime alleanze tra Dio e l'uomo (Abramo), archetipo e annuncio profetico di quella sinaitica. Israele pertanto troverà il significato profondo del suo esserci in questa promessa, resa feconda dalla benedizione di Dio. Israele si concepisce come una creazione di Dio, nato dalla sua promessa e dalla sua benedizione, che riscatta la maledizione primordiale posta su di una umanità decaduta.
Questa promessa e questa benedizione sono il segno che Dio non ha abbandonato l'uomo al suo triste destino, ma è finalmente entrato nella storia, trasformando in storia di salvezza.
- Il ciclo dell'Esodo costituisce il cuore della storia della salvezza di tutto l'A.T. . A questi eventi Israele ritorna in ogni momento di crisi nelle sue relazioni con Dio. Sono eventi fondanti il rapporto tra Dio e Israele e che formeranno la base storica e giuridica dell'Alleanza.
Gli elementi che costituiscono il tema dell'esodo sono essenzialmente cinque:
· lo stato di schiavitù d'Israele, cioè di un popolo privo di identità e che quindi non è popolo;
· La celebrazione della pasqua in cui domina la figura dell'agnello perfetto che con il suo sangue, sparso sugli stipiti delle case, non solo individua e delimita il popolo operando in tal modo una selezione e una scelta, ma lo costituisce per la prima volta come popolo scelto da Dio, preservandolo da un misero destino di morte, e la cui identità sarà perfezionata ai piedi del monte Oreb.
· Il passaggio del mar Rosso costituisce l'inizio di un lungo cammino verso la libertà, durante il quale Israele si perfezionerà spiritualmente e farà una profonda esperienza di Dio, a cui sia Dio che il popolo si richiameranno nei momenti di crisi o di difficoltà nei loro rapporti.
· L'esperienza del Sinai in cui il popolo viene definito proprietà di Dio e vengono gettate le basi dell'Alleanza e al popolo viene donata la Legge entro cui egli è chiamato a vivere il suo rapporto con Dio. Un'alleanza a cui i Profeti si richiameranno sovente e sarà la chiave di lettura del vivere di Israele. La violazione di tale Alleanza porta già in sé il castigo, inteso come logica conseguenza del male commesso da Israele.
La Teologia del nome
Israele è un agglomerato di tribù che, unendosi, fondono tra loro le varie esperienze religiose in cui Dio è chiamato con vari nomi.
Con Mosè Dio rivela il suo nome che diventa tale per tutti; un nome unificante, quindi, e che impegna indistintamente tutti; esso esprime il rapporto strettamente personale tra Lui e il suo popolo.
In Es. 3,13-14 Mosè chiede a Dio di rivelargli il suo nome: E Dio gli risponde: ”Io sono colui che sono!” Chiedere il nome significa chiedere le credenziali a quella persona, significa identificarla, che cosa intende fare e come egli si pone di fronte agli altri.
Infatti il nome, per gli orientali, esprime l’essenza stessa della persona; non c’è differenza tra lei e il suo nome: il nome della persona è la persona stessa. Il nome, quindi, va cogliere l’intimità della persona che, una volta comunicato il proprio nome, entra in relazione con gli altri. Il nome rivela, anche, la vocazione e la missione della persona che lo porta.
Di conseguenza, rivelando il suo nome, Dio fa conoscere a Mosè e al suo popolo la propria essenza, accogliendolo nella propria intimità: Egli è il suo nome. Rivelando, quindi, il suo nome, Dio esce dal suo anonimato e si fa conoscere per quello che è; ed entra in rapporto con il suo popolo; fa dono di Sé all’uomo e lo invita a fare esperienza di Sé, si consegna a lui e a lui si lega. Infatti, non gli dice un nome qualsiasi come “onnipotente, eterno, misericordioso, ecc.”.
E’ un passo, quindi, molto importante questo.
Ma conoscere il nome di Dio non è un semplice atto intellettivo, come io posso conoscere un oggetto qualsiasi; non è un’astrazione. Il conoscere implica un “fare esperienza” di Dio. Infatti, il conoscere per il popolo ebreo è un atto strettamente legato all’esperienza: esperimentare significa conoscere; conoscere significa esperimentare.
Il significato del nome
Rivelando il suo nome, Dio dice a Mosè : “Io sono colui che sono”. Letteralmente il nome che Dio ha rivelato, implica in sé un attuarsi continuo nel presente, ma non solo nel presente, anche nel futuro, poiché il verbo essere in ebraico possiede in sé anche un senso di divenire: è e sarà un continuo attuarsi, un continuo manifestarsi.
Il nome “Io sono colui che sono” implica, quindi, in sé anche un concetto di futuro. Io sono colui che sarò”; cioè, capirai in futuro chi sono io. Quindi, Dio rimanda per la sua comprensione all’esperienza storica. Non si può cogliere Dio con un semplice atto intellettivo, ma lo si conosce esperimentandolo nella storia, cogliendo le mille sfaccettature del suo nome-essere nella storia. Dio, dunque, sembra dire a Mosè e al suo popolo: “Guardate quello che farò per voi e capirete chi sono” . E’, quindi, un Dio che rimanda sempre alla storia come luogo di incontro tra Lui e l’uomo, come spazio di esperienza.
Il nome di Dio è un nome, quindi, che rimanda alla storia e che si esperimenta nella storia.
Alleanza e Legge
In Es. 20,2 e Dt. 5,6 Dio, rivolgendosi al suo popolo nell’atto di consegnargli la Legge, afferma: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto,dalla condizione di schiavitù.”
Da qui si capisce come i comandamenti non sono imposizioni incomprensibili date dall’alto, ma essi nascono da un’esperienza storica: è l’esperienza della schiavitù e della liberazione; l’esperienza di una schiavitù redenta; l’esperienza di un popolo che prima non era popolo. Quindi, qui, Dio lega il suo none al suo agire storico.
Dio, quindi, si presenta come il Liberatore che ha fatto fare esperienza di liberazione e che vuole mantenere libero il suo popolo. Dio, dunque, dà la Legge come elemento di liberazione; la Legge, pertanto, diventa esperienza di Libertà e di Dio che in essa si rivela. Nei comandamenti, pertanto, viene espressa più un’esperienza di libertà che una cogente regola morale.
Al Dio che si rivela nel Nome e nella Legge il popolo di Israele deve dare una risposta, prendere una posizione; in altri termini non può rimanere indifferente.
L’obbedienza, pertanto, diventa l’atto di risposta che sancisce questa rivelazione, trasformando la semplice rivelazione in rapporto durevole, accolto nella propria vita. Lo schema è, dunque, Dio rivela, il popolo accoglie e vive conformemente al rivelato facendosene testimone e propugnatore.
In questa rivelazione Dio si manifesta come il Fedele e Israele accede alla consapevolezza che essa è un dono, dono che si concretizza con l’esperienza di Dio qui nella storia.
La rivelazione nel Deuteronomio
Questo è il libro conclusivo del Pentateuco e si pone alla fine dell'avventura del deserto, ricapitolando in sé come in una "Seconda legge" il messaggio rivelativo che abbraccia l'intera storia di Israele e diventa un testamento spirituale, lasciato da Mosé al suo popolo, che ha condotto fino alle soglie della Terra Promessa.
Esso raccoglie in sé la Parola che accompagnerà Israele nella Terra Promessa. L'avventura del desrto dunque è finita, ma la Parola continua il suo cammino con Israele lungo tutta la sua storia. essa sarà una Parola che dimorerà sempre presso il popolo e si muoverà dnamicamente con lui.
La Parola quindi non è un qualcosa di statico, fuori dala storia, ma essa cammina con la storia, diventa storia per proporsi all'uomo sempre stessa e sempre nuova, interpellandolo continuamente nel suo divenire storico, spingendolo insistentemente a prendere posizione nei suoi confronti.
Il popolo a Canaan
Con l'entrata del popolo a Canaan cessa la forte e irripetibile esperienza spirituale del deserto e il popolo inizia la vita sedentaria. In questo nuovo stato di vita Israele tenderà a disperdersi in mezzo ai popoli confinanti, ad assumerne i costumi e a riprodurre le loro esperienze religiose, rischiando in tal modo di perdere definitivamente la propria identità di "proprietà divina, popolo di sacerdoti e nazione santa".
In questi momenti di forte tensione sorgono i Profeti, che fungono da coscienza del popolo, lo aiuteranno a leggere la storia del suo presente con un forte richiamo all'Alleanza e gli faranno capire che il suo comportamento, discostandosi dalla Legge, porta già in se stesso il castigo.
Ci troviamo di fronte ad una Parola sempre dinamica e attenta a salvaguardare l'identità di un popolo, che è sua creatura.
Tesi III
Antico Testamento: la rivelazione nella parola e il suo dinamismo storico
La Parola nell'A.T. è senza dubbio il mezzo principale attraverso cui Dio attua la sua rivelazione si rende presente in mezzo al suo popolo, aiutandolo a capire il senso della storia passata e degli avvenimenti che vi accadono.
Nel suo esplicitarsi storico la Parola assume forme diverse con un'unica finalità: educare all'ascolto, aiutare a comprendere, far crescere e rafforzare il rapporto tra Dio e il suo popolo.
Essa storicamente assume le seguenti forme:
· Parola dell'Alleanza · Parola dei Profeti · Parola dei Libri sapienziali · Parola dell'Apocalittica
- La Parola dell'Alleanza si articola in tre momenti: a) di tipo narrativo e racconta una salvezza già attuata; b) riguarda le dieci Parole che esprimono la volontà di Dio; c) è costituito dalle benedizioni e maledizioni, strettamente legate all'osservanza o meno delle dieci Parole. Benedizioni/Maledizioni non sono aggiunte esterne alla Torah, quali premio o castigo, bensì sono insite nel comportamento stesso del popolo e ne diventano conseguenza logica.
La Parola dell'Alleanza non è mai un qualcosa che viene calato dall'alto, ma è strettamente legata alla storia, all'esperienza della liberazione. essa viene data ad Israele perché quella libertà acquisita non venga persa. tale libertà configurerà sempre Israele nella misura in cui il popolo si lascerà configurare dalla Legge.
Questa Parola inoltre sottolinea la condizione di creaturalità di Israele evidenziando in tal modo l'Alterità di Dio, così come è avvenuto nel Giardino edenico: anche là Dio dà una Legge che, una violata, fa perdere l'identità di somiglianza dell'uomo a Dio, riducendosi ad uno stato di pura animalità. Così come avvenne in Babele, dove la violazione del comando divino si tradurrà fatalmente in una perdita di identità dell'uomo, che non comprendendo più se stesso non riesce più neppure a comunicare con l'altro.
- La Parola dei Profeti
La Parola dell'Alleanza è resterà sempre il nerbo fondamentale del popolo d'Israele. Essa tuttavia ha bisogno di essere compresa, interpretata, approfondita e sviluppata. A tale funzione assolve il profeta.
Profeta è un termine che deriva dal greco "pro-jhmi" e significa "parlare al posto di ...; in favore di ...". Il profeta, quindi, quale uomo di Dio, è colui che parla in nome e per conto di Dio, rendendolo presente in mezzo al suo popolo; lo richiama, gli fa capire il senso degli avvenimenti e del suo passato. Egli funge da coscienza del popolo e lo spinge ad essere fedele alla propria identità originaria.
Il profeta in ebraico viene detto "nabì", il cui significato è incerto. Alcuni lo fanno derivare dalla radice "nb' ", che significa "chiamare, annunciare"; altri dalla radice araba "nabaa", che significa "comunicare, trasmettere". Potremmo quindi dire, sintetizzando, che il profeta è un "chiamato per annunciare"; ma anche è colui che "chiama per comunicare".
E' dunque il profeta un uomo ispirato e posseduto dallo Spirito di Dio, che anima e sostanzia la sua missione. E' colui che in ultima analisi rende presente Dio in mezzo al suo popolo.
Il profeta è l'uomo della Parola. Egli è chiamato personalmente per trasmettere un messaggio e compiere una missione, di cui egli risponde direttamente a Dio.
I richiami dei Profeti si svolgono sotto forma di un processo e uno schema fisso:
- Si chiamano i testimoni; - Si enuncia l’infedeltà; - Si richiama al ravvedimento; - Si annuncia il castigo.
Ma anche quando il Profeta annuncia delle sventure, in realtà queste non sono mai delle negatività che piovono dall’esterno come giusto castigo per un comportamento sbagliato, ma sono, invece, una logica evoluzione e manifestazione di una negatività che è già presente in Israele. La punizione, quindi, diventa ad essere semplicemente una evoluzione naturale di un male già presente.
L’esperienza dell’esilio apre nel popolo una profonda crisi di fede che provoca una svolta decisiva e porrà degli interrogativi su Dio.
L’esilio sembra essere una sconfitta di Dio provocata da eventi più forti e più grandi di lui. Esso, esilio, viene anche letto dal popolo come un tradimento di Dio che, dopo aver promesso protezione nell’Alleanza, ora abbandona il suo popolo nelle mani degli empi. Ma in realtà il popolo non si rende conto di essere lui, con il suo comportamento, ad aver provocato la rottura dell’Alleanza e di essersi posto al di fuori.
Il periodo dell’esilio, quindi, sarà un tempo di ripensamento e di riflessione in cui il popolo maturerà un nuovo concetto di Dio, passando così da un enoteismo ad un monoteismo, per cui Dio diventa ad essere in assoluto non solo il Dio di Israele, ma dell’intera umanità; un Dio che sa comandare e servirsi dei pagani per realizzare i suoi piani, cosa che avvenne con Ciro; cosa inaudita secondo la fede d’Israele . Il tempo dell’esilio sarà anche il tempo del silenzio di Dio, non c’è più voce di profeta che accompagni il popolo nel suo cammino di amarezza. Un silenzio che va inteso come un tempo in cui Dio per lunghi periodi non fa più sentire la sua voce e in cui lo stesso Profeta è disorientato e si tormenta nel dubbio. Non si sente più la presenza di Dio.
Da qui la crisi di fede e di fiducia in Dio.
Ma chi salverà, dunque ora, il popolo d’Israele?
E’ sempre Dio, ora, non più proprietà esclusiva di Israele, ma della storia e dell’intera umanità, che, come avvenne in Egitto, ricreerà il suo popolo rinnovandolo interiormente e dandogli una nuova visione di sé e della propria storia che si prospetta, ora, come storia universale che abbraccia tutti i popoli. Una comprensione che a Israele viene lentamente riflettendo e riconsiderando la sua triste ed amara esperienza dell’esilio.
Lentamente il disegno di Dio si fa strada nella storia: da un uomo, Abramo, ad un popolo, Israele, all’intera umanità. Con Israele Dio entra nella storia e, intrecciandola con la propria storia, ne fa una storia sacra di redenzione per tutti. Il suo progetto trova, infine, il suo pieno compimento e realizzazione in Cristo, uomo nuovo, nuovo Adamo, capostipite di una nuova umanità redenta in Cristo e per Cristo.
Sorge, quindi, la necessità di reinterpretare e reimpostare il rapporto con Dio e ricomprendere l’Alleanza.
Dio fa capire al popolo che Egli è come un vasaio che plasma con della creta un vaso; quando questo si rovina, il vasaio distrugge il vaso e con la stessa creta ne crea uno nuovo. Così il popolo deve capire che egli è come il vaso che Dio sta modellando con le sue mani e che non deve illudersi del suo privilegio, perché come Dio lo ha creato, così lo può anche distruggere per non essere complice delle sue iniquità. Il popolo deve, dunque, cambiare atteggiamento. (Ger. 18, 1-15).
Dio, tuttavia, non è assente, ma è diventato una presenza silenziosa, diversa, ma pur sempre presenza. C’è, quindi, una certa difficoltà ad interpretare questa presenza-assenza di Dio.
Un Dio che fa capire ad Israele che l’esilio sarà lungo per dare ad Israele la possibilità di una revisione della propria vita e convertirsi. Il Profeta promette al popolo un rinnovamento spirituale: “Darò loro un cuore capace di conoscermi” (Ger.9,7) che sta ad indicare il cammino di Israele dall’enoteismo al monoteismo. E ancora : “Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro” (Ez. 11,9); e “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe , o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele” (Ez.37.12) per indicare un cammino di rinnovamento interiore.
Quella del profeta è una vita di solitudine, di sofferenza e di lotta interiore; egli vive da separato e va incontro a comprensioni e minacce.
La sua chiamata nasce da una intima autocomprensione, un'esperienza di Dio vissuta nell'intimo e che si impone, suo malgrado, alla sua persona. E' sovente una tormentata ricerca, un'introspezione, accompagnata spesso da una forza divina interiore che lo costringe. ma è proprio questo tormentato cammino che lo porta alla certezza che egli parla in nome di Dio.
Ma come gli altri lo possono capire?
Vi sono alcuni criteri indicati nella Scrittura che ne forniscono le credenziali e l'attendibilità:
· fedeltà alla Tradizione e all'Alleanza · compimento della profezia annunciata · condotta di vita del profeta (dai loro frutti li riconoscerete), talvolta molto sofferta per il compimento di una missione non sempre voluta.
La caratteristica della rivelazione profetica è essenzialmente sacramentale: fatti e avvenimenti spiegati per mezzo della parola. Essa illumina e rende comprensibili gli avvenimenti e, conseguentemente, consente al popolo di dare la sua risposta decisiva.
Il Servo di Jhwh (Is. 42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12)
I canti del Servo di Jhwh, tratti dal deuteroisaia, presentano una figura sconosciuta. Varie sono le ipotesi; essa potrebbe rappresentare o il profeta o uno o più rappresentanti del popolo o il popolo d’Israele stesso. La rivisitazione cristiana ha ravvisato in essi la figura stessa di Gesù.
La figura presentata e quella di un servo sofferente che ha una funzione di mediazione e di espiazione e capisce che nella sua sofferenza è partecipe Dio.
Rapporto Dio-Israele: amante e amata
Una nuova immagine compare in Ezechiele (cap.16) per definire il rapporto tra Dio e Israele: è quello del rapporto che intercorre tra l’amante che ama profondamente la sua amata che, invece, approfittando della sua bellezza, si prostituisce per soldi, dimenticando il tempo della giovinezza. Si rivela, qui, tutta la fragilità di chi ama e consegna il suo amore in mano all’altra.
- La Parola dei Libri Sapienziali
La letteratura sapienziale sorse prevalentemente tra la fine del IV sec. al I sec. a.C., quale reazione ad un diffuso ellenismo, che provocò un inquinamento dei costumi e della religiosità ebraica e che culminerà nella persecuzione di Antioco IV Epifane e sfocerà nella guerra maccabaica (167-164), oggi ricordata dagli Ebrei dalla festa di Hannukah.
La letteratura sapienziale è costituita da una rilettura da parte di Israele della propria esperienza e storia, che vengono ricomprese alla luce della rivelazione quali esperienze di Dio, quale storia intesa come sacramento e luogo di incontro tra Dio e gli uomini. La rivelazione dunque spinge l'uomo a rileggere la propria esperienza, la propria storia e a reinterpretarla e a ricomprenderla quale storia di Dio che si intreccia con quella dell'uomo e viene trasformata in storia sacra di salvezza.
Una rivelazione che traluce nella creazione e nella sua bellezza, da cui traspare l'onnipotenza divina e lasciarsi guidare dalla Sapienza significa giungere al timore di Dio.
La parola dei Libri Sapienziali interviene su di un popolo che è ormai spiritualmente maturo e adulto e che ha già ormai consolidato la sua identità.
- La Parola dell'Apocalittica
L’apocalittica deriva dal greco apokaluptein che significa rivelare. Essa si presenta come il compimento e la rivelazione ultima di Dio, in quanto è una rivelazione vista in prospettiva escatologica.
L’apocalittica nasce in tempi di crisi in cui gli avvenimenti travolgono Israele e gli precludono ogni speranza. Subentra qui il concetto di storia proprio di Israele; storia intesa come successione di avvenimenti condotti da Dio. L’uomo, quindi, non è abbandonato a se stesso, ma è sorretto da Dio. Il male nella storia lo si vede crescere e imperversare fino ad un massimo e non per sempre. Ad esso viene dato un tempo; poi verrà il tempo di Dio in cui Egli distruggerà i nemici propri e del popolo e instaurerà il suo Regno di giustizia e di pace, un Regno dove ogni lacrima sarà asciugata. Un Regno in cui si prospettano celi nuovi e terra nuova, dove il mare, simbolo delle potenze maligne, sparirà. Sarà il tempo del totale rinnovamento, il tempo di Dio per sempre. L’apocalittica, dunque, ben al di là di essere una corrente letteraria che preannuncia disgrazie, essa insegna a leggere la storia in senso teologico e accende la speranza negli uomini: Dio è sempre presente e non abbandona mai gli uomini travolti dalle tempeste della storia.
Si pone a tal punto, una differenziazione tra Apocalittica e Escatologia.
Mentre l’Apocalittica parla di un intervento futuro di Dio che distruggerà i nemici e instaurerà il suo Regno, invitando così l’uomo a guardare al futuro e a riattivare la sua speranza, trascendendo le contingenze dolorose e tristi del presente; l’Escatologia, invece, parla del presente che si proietta nel futuro; c’è un invito ad impegnarsi nel presente in vista del futuro. Le posizioni, dunque, sono rovesciate.
Tesi IV
Antico Testamento: la rivelazione di Dio nella creazione e la sintesi sapienziale
Si impone subito una distinzione tra la manifestazione del sacro nella storia e la rivelazione di Dio.
La manifestazione esprime l'irrompere della divinità nella storia sotto forma di eventi naturali, quali la tempesta, il fuoco, il tuono, il terremoto, il vento e simili. E' quindi un manifestarsi della divinità in modo impersonale che sovrasta l'uomo e si lascia cogliere come onnipotenza che incute timore. Sono quindi delle semplici ierofanie mediate dalla Parola.
La rivelazione, invece, è la manifestazione di un Dio personale che incontra nel sacramento della storia l'uomo; un incontro mediato dalla Parola. E' un Dio che si dà a conoscere nell'evento e nella parola e interpella l'uomo e con lui fa Alleanza. E' un manifestarsi di Dio che, seppur mediato dall'evento e dalla parola, punta a stabilire un rapporto e un dialogo con l'uomo. Qui l'elemento importante è l'ascolto che prevale sulla ierofania.
Manifestazione e rivelazione troveranno nel N.T. la loro mirabile sintesi e la loro coniugazione in Gesù. Egli infatti è manifestazione di Dio, sacramento vivente di Dio nella storia, ed è contemporaneamente rivelazione di Dio attuata attraverso la parola e l'azione.
Benché il popolo ebraico possa essere definito quale popolo della parola per eccellenza, tuttavia non va trascurata l'importanza che egli diede alla natura e alle sue manifestazioni, del resto similmente agli altri popoli antichi. Essa tuttavia, a differenza di questi ultimi, non è identificata con la divinità, ma è concepita come uno strumento divino, attraverso cui Dio segnala la sua presenza. La natura e le sue manifestazioni, quindi, vengono cantate nei salmi come segni di una presenza divina e ne cantano le lodi. Emblematico in tal senso è il cantico dei tre giovani Anania, Azaria e Misaele nel Libro di Daniele, in cui tutto il creato, quale manifestazione della gloria di Dio è chiamato a rendere lode a Dio. E sarà proprio la natura nel suo manifestarsi nel fuoco, nel tuono, nei lampi, nella tempesta, nel vento e nei terremoti che servirà a Dio, quale suo docile strumento, per segnalare all'uomo la sua presenza.
Il manifestarsi di Dio attraverso la creazione provoca nel popolo una profonda risonanza, che lo coinvolge interamente generando in lui meraviglia, senso del mistero, timore e visione della sua gloria.
La meraviglia esprime lo stupore di fronte alla grandiosità, alla potenza e alla bellezza della natura, quale rivelatrice delle qualità spirituali di Dio. Essa quindi diventa l'impronta visibile del Dio invisibile.
Il senso del mistero fa esclamare all'israelita: Dio chi può conoscerlo? Chi mai ha visto il suo volto? E' quindi il mistero di un Dio presente, ma nascosto, ineffabile e irraggiungibile. Solo con la Sapienza, che è l'intelligenza di Dio, si può intuire la sua presenza in noi e nella creazione. La fede in ciò aiuta. Lo stesso nome di Dio viene espresso con un impronunciabile tetragramma, che esprime la sua irraggiungibilità.
Il timore non è una reazione emotiva o di paura, ma esprime la percezione della presenza divina ed è unito al senso di meraviglia e di pochezza del nostro essere di fronte a Dio. Esso è il principio della Sapienza che introduce al cospetto di Dio e ci predispone ad accoglierlo.
La gloria di Dio è la manifestazione di Dio, la sua epifania qui nella storia e che si fa percepire nelle manifestazioni della natura. Il fuoco, la tempesta, la nube, il terremoto, il vento non sono la gloria di Dio, ma ne formano la cornice naturale.
Ma come Israele è giunto a cogliere la presenza di Dio nel manifestarsi della natura? E come ha saputo coglierlo nella storia?
Per rispondere a questi interrogativi bisogna rifarsi all'esperienza storica di Israele.
Esso fu inizialmente un popolo di nomadi che aveva quale Dio al di sopra di tutti gli altri dèi il Dio dei Padri. Un Dio che non aveva templi o luoghi di culto, ma era un Dio che si muoveva con loro e in mezzo a loro; un Dio che li guidava nel loro cammino e che ha lasciato a loro una promessa. Sarà proprio proprio questa promessa a fare da trait-d'union tra la religione nomade dei Padri e quella sviluppatasi nella vita sedentaria di Canaan. Nel suo passaggio tra le due forme di vita Israele rimase fedele alla religione degli antichi Padri e, contrariamente ai popoli cananei, esso non aderì mai ai culti della fertilità; la loro fede non si fondò mai sulla natura e sulle sue manifestazioni, ma soltanto sulla Parola-Promessa. Fu proprio ciò che spinse Israele, a differenzia dagli altri popoli, a vedere nelle manifestazioni delle natura solo la presenza di Dio e non la stessa divinità, che invece era legata alla Parola.
Pertanto il Dio della Parola-Promessa era colui che gli accompagnava nel loro cammino di nomadi e si rendeva presente attraverso la natura, percepita quale segno provvidenziale.
Questo Dio, che si lasciava percepire nella natura, ben presto si lasciò anche cogliere nello svolgersi della storia di questo popolo; per cui tutto, natura e storia, furono letti da Israele in senso teologico, come l'agire stesso di Dio.
Attorno a queste percezioni di Dio nella natura e nella storia, attraverso avvenimenti illuminati dalla Parola si incominciarono a creare dei miti, che erano forme fantasiose finalizzate a consolidare l'esperienza e la comprensione di Dio nella natura e nella storia, così da diventare storia di Dio ricomprendente quella dell'uomo. Il mito, infatti, ben lungi dall'essere un racconto di pura immaginazione, è il linguaggio primitivo dell'umanità attraverso il quale essa racconta la sua storia che è, innanzitutto, storia di Dio che si intreccia e si fonde con quella degli uomini, originando così un'unica storia sacra. In tal modo il mito diventa rivelazione e attorno al mito, che racconta l'esperienza di Dio, si sviluppano i culti, quali atti che riconoscono e accolgono il Dio manifestatosi nella natura e rivelatosi nella storia.
L'esperienza di Dio nella creazione e nella storia si andò sempre più approfondendo lungo il corso dei secoli, solidificandosi in miti e culti in Israele fino a raggiungere una profondità spirituale e una maturità religiosa, che portò Israele a riconsiderare tutta la sua storia e la sua esperienza, che ora viene apertamente vissuta e considerata sotto un unico aspetto, quello teologico.
Nasce così la letteratura sapienziale in cui non c'è più un popolo che scopre un Dio operante nella storia o manifestantesi nella natura, ma è una storia in cui l'attore principale è un Dio in continuo dialogo con l'uomo.
Quindi la storia del popolo è in realtà la storia di Dio e Israele ne diventa sua creatura.
Tesi V
Nuovo Testamento: Gesù Cristo profeta escatologico
La funzione dei profeti in Israele fu molto importante perché con la loro parla rendevano presente Dio in mezzo al popolo e lo aiutavano ad autocomprendersi e a comprendere il senso della storia. Ma dopo l'esilio la voce dei profeti si spense e venne sostituita nel tempo dagli scribi e farisei, che interpretavano la Legge rendendola accessibile al popolo. Era pertanto atteso un nuovo e definitivo profeta che parlasse nuovamente in nome e per conto di Dio e che rompesse finalmente il suo silenzio. Questa venuta avrebbe segnato l'inizio dei tempi nuovi, del tempo escatologico.
Non era chiara la sua identità, ma chiara invece la sua aspettativa e il senso della sua missione: doveva ripristinare la rivelazione e restaurare l'Alleanza sinaitica, inaugurare un culto nuovo e ristabilire la gloria di Israele, cacciando i romani oppressori.
C'era dunque un senso di attesa generale che decretò il successo della predicazione del Battista.
In questo clima di forte tensione escatologica gli Esseni, mossi dall'ispirazione del Maestro di Giustizia, ispirato dal v. 40,3 di Isaia, si ritirarono nel deserto e qui avevano organizzato la loro vita nell'attesa della venuta del messia, o meglio, di un doppio messia: uno sacerdotale e uno politico-militare.
Nell'ambito di questa cornice di grande attesa risuona vigorosa e prepotente la predicazione di Giovanni, che indica in Gesù l'atteso dalle genti, il messia, colui che doveva venire.
Nel vangelo più volte viene attribuito a Gesù il titolo di profeta. E' la stessa gente che glielo riconosce, vedendo in Gesù un uomo che si pone in uno speciale rapporto con Dio e i suoi miracoli lo confermano. La Samaritana, vistasi scoperta, lo riconosce profeta e messia; gli stessi discepoli, interpellati da Gesù su che cosa la gente pensa di lui, gli rispondono che la gente lo ritiene Elia, Geremia o uno dei profeti, mentre loro lo riconoscono come il Cristo.
Ma ciò che definisce Gesù nel suo aspetto di profeta escatologico, che annuncia l'avvento degli ultimi tempi in cui egli si qualifica come l'ultimo e definitivo discorso di Dio agli uomini sono tre luoghi particolari:
· Il battesimo di Gesù; · la trasfigurazione; · la parabola dei vignaioli (Mc 12,1-12)
Il battesimo di Gesù segna l'inizio della missione di Gesù e la sua investitura profetica. La cornice teologica, appositamente costruita dagli evangelisti intorno all'evento del battesimo, ne spiega il profondo significato. Così racconta Marco: "Vide i cieli aperti e lo Spirito Santo, quasi colomba, scendere sopra di lui; mentre dai cieli venne una voce: <<Tu sei il mio Figlio diletto, in te mi sono compiaciuto>>" (Mc 1,10-11).
L'aprirsi dei cieli ci colloca nell'ambito di una teofania e ci predispone ad una rivelazione. Nessuno infatti può comprendere il senso dl battesimo di Gesù se non interviene la Voce, che fornisce il suo imprimatur alla missione di Gesù, rendendola credibile. Essa diviene in tal modo una sorta di risposta anticipata al dramma del Golgota, che invece la mette in discussione, travolgendo la persona stessa di Gesù e le sue pretese di figliolanza divina e di messianicità.
La discesa dello Spirito Santo assume il significato di un'investitura divina, una consacrazione dell'uomo Gesù, che Dio si riserva per sé per l'attuazione del suo disegno salvifico. In tal modo Gesù viene qualificato come il profeta per eccellenza, cioè la voce di Dio che è ritornata a farsi sentire in mezzo agli uomini.
Gesù stesso, richiamandosi a Isaia, riconoscerà nella discesa dello Spirito su di lui la sua consacrazione profetica: <<Lo Spirito del Signore è su di me, per questo egli mi ha unto, per annunciare la buona novella ai poveri>>" (Lc 4,18).
La Trasfigurazione, richiamandosi al battesimo, lo conferma. In questo contesto Gesù si trova in mezzo a Mosé e ad Elia, quasi a dire che egli riepiloga in sé la Legge e Profeti ed è venuto per affermare la signoria di Dio in mezzo agli uomini. Egli infatti si fa nuovo interprete delle Scritture (Mt 5,21-48), inaugura un nuovo culto a Dio (Mt 21,12-13) e dà inizio al Regno di Dio in mezzo agli uomini.
Come nella teofania battesimale anche qui una Voce si diffonde dal cielo e indica nell'uomo Gesù suo Figlio ed esorta ad ascoltarlo. Egli pertanto si qualifica come la voce di Dio in mezzo agli uomini, attuando in sé la profezia di Mosé "Vi invierò un profeta e voi lo ascolterete" (Dt 18,15).
E' ancora una volta dunque questa cornice teofanica e rivelativa che spiega la vera natura di Gesù e il senso della sua missione: egli è la voce di Dio in mezzo agli uomini, mentre il suo operare si qualifica come l'azione stessa del Padre (Gv 14,9-10).
Nella parabola dei vignaioli malvagi Gesù ricostruisce le vicende che hanno segnato il rapporto tra Dio e il suo popolo; un rapporto difficile, fatto di rifiuti e prevaricazioni. Gesù denuncia come quel Dio onorato con le labbra, in realtà, nei fatti, veniva rifiutato. I profeti inviati, infatti, furono respinti e uccisi.
Ora, da ultimo, Dio invia suo Figlio. E' proprio quel "da ultimo" che dà alla missione di Gesù il senso della definitività e del giudizio sul mondo. Gesù dunque è l'ultimo profeta di fronte al quale il popolo e il mondo intero sono obbligati a prendere posizione: "chi non è con me è contro di me". La radicalità della missione di Gesù sta tutta qui: è giunto il tempo di decidersi per Dio, perché ormai non c'è più tempo e l'uomo non deve aspettarsi altro da Dio. Tutto ciò che Egli ci doveva dire e dare lo ha già detto e dato; la palla ora è in mano nostra, la salvezza dipende esclusivamente da noi. Questa radicalità ci sta ad indicare che Gesù è veramente l'ultimo discorso di Dio fatto all'uomo, l'ultimo appello rivolto al suo popolo, in cui già è contenuto il giudizio posto sul mondo.
Questa escatologia inaugurata nella persona di Gesù e la necessità di prendere posizione a favore di Dio sarà da lui stesso espressa nel suo lamento su Gerusalemme alla vigilia della sua morte: "Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli, come una gallina raduna i pulcini sotto le sue ali e tu non hai voluto" (Mt 23,37). Parole dure e amare che risuonano anche nel prologo giovanneo: "egli venne tra i suoi e i suoi non l'hanno accolto" (Gv 1,11).
Riprendendo la parabola dei vignaioli Gesù conferma la definitività della sua persona e della sua missione, un ultimo appello che porta con sé il giudizio già posto sul mondo.
Gesù dunque si pone come l'ultimo profeta, ma a differenza dei profeti che parlavano in nome di Dio, egli parla a nome di se stesso ("Ma io vi dico ..."), ponendosi così al di sopra di Mosé; e la gente gli riconosce un'autorità inusitata, superiore a quella dei propri scribi e farisei..
Egli con la sua persona, che costituisce un discriminante, convoca a giudizio il mondo sollecitandolo a compiere la sua scelta, avvertendolo che "chi non è con me è contro di me". Ma il seguirlo non è cosa facile poiché comporta una rottura traumatica con il mondo; si rende infatti necessario per seguirlo prendere la sua croce o spogliarsi di tutto, come fu sollecitato al giovane di Matteo (19,16). Seguire Gesù richiede determinazione e fermezza poiché chi prende in mano l'aratro e poi si volta indietro non è degno di lui.
Una figura difficile, una persona inquietante quella di Gesù, la cui presenza crea divisioni: "non sono venuto a portare la pace, ma la spada" ed è proprio in questa divisione, in questa separazione che si annida il giudizio di Dio.
Tesi VI
Nuovo Testamento: Gesù Cristo annunciatore dl Regno d Dio
I vangeli sinottici si aprono con la presentazione della figura di Giovanni Battista, profeta escatologico dell'imminente giudizio di Dio. Sarà infatti Zaccaria nel suo cantico a definire la figura e la missione di Giovanni: "E tu bambino sari chiamato profeta dell'Altissimo; camminerai innanzi al Signore a preparare le sue vie" (Lc 1,76).
E Giovanni apre la sua predicazione in termini escatologici: "Razza di vipere chi vi ha insegnato a sfuggire all'ira che sta per venire ... Già la scure è posta alle radici degli alberi. Ogni albero che non fa buoni frutti viene tagliato e gettato nel fuoco" (Mt 3,10).
Ed ecco che appare sulla scena Gesù, che gli fa eco: "Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15). La missione di Gesù dunque si inserisce e si innesta, quasi continuandola, su quella di Giovanni ed esordisce proprio con l'annuncio dell'avvicinarsi del Regno di Dio in mezzo agli uomini. In tal modo il Regno assume la coloritura del segno escatologico, il luogo del ritorno di Dio in mezzo agli uomini, così com'era neo primordi dell'umanità.
Il centro della predicazione di Gesù, in particolar modo questo viene rilevato in Matteo, è il Regno, benché ben diverse siano le prospettive tra il Battista e Gesù. Giovanni, infatti, invita alla conversione, da un lato, per predisporsi ad accogliere degnamente la venuta di Dio in mezzo al suo popolo; dall'altro, per scampare all'ira imminente. Quindi la visione escatologica del Battista è quella di un ira imminente che incombe sull'uomo e lo spinge alla conversione, che in tal modo è opera dell'uomo, nel senso che è l'uomo che deve darsi da fare per cambiare. Tutto dipende da lui.
Radicalmente opposta la visione escatologica di Gesù: nessun invito a prepararsi ad accogliere il Dio che viene verso il suo popolo, poiché tale Dio è già in mezzo alla sua gente. C'è, invece, soltanto un invito a "credere", ad aprirsi al lieto annuncio che è già presente. Dio quindi è già presente con la sua misericordi e il suo perdono e lo offre all'uomo, che interpella perché aderisca alla salvezza già presente.
Quindi, mentre in Giovanni la conversione deve precedere l'avvento di Dio nella storia per sottrarsi alla sua ira; in Gesù l'invito è conseguente alla venuta di Dio, mentre il suo Regno è una proposta di salvezza. E mentre Giovanni annuncia l'ira imminente di un Dio che sta per venire, Gesù annuncia la misericordia di Dio che va alla ricerca del peccatore, la cui conversione è la giusta risposta al Regno, che è la Signoria di Dio nel mondo.
Il Regno di Dio non ha connotazioni politiche o geografiche, ma dice che Dio è tornato in mezzo agli uomini e chiede loro di decidersi di entrare, di ritornare con Lui e di prendere posizione in suo favore.
Ma come è nata l'idea del Regno di Dio? Di certo non fu un'invenzione di Gesù, ma egli ne ereditò l'idea e il concetto dal suo popolo, così che quando egli parlava del Regno di Dio che era giunto, la gente lo capiva molto bene.
Dio, infatti, si pone all'origine di Israele, scegliendosi un popolo e diventandone il suo Signore. Lo ricorda ad Israele ai piedi del Sinai, mentre si appresta a fargli dono dell'Alleanza: "Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù" (Es 20,2). Dio dunque si dichiara sovrano e signore su quel popolo, che è sua creatura e proprietà.
E Dio sarà per Israele colui che lo guida nel cammino della storia lo salva dai suoi nemici. Così sarà fino al 1030 a.C. quando il popolo vuole darsi una struttura di stato e le connotazioni proprie di una nazione. Verranno eletti in tempi successivi tre re: Saul (1030-1010), Davide (1010-970) e Salomone (970-933). Essi tuttavia non sono i sostituti di Dio, ma suoi servi e amministratori, mediatori tra Dio e il suo popolo, che rimane territorio e proprietà di Dio, su cui Dio, per mezzo del re eserciterà la sua signoria.
Ed ecco che Dio, per mezzo di Natan, fa una promessa a Davide: "Io assicurerò dopo di te la discendenza e renderò stabile il suo regno" (2Sam 7,12). Si parla dunque di una discendenza, anzi "la discendenza", quindi un qualcuno di ben definito, anche se non ancora identificato. Il regno di tale discendenza sarà stabile per sempre, lasciando intuire che tale regno avrà una sorta di connotati divini, ponendosi le sue radici nella promessa di Dio stesso.
Le alterne vicende del regno di Israele, però, sembrano contraddire la promessa di Dio. Infatti nel 722 il Regno del Nord viene cancellato dalle armate di Sargon II, mentre 125 anni più tardi il Regno del Sud, in tre ondate successivi (597, 587, 582) viene distrutto e il popolo deportato a Babilonia.
Ma la fede di Israele nella promessa di Dio fatta a Davide, rianimata dalla voce dei profeti, fa riaccendere la speranza nella venuta di un Messia che dovrà dare stabilità e splendore a Israele, liberandolo dai suoi oppressori e innovando la sua vita spirituale e i suoi rapporti con Dio.
In tale ricordo ha origine la lunga attesa messianica che accompagnerà il popolo fino alla venuta di Gesù. Quando Gesù entra in scena, preceduto dalla predicazione escatologica di Giovanni, ha buon gioco e trova la gente nel giusto stato di attesa. Tuttavia questo stato di tensione verso la venuta di un Messia liberatore e restauratore di Israele non porterà i frutti sperati, poiché le fantasie che questa attesa prodotto in Israele si discostavano enormemente dal Messia pensato da Dio per il suo popolo, così che Gesù si vedrà costretto a richiamare duramente Pietro, che lo invitava a non fare certi discorsi disdicevoli per un messia (Mc 8,33).
Ed è proprio in tale contesto storico e cultural che Gesù inizierà la sua missione ed eleverà il suo proclama: "Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15), ricollegandosi in tal modo alle attese messianiche ed escatologiche che da secoli albergavano nel popolo. "Il tempo è compiuto". Quando si parla di tempo compiuto siamo implicitamente portati a pensare ad uno spazio temporale che ha avuto un suo inizio e che trova proprio ora il suo compimento. Ma se di compimento si parla ciò significa che ci dev'essere un qualcosa di sopra di tutto che ne decreta il compimento e che questo compimento si attua in un determinato tempo. Tutto ciò lascia pensare che all'interno della storia dell'uomo si sia infiltrato, permeandola intimamente, un progetto divino che conduce tutte le cose al loro giusto compimento. E' pertanto significativo che a pronunciare questa sentenza di compimento sia proprio Gesù, il quale vede in se stesso il vertice compiuto del sogno del Padre. Ed è proprio il Gesù matteano che esplicita meglio questa sua coscienza: "Non sono venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma a darne compimento" (Mt 5,17), mentre il Gesù di Luca, rivolto ai due smarriti discepoli di Emmaus, prende coscienza come il cammino veterotestamentario fosse rivolto verso di lui: "E cominciando da Mosé e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (Lc 24,27).
Ma di quale tempo compiuto si parla? In greco ci sono due modi per esprime la parola tempo: cronoj e cairoj. Il primo indica il tempo fisico, di cui tutti noi abbiamo esperienza; mentre il secondo indica un tempo particolare, un tempo prestabilito, è il tempo proprio di Dio, che nulla ha a che vedere con il cronoj, che è il tempo proprio degli uomini.
Il cairoj indica l'attuarsi del disegno di Dio, nascosto in Dio stesso, ed è il tempo della risposta alle attese messianiche di Israele, che attendeva la ricostituzione della sovranità e della Signoria di Dio in mezzo agli uomini.
"Il Regno di Dio è vicino". Questo regno non ha ovviamente connotazioni politiche e/o geografiche, poiché "il mio regno non è di questo mondo" (Gv 18,36a), ma va interpretato secondo quanto Israele aveva sempre inteso: la Signoria di Dio. Il grosso limite di Israele in tutto ciò consistette nel dare tratti squisitamente terreni e mondani a tal Signoria di Dio, secondo schemi e progetti umani.
La vicinanza di questo regno non è certo di tipo temporale, ma, per così dire, fisica; cioè è un regno che si è fatto vicino all'uomo e, quindi, in qualche modo già presente. Gesù darà questo segno ai suoi polemici interlocutori: "Ma se io caccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto in mezzo a voi il Regno di Dio" (Mt 12,28).
A fronte di tale annuncio, indicativo di salvezza, fa seguito l'imperativo di tale salvezza: "Convertitevi e credete al vangelo", letteralmente "cambiate modo di pensare e confidate, cioè abbiate fiducia nel vangelo". E' dunque un forte invito che Gesù rivolge alle genti a riorientare il proprio modo di vivere a Dio, conformando la propria esistenza alle sue esigenze. Egli è venuto, quindi, per creare un movimento escatologico di raccolta di tutti gli uomini per ricondurli al Padre (Mt 23,37).
L'esortazione finale fa cadere l'accento sul Vangelo: "... credete al Vangelo". Ma che cos'è il Vangelo? Il termine greco, eu-aggelion, parla di un lieto annuncio, di una Parola che da gioia: Dio è tornato nel suo Cristo in mezzo agli uomini e tende loro la mano offrendo loro incondizionatamente il perdono dei loro peccati, mentre nelle parabole del banchetto e nel sedersi a tavola con i peccatori propone loro la condivisione della vita stessa di Dio, nonostante la loro triste condizione di peccato, anzi, proprio perché sono dei peccatori (Mt 9,10-13). Elaborando questo concetto Paolo esclamerà nella sua Lettera ai Romani: "Non vi è dunque più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1).
Gesù è questa lieta Parola incarnata del Padre che non si esprime soltanto a parole, ma sopratutto opera in mezzo agli uomini. Gesù è dunque il Dabar del Padre, la sua Parola-Azione che si compie in mezzo agli uomini e nel suo compiersi opera la salvezza ad ogni livello, restituendo loro quella dignità che avevano perduto con il peccato. E i miracoli sono proprio l'azione della Parola o, per meglio dire, la Parola che si fa azione, sprigionando significativamente e simbolicamente in essi il senso della venuta di Gesù: rigenerare l'uomo a Dio, restituendogli la sua perduta immagine divina e anticipando in essi, in qualche modo, gli effetti propri della risurrezione, una nuova creazione in cui viene ricostituita la primordiale Signoria di Dio sul creato.
Credere nel Vangelo, quale primo atto di salvezza, significa aderire esistenzialmente alla persona di Gesù, volto storico dell'amore del Padre.
Ma quali sono i segni di questo Regno di Dio? Ai discepoli di Giovanni, venuti a chiedergli se è lui il messia, Gesù risponde: "Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella" (Mt 11,4-5). Matteo pone qui un elenco che sintetizza tutti i miracoli di Gesù, ma che nel contempo mostra un breve campionario di un'umanità decaduta e vittima del peccato, che viene riscattato e rigenerato ad una nuova vita grazie al suo intervento salvifico. Certo il compito di Gesù non era quello di soccorrere gli uomini nelle loro indigenze, ma in queste guarigione egli ha voluto significare che un qualcosa di nuovo è venuto in mezzo a loro e che la sua azione è l'azione stessa di Dio che li rigenera ad una nuova vita, restituendoli alla loro originaria dignità divina.
E' significativo in tal senso la diversa denominazione che Sinottici e Giovanni attribuiscono ai miracoli di Gesù. Per i Sinottici i miracoli sono dei "dunameij", cioè la potente azione di Dio che opera la rigenerazione dell'uomo ad una vita nuova e che troverà la sua massima espressione nella risurrezione stessa. Per Giovanni, invece, essi sono semplicemente dei "semeia" cioè dei segni, che invitano il credente a non fermarsi ad essi, ma ad andare oltre per cogliere la realtà divina che sta al di là di questi segni e ad aderirvi esistenzialmente conformandosi ad essa.
E' un regno questo che non è appariscente, ma richiede una faticosa ricerca e la radicale decisione di rinunciare a tutto pur di averlo (v. in proposito le parabole del tesoro nascosto e della perla preziosa); un regno che porta in sé il giudizio di Dio sul mondo (v. la parabola del buon grano e della zizzania).
TESI VII
Nuovo Testamento: Gesù Cristo instauratore del Regno di Dio
Il Regno di Dio, concepito come la rinnovata Signoria di Dio in mezzo agli uomini, venne annunciata da Gesù non solo con parole, ma anche con dei segni (i miracoli) intesi ad indicare l'instaurazione di tale regno o, per meglio dire, la presa di possesso di Dio del regno degli uomini. Dio, in buona sostanza, viene a riprendersi ciò che è stato suo fin da principio. Si realizza qui concretamente il cuore del progetto divino, della storia della salvezza: recuperare l'uomo alla sua dimensione primordiale, che era la dimensione stessa di Dio: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza" (Gen 1,26a).
Significativi in tal senso sono due episodi riportati dai Sinottici: la guarigione del paralitico (Mt 9,2-7) e l'incontro di Gesù con i discepoli di Giovanni (Mt 11,2-6).
Nel primo episodio a Gesù viene presentato un paralitico a cui Gesù si limita, in prima battuta, a immettere i peccati. Tale gesto viene correttamente interpretato dai presenti che, scandalizzati, protestano che solo Dio può rimettere le colpe. Ma è proprio questo il segno concreto della presenza di Dio in mezzo agli uomini: la gratuita riconciliazione di Dio con l'uomo che avviene per mezzo di Gesù, sacramento d'incontro tra il Padre e l'umanità decaduta. Ma poiché tale riconciliazione non è immediatamente percepibile, per la natura squisitamente spirituale della Signoria di Dio e quindi trascendente la capacità percettiva dell'uomo, Gesù rende visibile tale realtà con un segno concretamente recepibile a tutti, e rivolto al paralitico gli intima di alzarsi e di tornarsene a casa.
In tal senso il miracolo diventa un segno che rimanda alla presenza di realtà spirituali, dinamicamente operanti in mezzo agli uomini e che nel riconciliare l'uomo con Dio, lo riconcilia anche con se stesso e con gli altri. L'effetto di tale riconciliazione ha, quindi, come conseguenza percepibile la ricostituzione dell'uomo nei suoi rapporti sociali e nel suo stesso equilibrio personale.
Un secondo episodio, più esplicito, riguarda l'incontro di Gesù con i discepoli di Giovanni, venuti a chiedergli se era lui il messia. Gesù risponde loro con le parole del profeta Isaia: "Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella" (Mt 11,4-5).
Due sono gli ordini di eventi indicati da Gesù: "Udite e vedete" e "Miracoli e Annuncio".
L'impianto del Regno di Dio, quindi, si attua con i fatti e le parole. Parole che spiegano i fatti; i fatti che incarnano e attuano la Parola.
Le malattie, infatti, erano considerate presso gli ebrei come forme di possessione demoniaca ed esprimono la presenza del potere del Maligno. La guarigione, quindi, significava la sconfitta del Maligno e l'instaurazione del Regno di Dio.
I segni che testimoniano la presenza del regno di Dio nell'agire di Gesù sono fondamentalmente due: i segni della misericordia e quelli della potenza.
I segni della misericordia
Il senso della missione di Gesù già si intuisce nella risposta che egli dà ai discepoli di Giovanni, in cui vengono elencate una serie di figure sociali, che esprimevano il degrado della dignità dell'uomo: ciechi, sordi, lebbrosi, storpi, morti e poveri in genere. Così pure nell'enunciare le beatitudini Gesù si rivolge ad una serie di persone che configurano gli oppressi, coloro che la storia non la fanno, ma la subiscono: i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i perseguitati, gli insultati; e come non bastasse, ecco i pubblicani, i peccatori, le prostitute. Questo è il terreno fertile su cui viene impiantato proficuamente il Regno di Dio, proprio perché su tale terreno si manifesta più chiaramente la misericordia di Dio e la sua opera di salvezza, che qualifica tale Regno come Regno di pace, cioè il Regno della riconciliazione di Dio con l'uomo.
Gesù mostra tutta la sua simpatia e la sua attenzione per questa categoria di persone, tant'è che è conosciuto nell'ambiente come colui che se la fa con i pubblicani e i peccatori e che non disdegna di lasciarsi avvicinare dalle prostitute: "Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori" (Lc 7,34).
Questo mettersi a tavola di Gesù con i pubblicani e i peccatori acquista un significato profondo che Gesù stesso dà: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (Lc 5,31-32). Con tale gesto Gesù vuole significare che anche i peccatori sono gratuitamente ammessi al banchetto escatologico del Regno e alla comunione con Dio. Anzi proprio loro ne sono i più bisognosi, così che "ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione" (Lc 15,7)
I segni della potenza: esorcismi e miracoli
Un altro aspetto in cui viene concretamente e visibilmente annunciato il Regno di Dio e il suo impianto in mezzo agli uomini sono gli esorcismi, le guarigioni e i miracoli in genere. Sono tutti segni della potenza di Dio, che annuncia l'instaurarsi del regno di Dio tra gli uomini.
Il miracolo, pertanto, non va inteso come un segno meraviglioso finalizzato a stupire l'uomo, soggiogandolo in tal modo a Dio. Esso è innanzitutto un annuncio e un segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, una manifestazione della Parola che attua ciò che dice, così come lo fu per il paralitico, per Lazzaro, per la figlia di Giairo della vedova di Naim: una parola che chiama alla vita e dà la vita, una parola che per sua natura è rigeneratrice e creatrice.
Similmente il miracolo si pone come un atto della creazione divina.
Già agli inizi della creazione vediamo all'opera l'azione creatrice di Dio, là dove il suo Spirito aleggiava sopra le acque del caos primordiale, dell'informe, dell'inesistente. Qui la Parola creatrice risuona per la prima volta e mette ordine, chiamando alla vita l'intero universo, degradato dalla colpa dell'uomo. Ed è proprio qui che si inserisce il miracolo quale atto divino, che riordina una creazione deteriorata , che ridà la vita e chiama nuovamente l'uomo alla vita come Dio chiamò Adamo a partecipare alla sua stessa vita.
Il miracolo, oltre che essere espressione della potenza e misericordia divine, qualifica anche la figura di Gesù; esso è una sorta di biglietto da visita che definisce Gesù come un uomo in stretto rapporto di collaborazione con Dio. Tale è il senso che emerge dall'annuncio di Pietro negli Atti: "Gesù di Nazaret, uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua" (At 2,22).
In sintesi potremmo dire che i miracoli qualificano Gesù come il profeta escatologico, intimamente unito a Dio e che in Lui si colloca in mezzo agli uomini e lo attesta per mezzo del miracolo. Esso, quale atto escatologico, è una nuova creazione, che tende a ristabilire un mondo e a rigenerare un mondo degradato dal peccato.
Esso, dunque, qualifica Gesù come il messia, che non soltanto parla, ma attua ciò che dice, qualificando la sua parola come efficace e creatrice, parola potente che testimonia la presenza di Dio in mezzo agli uomini e ne fa l'azione stessa di Dio qui nella storia.
Il miracolo, infine, è un segno che interpella l'uomo nel corso del suo esistere e gli chiede un'adesione di fede, cioè il suo aprirsi, il suo rendersi disponibile ad accogliere la potenza divina che opera, poiché senza la fede questa potenza è resa inefficace.
TESI VIII
Nuovo Testamento: Gesù Cristo rivelatore del Padre
"In principio era il Verbo e il Verbo era presso Do e il Verbo era Dio ... e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,1.14);
"Filippo, chi ha visto me a visto il Padre ... io sono ne Padre e il Padre è in me ... le parole che dico non le dico da me, ma il Padre che è in me compie le sue opere (Gv 14,9.11);
"Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola" (Gv 17,21).
Basterebbero queste poche citazioni per intuire l'intimo rapporto che intercorre tra Gesù e il Padre e come essi, pur essendo due, in realtà sono un'unica cosa, cioè un'unica sostanza.
Il Padre quindi è presente nel Figlio, egli opera in lui così che il Figlio diventa piena esplicitazione del Padre, anzi Gesù è colui che non solo con la sua persona testimonia il Padre, ma ne è sua concreta attuazione, ne è il volto storico, lo spazio storico entro cui il Padre opera a favore dell'uomo, così che possiamo dire che Gesù è la stessa azione del Padre.
Questa attuazione del Padre già incomincia con l'incarnazione, grazie alla quale Dio entra nella storia e si rende visibile nell'umanità di Gesù, che è umanità di Dio, e prosegue nella sua manifestazione ed esplicitazione attraverso la parola e le opere di Gesù, che sono in realtà l'azione stessa del Padre.
In tal modo il senso più vero e profondo della persona di Gesù è quello di essere manifestazione e rivelazione del Padre. Questa è la funzione primaria del Figlio: essere manifestazione e attuazione della volontà del Padre, che ne costituisce l'alimento primario (Gv).
Già all'inizio della creazione vediamo come questa scaturisca dallo stretto rapporto che intercorre tra il Padre e il Figlio e come quest'ultimo si presenti come la mano attuatrice e rivelatrice del Padre.
Prendiamo brevemente in esame a titolo esemplificativo il versetto di Gen 1,3: "E Dio disse: <<Sia la luce>>; e la luce fu. E Dio vide che la luce è cosa buona".
"E Dio disse". Il dire di Dio è la sua stessa Parola,. quel Verbo eterno che Giovanni contempla all'inizio del suo Vangelo come rivolto verso (proj) il Padre e che per mezzo del quale tutte le cose furono fatte (Gv 1,1-3).
Vediamo come questo "Dire" di Dio svolge una duplice funzione: rivela e crea. Nel suo dire "sia la luce" egli manifesta ciò che era nel segreto del Padre, ma mentre lo svela lo attua, ne dà piena concretezza: "E la luce fu!". Tale immediatezza tra il rivelare e l'attuare al punto tale che le due cose sembrano coincidere, ci viene espressa letterariamente dal susseguirsi rapido e immediato dell'azione: "Sia la luce. E la luce fu".
L'atto rivelativo-creativo della Parola è un atto perfetto e compiuto. L'autore infatti si affretta a dirci che "Dio vide che la luce era cosa buona". La bontà della cosa creata testimonia l'assoluta fedeltà della Parola al Padre, quasi da crearne una sorta di identità. Infatti nel constatare e riconoscere la bontà della creazione il Padre si rispecchia in essa e in essa si ritrova.
La Parola, dunque, è un Dabar, cioè un'azione propria di Dio, rivestita e permeata della sua stessa potenza. "Infatti la parola di Dio e viva ed efficace ..." (Eb 4,12a), cioè è un essere vivente ed è efficace in quanto produce ciò che dice.
Tre dunque sono sostanzialmente i tratti che caratterizzano la Parola e che ritroviamo in Gesù: essa è rivelatrice, efficace e pienamente fedele al Padre.
Ma questo Gesù, intimamente unito al Padre al punto di formare una sola cosa con lui; questo Gesù, che è parola rivelatrice e attuatrice della sua volontà, quale conoscenza aveva del Padre?
La risposta viene proprio dal particolare rapporto tra Gesù e il Padre: essi sono una cosa sola fin dall'eternità, quell'eternità che Giovanni contempla nel Verbo e che proclama con solennità: "In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio" (Gv 1,1). Proprio qui sta la chiave che ci dà la risposta: da sempre, in modo coeterno, Padre e Figlio si compenetrano e si conoscono. Non si tratta di una conoscenza intellettuale, ma posta sul piano dell'esperire. Ciò significa che la conoscenza che Gesù ha del Padre è derivata dall'esperienza che lui ha del Padre; una conoscenza che è diretta e non mediata. Quindi, quando Gesù afferma "... come il Padre consoce me, così io conosco il Padre" (Gv 10,15) egli afferma che tra loro due c'è un'unica, profonda e reciproca conoscenza, che è comunione di vita, comune esperienza di dell'unica vita che li unisce inscindibilemente e che fa dei due una cosa sola, al punto tale che il Figlio è piena manifestazione del Padre.
Da tutto ciò discende che le parole e le opere di Gesù sono necessariamente e per loro natura manifestazioni del Padre, che in esse si rivela nel Figlio.
Questo porsi di Gesù, in cui opera il Padre, esige una risposta che non è semplice, poiché la conoscenza della persona di Gesù trascende il semplice esperire umano. C'è bisogno quindi della luce dello Spirito, cioè della stessa intelligenza di Dio, che fa comprendere le cose di Dio e del suo mondo, secondo la promessa di Gesù: "Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà di sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future" (Gv 16,13).
Ma non è sufficiente comprendere la reale dimensione e grandezza di Gesù per potervi aderire, occorre anche un intervento del Padre, che rende accessibile l'adesione esistenziale a Gesù: "Nessuno può venire a me se non gli è concesso dal Padre mio" (Gv 6,44.65)
TESI IX
Nuovo Testamento: Gesù Cristo di fronte alla sua morte
La figura di Gesù non è tra le più trasparenti della storia, anzi è inquietante, equivoca, di difficile comprensione e talvolta si pone ai confini della pazzia.
Di fatto Gesù non è capito da sua madre, che di fronte alle strane affermazioni del figlio e a ciò che si diceva di lui (Lc 2,18.49), "serbava in cuor suo tutte queste cose" (Lc 2, 19.50.51b). Non è capito dai suoi parenti più stretti e da sua madre stessa, che compatti partono per andarselo a prendere per ricondurlo a casa, "poiché dicevano: <<E' fuori di testa>>" (Mc 3,21). Non è capito dai suoi discepoli che a più riprese lo lasciano (Gv 6,60.66) e fino all'ultimo dubitano di lui (Mt 28,17b). Non è compreso dai suoi stessi concittadini che tentano di buttarlo giù da un dirupo (Lc 4,28). E infine la sua stessa missione sembra essere stata un sostanziale fallimento se Giovanni, a conclusione della missione terrena di Gesù, si sente di commentare: "Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui" (Gv 12,37).
Quella di Gesù, poi, è una figura strana perché fa discorsi strani: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda" (Gv 6,54-55); "Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. ... Bevetene tutti perché questo è il mio sangue dell'alleanza ..." (Mt 26, 26b.27b). E' uno che si autodefinisce re e afferma la sua regalità davanti al governatore Pilato (Gv 18,37) e non sconfessa il titolo di Figlio di Dio (Mt 26,63-64). Dichiara poi di distruggere il Tempio e di riedificarlo in tre giorni (Gv 2,19) e inveisce in modo duro contro le riconosciute autorità d'Israele (Mt 23).
Tiene, infine, dei comportamenti strani, al limite dell'ortodossia, anzi talvolta violandola, come quando entrando nel tempio lo mette a soqquadro, creando un gran trambusto (Mt 21,12-17; Mc 11,15-17; Lc 19,45-46; Gv 2,13-19), viola ripetutamente il sabato e mangia indifferentemente con pubblicani e peccatori, non disdegnando di lasciarsi avvicinare dalle prostitute; né rispetta la purità rituale (Mc 7,1-7).
Un personaggio difficile, dunque, da capire e che lo stesso Padre, colui che egli dice essere su Padre, in realtà lo abbandona nel momento più critico della sua vita: sulla croce.
E' difficile capire un personaggio simile, dargli fiducia sopratutto quando, proprio per il suo comportamento, va a finire sulla croce, sulla quale viene sconfessato da Dio stesso, suo Padre, poiché, secondo Dt 21,23, "l'appeso è una maledizione di Dio".
Gesù, pertanto, entrò in conflitto con l'ambiente sia religioso che politico-sociale, in quanto considerato un sobillatore e un violatore delle tradizioni dei Padri e della Torah stessa, sfidando lo stesso Mosé (Mt 5,17-48).
Il conflitto con l'ambiente religioso
L'annuncio del regno di Dio comportò non solo una reinterpretazione della Legge mosaica, ma anche un comportamento che violava i principi fondamentali di tale religiosità:
· ripetuta violazione del sabato; · l'arrogarsi un'autorità superiore a quella di Mosé, a cui sembrava contrapporsi; · lasciava intendere di essere in uno stretto rapporto con Dio e talvolta sembrava identificarvisi e di certo di fronte al Sinedrio non negò di esserlo; · si sedeva a mensa con pubblicani e peccatori e si lasciava avvicinare e toccare dalle prostitute; · si arrogava il potere di rimettere i peccati; · minacciò di distruggere il tempio e ne cacciò i venditori e cambiavalute; · ed infine, la sua figura messianica, il suo preteso messianismo non corrispondeva affatto a quello della Tradizione.
Del resto, il fuggire dei suoi discepoli al momento del suo arresto e le continue defezioni di suoi discepoli durante la sua missione terrena stanno a dimostrare la sfiducia o quanto meno i molti dubbi che essi nutrivano su di lui fino all'ultimo istante, poco prima della sua ascensione al cielo (Mt 28,17b).
Il conflitto con il potere politico
Il tipo di morte a cui fu condannato Gesù, la crocifissione, lascia intravedere che egli fu compreso dal potere romano, sia pur sotto istigazione delle autorità religiose ebraiche, un ribelle ed un istigatore e il "titulus" posto sopra la sua croce toglie ogni dubbio.
Questa, dunque, fu la fine di uno dei tanti messia che periodicamente infestavano la Palestina, scatenando sanguinose repressioni da parte dei Romani.
Ma a differenza di quanto successe ai vari messia che precedettero e seguirono Gesù, qualcosa di diverso avvenne, di sconvolgentemente diverso: questo sedicente messia, quest'uomo così strano da essere considerato pazzo anche dai suoi parenti più stretti, come la sua madre stessa, è risorto.
Questo cambiò tutto e costrinse tutti quelli che lo conobbero a rivedere e a ricomprendere le sue "stranezze" e si incominciò a intravedere e a intuire in esse il manifestarsi della stessa potenza di Dio, così lontana dalle ristrette logiche umane. La storia non fu più quella di prima né l'uomo non poteva più far finta di niente. Ci si rese conto che la sua persona fu lo stesso giudizio di Dio posto sull'umanità, una sorta di sparti acque: chi non è con me è contro di me. Per la prima volta l'uomo si sentiva chiamato a dare la sua risposta, da cui dipendeva la sua stessa salvezza.
L'abbandono di Dio e in Dio
La morte di Gesù sulla croce, abbandonato dai suoi fedelissimi e deriso dai suoi nemici, che gli rinfacciavano le sue pretese, fu la morte di un disperato che sulla croce sperimentò il fallimento della sua missione e della sua vita nonché l'abbandono stesso di quel Dio a cui si era posto a servizio. Un dolore e una disperazione immensi che esplosero in quell'urlo inarticolato, quasi animalesco, uscito da lui l'attimo prima di morire, quasi una sorta di bestemmia contro tutto e tutti.
Quel Dio per il quale era vissuto, quel Padre nel cui nome aveva operato, quel Dio con cui si era identificato e di cui si arrogava il potere e l'autorità, quel Dio lì lo aveva abbandonato e non glia aveva saputo evitare una morte così infamante e umiliante, a lui che si era speso tutto per lui.
La crisi dei discepoli di fronte alla morte di Gesù
Si può dire che Gesù ha predicato bene, ma ha concluso male, anzi malissimo. Peggio di così non poteva fare. E fu proprio questa conclusione che squalificò la sua figura e la sua predicazione.
Nella mente degli ebrei era ben chiaro che una morte simile era la squalifica e la solenne bocciatura da parte di Dio non solo della persona di Gesù, ma anche della sua intera missione e di tutte le sue fantasiose pretese: "L'appeso è una maledizione di Dio" (Dt 21,23).
Dio, quindi, sulla croce ha smascherato Gesù come un falso profeta.
In questa morte squalificante crollarono tutte le speranze dei discepoli, ormai definitivamente delusi e distrutti.
Significativo, in tal senso, il commento dei due discepoli di Emmaus che si stavano allontanando sconsolati e profondamente delusi: da Gerusalemme, dal luogo in cui avevano riposto tutte le loro speranze: "Speravamo che fosse lui ..." (Lc 24,21a). Quel "sperabamus" fu una pietra tombale su tutte le loro speranze che si trasformarono in un colpo solo in cocenti delusioni. Tutto è finito.
Essi esprimono molto bene lo stato d'animo che doveva sconquassare l'incipiente chiesa, ancora confusa e brancolante nel buio della morte e della sconfitta. Tutto è veramente finito.
Ma è proprio finito tutto? "Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e no avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo" (Lc 24,23).
TESI X
Nuovo Testamento: la risurrezione di Gesù Cristo, compimento della rivelazione
La risurrezione non va intesa come un grande miracolo che cerca di compensare in qualche modo la morte di croce, oscurandone l'infamia; o che cerca di rendere credibile una persona squalificata anche da Dio e su cui poggia in qualche modo la nostra fede.
Essa è innanzitutto la chiave di lettura della figura di Cristo e della sua missione; essa getta una nuova luce su di lui e ne consente una comprensione illuminati dalle Scritture. E' Gesù stesso ad inaugurare questa strada: "E incominciando da Mosé e da tutti i Profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (Lc 24,27).
Il Gesù risorto, pertanto, invita a riconsiderare la sua persona e la sua opera sotto un'altra prospettiva, ben diversa dalla vecchia idea messianica ereditata dalla Tradizione, opera di una elaborazione umana, ma lontana dal progetto divino e sinteticamente espressa dai due discepoli di Emmaus: "Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele" (Lc 24,21)
Quello delle Scritture doveva essere un passaggio importante e fondamentale per la comprensione di Gesù e del significato della sua risurrezione se Giovanni, concludendo il suo racconto della tomba vuota commenta con una punta di amarezza: "Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa" (Gv 20,9-10).
Su questa strada si mossero concordemente tutti i primi testimoni e le prime comunità cristiane: "Questo Gesù Dio lo ha risuscitato e noi ne siamo testimoni" (At 2,32), mentre Paolo nella sua lettera ai Corinti afferma: "Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto ... Sia io che loro così predichiamo e così voi avete creduto" (1Cor 15,3.11).
Su questa unica e concorde testimonianza si fonda la nostra fede, la fede dell'intera Chiesa.
Questa fede, tuttavia, non fu esente da dubbi e incertezze prima di arrivare ad una unanime conclusione. Essa dovette passare attraverso il vaglio e la prova di una persistente incredulità, che il Gesù storico spesso rimproverava ai suoi discepoli: "... e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore" (Mc 16,14) così come ai due discepoli di Emmaus: "Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei Profeti" (Lc 24,25); mentre il dubbio non li lasciò fino all'ultimo istante: "Quando lo videro, gli si prostrarono davanti; alcuni pero dubitavano" (Mt 28,17).
Da questo travaglio interiore nacque la certezza della risurrezione e la sua testimonianza, giunta a noi sotto una triplice forma:
· Una varietà di linguaggio che esprimeva un'esperienza del tutto nuova e difficile da definirsi perché esce dagli schemi della nostra capacità esperienziale. Così si parla di "egeirw" (risvegliare), "anisthmi" (rialzarsi), di glorificazione, di esaltazione, ascensione, risurrezione, di contrapposizione morte-vita, luce-tenebre, per cui si dice che "è ritornato in vita, che "non muore più" (Rm 6,9).
· Attraverso formule di tipo kerigmatico che esprimo già una comprensione più elaborata e codificata del Cristo. Sono pubbliche testimonianze di una fede che non solo viene professata, ma anche già celebrata nell'ambito di una primissima e ancor rudimentale liturgia. Queste formule sono disseminate in tutti gli Scritti neotestamentari. Ne riportiamo qualcuna a titolo esemplificativo: "Veramente il Signore è risorto ed è apparso a Simone" (Lc 24,34); "Poiché se tu confesserai con le tue labbra che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rm 10,9); "Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto e risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e appare a Cefa e ai dodici" (1Cor 15,3-8); "Signore mio e Dio mio" (Gv 20,28).
· Sotto forma di racconti che si sono formati lungo una Tradizione sviluppatasi nel corso di sessant'anni dalla risurrezione di Gesù. Essi non sono delle cronache e tantomeno delle relazioni storiche esposte in termini scientifici, ma sono testimonianze di fede, cioè fatti ed eventi raccolti secondo la comprensione di testimoni alla luce della risurrezione. Va tenuto presente, quindi, che i vangeli e gli Atti degli Apostoli non sono storia come noi la concepiamo, ma testimonianze; essi sono documenti di fede, in cui si racconta come i primi testimoni dell'evento Cristo, lo hanno percepito e compreso.
Questi racconti si distinguono dalle semplici formule kerigmatiche perché più ampi ed elaborati e perchè costruiti in funzione dei destinatari, utilizzando tradizioni parallele. Essi si svilupparono secondo uno schema arcaico: sepolcro vuoto, cristofanie e ascensioni.
Il sepolcro vuoto nei racconti evangelici non ha l'intento di costituirsi come prova inconfutabile della risurrezione, ma solo un indizio preparatore dell'annuncio kerigmatico: è vivo, non è qui, è risorto, vi precede in Galilea. E così pure tutti i racconti che precedono la scoperta del sepolcro vuoto e le reazione alla scoperta sono solo preparatori all'annuncio kerigmatico: il Signore è risorto.
Quindi, più che una correttezza storica i Vangeli si preoccupano di trasmetterci dati di fede, a cui la storia fa da cornice secondaria ed è sempre funzionale al suo contenuto e non è mai un elemento importante o determinante. Ed è ciò che non hanno capito i critici del XIX secolo.
Tuttavia i racconti sul sepolcro vuoto non sono da ritenersi un'invenzione o una sorta di favoletta destinata a stupirci, ma un reale dato storico che non trova smentita neanche nella polemica successivamente sviluppatasi tra il cristianesimo incipiente e il giudaismo.
Le apparizioni del risorto
Contrariamente al sepolcro vuoto, le apparizioni sono citate nel kerigma primitivo. Paolo ne ricorda cinque: a Cefa, ai Dodici, ai cinquecento fratelli, a Giacomo e a tutti gli Apostoli (1Cor 15,5-7). In tutti i Vangeli vengono ricordate complessivamente otto apparizioni; di queste, sette sono collocate a Gerusalemme o dintorni (Mt 28,9-10; Lc 24,13-32.34.36-49; Gv 20,14-18.19-23.26-29), una in Galilea (Mt 28,16-20). In questo elenco non sono state menzionate quelle riportate in Marco 16,9-18 e in Giovanni 21,1ss poiché questi versetti sono considerati dai critici delle aggiunte postume.
Una caratteristica distingue e nel contempo completa le apparizioni avvenute in Gerusalemme da quella di Galilea. Quelle avvenute a Gerusalemme presentano un Gesù che si presenta non nella gloria, ma nella semplicità del gesto quotidiano e familiare, quasi a voler creare una sorta di continuità tra il prima e il dopo. Diversamente, quella avvenuta in Galilea presenta un Gesù nuovo, trasformato dalla gloria.
Le due prospettive si completano a vicenda, quasi a dire che il Gesù risorto non è un'altra persona rispetto a prima, benché ora si trovi in una dimensione completamente diversa da quella storica.
Inoltre il Gesù risorto appare con delle caratteristiche completamente nuove e diverse rispetto a prima, che fanno chiaramente capire che qualcosa di radicalmente nuovo è accaduto in lui:
· Quando Gesù appare non è mai riconosciuto da nessuno; · Gesù passa attraverso luoghi chiusi; · Gesù si muove rapidamente da un luogo all'altro
In buona sostanza è un Gesù che non rispetta più le leggi spazio-temporali proprie della storia, a cui tutti gli uomini sono soggetti. Il fatto poi che, a distanza di poche ore dalla sua morte e sepoltura, nessuno più lo riconosca sta ad indicare che il suo corpo fisico ha subito una trasformazione radicale, che lo ha reso completamente nuovo e irriconoscibile rispetto ai tratti storici a cui i suoi discepoli erano abituati a vederlo.
Gesù è fondamento della fede pasquale
La fede nel Risorto non nasce da una meditazione sulle Scritture, né tantomeno dall'aver visto il sepolcro vuoto. Essa si origina decisamente dall'incontro personale che i discepoli ebbero con il Gesù risorto, dalla sua esperimentazione. Contrariamente ad ogni attesa Gesù si impone ai discepoli e alle loro aspettative come vivente. E' da questo tipo di incontro e di esperienza che nasce la fede, sulla quale i discepoli, in modo convinto, scommetto le loro vite.
Questa esperienza del Risorto si sviluppa in tre momenti:
· L' iniziativa è sempre di Gesù. E' lui che appare e si propone vivo ai suoi discepoli e si comunica a loro sotto una nuova dimensione ultrasensibile;
· Il riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli è problematico: essi non lo riconoscono perché il suo corpo è risorto, cioè fisicamente trasformato ed appartiene ad una nuova e diversa dimensione. E' lui comunque che si fa riconoscere rivelando la sua nuova condizione. Egli si rivela loro come una continuità trasformata, una continuità ma nella diversità.
· La missione diventa la logica conseguenza dell'esperienza del Cristo risorto, che spinge alla testimonianza. Anzi, è proprio l'incontro che crea il testimone. Il Risorto si affida a loro per la testimonianza, mentre egli, in virtù dello Spirito Santo, continua la sua missione sacramentato in loro.
Il contenuto rivelativo della Risurrezione
Dopo aver affrontato la risurrezione da un punto di vista storico e di fede, cercheremo ora di coglierla da un punto di vista del suo contenuto.
Esso si può distinguere in tre momenti:: a) momento teologico; b) momento cristologico; c) momento storico-salvifico.
Momento teologico
La risurrezione è l'inizio di una nuova creazione, che inaugura tempi nuovi. Essa si presenta come l'ultimo tratto che realizza pienamente il suo disegno salvifico: quello di recuperare l'uomo alla sua dimensione primordiale. Con la risurrezione, dunque, Dio manifesta e rivela definitivamente qual era il suo progetto di salvezza pensato fin dall'eternità.
Con la risurrezione Dio inaugura i tempi nuovi, cioè il tempo dello Spirito che sarà, ma già fin d'ora è la nuova dimensione della storia, in cui l'uomo è già in qualche modo collocato in virtù della sua fede anche se non ancora pienamente e definitivamente compiuto. Questa nuova dimensione è lo stesso Regno di Dio, che è la dimensione stessa di Dio, a cui si accede accogliendo esistenzialmente le esigenze dello Spirito, poiché "Seppiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro, che è una forma di idolatria, avrà parte del Regno di Cristo e di Dio" (Ef 5,5).
E' questo un Regno, quello dello Spirito, già presente nel Cristo risorto e in tuti quelli che sono stati uniti a lui nel battesimo e nella fede.
E' un "già ma non ancora" che crea una forte tensione esistenziale nel credente e che inaugura nel nostro oggi i tempi escatologici e che fa del nuovo credente un uomo pasquale, cioè uno chiamato ad operare in se stesso un continuo passaggio da morte avita, dal vecchio Adamo al nuovo Adamo, dalle pretese della carne alle esigenze dello Spirito.
Una condizione esistenziale del cristiano che viene ben individuata nella formula proclamata subito dopo la consacrazione eucaristica: "Annunciamo Signore la tua morte, proclamiamo la tua risurrezione nell'attesa della tua venuta".
Momento cristologico
La rivelazione attuata dal Gesù della storia sia con le sue parole, con le sue opere e con la sua stessa persona è stata messa a tacere sulla croce, interpretata, come abbiamo visto sopra, come una squalificazione di Gesù da parte di Dio (Dt 21,23). Inoltre l'intera opera storica di Gesù, in quanto compiuta nella dimensione spazio-temporale, è inficiata dal relativismo, proprio della dimensione storia.
Sarà proprio la risurrezione che, sottraendo Gesù dai limiti della storia, darà una universalità eterna alla sua opera, dando una nuova visione della figura di Gesù, che proprio nella risurrezione viene costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione (Rm 1,4).
Se così è, allora tutto il Gesù storico viene recuperato nella dimensione divina e la sua rivelazione assume i tratti dell'universalità e dell'eternità, efficace per tutti gli uomini, diventando l'ultima e definitiva rivelazione del Padre.
Momento storico-salvifico
La risurrezione costituisce l'apice dell'intera storia della salvezza e in essa si compie pienamente e definitivamente la storia della salvezza, cioè il tentativo di Dio di recuperare l'uomo alla sua dimensione primordiale.
Infatti, dopo che Adamo tento quella sorta di colpo di stato, volendo rivaleggiare con Dio e mettersi al suo posto, egli si ritrovò nudo, cioè spogliato dello Spirito di Dio, che lo aveva reso essere vivente della stessa vita divina e viene miseramente rivestito da Dio con pelli di animali, divenendo in tal modo carne despiritualizzata, del tutto simile a quella degli animali. Da questo momento inizia il tentativo di Dio di recuperare la sua creatura, cercando di ricollocarla nel proprio seno, restituendogli quella carne spiritualizzata che aveva miseramente perduto.
Ciò si compirà pienamente nel Cristo risorto, in cui il vecchi Adamo, carne despiritualizzata e decaduta, viene definitivamente distrutto sulla croce e nuovamente ricreato nella risurrezione, che in tal senso è una nuova ed autentica creazione, in cui Cristo si pone come il capostipite di una nuova umanità, primizia di coloro che sono morti (1Cor 15,20).
TESI XI
Nuovo Testamento: Interpretazioni della risurrezione (Strauss, Bultmann, Marxen, Schillebeckx, Pesch)
Questi autori fanno parte di un secolo, il XIX e primi decenni del XX, e che fu immediatamente seguente a quel movimento culturale denominato Illuminismo, il secolo dei lumi; e quando si parla di lumi si intendono quelli della ragione.
Fu un movimento di reazione ai dogmatismi ecclesiastici e ad una fede imposta, mai discussa e mai capita. Si esaltò, quindi, la ragione quale unico strumento di vaglio della realtà e la sola in grado di raggiungere la verità. Tutto ciò che è comprensibile, logico, constatabile è anche accettabile. Tutto ciò che non è razionalmente spiegabile o non è vero o è, comunque, rifiutato.
E' inoltre il secolo della psicanalisi (Freud, Adler, Jung) e delle varie teorie psicologiche. Nasce per la prima volta la scienza antropologica che studia l'uomo nella sua storia individuale, concependolo come il frutto del suo passato. Incomincia la psicologia dinamica applicata alle varie manifestazione delle attività umane.
Era quindi inevitabile che anche la fede cristiana e la figura di Gesù fossero assoggettate al vaglio della ragione. E' questo infatti il secolo in cui nascono numerose vite di Gesù, contenutisticamente tutte molto simili tra loro e finalizzati a demitizzare i vangeli e la fede in genere.
Questi autori miravano a formare una specie di movimento culturale di liberazione dai miti della fede, cercando di ridurre tutto al comprensibile e al razionale, sacrificando l'elemento trascendente, che veniva negato o spiegato proiezione psicologica dei bisogni umani.
Strauss (1808-1874): la spiegazione psicologica delle apparizioni
Lo Strauss muove le seguenti critiche al cristianesimo:
· I racconti sulla risurrezione sono contradditori;
· L'affermazione di un morto-vivente è contraddittoria in terminis;
· La risurrezione e le apparizioni non vanno considerati come eventi reali, ma originati da una profonda delusione e frustrazione, sull'esempio di quanto è accaduto a Paolo sulla via di Damasco, e che hanno provocato in loro una reazione compnsatoria, che li portò alla convinzione che Gesù fosse risorto, anzi alcuni addirittura lo hanno visto, come in una specie di allucinazione. Questa loro convinzione, poi, fu rafforzata da una ricerca sulle Scritture, in cui sceglievano dei passi, che venivano riferiti a Gesù.
Sostanzialmente due sono i punti deboli di questa teoria straussiana:
· Strauss applica ai vangeli la critica storica di tipo positivistico e scientifico propria del nostro tempo, non rilevando che i vangeli furono scritti circa diciannove secoli prima in un contesto storico-sociale-culturale totalmente diverso dal suo e in cui il concetto di storia era diametralmente opposto al suo. Infatti, per il mondo orientale e semitico in particolare ciò che contava nella storia non erano tanto i fatti in se stessi, quanto piuttosto il loro significato e il loro contenuto. Pertanto quando ci si accosta ai vangeli è da evitare di prendere i loro racconti come storia o cronaca dell'epoca, ma bisogna sempre chiedersi che cosa l'evangelista abbia voluto trasmetterci con quel suo modo di raccontare e non se il fatto presentatoci sia effettivamente accaduto e in quali termini e se di ciò c'è adeguata documentazione o testimonianza. Gli storici dell'epoca infatti usavano la storia, così come la intendiamo noi, per trasmetterne i contenuti
· Quanto all'analisi psicologica delle apparizioni va detto che è del tutto arbitrario il modo di procedere di Strauss nella sua analisi, che non è confortata dai fatti raccontati.
· Infine non è razionalmente giustificabile un fenomeno dalle così vaste proporzioni come quello del cristianesimo, che ebbe una enorme e rapida diffusione ad ogni livello sociale e geografico, coinvolgendo l'intera struttura dell'impero romano, se tale movimento avesse avuto quale fondamento una semplice nevrosi.
· Infine non va mai dimenticato il radicale cambiamento di vita dei discepoli tra il prima e il dopo risurrezione: è troppo grande e radicale per essere ascritto a delle semplici frustrazioni compensate. E a distanza di venti secoli non si pò pensare che l'enorme risonanza a livello mondiale del cristianesimo si possa basare ancor oggi su delle nevrosi o deliri paranoici.
Rudolf Bultmann (1884-1976): critica storica e teologia del kerigma
Questo autore afferma che la risurrezione è un discorso mitologico che tende ad interpretare la croce come un fatto salvifico, che invece non ha.
In realtà Gesù, continua il Bultmann, è si risorto, ma solo nel kerigma, conseguente ad una interpretazione e ad una riflessione sui fatti storici. L'evento pasquale, pertanto, si riduce soltanto ad un passaggio interiore: da una croce deludente ad una croce a cui si è attribuito un significato salvifico, mentre per lo storico l'evento pasquale si riduce alle espressioni visionarie di alcuni discepoli.
Il tutto, quindi, si riduce ad una esperienza interiore, prodotta da una riflessione sulla croce, che la interpreta come salvifica e redentrice. Di conseguenza fede e salvezza dipendono esclusivamente da una mia decisione interiore, venendo in tal modo private di ogni oggettività e relegati ad eventi meramente soggettivi, interiori e relativi.
La debolezza di tale ragionamento, apparentemente convincente, sta nel fatto che esso è completamente slegato dagli eventi storici, che al Bultmann non interessano, e ridotto tutto ad una riflessione interpretiva intimistica che si pone al di fuori.
Willi Mraxen (1919- tuttora vivente): la critica storica e causa di Gesù che continua
L'autore afferma che ciò che la storia può rilevare sono solo delle affermazioni fatte da dei discepoli, che dicono di aver visto Gesù dopo la sua morte. Da ciò essi conclusero che Gesù è risorto.
In realtà, afferma, la risurrezione è consistita nel portare avanti il messaggio di Gesù e la sua causa. In altri termini, quel Gesù, che è morto, continua oggi nella testimonianza.
L'unico fatto constatabile è quindi la continuazione della missione di Gesù. Questa è ojJh, cioè ciò che viene visto e constatato; l'egerJh, cioè "è stato risorto", è soltanto l'interpretazione che i discepoli hanno dato.
Quindi per il Marxen tutto si risolve nella volontà e nella decisione dei discepoli di portare avanti il messaggio e la missione del loro maestro, dando lustro alla loro missione con l'affermare di aver visto il loro maestro e che questi è risorto.
In queste sue teorie il Marxen, però, dimentica la realtà dell'esperienza che i discepoli fecero del Gesù risorto, scindendo il fatto "risorto", ridotto a interpretazione, dal rapporto vivo che essi ebbero realmente con lui e che fu tale da stravolgere le loro vite e da fondare la fede.
Edward Schillebeeckx (1914-vivente)
L'autore ammette la risurrezione di Gesù come suo fatto personale, ma per permetterne l'accesso generalizzato lo sradica dalle apparizioni, che invece sono discutibili e legate a delle persone. Mentre il tutto viene ridotto ad un processo cognitivo di conversione dei discepoli.
Infatti, secondo lo Schillebeckx, Pietro, dopo il tradimento, si rimette alla sequela di Gesù e ricostruisce il gruppo dei discepoli. In ciò fa l'esperienza del perdono su cui l'intero gruppo riflette. Ne esce un'esperienza viva e profonda, pervenendo in tal modo alla fede nel Gesù che vive e offre ancora salvezza e perdono. L'esperienza interiore del Signore fu talmente viva che "videro" il Signore stesso. Tutto ciò fu rappresentato secondo il modo di raccontare proprio dell'ebreo, come visione di conversione.
Sennonché tutto ciò che lo Schillebeckx afferma non trova neppure lontanamente, sia nei vangeli che nell'intera letteratura neotestamentaria canonica, una qualsiasi conferma.
Inoltre, l'esperienza di perdono non è mai causa di fede, ma essa si colloca all'interno dell'esperienza pasquale.
Lo Schillebeckx non si accorge, infine, che togliendo storicità alle apparizioni, relegandole ad un mero fatto soggettivo discutibile e prodotte da un complicato processo di conversione, toglie una base storica e testimoniale alla risurrezione stessa, sradicandola dalla storia e relegandola nell'opinabile.
Rudolf Pesch (1936-vivente): il Gesù terreno fondatore della fede pasquale dei discepoli.
La preoccupazione dell'autore è quella di rendere credibile la fede in Gesù alla ragione critica.
Egli in un primo tempo trascura le apparizioni, che ammetterà successivamente, e afferma che la messianicità di Gesù fu compresa prima della sua morte (Mc 8,27-30) e pertanto la comprensione di Gesù, quale messia e Figlio di Dio, fu pre-pasquale, così che, da qui in poi, la figura di Gesù e l'intera sua missione fu letta in chiave messianica e salvifica, compresa la sua morte. Vi fu, quindi, già una riflessione cristologica e messianica mentre Gesù era ancora vivo. Quindi la risurrezione fu una conseguente interpretazione della premessa messianicità prepasquale.
In un secondo momento il Pesch arriverà a considerare le apparizioni come legittimazione della fede nella risurrezione, anzi, proprio queste suscitano la fede nel Risorto. Sennonché egli afferma una evidenza "de jure", per cui Gesù, per la fedeltà di Dio, non poteva essere vincolato alla morte; "di diritto" quindi gli aspettava la risurrezione; e un'evidenza "de facto", per cui dopo la sua morte, continuano a credere che Dio l'avrebbe risorto e questa risurrezione doveva "ora" essere dimostrata dalle prime comunità credenti, rese nuovo popolo dallo Spirito.
L'elaborata tesi del Pesch non trova riscontro nel N.T. Infatti tra il prima e il dopo risurrezione c'è uno stacco netto, per cui le vite dei discepoli furono completamente stravolte: si passa dalla paura, che li aveva rinchiusi nel cenacolo, alla determinata e spavalda proclamazione del Risorto nelle piazze davanti a migliaia di persone. Tra il prima e il dopo, quindi, vi fu un'effettiva azione creatrice di Dio: Dio trasformò il coro di Gesù, vecchio Adamo, in un corpo spiritualizzato.
In altre parole, non fu la fede a creare e a dare sostanza alla risurrezione, ma, viceversa, fu questa a produrre la fede.
Il denominatore comune che accompagna questi pensatori è l'incapacità di comprendere che cos'è la risurrezione di Cristo e il suo significato. Essi si concentrarono su degli aspetti particolari riguardanti la risurrezione, perdendo il senso generale della storia della salvezza e il collegamento di questa con la risurrezione stessa.
Un secondo limite fu quello di voler dare alla risurrezione una spiegazione storica, quasi fosse stato un evento scaturito dalla storia, una sorta di suo anomalo prodotto oppure un semplice fatto culturale o psicologico che ha coinvolto in qualche modo i discepoli. Ma non hanno saputo cogliere che la risurrezione è un evento che, pur collocandosi nell'ambito di una cornice storica, tuttavia è squisitamente transtorico. Il fatto che numerose persone vedano il Gesù risorto, ma che nessuno abbia assistito alla sua risurrezione, neppure le guardie lì preposte alla sicurezza dl sepolcro, sta proprio ad indicare che l'evento risurrezione non è scaturito dalla storia, ma da realtà che la superano di gran lunga. In altre parole, la fonte, l'origine della risurrezione va cercata soltanto in Dio. Ogni altra ipotesi da risposte estremamente limitate e insoddisfacenti.
TESI XII
I documenti del Magistero sulla rivelazione: il Vaticano I (1869-1870)
Il contesto storico-culturale in cui il Vaticano I (1870) viene a trovarsi è dominato da due correnti tra loro contrapposte e irriducibili: il Fideismo e il Razionalismo. Per entrambi la Rivelazione è un corpo di verità dottrinali, ma la via di accesso è contrapposta.
Il Fideismo nasce come reazione religiosa all’Illuminismo. Esso sottolinea l’incapacità della ragione a scoprire le verità metafisiche, morali e religiose, e afferma che solo attraverso la rivelazione soprannaturale, assolutamente necessaria, l’uomo coglie le verità fondamentali della sua esistenza. La fede, quindi, è necessaria all’equilibrio della ragione che esso sfiducia in modo radicale.
Il Razionalismo, contrariamente, afferma che tutto è dimostrabile dalla ragione e che essa può cogliere ogni verità, compresa quella della rivelazione, che, anzi, va accettata solo se ha passato indenne il vaglio della ragione. I due rappresentanti di questa corrente sono il Gunkel ed Hermes.
Hermes afferma che tutto è raggiungibile con la ragione che è autosufficiente e illumina le scelte dell’uomo.
Gunkel afferma che il soprannaturale coincide con l’uomo in quanto egli è anche spirito, per cui tutto il sapere della Rivelazione, che si compone di tanti fatti, ma a poche idee, si può ridurre ad una filosofia, cioè ad una riflessione sui fatti cercando di coglierne l’intima essenza.
Se così fosse, allora tutta la Rivelazione si ridurrebbe ad un insieme di verità lasciate alla pluralità del pensiero senza mai giungere ad una loro definizione e, pertanto, risulterebbero sempre incomplete e mai definite, certamente non più verità certe.
Prima dell’avvento del Vaticano I vi furono già numerosi e singoli interventi da parte della Chiesa con alcune encicliche, ma senza mai ad arrivare ad una trattazione sistematica e definitiva come, invece, avvenne con la Dei Filius.
Essa non definisce il concetto di Rivelazione, ma si preoccupa prevalentemente di stigmatizzare le due posizioni che, proprio perché contrapposte, avevano assunto posizioni estreme e inconciliabili e, per questo, entrambe errate.
Il Vaticano I, quindi, interviene prendendo le distanze da entrambe le posizioni e definisce 3 punti fondamentali:
1- Due sono gli ordini di conoscenza: naturale o per ragione; soprannaturale o per fede. 2- Ragione e Fede non si oppongono tra loro perché entrambe provengono da Dio, ma sono tra loro di reciproco aiuto. 3- Necessità della fede per avvicinarsi alla Rivelazione.
DEI FILIUS
La Dei Filius si suddivide in quattro capitoli:
I° Cap. “Dio creatore di tutte le cose”
II° Cap. “La Rivelazione”
III°Cap. “La Fede”
IV°Cap. “Della Fede e della Ragione”
I° Cap. “Dio creatore di tutte le cose”
La creazione che ha per autore Dio, distinto dal mondo, è espressione di un atto della sua bontà ed è finalizzata a far conoscere per via naturale le perfezioni e le qualità spirituali di Dio stesso; queste sono coglibili storicamente e razionalmente. Infatti, lo stesso Paolo nella lettera ai Romani, cap. 1,20, afferma che “…, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” ; a lui fa eco S.Tommaso con le sue cinque vie per arrivare a Dio.
II° Cap. “La Rivelazione”
Due sono le vie della conoscenza di Dio: quella naturale, attraverso il creato, attuabile con la sola ragione; e quella soprannaturale, attraverso la libera Rivelazione di sé da parte di Dio, attuabile solo attraverso la fede. Questa Rivelazione si trova nei Testi Sacri e nella Tradizione Apostolica di cui la Chiesa è garante. Nella Rivelazione soprannaturale Dio rivela la sua natura, le sue perfezioni personali e la sua volontà, che l’uomo con la sua sola ragione e intelligenza non è in grado di raggiungere. La finalità di questa Rivelazione è manifestare all’uomo il mondo di Dio a cui egli è chiamato e di cui Dio lo vuole partecipe.
III° Cap. “La Fede”
La fede qui è intesa come una virtù soprannaturale, atto di fiducia e abbandono a Dio, accogliendo con tale atteggiamento le sue verità da noi credute non perché giustificate e chiarite dalla nostra ragione, ma in virtù della stessa autorità di Dio, il quale non può ingannarsi né ingannare. La fede diventa così la “sostanza delle cose sperate, argomento delle non apparenti” (Eb. 11,1).
Tuttavia, Dio a supporto della fede, per renderla accostabile anche dalla ragione, offre all’uomo la prova tangibile di queste verità rivelate: i miracoli e le profezie.
La fede, però, rimane un dono di Dio e non logica conclusione di un nostro ragionamento; essa ci chiede una libera adesione alla Rivelazione, qui intesa come corpo dottrinale di verità a cui aderire, appunto, con fede, che diventa lo strumento per ottenere la salvezza.
IV° Cap. “Della Fede e della Ragione”
Vi sono due ordini di conoscenza: naturale per cui, grazie alla ragione, possiamo cogliere le perfezioni spirituali di Dio presenti nel creato; e soprannaturale per cui, grazie alla fede, possiamo cogliere il mistero del Dio rivelatosi che, diversamente, con la sola ragione, non potrebbe essere colto.
La Fede è superiore alla ragione, in quanto riesce cogliere quelle verità che, invece, sfuggono alla ragione; tuttavia fede e ragione non sono mai tra loro in contraddizione, ma, anzi, di reciproco aiuto, purché entrambe operino nell’ambito dei confini che sono loro propri, senza travalicarli.
Infatti, la Ragione, quando è illuminata dalla Fede, può comprendere il mistero rivelato, sia aiutandosi per analogia con quanto compreso nel creato in modo naturale; sia collegando tra loro i misteri rivelati. In tal senso la Ragione può essere un aiuto alla Fede per una maggior comprensione del mistero rivelato, che, tuttavia, non è mai pienamente comprensibile.
Ancora una volta viene sottolineato che la Rivelazione è un insieme di verità dottrinali in sé perfette e non perfettibili, che non nascono da ragionamenti umani, ma sono un dono di Dio affidato alla Chiesa che le deve custodire e trasmettere.
Osservazioni
Il concetto di Rivelazione non è ancora evoluto, ma semplicemente inteso come corpo di verità dottrinali. Viene perso, quindi, tutto l’aspetto esperienziale, relazionale e dialogico proprio della Rivelazione, che, invece, verrà ripreso dalla “Dei Verbum”.
Si è ancora troppo legati a dimostrazioni esterne della credibilità della fede, legando la fede a profezie e miracoli. Personalmente ritengo che il miracolo, ben lungi dal essere una dimostrazione inconfutabile delle realtà soprannaturali, sia, invece, un segno che rimanda alle realtà superiori e che ne denuncia la presenza in mezzo a noi. Ma determinante rimane sempre la fede, cioè la mia disponibilità e decisione di aderire alla Rivelazione. Il miracolo, quindi, mi può far riflettere, ma non può mai essere determinante per la mia fede; infatti, se così non fosse, tutti contemporanei di Gesù avrebbero dovuto, senza batter ciglio, aderire a Gesù e al suo messaggio, ma così, invece, non fu.
Tuttavia la “Dei Filius” va compresa nel tempo in cui è nata; essa, infatti, non ha voluto essere un trattato sulla Rivelazione, ma solo un aggiustamento di tiro e una confutazione di estreme posizioni che, a quel tempo, si contrapponevano tra loro. Risente, quindi, di un certo tono apologetico e polemico. E il fatto che si concluda puntigliosamente con tutta una serie di anatemi su verità di fede, lo sta a dimostrare.
Raffronto tra la “Dei Filius” e la “Dei Verbum”
Vaticano I° (Dei Filius) Vaticano II° (Dei Verbum)
Rivelazione: E’ una dottrina di verità - E’ dialogica e personalistica - C’è relazione tra Dio e uomo - E’ storico-salvifica - E’ cristocentrica
Fede: E’ intellettuale, nel senso - E’ un atto personale che coinvolge che è credibile. l’intera persona, colta nel suo espri- mersi esistenziale. - E’ anche testimonianza di un credo collettivo
Problema: Come armonizzare tra loro - Rivelazione e Fede La Fede e la Ragione
TESI XIII
I documenti del Magistero sulla rivelazione: il Vaticano II (1963-1965)
La "Dei Verbum", la costituzione dogmatica sulla rivelazione, è nata dal Vaticano II ed ebbe all'interno del concilio un iter piuttosto travagliato, basti pensare che il testo definitivo, rappresenta la quinta edizione.
Essa è la prima costituzione nella vita della Chiesa che tratta in modo dettagliato e sistematico della rivelazione. Essa ha dato una svolta di tipo copernicano a tutta la teologia e, in particolare, alla teologia apologetica che, grazie alla Dei Verbum, si trasforma in Teologia fondamentale. Non ci sarà più una teologia basata su verità dottrinali, cattedraticamente imposte, da difendere e da dimostrare con ragionamenti filosofici, difese da anatemismi, ma una proposta di riflessione sul dono della Parola , da cui parte ogni teologia. Cambia radicalmente la prospettiva.
La D.V. è l'atto conclusivo di un lungo cammino all'interno della Chiesa, che ha avuto una tappa importante nella Dei Filius (Vaticano I). Questa, tuttavia, risulta ancora molto incompleta e limitata. Essa tuttavia va compresa nell'ambito del contesto storico-culturale in cui è nata: il XIX sec. in cui erano presenti due correnti tra loro contrapposte e irriducibili l'una all'altra: il Fideismo, che sfiduciava completamente la ragione, rendendola passiva nei confronti della rivelazione; e il razionalismo, eredità illuministica, che invece riteneva tutto comprensibile e spiegabile con la ragione, togliendo ogni soprannaturalità alla rivelazione.
I due rappresentanti di tale tendenza furono Hermes e Gunckel (V. Tesi XII).
LA DEI VERBUM
Essa si compone essenzialmente di sei capitoli:
· 1° Cap. - La Rivelazione · 2° Cap. - La trasmissione della divina rivelazione · 3° Cap. - Ispirazione divina e interpretazione della Sacra Scrittura · 4° Cap. - Il Vecchio Testamento · 5° Cap. - Il Nuovo Testamento · 6° Cap. - La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa
Capitolo Primo: La Rivelazione
L'oggetto della rivelazione è il rivelarsi libero e personale di Dio nella storia per manifestare il mistero della sua volontà e il suo mondo, che è quello dello Spirito da cui l'uomo proviene.
La sua finalità è quella di rendere partecipe l'uomo al mondo di Dio e metterlo in comunione con Lui.
Essa avviene qui nella storia e si trasmette per mezzo di eventi e parole, tra loro in intima connessione. Ha quindi natura squisitamente sacramentale.
Questa rivelazione è stata preparata da Dio fin dal principio con la creazione, attraverso la quale traspaiono le virtù invisibili di Dio (Rm 1,20); fu donata successivamente ai nostri progenitori, ad Abramo, Mosé, i profeti, il popolo.
Questa rivelazione fu una lenta e progressiva incarnazione della Parola, che troverà la sua piena e completa attuazione in Gesù (Gv 1,1-18; Eb 1,1-2), vertice della storia della salvezza.
L'uomo interpellato da questo progressivo e pieno manifestarsi di Dio nella storia, che trova il suo vertice e compimento in Cristo, è chiamato a dare la sua risposta esistenziale e a prendere esistenzialmente posizione.
L'unica risposta adeguata è la fede, quale atto di totale apertura e adesione esistenziali al Dio che si rivela. L'uomo è chiamato a decidersi per Lui. Una fede, che tuttavia è e rimane un dono e di certo non è il frutto conclusivo di un bel ragionamento.
Capitolo Secondo: la trasmissione della divina rivelazione
Quanto Dio ci ha rivelato di sé e del suo mondo, affinché non andasse perduto, ma venisse correttamente conservato, interpretato e approfondito, venne affidato a due strumenti essenziali e fondamentali: la Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) e la Tradizione, fondata sugli Apostoli e i loro successori, la quale, nella sua unicità, si colloca nella Chiesa, che la incarna e la fa vivere lungo i secoli e la cui finalità non è solo quella di conservarla integra, ma anche approfondirla, incarnarla nella propria vita e testimoniarla.
Quindi Tradizione e Scrittura sono tra loro intimamente connesse e l'una non potrebbe vivere senza l'altra, poiché l'una, la Parola, vive, cresce e si approfondisce arricchendosi sempre più nell'altra, la Tradizione. Essa, a sua volta, trova il suo alimento e il suo arricchimento nella Parola compresa e incarnata nella Chiesa stessa.
L'interpretazione della Parola spetta, pertanto, al Magistero, che tuttavia non è superiore alla Parola, ma un servizio che compie a suo favore.
Capitolo Terzo: l'ispirazione divina e l'interpretazione della Sacra Scrittura
Il luogo privilegiato della rivelazione sono le Sacre Scritture, composte dagli agiografi, cioè da scrittori sacri, i quali, ispirati da Dio per mezzo del suo Spirito, scrissero quelle cose lì contenute. Essi furono fedeli strumenti nelle mani di Dio, per cui a ragione si può ben dire che l'autore principale e unico di tali Scritture fu Dio stesso.
Tuttavia, questi scrittori si espressero secondo la lingua, il modo di scrivere e di raccontare che erano loro propri. Di conseguenza la Scrittura per essere compresa e cogliere il messaggio in essa contenuta deve essere correttamente interpretata.
Quando ci si accosta alla Scrittura, quindi, bisogna sempre chiedersi che cosa voleva dire l'agiografo e, in particolar modo, bisogna comprendere il linguaggio e la cultura propri dell'agiografo, tenendo conto dei generi letterari di cui si è servito, nonché del contesto storico-culturale e sociale in cui viveva e da cui è rimasto influenzato e condizionato. Non va mai dimenticato che la Parola di Dio è sempre una Parola incarnata e si esprime, quindi, con il linguaggio proprio della storia.
Nell'ambito dell'esegesi scritturistica, poi, va sempre tenuto conto dell'unità e della conformità dell'intera Scrittura e della Tradizione della Chiesa, nonché della conformità alla dottrina della fede.
Capitolo Quarto: Il Vecchio Testamento
Per i cristiani l'A.T. è finalizzato al N.T. e lo contiene in nuce. Tale convinzione viene espressa nella liturgia della celebrazione della Parola nell'eucaristia. In essa è sempre presente una lettura tratta dall'A.T., che ha dei forti addentellati con la terza lettura (il vangelo), per evidenziare come fin da allora Dio aveva preparato e preannunciato quanto poi si è pienamente e definitivamente rivelato in Cristo.
Nell'A.T. infatti si manifesta gradualmente il piano di salvezza di Dio, la sua pedagogia, le sue logiche e il modo con cui Dio agisce con gli uomini. Egli, a partire dalla creazione e, via via, attraverso Abramo, i Patriarchi, Mosé, i profeti e il popolo tenta di rieducare l'uomo al dialogo con Lui, facendo poi alleanza per recuperarlo al suo mondo, da cui egli proviene. Tale processo rieducativo, rivelativo e di attrazione dell'uomo al mondo di Dio trova il suo culmine nell'incarnazione stessa di Suo Figlio, Gesù Cristo e il suo compimento nella risurrezione.
Capitolo Quinto: il Nuovo Testamento
Il N.T. è la massima, piena e definitiva manifestazione della Parola, che è potenza di Dio per chi crede (Rm 1,16).
Questa Parola è Cristo stesso, che attraverso la sua persona, che si esprime in parole ed opere, la sua morte, risurrezione, ascensione e dono dello Spirito compie pienamente e in modo definitivo il disegno del Padre: ricondurre gli uomini in seno a Dio.
Questi Vangeli sono di origine apostolica e contengono il messaggio di Cristo e sono, pertanto, il fondamento della fede.
Essi hanno il carattere della storicità e dell'autenticità nel senso che trasmettono fedelmente il messaggio di Gesù.
Oltre ai Vangeli il N.T. contiene anche altri scritti apostolici, quali le quattordici lettere del corpus paulinum, attribuite a Paolo[1]; le tre lettere di Giovanni; le due lettere di Pietro; una di Giacomo; una di Giuda, l'Apocalisse di Giovanni e gli Atti degli Apostoli.
Tutti sono di ispirazione divina e confermano concordi i Vangeli.
Capitolo Sesto: la Sacra Scrittura nella vita della Chiesa
All'interno della Chiesa la Parola è la regola suprema della propria fede e della propria vita. Essa è assimilata al corpo di Cristo, sacramentato sia nel Pane che nella stessa Parola. In essa risuona la voce dello Spirito e ci viene comunicato Cristo stesso, così che il leggere la Parola è incontrarsi con Cristo. Egli, entrando in noi attraverso un attento e raccolto ascolto, fatto risuonare in una personale e intima riflessione, ci trasforma, assimilandoci a lui.
Si stabiliscono, infine, dei criteri circa la Parola:
· Quanto ai Testi attraverso cui si esprime la Parola, la Chiesa individua per il testo greco la LXX; per il testo latino la Vulgata.
· Si sollecita appropriate traduzioni in tutte le lingue.
· Sono ritenute valide per tutti i cristiani anche le traduzioni fatte in collaborazione ai protestanti.
Si sollecitano poi gli studiosi ad approfondire il senso delle Scritture, per renderlo accessibile a tutto il popolo di Dio.
La Parola, poi, deve essere il fondamento della Teologia e costituirne l'anima.
Si raccomanda, infine, la lettura della Scrittura che deve essere:
· Assidua · Continua · Frequente · Accompagnata dalla preghiera
Si sottolinea come il contatto con la Scrittura è contatto con Cristo. In essa si incontra la sua persona.
Viene posto a conclusione di tutto un parallelo tra l'Eucaristia e la Parola, entrambe fonti di vigore e di vita spirituale.
TESI XIV
Riflessione sistematica: concetto e statuto teologico della rivelazione
Di fronte alla rivelazione, intesa come autocomunicazione di Dio, la Teologia Fondamentale (T.F.) ha il compito di verificare e di rendere intellettivamente comprensibile il dato rivelato. E' quindi una luce di tipo intellettivo che viene gettata sulla rivelazione.
In tutto l'A.T. viene sottolineata l'invisibilità di Dio, avvolto nel mistero, ma che tuttavia si manifesta e si rende manifestabile non attraverso figure umane, beansi per mezzo di segni. Dio quindi non può essere colto direttamente, ma soltanto mediatamente attraverso dei segni quali il roveto ardente, la colonna di fuoco, la nube nel deserto, terremoti, tempeste, lampi, tuoni e simili manifestazioni. Si tratta dunque di ierofanie attraverso le quali si coglie non Dio, che rimane comunque inafferrabile, ma solo la sua presenza.
Tali sue invisibilità e inafferrabilità viene espressa nell'A.T. con il divieto di farsi immagini, poiché la divinità non può esservi contenuta, né tantomeno l'uomo può pensare di impossessarsi di Dio in tale modo.
Alla base del divieto, dunque, ci sta la trascendenza di Dio e la sua conseguente inafferrabilità. L'immagine infatti delimita Dio, lo rende individuabile e statico, mentre egli è un Dio dinamico, che accompagna l'uomo nel suo cammino e lo spinge a scoprirlo nel divenire della storia, attraverso gli eventi e la Parola. E' quindi un Dio che si rivela dinamicamente in una storia che si fa, ma non si lascia mai afferrare; Egli è sempre là dove l'uomo non pensa e lo precede sempre nel suo cammino.
Solo l'uomo è stato costituito da Dio stesso sua immagine, non in senso ontologico, ma quale suo partner nella creazione che gli ha affidato (Gen 2,15).
Sarà proprio questa umanità propria dell'uomo che sarà assunta da Gesù, che diviene in tal modo la massima espressione e manifestazione di Dio nella storia. Da questo momento in poi Dio si farà trovare in lui.
L'invisibilità e la trascendenza di Dio lo rendono di per sé inafferrabile e, quindi, non coglibile dall'uomo qui nella storia. Diviene pertanto necessario per Dio rendersi accessibile qui nella storia dell'uomo. Tale accessibilità resa possibile nell'A.T. attraverso la Parola, si realizza nel N.T., in modo pieno e completo, nell'incarnazione e nell'umanità di Gesù, che è immagine del Dio invisibile (Col 1,15), irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Eb 1,3)
La rivelazione, tuttavia, non è mai una piena e completa manifestazione di Dio per l'incapacità dell'uomo a coglierlo pienamente. Egli pertanto si rende accessibile attraverso la sacramentalità degli eventi, della Parola e della storia, poiché nessuno può vedere Dio e rimanere vivo.
Del resto nella rivelazione il Trascendente non può diventare totalmente immanente, altrimenti perderebbe la sua trascendenza, rendendosi totalmente afferrabile dall'uomo e suo pari, perdendo in tal modo la Santità che lo qualifica come il totalmente Altro dall'uomo.
L'incarnasi della rivelazione nella storia, quale strumento necessario per farsi raggiungere e cogliere dall'uomo, permettendogli l'esperienza del divino, non è ancora sufficiente per farsi cogliere, perché mimetizzata tra le pieghe della storia, rischia di perdersi in essa. Ciò che invece consente di cogliere Dio che si rivela nella storia, dando ad essa un significato e un senso appropriati, è la capacità di leggere la storia in senso teologico. Tale capacità è dono dello Spirito, che raggiunge l'uomo nel sacrario della sua interiorità, luogo privilegiato di incontro tra lui e Dio. Grazie a ciò l'umo diviene ispirato, riuscendo a cogliere il Dio rivelantesi nella storia.
Bene diceva in tal senso S.Agostino: "Noli foras ire, in te ipsum redii, in interiore homine habitat veritas".
E' in ultima analisi Dio che consente all'uomo di coglierlo, purché abbia il giusto atteggiamento interiore, come ci indica Gesù nella sua preghiera rivolta al Padre: "Ti ringrazio Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti agli intelligenti e le hai rivelate agli umili" ( ). E' quindi Dio che si lascia conquistare e non l'uomo che lo conquista. E' questo il senso di quanto Gesù dice a Pietro: "Beato te, Simone , figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli" (Mt 16,17); così come "nessuno può venire a me se non è il Padre che lo attira" (Gv 6,44). E' Dio, dunque, che concede all'uomo di coglierlo.
A fronte di un Dio che si lascia cogliere nella storia dall'uomo, si pone l'esigenza di una decisione: fidarsi di quanto Dio ci rivela. La fede, quale atto di apertura esistenziale a Dio accogliendolo nella propria vita e decidendola per Lui, è pertanto l'unica risposta adeguata.
La fede, tuttavia, non è mai un'imposizione divina, ma nasce dalla comprensione di ciò che ci sta davanti e a cui noi diamo il nostro libero e illuminato consenso. La fede, infatti, nasce dall'ascolto della Parola. C'è quindi prima una Parola che si comunica a noi e da noi viene accolta e fatta risuonare nella nostra intimità così che ci sentiamo spinti a deciderci esistenzialmente a prendere posizione. Di conseguenza la rivelazione non è mai un'imposizione, ma una proposta, come quella che Gesù fece al giovane ricco: "Sei vuoi essere perfetto, va e vendi ... poi vieni e seguimi" (Mt 19,16). La rivelazione, infatti, può essere accolta dall'uomo solo liberamente, anche se per il suo decidersi abbisogna di una particolare grazia di Dio, perché la fede è e rimane, in ultima analisi, essenzialmente un dono di Dio: "nessuno può venire a me se il Padre mio non lo attira" (Gv 6,44).
L'accoglienza della fede e il decidersi per Dio consentono una nuova percezione delle cose, rinnova la mente e apre lo spirito, facendoci cogliere nelle cose ciò che diversamente non si vedrebbe. E' quanto afferma Paolo nella lettera ai Romani: "... trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,2).
Una volta accolta la fede, quale esperienza di vita, si pone la questione della sua credibilità e della sua giustificazione, secondo il dettame di 1Pt 3,15: siate sempre "pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi".
Tuttavia i tentativi di spiegare le ragioni della fede non vanno mai confusi come una ricerca di prove razionali, come accadde alla neoscolastica, che finì per fondare la verità della fede sulle prove razionali e storiche, ricorrendo ai "praeambula fidei" da un lato, e ai miracoli dall'altro.
La fede non va più provata dall'esterno, ma partendo dalla credibilità dei suoi stessi contenuti. Le prove sono più personali e interiorizzate. E' sull' "interiore homine" agostiniano che bisogna operare. In buona sostanza si tratta di far provare per credere. Dall'esperienza di fede se ne comprende la validità e la credibilità. La rivelazione, infatti, ha in se stessa la sua credibilità, caratterizzata dalla comprensibilità, correttezza, coerenza e intelligibilità.
Naturalmente è indispensabile da parte dell'interlocutore una sua onestà e correttezza di fondo, che lo renda disponibile all'accoglienza, poiché la rivelazione si apre solo a chi si accosta con fiducia e disponibilità interiori. Allora i contenuti della rivelazione sono colti come un'intuizione della verità in essa racchiusa. In altri termini, si intuisce interiormente che quanto ci viene richiesto di credere è vero, anche se spesso non dimostrabile, trattandosi di realtà che ci sovrastano e ci trascendono.
La ragionevolezza dei contenuti della fede testimonia a loro favore; sarà poi l'esperienza di fede che ne darà la certezza. Infatti le prove sia razionali che sperimentali sono del tutto inadeguate a cogliere i contenuti della rivelazione, perché sono realtà che ci trascendono totalmente e si sottraggono alle nostre capacità sperimentali, consentendoci invece di intuirle interiormente.
Di fronte alla rivelazione si può cogliere solo intuitivamente Dio e il suo mondo, che invece saranno colti e provati dall'esperienza di fede.
In questa prospettiva i segni, i miracoli e le profezie, ben lungi dall'essere prove concrete, costituiscono solo testimonianze della presenza del regno di Dio, ne sono solo una mediazione, peraltro non sempre prontamente coglibile.
La fede pertanto, al di là del fatto che è un dono di Dio e non una conquista dell'uomo, è mediata dal simbolo, attraverso cui si coglie e si sperimenta il divino. Ma è anche il mio decidermi per Dio e il suo mondo. Diventa in tal modo un'esperienza di Dio che trova le sue ragioni profonde all'interno dell'uomo e nella grazia di Dio.
TESI XV
Modelli teologici di mediazione della verità della rivelazione
Dio per rivelarsi all'uomo e incontrarlo nella storia deve usare un linguaggio mediatico, che gli consenta di farsi cogliere dall'uomo nel contesto storico-culturale che, in quanto storico, è sempre situato e in continuo divenire, per cui ciò che è valido oggi può non esserlo più domani e ciò che dice qualcosa a me può anche non dire nulla ad un altro. Per questo una verità storicamente situata non può mai essere assunta come parametro universale, valido per tutti e per sempre.
In tal senso il Lessing afferma che una verità fondata su fatti storici non può essere considerata sempre valida e universalmente accettabile per tutti. Infatti per essere tale deve poggiare sulla ragione e non sulla storia. In altri termini la verità per essere sempre valida e universalmente accettabile deve radicarsi in luoghi che abbiano tali caratteristiche, come la ragione.
Si deve quindi cercare una regola di esegesi universalmente valida, che vada cioè bene per tutti. A tal fine la teologia contemporanea ha individuato quattro modelli che dovrebbero rispondere ai criteri di eterna validità per tutti:
· Modello cosmologico e storico universale : Pannemberg · Modello antropologico-esistenziale: Bultmann, Tillich, Rahner, Schillebeeckx · Modello onto-teologico : Barth, Urs von Balthasar · Modello storico-escatologico: Moltmann e Kasper
Modello cosmologico e storico-universale
Secondo questo modello la rivelazione cristiana, in quanto Dio che si rivela in Cristo, può essere universalmente accettata s alla base di tutti gli esseri finiti e quale loro fondamento si pone Dio, essere supremo che dà senso e unità a tutto. Infatti, tutti gli esseri, a causa della loro finitezza, sono caduchi e aspirano alla stabilità e all'ordine; aspirano ad una completezza che dia loro solidità e certezza. Questa loro fragilità trova adeguata soddisfacimento in Dio, centro catalizzatore di tutte le realtà esistenti, in cui esse trovano il loro senso e compimento.
Quanto all'aspetto storico-universale, la rivelazione cristiana si pone come compimento del cosmo e della storia, in quanto nel Cristo risorto tutta la storia e il cosmo trovano la loro piena e ultima realizzazione e compimento; in lui si trova il loro senso escatologico. In tale prospettiva Paolo presenta il disegno di Dio come una ricapitolazione di tutte le cose in Cristo (Ef 1,10), così che il Cristo diventa il centro di tutto il cosmo e in lui trova la sua completezza, il suo senso e il giusto orientamento. Tutto il cosmo, come affermava Teillard de Chardin, è in lenta e progressiva evoluzione, di perfezione in perfezione, verso di Lui, concepito come il Cristo cosmico. Infatti, prosegue Paolo, "tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui e tutte sussistono in lui ... Perché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare tutte le cose a sé" (Col 1,16-17.19-20).
Pannemberg concepisce la storia come l'automanifestazione di Dio e gli avvenimenti storici come le gesta di Dio. Ma poiché ogni singolo fatto illumina solo parzialmente l'essenza di Dio, bisogna aspettare la fin della storia per cogliere la totalità della rivelazione. L'uomo quindi vive una rivelazione che non è mai compiuta, ma aperta al futuro.
Ma poiché il Gesù risorto è l'eschaton di Dio, nel senso che in lui è pienamente realizzato il futuro di ogni uomo e della storia nonché dell'intero cosmo, allora Dio in Cristo si è pienamente rivelato e Gesù, quindi, è la pienezza della rivelazione. Egli, pertanto, è colui che dà pienamente senso alla storia, la quale in lui trova anticipato il suo futuro.
Tale visione della rivelazione porta in sédei pericoli:
· il pericolo di fare della storia e dei suoi avvenimenti un aspetto di Dio, mentre essi sono soltanto sue creature e strumenti di mediazione.
· Inoltre, se la rivelazione trova il suo compimento solo alla fine, si dovrebbe affermare che solo la fine dà il senso compiuto al tutto e, quindi, è come dire che oggi la rivelazione è incompiuta. Mentre va detto che essa trova la sua pienezza definitiva in Cristo.
· Ancora, se si afferma che la storia è una rivelazione incompiuta, che trova compimento solo alla fine, mentre Gesù è rivelazione compiuta, si ammetterebbero due rivelazioni in concorrenza tra loro.
· Infine, la fede in una rivelazione incompiuta, verrebbe svuotata del suo senso che, invece, troverebbe soltanto alla fine della storia. Si cadrebbe in tal modo in un sostanziale ateismo o in una fede immanentistica.
Il modello antropologico-esistenziale
Con l'avvento dell'illuminismo, l'uomo e le sue capacità razionali vengono poste a misura di tutte le cose. Quindi di fronte ad un mondo desacralizzato dalla ragione, chiarificatrice e illuminante, si pone il problema di recuperare l'identità dell'uomo, autoscopertosi libero e pensante. All'inquietudine dell'uomo, ritrovatosi essere razionale e capace di dominare il mondo, ma privo di un punto di riferimento che non sia se stesso, si cerca di dare una risposta e di ritrovare Dio, partendo proprio dall'inquietudine esistenziale.
L'uomo di Babele, che si è costruito al di fuori e contro Dio e in modo antropocentrico, ha perso la sua identità, non riesce più capire se stesso né gli altri, cadendo in una inquietudine esistenziale, la cui soluzione egli non può trovare in se stesso. Un'inquietudine che S.Agostino incide significativamente in quel suo "Inquietum est cor nostrum, Domine, donec requiescat in te".
Bultmann ritiene che la rivelazione non solo svela all'uomo le realtà trascendenti, necessarie alla sua salvezza, ma gli fornisce inoltre una comprensione di sé quale creatura. L'autenticità dell'uomo quindi è la sua creaturalità, in cui si scopre essere finito e rimandato a Dio per la soddisfazione della sua finitezza.
La rivelazione, in quanto comunicazione di realtà trascendenti, richiede per la loro comprensione la fede; e in quanto illuminazione dell'uomo sul suo stato di creaturalità, lo interpella spingendolo ad una decisione esistenziale per Dio. In tal senso la rivelazione ha come presupposto la problematicità esistenziale dell'uomo e si costituisce, di conseguenza, quale risposta all'uomo che ha smarrito la propria identità, cioè il senso della sua creaturalità e la sua destinazione.
Bultmann ha una concezione incompleta dell'esistenza perché non tiene conto della complessità dei rapporti che l'uomo ha con ciò che è altro da sé, che lo strutturano e lo rendono storicamente completo.
Inoltre il Bultmann riduce la rivelazione a ciò che l'uomo può comprendere di se stesso, limitando notevolmente la comprensione della rivelazione e del Dio che vi si rivela e che si pone come totalmente altro , che non si lascia imbrigliare in schemi prevedibili, ma è sempre nuovo e imprevedibile.
Tillich
A differenza della teologia kerigmatica, che accentua il contrasto tra l'annuncio e la situazione dell'uomo peccatore, a cui Dio annuncia la salvezza, il Tillich vede nella rivelazione e nell'uomo due interlocutori: l'uomo è la domanda, la rivelazione è la risposta. Questa si pone dunque come risposta ad un uomo che si interroga sulla finitezza e caducità dl proprio essere e della propria esistenza, diventando in tal modo una risposta alle esigenze esistenziali dell'uomo.
In tal senso la rivelazione non opprime la ragione e questa non si oppone alla rivelazione, poiché quest'ultima la integra, cioè diventa risposta all'uomo che si interroga. All'uomo che si interroga Dio ne diviene la risposta.
Rahner
Anche per Rahner la rivelazione è una risposta agli interrogativi dell'uomo, da cui bisogna partire e trascendendo questi, arrivare a cogliere Dio, a cui l'uomo nella sua contingenza e proprio a motivo di questa è aperto. Si evita in tal modo di concepire la rivelazione come una risposta al bisogno religioso dell'uomo o come una realtà che si pone al di fuori dell'uomo, a lui estranea e che gli si impone. Partire, dunque, dall'uomo per arrivare alla rivelazione, quale risposta alle sue esigenze.
Secondo Rahner a grazia, quale dono gratuito di Dio, viene sempre data all'uomo fin dal suo nascere e si esprime nella sua natura sotto forma di amore assoluto del prossimo, disponibilità assoluta alla morte, speranza assoluta nel futuro. Questi aspetti dell'esistenza dell'uomo, che gli sono connaturati, vengono definiti dal Rahner come "esistenziali trascendentali", cioè come aspetti della vita dell'uomo che non solo lo aprono a Dio, ma lo legano e lo mettono in comunione con lui e lo orientano verso di lui.
Nell'uomo quindi vi sono elementi trascendentali che egli esperimenta nella su vita e che lo aprono alla rivelazione, a cui è chiamato a dare una risposta con la fede, quale adesione esistenziale a Dio che si rivela. In questa sua adesione a Dio l'uomo spera che Dio non sia solo il reggitore del mondo, ma che sia anche il compimento dell'uomo. Quest'ultimo trova la sua risposta nell'incarnazione di Gesù, perfezionato nella risurrezione. A questa perfezione l'uomo si apre nell'attesa e nella speranza.
Schillebeeckx
In un mondo sempre più secolarizzato il messaggio cristiano è sempre meno compreso e, pertanto, la sfida deve partire proprio dall'esperienza secolarizzata dell'uomo; l'uomo che si interroga sulla realtà e sull'esistenza e a cui dà necessariamente risposte imparziali e incomplete. Proprio su queste si incentra la fede e la rivelazione cristiana, che dona un senso compiuto e definitivo.
Pertanto, alle domande radicali sulla realtà e sull'esistenza risponde con radicalità illuminante la fede.
La risposta cristiana, tuttavia, non cade dall'alto, ma si inserisce in un'esperienza a cui ha già dato senso, interpretandola da una prospettiva di fede.
La rivelazione, quindi, pur non nascendo dall'esperienza, viene tuttavia percepita tramite l'esperienza e nell'esperienza, che va interpretata e letta.
Modello onto-teologico
Secondo questo modello né la creazione né la comprensione dell'uomo può diventare dimostrazione dell'esistenza di Dio e della verità della rivelazione. La dimostrazione di Dio, invece, viene dalla rivelazione stessa in quanto in essa Dio si autorivela e si fa cogliere dall'uomo. Essa, quindi, non ha bisogno di intermediari, ma va accolta in sé e per sé e accettata quale dimostrazione che Dio dà di se stesso.
Dio si rivela, questa è la dimostrazione della sua esistenza, che non ha bisogno pertanto di intermediari.
Il punto debole di questo impianto teologico è che nessuno e niente può essere dimostrazione di sé in assoluto, ma va relazionato e colto all'interno dell'esperienza umana, poiché le cose calate dall'alto sono sempre corpi estranei, che tendono ad essere respinti. Dio non può essere tale per se stesso, ma lo deve essere per me e lo devo sentire parte di me, risposta al mio bisogno di infinito.
Barth
Secondo Hermannn, che fu maestro di Barth, Dio si può conoscere solo se egli si rivela con un atto libero, che lui stesso decide su di noi. E ciò si coglie nell'intimo dell'uomo.
Barth riprende questa idea e afferma che la rivelazione è un atto libero di Dio, calato dall'alto, per cui Dio è coglibile e conoscibile solo nella sua autorivelazione, nella quale Dio è insieme rivelatore, atto di rivelazione e contenuto della rivelazione. E' in sostanza una rivelazione autogestita, prodotta in proprio senza la necessità di intermediari. La sua Parola, infatti, è sufficiente a spiegare se stesso.
Dio, quindi, si rivela da solo e dà la possibilità all'uomo, mosso dallo Spirito, di coglierlo nel suo autorivelarsi e ciò senza necessità di intermediari.
Di fronte ad un Dio che si autogestisce e fa tutto da solo, sorge spontanea la domanda di quale spazio abbia l'uomo, che si trova investito da Dio senza che abbia la possibilità di decidersi per Lui..
Barth concepisce la rivelazione come epifania, che possiede in sé un carattere escatologico in atto.
Una simile teologia vanifica la storia della salvezza, che è dialogo, e l'uomo quale attore principale di questo dialogo. Barth stesso ne ha sentito il limite se vede la necessità di ricorrere alla Signoria di Cristo, che è il Dio per noi e che si apre a noi e ci coinvolge nella scelta.
Urs von Balthasar
Secondo l'autore Dio non si rivela nella storia e per suo mezzo, poiché Dio, che è l'assoluto e il trascendente non può assoggettarsi alle ristrette misure dell'uomo. Al contrario la rivelazione è solo un atto d'amore, che può essere percepito dall'uomo solo nel suo intimo. E questa percezione ha come risposta l'amore, poiché è Dio che lo risveglia nell'intimo dell'uomo. In tal modo l'uomo percepisce in sé una presenza che lo supera, per cui la rivelazione porta in sé anche una risposta a se stessi.
In questa visione altamente contemplativa, ci sono due limiti: a) si toglie alla rivelazione la sua natura sacramentale, contrastando con Fil. 2,6-11; b) l'uomo è totalmente superato e ridotto ad un mero oggetto passivo, incapace di adesione libera a Dio che, invece, fa tutto.
Ci troviamo di fronte ad un Dio che non si propone , ma si impone. All'uomo, soggiogato, non resta che contemplare.
Modello storico-escatologico
Secondo questo modello la rivelazione non è concepita come un rivelarsi di Dio all'uomo e come una illuminazione che gli viene data su di un nuovo senso della vita, ma è essenzialmente una promessa di Dio di cieli nuovi e terra nuova e, in quanto tale, non ancora realizzata, ma si proietta nel futuro. Si tratta dunque di una rivelazione che si muove in una cornice escatologica.
Questa promessa di un mondo nuovo spinge l'uomo fin da subito ad adeguare la propria vita alle esigenze della promessa e lo impegna nell'immediato ad iniziare e ad attuare tale trasformazione, racchiusa nella promessa, che si fa in tal modo speranza. Moltmann
Secondo l'autore la rivelazione è solo una promessa che anticipa ora, nella speranza, una realtà la cui realizzazione piena si pone nel futuro. Quindi noi viviamo in un "già", che ci apre alla speranza, ci orienta verso Dio e ci spinge all'impegno quotidiano, ma che nel contempo è anche un "non ancora", che ci rimanda a quel futuro che è già qui nella speranza. In altri termini, il credente, che è essenzialmente uno sperante, si trova in una situazione di "già, ma non ancora", che gli genera interiormente un forte stato di tensione esistenziale, in quanto chiamato a vivere una realtà che è già presente, ma non ancora pienamente affermata, ponendolo in una condizione di contrasto con la realtà decaduta di cui fa parte, ma non più pienamente, poiché proiettato verso i cieli nuovi e la terra nuova, di cui già fa parte, anche se non ancora in modo compiuto.
E' questo il tempo della speranza, uno spazio che viene riempito dall'invio missionario, che testimonia un futuro già presente in speranza e che ci orienta fin da subito verso di lui.
La finitezza e lo stato di creaturalità dell'uomo accendono in lui la speranza, che è una tensione verso un futuro di pienezza. La speranza diviene così la forza che muove la storia verso la sua compiutezza. Così la rivelazione, promessa di un futuro di pienezza, apre la storia verso il futuro, innescando un processo evolutivo e affermativo, che ne evidenzia il senso.
Questa eccessiva sottolineatura del Moltmann di una rivelazione-promessa che proietta l'uomo verso il futuro, porta a trascurare e a svalutare un Cristo, che è evento che si compie nell'oggi: "Oggi si è compiuta questa scrittura che avete udito poco fa" (Lv 4,21).
Kasper
L'autore si chiede quale sia il senso della storia, che le dà giustificazione e orienta l'uomo nel suo esistere, glielo rende ragionevole, sensato e comprensibile, portandolo alla realizzazione di sé, così come il non-senso lo porta all'autodistruzione.
Questo senso della storia l'uomo lo coglie nelle sue singole esperienze, fatte di segni più o meno accessibili e raggiungibili; queste, a loro volta, divengono segni, tracce di un senso più ampio, quello della storia. Quindi, dall'esperienza personale del senso del proprio vivere, si passa alla comprensione di quello della storia, che si ritrova a sua volta anche nel senso del nostro esistere.
Il senso del nostro esistere e della nostra storia non si esaurisce all'interno della vita e della storia stessa, ma le trascende in una ricerca più ampia del senso ultimo e pieno, che ci faccia capire pienamente capire noi stessi. E' qui che si pone la rivelazione, che dà all'uomo e alla sua storia il significato più profondo del loro essere.
Limiti dei modelli di mediazione
Il limite primo di questi modelli consiste nel fatto di presentarsi come unici ed esclusivi e non relativi. Essi infatti sono solo dei modelli interpretativi, una chiave di lettura ben lungi dall'essere assoluta. Essi in realtà toccano vari aspetti della rivelazione, molto interessanti e che aiutano a capire e a scendere in profondità; vanno pertanto non contrapposti o affiancati l'uno all'atro, ma integrati tra loro, dando in tal modo una visione più completa della rivelazione in rapporto all'uomo e al suo mondo.
Una verità relativa, assunta come assoluta, oltre che peccare di presunzione, perde molto del suo essere verità fino a scadere in non-verità.
Infatti se la rivelazione si lega esclusivamente all'uomo e al suo mondo rischia di diventare immanentistica, perdendo così la sua dimensione trascendentale; viceversa, diventa troppo estranea all'uomo e, pertanto, utopica.
La rivelazione deve essere la realtà di Dio che irrompe nella storia dell'uomo e in essa si incarna, assumendola su di sé; però non si esaurisce in essa, ma la trascende.
In altri termini, Dio si è fatto come noi e ci accompagna nel nostro cammino storico-esistenziale (Mt 28,20b; Lc 24,15) per aiutarci a superare i limiti della storia per rientrare nella sua dimensione divina da dove proveniamo.
TESI XVI
Giustificazione teologico-fondamentale dell'universalità della rivelazione
In tempi di marcato relativismo e globalizzazione, il cristianesimo rischia di essere ridotto ad una via di salvezza fra le tante altre, perdendo in tal modo la sua peculiarità di unicità e di universalità.
Spetta pertanto alla T.F. dimostrare le qualità di unicità e universalità proprie del cristianesimo.
La rivelazione cristiana, pur pretendendo di essere universale e destinata agli uomini di ogni tempo e latitudine, tuttavia essa affonda le sue radici nella storia e quindi in un contesto storico-cultura e e sociale specifico. A motivo di ciò la rivelazione ha sempre bisogno di essere mediata, interpretata per essere compresa e trasmessa lungo i secoli. Essa è soggetta alle leggi della storia pur trascendendola.
E' così che Dio si sceglie come partener un popolo tra i più piccoli e poveri per farne il suo mediatore in mezzo agli uomini (Es 19,5-6).
Dio inizia la sua storia, intrecciandola insieme a quella dell'uomo, con un atto di liberazione a favore di Israele (Es 3,7-11). Questo evento di liberazione dovrà essere ricordato di generazione in generazione e portato a conoscenza di tutti.
Dio pertanto lega la sua presenza in mezzo agli uomini non ad una dottrina o ad una qualche verità assoluta imposta dall'alto, ma ad un intervento concreto, storicamente definito, qualificandosi come il Dio che cammina a fianco dell'uomo e condivide, facendosene carico, il suo destino. E affinché questo evento importante e fondamentale nella storia di un popolo non si perda, ne fa obbligo di memoria, perpetuandolo lungo i secoli, facendo scoprire un po' alla volta come questo Dio liberatore di Israele è in realtà il Dio di tutti gli uomini e si serve di tutti per condurre avanti il suo progetto di salvezza. Tal aspetto apparirà più evidente nel momento della liberazione di Israele dall'esilio di Babilonia, dove Dio si servirà di Ciro, re pagano, definito da Dio "il mio servo Ciro" ( ), per attuare il suo disegno di salvezza su Israele.
La storia di Israele, quale storia di rivelazione, procede secondo due principi: quello di elezione progressiva e quello di rappresentanza.
Secondo questi due principi, Dio si sceglie un popolo e, attraverso varie tappe successive, lo screma sempre più fino ad arrivare da una molteplicità ad un unico resto d'Israele, Gesù.
Il popolo d'Israele e Gesù diventano i luoghi privilegiati in cui Dio si rende presente ed opera in mezzo agli uomini. Dio quindi si sacramenta nella storia sia in Israele che in Gesù e lo fa in vista di tutti. Israele e Gesù, in diverso modo, portono in loro stessi un messaggio che appartiene all'intera umanità. In particolar modo in Cristo abita la pienezza della divinità che abbraccia l'intera umanità: "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 3,14; 12,32).
Quindi, benché storicamente situati e pur parlando il linguaggio della storia, Cristo e Israele sono i due sacramenti privilegiati attraverso cui Dio non solo si incarna, ma opera a favore dell'intera umanità.
All'interno della teologia si è sviluppato un dibattito che tende ad oscurare l'universalità e l'unicità del messaggio cristiano, aprendosi, invece, al relativismo religioso, portando teologi e una buona parte dei cristiani a pensare che una religione vale l'altra e che il cristianesimo entra, pertanto, nel mazzo delle tante religioni, così che il Magistero è stato costretto ad intervenire pesantemente con la "Dominus Jesus".
Una domanda vorrei porre a questi teologi e a quanti sostengono questo relativismo: ma se il cristianesimo è una tra le tante religioni disseminate tra gli uomini e alla pari di tutte le altre, Cristo che cosa è venuto a fare? Il Padre perché ci ha donato suo Figlio (Gv 3,16)?
I rappresentanti di questa corrente, due fra tanti, sono lo Scillebeeckx e il Geffré.
Scillebeeckx
L'autore parte cercando di configurare l'identità del cristianesimo e il suo rapporto con le altre religioni. Da qui, poi, cerca di vedere come il cristianesimo, pur mantenendo integra la sua identità, possa anche riconoscere la validità delle altre religioni.
La peculiarità del cristianesimo, afferma lo Scillebeeckx, è l'incarnazione di Dio in Cristo, concepito, però, non come il sacramento per eccellenza dell'incontro tra Dio e gli uomini, ma come un limite da superare e da cui svincolarsi, poiché la corporeità è la forma contingente, limitata e limitante, della rivelazione e della sua universalità. Con tale affermazione lo Scillebeeckx dimentica che l'umanità di Gesù è l'umanità stessa di Dio e, pertanto, possiede in sé una nota di universalità che trascende la sua contingenza storica e che consentirà a Gesù stesso di affermare che quando sarà elevato da terra attirerà tutti a sé. Dimentica ancora che questo relativismo storico è stato ampiamente superato dalla risurrezione stessa di Cristo, che gli ha dato una dimensione universalistica e cosmica non solo alla sua persona, ma all'intero suo messaggio e alla sua stessa opera. Il Gesù della storia è confluito nel Cristo risorto ed è stato riscattato pienamente dal relativismo storico dalla risurrezione e si impone all'intera umanità come unico parametro di rivelazione e di salvezza. Paolo ci ricorda questo passaggio essenziale per la fede: "Ma se Cristo non è risuscitato dai morti, allora vana è la nostra predicazione ed è vana la vostra fede ... e voi siete ancora nei vostri peccati" (1Cor 15,14.17b), come evidenzierà successivamente nella sua lettera ai Romani l'universalità di Cristo e della sua salvezza: "Io non mi vergogno del vangelo[2], poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco. E' in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: il giusto vivrà mediante la fede" (Rm 1,16-17).
Lo Scillebeeckx pertanto, affermata la limitazione limitante dell'incarnazione di Dio in Cristo, ritiene che il cristianesimo possa accogliere in sé tutti gli aspetti positivi delle altre religioni, riducendo in tal modo il cristianesimo ad un bacino di raccolta di altre religioni, facendone una religione sincretica e privandola della sua peculiare sua identità.
Per lo Scillebeeckx, infatti, Dio è troppo ricco e grande per essere contenuto entro i limiti spazio-temporali dell'evento Cristo, così che Egli si elargisce a tutte le religioni, che contengono in loro tante verità, così che c'è più verità in tutte le religioni messe assieme che in ogni singola religione. E questo vale anche per il cristianesimo.
Va precisato che se è vero che Dio si lascia cogliere anche dalle altre religioni è per dare a tutti una possibilità di incontrarlo e, quindi, di salvezza, ma certamente non è per compensare ciò che manca a Cristo. Se infatti così fosse Cristo sarebbe relativizzato e verrebbe negata in lui la pienezza della divinità, mentre Gesù verrebbe relegato al rango di un profeta che rimanda a Dio.
Con il suo relativismo lo Scillebeeckx demitizza Gesù, cercando di superare il cristocentrismo e l'ecclesiocentrismo a favore di un teocentrismo, lasciando alla Chiesa il compito della diffusione universale della fede.
La direzione finale dello Scillebeeckx, pertanto, è teocentrica ed ecclesiologica.
Geffré
Il Geffré si muove praticamente sulla linea dello Schillebeeckx e pur affermando la reale incarnazione di Dio in Cristo e, quindi, la pienezza della divinità in Gesù, tuttavia nega l'assolutezza di questa incarnazione che, essendo storica, è pur sempre limitata. Da ciò ne conclude che la rivelazione non è definitiva.
Anche qui per il Geffré valgono le stesse osservazioni fatte per lo Schillebeeckx.
L'universalità e l'unicità del cristianesimo può essere trovata nell'ambito dell'universalità e unicità del suo stesso fondatore, Gesù.
Queste si ritrovano nell'umanità storica di Gesù. Egli è veramente un uomo calato in un determinato contesto storico-culturale e sociale. La sua umanità è vista come una spogliazione e un impoverimento della sua divinità (Fil 2,6-8); egli da ricco si fece povero ponendo la propria vita al servizio degli uomini. Tutta la vita terrena di Gesù fu una proesistenza, spesa a totale favore dell'umanità, alla ricerca dei più poveri e dei diseredati, delle figure socialmente più deboli e squalificate. Non esitò neppure di violare le regole più sacre della religione ebraica, come il sabato, pur di aiutare i bisognosi. Egli si propose come ristoro accogliente degli affaticati e stanchi, mentre nel momento della sua morte affermò di attirare tutti a sé, quasi in un abbraccio unico e universale. Promise il paradiso al ladro crocifisso con lui, perdonò i suoi aguzzini e diede a Giovanni e in lui a tutta l'umanità sua madre.
Egli si può ben dire che fu l'uomo che passò nella storia beneficando tutti, accogliendo tutti e aprendo alla speranza tutti.
Questa umanità storica fu alla fine glorificata nella risurrezione, con cui vennero superati i limiti spazio-temporali, trasformando la povertà del Gesù della storia nella gloria del Cristo cosmico, dando in tal modo validità universale al suo messaggio e alla sua opera salvifici.
L'universalità di Gesù può essere colta anche nel particolare rapporto che egli ha dimostrato di avere con Dio e il suo mondo.
Fin dal battesimo Gesù è rivestito dello Spirito di Dio, in cui è chiamato dal Padre con l'appellativo di Figlio diletto in cui si è compiaciuto (Mt 3,13-17). Così similmente nella trasfigurazione (Mt 17,1-9). Nella Sinagoga di Nazaret attribuisce a se stesso un testo di Isaia, che lo qualifica come il Cristo, permeato di Spirito del Signore e inviato direttamente da Dio per compiere una sua specifica missione (Lc 4,16-22). Afferma che lui e il Padre son una cosa sola, operando in ciò una sorta di identificazione, e che tutto ciò che dice e compie in realtà è il Padre che lo compie in lui (Gv 14,9-11). Egli si rivela come l'attuatore della volontà del Padre e il compierla è suo cibo. Dichiara che le sue parole sono eterne e che non passeranno; che egli è re, ma che il suo regno non è di questo mondo (Gv 18,36-37).
Colti in questo contesto, la figura di Gesù e il suo messaggio assumono dei contorni trascendenti e, proprio perché tali, anche universalmente validi per tutti.
Ma i tratti della sua unicità e universalità si possono riscontrare anche nella sua predicazione, in cui esprime verità eterne supportate dalla sua stessa divinità, riconosciutagli dal Padre, che lo ha definito Figlio nel battesimo e nel racconto della trasfigurazione. Egli afferma con solennità di essere la Via, la Vita e la Verità. Egli, dunque, non è una delle tante vie o una delle tante verità, ma si qualifica come "la Via", "la Verità" che, con quel articolo determinativo posto innanzi al nome, le rendono esclusive ed uniche, per questo universalmente valide. Si noti come Gesù non dice di conoscere la via, la verità e la vita, né dichiara di averle, ma che lui lo è, operando una identificazione tra via, verità, vita e la sua persona. De resto il messaggio che egli annuncia non è suo, non è frutto delle sue personali convinzioni, ma proviene direttamente da Dio, di cui egli è il volto storico, lo spazio entro cui Dio si muove nella storia e incontra l'uomo. Non ha remore infatti nel dichiarare che lui e il Padre sono una cosa sola, l punto tale che chi vede lui vede il Padre, mentre il suo cibo, che lo alimenta vitalmente, è fare la volontà del Padre. Da ciò si deduce che egli è Dio in carne ed ossa.
Proprio per questa sua peculiarità, quella di incarnare in sé il messaggio di Dio, anzi si identifica con Dio stesso, la sua persona e il suo messaggio sono universalmente validi e vincolanti per l'intera umanità, che in lui viene posta di fronte ad una scelta radicale, che contiene già in se stessa un giudizio: "Chi non è con me è contro di me". Gesù non è uno dei tanti profeti che parlano in nome e per conto di Dio, ma è egli stesso Dio che si rivolge direttamente agli uomini: "Da ultimo mandò loro il proprio figlio ..." (Mt 21,37).
Il tratto dell'universalità, che qualifica la missione di Gesù e la sua persona, è dato dallo Spirito Santo stesso, che opera una mediazione tra Gesù e il Padre. Egli caratterizza l'operare di Gesù e ne qualifica la missione e fin da principio egli è una costante presenza in Gesù:
· La madre di Gesù concepisce per opera dello Spirito Santo, che dice come l'origine di Gesù non è frutto di un semplice atto umano o della volontà dell'uomo. Ma la sua origine è in Dio stesso e che il suo esserci rientra in un progetto divino a favore dell'uomo.
· Nel battesimo Gesù riceve l'investitura dello Spirito Santo.
· E' lo Spirito che lo spinge nel deserto e Gesù si muove sempre sotto l'impulso dello Spirito.
· Gesù riferisce a se stesso le parole di Isaia: "Lo Spirito del Signore è su di me"; uno Spirito da cui dipende l'intera missione di Gesù, che si muove sotto il suo impulso.
· Gesù è colui che battezza non con l'acqua, ma con lo Spirito, inaugurando in tal modo i tempi di Dio e annunciando in tal modo come l'uomo è chiamato a ritornare alla casa del Padre e, proprio per mezzo dello Spirito, a condividerne la vita.
· Gesù promette lo Spirito, che gli renderà testimonianza e che condurrà chi si lascia guidare da Lui alla verità tutta intera.
· Egli, sulla croce, rimetterà lo Spirito, che lo ha accompagnato durante la sua avventura terrena, nelle mani del Padre.
· E sarà proprio il Padre, con la potenza dello Spirito di santificazione, che lo risusciterà dalla morte, costituendolo Figlio di Dio, cioè rendendo manifesta la vera natura di Gesù.
E' proprio questo Spirito, che agisce in Cristo, che fa da trait-d'union tra il Padre e lo stesso Gesù. Lo Spirito è colui che opera in Cristo e compie i miracoli, in cui viene preannunciata una nuova creazione e anticipano in se stessi gli effetti della risurrezione. E' sempre lo Spirito che rende accessibile e collega il mondo di Dio con quello degli uomini e funge da caparra e garanzia per il nuovo mondo, che è anticipato nella risurrezione, anzi trova la sua origine nella risurrezione e si apre all'intera umanità con un movimento espansivo, avvolgente e impercettibile. Un nuovo mondo a cui tutti gli uomini indistintamente sono chiamati a parteciparvi, evidenziando in tal modo l'universalità e l'universalizzazione della rivelazione di Dio nel suo Cristo.
[1] Delle 14 lettere di cui è composto il corpus paulinum solo sette sono riconosciute a Paolo: Prima Tessalonicesi, Prima e Seconda Corinti, Filippesi, Filemone, Galati e Romani. Le restanti sei (Efesini, Colossesi, Seconda Tessalonicesi, Prima e Seconda Timoteo, Tito) sono di scuola paolina, tutte scritte intorno all’anno 80 o successivamente. La lettera agli Ebrei, che nonostante il titolo non è una lettera in quanto non ne possiede le caratteristiche, è di autore sconosciuto ed è totalmente estranea a Paolo e alla sua scuola. [2]Per Paolo il "Vangelo" è il Cristo crocifisso |