SECONDA LETTERA A TIMOTEO


Un’autorevole esortazione alla testimonianza del Vangelo

sorretti dallo Spirito che abita in noi





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Premessa


In un’epoca di grandi trasformazioni sociali, sollecitate da una globalizzazione sempre più incalzante e dai conseguenti flussi migratori, accompagnati inevitabilmente da una eterogenia di culture e religioni, che si incuneano nella nostra cultura occidentale, dalle origini squisitamente cristiane, è molto importante che il credente prenda sempre più coscienza del suo essere cristiano.

Il cristiano, infatti, non è semplicemente un uomo che crede nel vangelo e nei suoi valori, in cui è stato allevato, più o meno consapevolmente, fin dalla sua infanzia. Il cristiano è tale, in primis, perché la sua umanità è stata cristificata, cioè inserita in Cristo. Egli pertanto non è più un semplice uomo che crede in Cristo e segue i dettami della Chiesa, ma è, per sua natura, un altro Cristo. È la sua natura umana che è stata ontologicamente trasformata, per cui egli non è più un uomo, ma un cristiano, cioè un uomo trasformato in Cristo e a lui assimilato. Egli appartiene ad un nuovo tipo di umanità, trasformata dalla fede e dal battesimo, che lo radica in Dio stesso. Giovanni nel suo vangelo esprime questo concetto in 15,18-19: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia”. Il credente, pertanto, pur essendo nel mondo, non gli appartiene.

La coscienza di appartenere ad un nuovo tipo di umanità sta all’origine della nostra testimonianza. Se non abbiamo questo tipo di coscienza, allora la nostra fede sarà soltanto confessionale, cioè indicherà soltanto il nostro gruppo di appartenenza religiosa: la Chiesa cattolica, che si contrappone, a sua volta, a quelle dei protestanti, alla fede ebraica, a quella islamica, a quella induista o a quant’altro. Un gioco di forze che ha attinenza con il potere religioso o teocratico, ma nulla ha a che vedere con la nostra vera natura di cristiani.

La testimonianza, pertanto, affonda le sue radici nella coscienza del nostro nuovo essere e da questa trae la sua linfa vitale e la sua forza primaria. Tale coscienza, tuttavia, nasce soltanto dal nostro rapporto profondo con la Parola di Dio, l’unico strumento che abbiamo nelle nostre mani in grado di rivelarci le realtà spirituali di cui siamo permeati, in cui siamo inseriti e che ci hanno profondamente trasformato. È necessario, pertanto, far emergere questa coscienza dentro di noi, sollecitati dalla Parola di Dio, perché queste realtà spirituali, a cui apparteniamo per fede e per battesimo, traspaiano anche dal nostro modo di vivere e formino in noi lo stile della nuova umanità che Cristo ha generata nel mondo: quella cristiana.

Se il cristiano non appare tale in mezzo agli uomini, significa che egli ha tradito il suo essere cristiano; tanto vale allora che smetta anche la sacrilega menzogna del suo frequentare i sacramenti. Questi infatti sono finalizzati ad alimentare la vita in Cristo, quella vita che in realtà è, di fatto, spenta. Non è sufficiente comportarsi da brave persone per essere dei bravi cristiani. Se per raggiungere la salvezza, infatti, fosse stato sufficiente il comportarsi bene come persone, Cristo a cosa sarebbe servito?

Di fatto vi è nel nostro cristianesimo una sorta di schizofrenia ontologica ed esistenziale tra l’essere cristiani e il vivere da cristiani. In altri termini, siamo cristiani, ma viviamo da semplici uomini; non vi è conformazione del nostro vivere alle esigenze del nostro essere e ciò spesso non dipende soltanto dalla nostra fragilità umana, ma dall’ignoranza totale del nostro essere in Cristo e, di conseguenza, dall’impossibilità di adeguare il nostro vivere al nostro essere.

La Seconda Lettera a Timoteo è tutta incentrata su questa esigenza della testimonianza di Cristo, che qui Paolo chiama il Vangelo, in un mondo allora pagano e ora divenuto nuovamente pagano.


Introduzione

Questa lettera, assieme alla Prima Timoteo e a quella di Tito, forma la triade delle lettere pastorali1, uniformate tra loro da una omogeneità di linguaggio, di stile, di intenti e di temi. Esse sono definite pastorali perché, con il loro linguaggio squisitamente esortativo ed autorevole, sostenuto anche da richiami dottrinali e dossologici2, tendono a incoraggiare e a sostenere i due responsabili delle comunità di Efeso e Creta, rispettivamente Timoteo e Tito, nel loro combattere contro le distorsioni dottrinali3, che stavano avvenendo all’interno delle loro comunità da parte di neoconvertiti di origine giudaica e, probabilmente, di formazione ellenistica4. In esse vengono fatti dei richiami a specifiche categorie sociali5 verso le quali i due responsabili devono volgere la loro attenzione e la loro cura: gli episcopi, i presbiteri, i diaconi, le vedove, gli anziani, i giovani, gli schiavi, i ricchi e i fedeli in genere. Un’attenzione viene riservata anche alle assemblee liturgiche6, all’interno delle quali i credenti sono invitati a pregare per tutti gli uomini e in particolare per i re e per quelli che detengono il potere, perché sappiano mantenere la pace e la giustizia in mezzo ai popoli.

La figura di Timoteo7

Il nome di Timoteo compare 24 volte nel N.T., sei volte negli Atti degli Apostoli e 18 volte nelle varie lettere che compongono il corpus paulinum8, compresa anche quella agli Ebrei (13,23), benché notoriamente non di Paolo. Già questa diffusa presenza indica come questo personaggio abbia avuto nell’annuncio del Vangelo un notevole rilievo e in particolar modo come questi fosse uno dei più cari e stimati collaboratori di Paolo, che ripetutamente lo definisce “mio collaboratore” (Rm 16,21), “mio diletto figlio e fedele nel Signore” (1Cor 4,17; 2Tm 1,2), “fratello” (2Cor 1,1; Col 1,1; Fm 1,1; Eb 13,23), “servo di Gesù Cristo” (Fil 1,1), “nostro fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo” (1Ts 3,2), “mio vero figlio nella fede” (1Tm 1,2), “figlio mio Timoteo” (1Tm 1,18).

Paolo incontrò Timoteo per la prima volta durante il suo primo viaggio missionario9, passando per Listra, una città della Licaonia, fondata da Augusto nel 6 a.C. Timoteo, personaggio molto stimato (At 16,2), era di padre greco e di madre ebrea (At 16,1) e venne alla fede cristiana grazie all’opera educatrice di sua nonna Lòide e di sua madre Eunìce (2Tm 1,5), che lo istruirono fin dall’infanzia nelle Sacre Scritture10 (2Tm 3,15). Forse per questo Timoteo non fu circonciso all’ottavo giorno come prescriveva la Legge; la cosa, invece, avverrà per opera di Paolo, quando questi decise di prenderlo con sé quale suo collaboratore nella diffusione del vangelo (At 16,2). Paolo lo fece circoncidere per evitare inutili critiche da parte dei Giudei per essersi preso con sè un ebreo incirconciso. Quando Paolo lo scelse come suo collaboratore, Timoteo doveva essere molto giovane, forse vent’anni, se dopo una quindicina d’anni Paolo gli scriverà: “Nessuno disprezzi la tua giovane età11” (1Tm 4,12)12. Era gracile di salute, tanto che Paolo amorevolmente e paternamente lo richiamerà: “Smetti di bere soltanto acqua, ma fa uso di un po’ di vino a causa dello stomaco e delle tue frequenti indisposizioni” (1Tm 5,23); era, inoltre, anche di carattere timido ed introverso (1Cor 16,10; 2Tm 1,8). Questi tratti della personalità di Timoteo sono probabilmente all’origine della seconda lettera, tutta tesa a sostenere e a incoraggiare questo ragazzo a far fronte a problemi comunitari forse più grandi di lui. Nonostante ciò Timoteo era molto stimato da Paolo, che lo volle a suo fianco in molti viaggi, divenendone, inoltre, suo inviato e suo rappresentante speciale presso le varie comunità di fondazione paolina13. È un personaggio che compare accanto a Paolo in molte sue lettere14. L’amicizia tra Paolo e Timoteo fu particolarmente stretta tanto che Paolo, giunto alla fine dei suoi giorni, chiederà presso di sé la presenza del suo carissimo amico (2Tm 4,6-9).

Autenticità

Fin dall’antichità le Lettere pastorali erano incontestabilmente attribuite a Paolo, convinzione che rimase incrollabile fino al XIX secolo, quando, con l’avvento della critica letteraria dei testi biblici, l’autenticità delle tre Lettere venne messa in discussione15. Tre furono sostanzialmente gli argomenti portati a sfavore della paternità paolina delle Pastorali: 1) di tipo storico; 2) linguistico - letterario; 3) teologico. Senza addentrarci nelle singole questioni, che ci porterebbero a lunghe disquisizioni, allontanandoci dalle finalità del presente scritto, diciamo semplicemente che le osservazioni mosse dagli oppositori concordano nel ritenere estranei e incongruenti i dati riportati nelle Pastorali con il resto delle Lettere attribuite a Paolo, mentre il contesto storico-ecclesiale che si riscontra nelle Pastorali non sembra concordare con quello in cui operò Paolo. Questi tre ordini di argomenti, che gli oppositori adducono contro la paolinità delle Lettere, visti da una diversa prospettiva, possono essere spiegati e testimoniarne, per contro, l’autenticità.

Mi limito, pertanto, ad abbozzare solo un qualche accenno a favore dell’autenticità, senza addentrarmi in modo approfondito nella questione, la quale cosa ci porterebbe lontano dagli intenti di questo scritto.

Personalmente ritengo che per valutare l’autenticità delle tre Lettere pastorali sia necessario partire da una diversa prospettiva16: la natura stessa delle Lettere pastorali, radicalmente divergente da quella delle Lettere tradizionalmente attribuite a Paolo. Queste ultime hanno una natura pubblica, sono cioè indirizzate alle varie comunità di fondazione paolina (fatta esclusione di quella ai Romani, che non fu fondata da Paolo) e affrontano questioni interne alle comunità stesse, la cui soluzione Paolo radica a principi teologici e cristologici, affrontando spesso aspetti dottrinali e fondativi della fede stessa. Il linguaggio usato pertanto si fa tecnico e, in un certo senso, specialistico e i toni sono spesso imperativi, ufficiali e dottrinali anche se, non di rado, passionali. Non viene lesinato il ricorso alla retorica per rendere più incisivo il messaggio. La figura paolina che da questi scritti emerge è quella propria del padre-fondatore schietto, immediato, passionale, autoritario e autorevole che impartisce disposizioni, dirime questioni e contese, si preoccupa dell’unità messa in pericolo da divisioni interne o dai giudeocristiani giudaizzanti, che Paolo chiama ironicamente “superapostoli” (2Cor 11,5; 12,11) o con durezza “falsi apostoli, operai fraudolenti” (2Cor 11,13) e, proprio qui, nelle pastorali, li definisce sostanzialmente dei presuntuosi ignoranti (1Tm 1,7). Egli è essenzialmente un annunciatore itinerante del Vangelo e un fondatore di comunità (1Cor 1,17), la cui cura lascia ad altri. Sulle comunità interviene sporadicamente e occasionalmente e solo quando vede sorgere dei pericoli al loro interno, benché ne sia sempre costantemente informato da una fitta rete di suoi collaboratori. Egli è per l’espansione del Vangelo più che per il suo mantenimento sul territorio (Rm 15,14-23). La tempra di Paolo, quindi, non è quella del pastore che vive con la sua comunità, ne condivide le sorti e se ne prende quotidianamente cura. Poste in questa cornice, è evidente che le sue Lettere tradizionali presentano un linguaggio, uno stile e delle tematiche ben diversi da quelli che si riscontrano nelle Lettere Pastorali.
Queste (1Tm e 2Tm), infatti, sono rivolte ad un caro amico, suo stretto e stimato collaboratore, che ritiene come un figlio diletto17. Proprio per il carattere personalistico e strettamente individuale e privatistico anche il linguaggio paolino cambia e si adatta alla situazione, passando dai toni di ufficialità e autorità dottrinale ad una intimità fatta di ricordi, di nostalgie, di sentimenti, di emozioni, di richiami alla nonna e alla madre di Timoteo, che Paolo deve sicuramente aver conosciute durante il suo breve soggiorno a Listra e che cita affabilmente e con stima. Inoltre egli si sta rivolgendo a Timoteo, già edotto sulle questioni dottrinali (1Tm 4,6) e, in quanto collaboratore di Paolo da lungo tempo, ne conosce bene il pensiero (2Tm 3,10-11)18. Non c’è bisogno quindi di elaborazioni teologiche, cristologiche e dottrinali per convincerlo o sostenerlo in una fede vacillante; sono sufficienti soltanto alcuni richiami. Timoteo, infatti, è uno stretto collaboratore e rappresentante di Paolo presso le varie comunità, alle quali è di volta in volta inviato. Paolo nei confronti di Timoteo si pone come padre e amico, che vuole sostenere in un momento di particolare difficoltà19. Il tono quindi si fa necessariamente esortativo e amichevole. In questo contesto, diametralmente opposto a quello delle Lettere tradizionali, necessariamente anche il linguaggio, i termini, lo stile e il contenuto teologico e cristologico cambiano radicalmente, anche se non mancano numerosi richiami al pensiero proprio di Paolo e al suo caratteristico modo di esprimersi20. Per sostenere l’autenticità delle Pastorali sono più significativi, a mio avviso, i punti di contatto con il pensiero di Paolo che non quelli che si discostano, poiché le divergenze sono giustificate proprio dalla diversa e radicalmente opposta natura dei due gruppi di scritti paolini (Pastorali e Tradizionali); mentre i punti di contatto, pur nella diversità degli Scritti, ne testimoniano l’autenticità. Ritengo, inoltre, che siano delle forzature voler ad ogni costo vedere i numerosi richiami ai dati biografici di Paolo e al suo pensiero, che spesso si aggancia alla Lettera ai Romani, delle accurate manipolazioni di un qualche sconosciuto autore, che cerca di truccare alla meglio le Lettere pastorali per renderle credibili e attribuibili a Paolo. È molto più semplice dire che queste sono di Paolo, anche se queste lettere hanno subito, a mio avviso, delle manipolazioni tardive, databili II sec.

Vedremo, infatti, come il cap. 4, 9-22 abbia subito un’interpolazione con un biglietto, scritto in un contesto diverso da quello proprio di 2Tm e che ha portato, di conseguenza, ad un forte rimaneggiamento della sezione stessa.

Similmente la Prima Lettera a Timoteo ha subito, a nostro avviso, una notevole ristrutturazione, che l’ha investita totalmente, con numerose interpolazioni di testi che nulla hanno a che vedere con le finalità della Lettera originale. Le parti interpolate riguardano esclusivamente quegli aspetti ecclesiologici che rispecchiano una chiesa e una sua organizzazione collocabili agli inizi del II sec. , estranei, quindi, ai tempi propri di Paolo.

Le motivazioni che ci portano a queste conclusioni sono prevalentemente, ma non solo, di ordine tematico. La 1Tm, infatti, è finalizzata, come la 2Tm, a sostenere la fragile personalità del caro amico Timoteo e viene scritta in occasione dell’insediamento dello stesso presso la comunità efesina o in un tempo quasi immediatamente successivo (1Tm 1,3). La sua presenza in tale comunità sembra essere prevalentemente finalizzata a controbattere l’azione destabilizzante dei giudeocristiani giudaizzanti. Non sembra quindi che Timoteo sia stato messo da Paolo a capo della comunità efesina, ma abbia più che altro delle temporanee funzioni ispettive e direttive. Il suo compito non sembra essere quello di guidare la chiesa di Efeso, ma di sostenerla e difenderla da queste aggressioni interne. Non si comprende, quindi, la presenza di esortazioni riguardanti la composizione e l’organizzazione della comunità, che per altro, come si è detto, rispecchia un contesto molto più tardivo (II sec.). Tuttavia l’autore anonimo che ha interpolato questi scritti ecclesiologici e liturgici fornisce anche una motivazione del perché del loro inserimento, che esula completamente dalle finalità originarie della 1Tm: “Ti scrivo tutto questo, nella speranza di venire presto da te; ma se dovessi tardare, voglio che tu sappia come comportarti nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità” (1Tm 3,14-15). Quindi Paolo avrebbe scritto nell’attesa di venire e, nel caso di suo ritardo, Timoteo avrebbe avuto già delle disposizioni in merito alla gestione della Chiesa. Anacronismo a parte (il contesto è quello del II sec.), tali istruzioni impartite si giustificano per un responsabile permanente di comunità e non per un ispettore con un mandato preciso e circoscritto (v.1,3). Infatti i vv. 1,3 e 3,14-15 fanno muovere la lettera su due livelli completamente diversi e contrapposti nelle finalità: il primo (v.1,3) riguarda un intervento occasionale, di tipo ispettivo, finalizzato a mettere ordine e a frenare le intemperanze dottrinali e teologiche di alcuni sedicenti dottori (1,7); il secondo, invece, riguarda istruzioni specifiche finalizzate ad una corretta gestione della struttura organizzativa della chiesa locale.
Un’altra osservazione a favore della paolinità di 1Tm parte dall’analisi della struttura delle lettere di Paolo o a lui riferibili indirettamente21. Questa è composta da un prescritto, dai ringraziamenti, corpo della lettera e saluti finali. Nella 1Tm vediamo invece come i ringraziamenti seguono il corpo della lettera, collocandosi al suo interno, mentre il filo logico della lettera è spesso spezzato con interpolazioni di natura ecclesiologica e liturgica, che suonano, a nostro avviso, come una stonatura all’interno del contesto della lettera perché esulano dalle sue finalità. Tali interpolazioni, pertanto, si presentano come ingiustificate digressioni che vanno fuori tema. Prova ne è che, se si tolgono queste digressioni ecclesiologico-liturgiche, il filo logico della lettera non solo non ne risente, ma, anzi, ne risulta notevolmente migliorato e il testo diventa più scorrevole; mentre la logica e la finalità stessa della lettera possiedono una maggiore coerenza.

Di seguito, pertanto, proponiamo una lettura ristrutturata della lettera, sfrondata da tutte le interpolazioni, ricomponendola secondo quella che avrebbe dovuto essere la sua struttura originale. Il testo che ne uscirà quadrerà perfettamente con quello di 2Tm. Il presente tentativo vuole essere soltanto una proposta, lasciando aperto ogni altro apporto.


Proposta di lettura di 1Tm


  1. vv. 1,1-2: il prescritto;

  1. vv. 1,12-17: i ringraziamenti, che terminano con una dossologia;

  1. vv. 1,3-11: i falsi maestri, sedicenti dottori della Legge e il vero ruolo della stessa;

  1. vv.1,18-20: prima esortazione a Timoteo affinché sia fedele al suo mandato e combatta la buona battaglia della fedele testimonianza al Vangelo, in opposizione a quanti, invece, hanno abbandonato il campo;

  1. vv. 4,1-7: collocate all’interno di una cornice escatologica, vengono presentate la defezione degli infedeli e la loro deviata dottrina, che Timoteo deve combattere (vv.1-7)

  1. vv. 4,8-10.3,16.4,11.6,3-10: a fronte delle defezioni e delle deviazioni dottrinali, Timoteo deve contrapporre la vera pietà, che contiene in sé “la promessa della vita presente come di quella futura” ed è sostenuta dalla speranza posta nel “Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini”. Predicare diversamente significa non aver capito nulla ed essere accecati dall’orgoglio, da cui nasce ogni sorta di male;

  1. vv. 6,11-16: esortazione finale a Timoteo perché dia la sua testimonianza al Vangelo con fermezza e di conservare in modo irreprensibile la fede fino alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo;

  2. vv. 4,12-16: ultime raccomandazioni a Timoteo;

  1. vv. 6,20: i saluti conclusivi


Il materiale interpolato in tempi successivi (II sec.): un piccolo trattato di ecclesiologia e liturgia


  1. vv. 2,1-15: raccomandazioni e disposizioni circa le assemblee liturgiche, la loro partecipazione da parte di uomini e donne e le preghiere che in esse si compiono;

  1. vv. 3,1-13: le qualità che devono possedere i vescovi e i diaconi e i criteri che devono guidarne la scelta;

  1. vv. 3,14-15: le motivazioni dello scritto. Tali motivazioni riguardano soltanto gli aspetti ecclesiologici e liturgici interpolati nella 1Tm. La motivazione è fittizia e serve a giustificare e a rendere quindi più credibile l’interpolazione del materiale, che diversamente non verrebbe giustificato.

  1. vv. 5,1-6,2.17-19: disposizioni riguardanti le varie categorie componenti la comunità ecclesiale: vedove (5,3-16), presbiteri (5,17-25), schiavi (6,1-2) e i ricchi (6,17-19).

Da ultimo, anche se scientificamente non decisivo, va ricordato che con atto proprio del 12 giugno 1913 (EnchB 407-410) l’ipotesi della non autenticità delle Lettere Pastorali, è stata rigettata dalla Pontificia Commissione Biblica. Questa presa di posizione non ebbe inizialmente buona accoglienza, anche se oggi è accettata da un gruppo sempre più folto di studiosi quali N. Brox, K.H. Schelkle, J. Schmid, G. Barbaglio, O. Kuss, R. Fabris22.


Data e Luogo della Lettera


La cronologia paolina23 è oggetto ancor oggi di ampie discussioni, che, molto probabilmente, non troveranno nessuno sbocco certo a motivo dei pochi dati di riferimento, spesso molto vaghi, attualmente in nostro possesso. Tuttavia è possibile avvicinarsi alla verità storica recuperando i riferimenti interni agli Atti degli Apostoli e alle stesse lettere di Paolo, che costituiscono le fonti primarie delle nostre ricerche24.

Al fine di circoscrivere nelle coordinate spazio-temporali la nostra lettera (2Tm) è opportuno fare un passo indietro nel tempo. Siamo nel 58 d.C. e Paolo è al termine del suo terzo viaggio missionario25. Porta con sé i soldi di una colletta fatta a favore dei poveri della Chiesa di Gerusalemme, che ha raccolto nella sua peregrinazione missionaria presso le comunità cristiane provenienti dal paganesimo (Gal 2,10; Rm 15,25-2726). Giunto a Gerusalemme si reca presso i capi della chiesa locale, Giacomo e gli anziani (At 21,18), per fare il resoconto della sua missione presso i pagani (At 21,19). Durante il soggiorno a Gerusalemme Paolo, a seguito di una sommossa dei Giudei contro di lui (At 21,20-34), viene arrestato e successivamente, per motivi di sicurezza, trasferito a Cesarea Marittima (At 23,12-35), sede del governo imperiale in Giudea. Qui vi rimase in stato di detenzione per due anni (At 24,27), finché il nuovo governatore Festo non decise di trasferire Paolo al giudizio dell’imperatore, al quale Paolo si era appellato (At 25,11-12) in virtù del suo status giuridico di cittadino romano (At 22,25-29). S’imbarcherà per Roma nell’autunno del 60 e vi giungerà, dopo un viaggio travagliato durante il quale aveva anche naufragato, nei primi mesi del 61, probabilmente verso fine marzo27. A Roma gli viene concesso di abitare per suo conto in una casa che Paolo prende in locazione e qui vi rimane per due anni interi sorvegliato a vista da un soldato (At 28,18.30). La sua quindi è una libertà vigilata, che comunque gli consente di svolgere il suo ministero di annuncio e non gli impedisce di incontrare liberamente le persone (At 28,17.23.30-31). A questa sua situazione sembra alludere 2Tm 2,8-9: “Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene28 come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata!”.

Secondo gli Atti Paolo rimane a Roma per due interi anni e quindi fino al marzo del 63 d.C. Che cosa fece dopo non ci è dato di sapere con certezza anche se si fanno ipotesi di altri viaggi in Spagna29, poi nuovamente in Oriente e poi ancora nuovamente a Roma dove morirà martire sotto l’imperatore Nerone (54-68 d.C.), probabilmente intorno all’anno 6630.

È proprio durante questo periodo di semilibertà, a Roma, che Paolo scrive la Seconda Lettera a Timoteo, probabilmente nel 62. Egli, infatti, in 1,15-17 si lamenta di essere stato abbandonato dai suoi discepoli dell’Asia, mentre la famiglia di Onesiforo è venuta appositamente a Roma a cercarlo per confortarlo nella sua detenzione. Sta quindi parlando del periodo romano, di quanto è successo nei primi tempi della sua presenza a Roma, come di un tempo non molto lontano da quando scrive la nostra lettera. Sente una grande nostalgia di Timoteo e desidera rivederlo (1,4) e lo sollecita a venire a trovarlo quanto prima, anche perché è stato abbandonato da Dema, assieme a Crescente e a Tito. Paolo sembra trovarsi assieme soltanto a Luca (4,9-11a). Inoltre sembra aver già subito una prima udienza tutto solo, senza l’assistenza di nessuno. Tutti infatti lo hanno abbandonato (4,16). Questa doveva essere avvenuta probabilmente nel 61 o forse, più probabilmente, recentemente nel 62, poco prima di scrivere questa lettera.

Questo contesto di solitudine e di abbandono generale in cui versa Paolo è utile anche per comprendere il suo stato d’animo, che doveva essere caduto in un forte stato depressivo. Ed è in questo contesto che vanno lette e comprese le sue parole: “Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione” (2Tm 4,6-8). Paolo, infatti, si vede detenuto ormai da quattro anni (due a Cesarea Marittima e due a Roma), sa che qui a Roma si deciderà la sua sorte ed è giunto ad una svolta finale; ci sono già state diverse udienze in tribunale31, la prima delle quali ha dovuto sostenere tutto solo, perché abbandonato da tutti; tuttavia, nonostante le varie udienze, ancora non vede davanti a sé concrete prospettive di soluzione del suo caso. Questa solitudine doveva pesare moltissimo a Paolo se vi ritorna ripetutamente sopra (2,15; 4,10.11.16). Inoltre è da quattro anni che non riesce più a svolgere la sua missione liberamente e il suo progetto, molto desiderato32, di andare in Spagna gli è svanito completamente. Non stupisce quindi che in questa situazione ritenga di essere ormai giunto alla fine, benché nessuna sentenza sia stata ancora pronunciata in tal senso. Niente di definitivo, quindi, circa la sua sorte. Non si spiegherebbe infatti quanto Paolo dice nei versetti immediatamente seguenti, là dove chiede a Timoteo di venire con Marco “perché mi sarà utile nel ministero” (4,11b). Inoltre chiede a Timoteo di portagli il mantello e i libri insieme alle pergamene (4,13). Che senso avrebbe tutto ciò se fosse stato già condannato a morte? Perché parlare di Marco che lo aiuti nel suo futuro ministero? (il verbo è posto al futuro: mi sarà utile). Che se ne fa di un mantello e dei libri se ormai sta per morire? Inoltre Paolo nutre la speranza che “Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno” (4,18a). I vv. 4,6-8 pertanto o sono da considerarsi un’interpolazione o, se autentici, come ritengo, vanno letti e interpretati nel modo proposto o similmente33.

Un’attenzione particolare va riservata al v. 4,17, che sembra mal accordarsi con tutta la lettera e in particolare con i vv. 4,6-8. Infatti esso presenta un Paolo già affrancato dalla sua prigionia: “Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone”. Probabilmente la lettera ha subito delle manipolazioni. Una lettura più logica mi sembra possa ricavarsi se dopo il v. 4,8 si pone subito, nell’ordine, 4,18 e 4,17. In tal modo anche tutto quanto segue assumerebbe il suo senso compiuto. Una seconda ipotesi, più probabile, è che i vv. 4,9-22 abbiano fatto parte di un altro scritto, immediatamente successivo alla nostra lettera, con la quale doveva aver avuto un qualche collegamento logico, per cui è stato interpolato in questa lettera adattandolo in qualche modo a essa come vedremo successivamente nel commentare il cap. 4.


La finalità della lettera


Nella 1Tm Paolo ricorda a Timoteo che “Partendo per la Macedonia, ti raccomandai di rimanere in Efeso, perché tu invitassi alcuni a non insegnare dottrine diverse e a non badare più a favole e a genealogie interminabili, che servono più a vane discussioni che al disegno divino manifestato nella fede” (1Tm 1,3-4). Sappiamo, poi, che questi tali, fomentatori di false dottrine, erano degli ebrei, probabilmente di cultura greca, convertiti al cristianesimo, ma ancora radicati fortemente nell’ebraismo (1Tm 1,6-7). Da questi brevi passi già si può evincere come Paolo ha lasciato il fidato amico e stimato collaboratore Timoteo presso la comunità efesina per controbattere e contenere alcuni credenti giudeocristiani, invitandoli a non riprendere e a non diffondere teorie ebraiche34, che in qualche modo deviavano dalla retta dottrina. Infatti, questi giudeocristiani, forti delle loro tradizioni e della loro cultura religiosa, si ergevano a maestri e dottori in mezzo ai neocredenti di Efeso35, greci provenienti dal paganesimo e quindi totalmente digiuni delle tradizioni ebraiche e della fede nell’unico Dio (Jhwh), creando scompiglio e confusione nella loro incipiente fede.

Se Paolo è stato così chiaro e inequivocabile nella sua prima lettera, inviata al suo caro e fidato amico Timoteo, perché inviargli una seconda lettera che riprende in buona sostanza le questioni dottrinali ed esortative della prima? Non è nello stile di Paolo il ripetersi.

Per poter comprendere il senso di questa seconda lettera bisogna rifarsi alla personalità di Timoteo. Dalle due lettere si evince come questo stretto e stimato collaboratore di Paolo, inviato presso la comunità di Efeso con un incarico speciale (1Tm 1,3), fosse timido e introverso. Paolo, infatti, lo esorta a non vergognarsi della testimonianza che deve dare a Cristo, né della condizione di prigionia in cui egli, Paolo, versa (2Tm 1,8; 2,15), così come lo stesso Paolo ed altri suoi collaboratori non se ne vergognano (2Tm 1,12.16). Timoteo, inoltre, era ancora troppo giovane (1Tm 4,12; 5,1; 2Tm 2,22) e gracile di salute (1Tm 5,23), chiamato ad affrontare una situazione forse troppo impegnativa per lui, dovendo trattare con dei personaggi ben agguerriti e saccenti, che affrontavano con abilità oratoria (1Tm 1,6-7) questioni in cui Timoteo si lasciava coinvolgere troppo e in modo passionale (1Tm 6,20; 2Tm 2,22-26). In tal modo la sua autorità veniva inficiata, rischiando anche di uscirne sconfitto. Paolo si rende conto del pericolo in cui si è posto Timoteo e lo vede probabilmente tentennante e in difficoltà, per questo gli invia una seconda lettera dai toni fortemente esortativi, tutta incentrata a sostenere con forza, con autorità e autorevolezza il suo collaboratore. Lo invita con insistenza ad evitare discussioni su questioni di fede (2,14.15.17-18.20-26) e a non lasciarsi coinvolgere in queste dispute con animosità e focosità (2,23). Gli fornisce anche dei principi dottrinali e teologici (1,9-10; 2,8-9.11-13) a cui egli deve fare riferimento (2Tm 2,14). Proprio per questa situazione di confusione, in cui è messa in pericolo la purezza della fede stessa, Paolo esorta il suo amico a conservare fedelmente il deposito36 della fede (1,14) a sua imitazione (1,12) e lo invita a soffrire per Cristo, come lui, Paolo, sta soffrendo in catene a motivo del vangelo (1,8b). Lo invita caldamente, pertanto, a ravvivare la coscienza del suo ruolo primario all’interno della comunità (1,6-8a) e di prendere ad esempio lui, Paolo (1,12), e, quindi, di continuare a trasmettere la retta dottrina da lui ricevuta (2,1-2). Lo consiglia con autorevolezza a non perdere tempo in inutili e vacue discussioni, ma invece di scegliersi delle persone fidate e a queste di trasmettere la retta dottrina, perché lo aiutino e lo sostengano nella sua missione (2,1-2).

A completamento della sua appassionata esortazione, Paolo cerca di illuminare Timoteo circa la tristezza e la depravazione dei tempi in cui si viene a trovare, facendogli capire come questa confusione dottrinale alimentata da fanfaroni, ingannatori, imbroglioni e falsi dottori è propria degli ultimi tempi che sta vivendo (3,1-9). Non deve pertanto intimorirsi, ma con forza e coraggio deve seguire l’esempio di Paolo, sapendo che l’essere perseguitati per Cristo è proprio dei veri credenti (3,10-16).

La struttura della Seconda Lettera a Timoteo

L’individuazione della struttura della Seconda Lettera a Timoteo si presenta piuttosto complessa e difficile per lo snodarsi, il ripetersi e quasi il giustapporsi, apparentemente confuso e disordinato, dei temi in essa contenuti. Si comprende quindi come le proposte per una sua lettura si diversifichino a seconda degli autori, ma in genere confluiscono inevitabilmente nel rilevarne soltanto una struttura tematica. Ci arrischiamo, pertanto, ad offrire anche noi, qui di seguito, una nostra proposta di lettura dello schema che sottende il pensiero dei questa Lettera.

Una proposta di lettura


La Seconda Lettera a Timoteo si divide in due grandi sezioni:


la prima abbraccia i vv. 1,6 – 2,13 che forniscono la motivazione e il fondamento teologico della testimonianza coraggiosa e senza vergogna del Vangelo e della sofferenza che ne consegue. Viene inoltre enunciato il vangelo (vv. 1,9-10; 2,8.10-13) al quale dare la propria testimonianza senza vergogna e senza reticenze anche nella sofferenza.

Lo snodarsi del pensiero di questa sezione è piuttosto elaborato e si sviluppa su un duplice schema: 1) a paralleli (A B C B’ A’) in 1,6-14, delimitati dal termine Spirito in 1,7 e 1,14, che forma inclusione, individuando in tal modo la pericope entro cui si colloca lo schema parallelo; 2) a spirale nei vv. 2,1-13, che riprendono i temi introdotti in 1,6-14 sviluppandoli e portandoli a compimento.

Il primo schema è posto sotto l’egida teologica (Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio – v.1,6); il secondo schema sotto quella cristologica (Attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù – v.2,1). Questi due schemi, combinati tra loro, dànno la sensazione di un continuo ripetersi degli stessi temi. Al centro dello schema parallelo (C) si colloca il contenuto del Vangelo (1,9-10) per il quale il credente è chiamato a dare la sua testimonianza senza reticenze, accettandone anche le sofferenze.

La seconda sezione comprende i vv. 2,14–4,8, che costituiscono lo sviluppo applicativo di quanto sostenuto teologicamente e cristo logicamente nella sezione precedente.


Si avrà pertanto il seguente schema:


PRIMA SEZIONE


vv. 1,1-2 : il prescritto

vv. 1,3-5 : i ringraziamenti


Lo schema paralelo


     A) vv. 1,6-7: Prendere coscienza e ravvivare il dono di Dio, lo Spirito Santo, che sostiene e dà forza per una decisa testimonianza del Vangelo;

     B) v. 1,8: esortazione a non vergognarsi né nel rendere la testimonianza a Cristo, né di chi soffre per questa, ma anzi condividere tale sofferenza senza reticenza alcuna;

    C) vv. 1,9-10: il contenuto del Vangelo sul quale si è chiamati a dare una ferma testimonianza;

B’) vv. 1,11-12: Paolo testimone del Vangelo senza alcuna vergogna, per il quale soffre e in cui ha riposto la sua piena fiducia senza esitazione;

A’) vv. 1,13-14: accogliere e testimoniare con fermezza il Vangelo trasmesso e custodirlo con l’aiuto dello Spirito Santo.


In tal modo A) trova il suo completamento in A’): Timoteo deve ravvivare in sé il dono dello Spirito per una ferma testimonianza senza reticenze (A) e per custodire il contenuto stesso del Vangelo (A’).

B) trova il suo completamento in B’): l’esortazione a testimoniare il Vangelo senza vergogna, accettando anche la sofferenza che da ciò può derivare (B), trova il suo esempio concreto in Paolo, modello di testimonianza sofferente e decisa (B’).

C) Al centro di tutto questo ci sta il Vangelo, oggetto della testimonianza e della sofferenza.

vv. 1,15-18: vengono riportati due esempi di abbandono (quelli dell’Asia) e di fedeltà (Onesìforo). Questi delineano i due comportamenti e i due fronti che verranno ripresi e approfonditi in 3,1-4,8 e con i quali Timoteo deve misurarsi.


Il pensiero a spirale
: ripresa, sviluppo e completamento di 1,6-14

v. 2,1: ripresa di 1,9b e 1,13b

v. 2,2: ripresa e sviluppo di 1,13a e 1,14: le cose udite da Paolo, cioè il Vangelo e il suo annuncio, che costituiscono il deposito di fede da custodire, deve essere trasmesso a dei collaboratori, che sostengono Timoteo nel suo apostolato.

v. 2,3: ripresa del v. 1,8b con cui forma inclusione a chiasmo “soffri anche tu con me” (v.1,8b) e “con me prendi anche tu la tua parte di sofferenza” (v. 2,3a). L’espressione in 2,3b “come un buon soldato di Gesù Cristo” costituisce l’aggancio alla metafora di 2,4.

vv. 2,4-7: a conclusione di tutto (1,6-2,3) Paolo ricorre a tre metafore: il soldato, l’atleta e l’agricoltore, dalle quali Timoteo deve trarre l’insegnamento per come comportarsi all’interno della comunità efesina.

v. 2,8: ripresa e completamento dei vv. 1,9-10: secondo il vangelo di Paolo, Gesù della stirpe di Davide è risuscitato da morte. Qui l’espressione “secondo il mio vangelo” si aggancia all’espressione “per mezzo del vangelo” di 1,10.

vv. 2,9-10: ripresa, sviluppo e completamento di 1,11-12: Paolo, araldo, apostolo e maestro soffre a causa della sua decisa testimonianza del Vangelo in cui crede fermamente (1,11-12) e, benché imprigionato e sofferente, non si ferma l’annuncio della Parola. La sopportazione di ogni sofferenza è finalizzata alla salvezza degli eletti per mezzo del Vangelo, perché “anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna” (2,9-10).

vv. 2,11-13: ripresa, sviluppo e conclusione di 1,9-10 e 2,8. L’insieme di questi versetti (1,9-10; 2,8 e 2,11-13) costituiscono il Vangelo di Paolo, nonché il deposito della fede per il quale Timoteo è chiamato ad una ferma testimonianza senza reticenze, senza vergogne, con-soffrendo assieme a Paolo per il bene dei credenti, che Paolo definisce “eletti” (2,10a).

I vv. 2,11-13 costituiscono anche la motivazione cristologica dell’apostolato sofferente, a completamento e sostegno di 1,8.11-12.

Con 2,14 si apre la seconda sezione della Lettera, che costituisce l’applicazione pratica e consequenziale di quanto sostenuto in 1,6-2,13. L’aggancio alla prima sezione e il passaggio alla seconda è dato dall’espressione con cui si apre il v. 2,14: “Richiama alla memoria queste cose”.


SECONDA SEZIONE

L’applicazione pratica
vv. 2,14-4,8: costituiscono la seconda sezione della Lettera che è squisitamente esortativa e applicativa. Siamo nel cuore della vera pastoralità paolina.


La conclusione


vv. 4,9-22: i saluti e le richieste. Questa pericope è molto probabilmente, come vedremo, un’aggiunta alla Lettera. Forse un biglietto di Paolo, sicuramente scritto in tempi antecedenti a 2Tm e che la cristianità ha saldato insieme in una sorta di continuità logica.



COMMENTO ALLA SECONDA LETTERA A TIMOTEO



Capitolo Primo


Premessa


Il primo capitolo può essere idealmente suddiviso in quattro parti:


  1. vv. 1-2: Il prescritto;

  2. vv. 3-5: Il rendimento di grazie, legato al ricordo dell’affetto di Timoteo verso Paolo e della sua fede, in cui è stato allevato dalla nonna Lòide e dalla madre Eunìce.

  3. vv: 6-14: un’accorata esortazione alla testimonianza del Vangelo, che va compiuta con fermezza e senza reticenze. Questa esortazione costituisce il cuore del primo capitolo e dell’intera lettera; tutto lo scritto infatti è una continua ripresa e uno sviluppo del tema annunciato in questa pericope (1,6-14).

  4. vv. 15-18: contengono il richiamo a due esempi che sono emersi all’interno della comunità cristiana: chi, di fronte alle difficoltà della testimonianza della propria fede, getta la spugna e abbandona il campo, come “quelli dell'Asia, tra i quali Fìgelo ed Ermègene, mi hanno abbandonato”; e chi, invece, come Onesìforo che “mi ha più volte confortato e non s'è vergognato delle mie catene; anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché mi ha trovato”.


Già da queste prime battute si evince come lo scritto si muove su due binari: quello del ricordo, della nostalgia, dell’affetto, delle emozioni che scaturiscono da un profondo sentimento di stima e di amicizia per sfociare in un vero e proprio amore filiale per Timoteo, che Paolo definisce, a cuore aperto, “diletto figlio” (2Tm 1,2) e “figlio mio” (2Tm 2,1).

L’altro binario è quello di un’accorata e pressante esortazione a non demordere nella testimonianza della fede e a non vergognarsi o desistere se questa richiede anche il sacrificio, l’umiliazione del carcere, l’abbandono o il tradimento di persone care.


Il commento


vv. 1-2: nell’antichità ogni lettera iniziava con un prescritto, in cui comparivano i nomi del mittente e del destinatario della lettera; seguiva poi il corpo della lettera, che si concludeva con i saluti. Questi tre elementi sono fondamentali per definire, soprattutto nel N.T., ciò che è effettivamente una lettera oppure una semplice finzione37. Per quanto riguarda gli scritti di Paolo, ai tre elementi costitutivi della lettera va aggiunto un ulteriore elemento distintivo: i ringraziamenti. Questi sono posti sempre immediatamente dopo il prescritto e sono presenti in tutte le lettere paoline, fatta eccezione per quella ai Galati, a motivo della la veemenza con cui Paolo affronta il tradimento delle comunità della Galazia38.

Il v.1 si apre presentando il mittente, Paolo, qualificato come “apostolo39 di Gesù Cristo per volontà di Dio”, a cui fanno seguito il contenuto e il senso della sua apostolicità: “per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù”. Il termine apostolo significa inviato40 ed è agganciato all’espressione tutta paolina “di Cristo Gesù” 41. L’apostolato di Paolo, quindi, non solo affonda le sue radici in Cristo Gesù, ma quel “di Cristo Gesù” dice come egli appartiene a Cristo e come la sua missione presso i pagani ha per oggetto l’annuncio di Cristo stesso. L’identità di Paolo con Cristo è talmente forte che egli, rivolto ai Galati, non esita ad esclamare “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20a).

La paternità dell’apostolato di Paolo, inoltre, ha radici che non sono umane, bensì divine: “per volontà di Dio”; una volontà che egli ribadisce in modo molto deciso e con toni polemici contro quanti lo volevano destituire dalla sua identità e autorità apostoliche: “Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1). In questa volontà divina per Paolo si cela un piano di salvezza, di cui egli fa parte e ne è il messaggero presso i pagani, mentre, alla stregua degli antichi profeti, afferma: “Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre42 e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo …” (Gal 1,15-16). Paolo, dunque, ha una profonda coscienza del suo essere in Cristo e per Cristo; sa di appartenergli e di esserne totalmente rivestito e, di conseguenza, di essergli pienamente consacrato. Sente profondamente tutto ciò, così che della sua vita ha fatto una missione rivelativa del mistero di amore e di salvezza manifestatosi in Cristo e per suo mezzo attuatosi in favore di tutti gli uomini, perché tutti siano ricondotti a Dio per mezzo della fede43.

Questa realtà, di cui Paolo ha piena coscienza, è stata trasfusa anche in ogni credente in virtù della fede e del battesimo, in cui è stato rivestito di Cristo (Gal 3,26-27), divenendo un’unica realtà con lui44 e a lui appartiene totalmente45. Il vivere del credente pertanto è un vivere consacrato, cioè appartenente a Cristo e a Dio, e per sua natura egli è chiamato a manifestare senza esitazioni, senza vergogna e senza reticenze, attraverso il suo modo di vivere, le realtà spirituali inaugurate in lui dalla morte e risurrezione di Cristo, di cui è rivestito come di un abito nuovo. Dallo stile di vita credente deve trasparire la propria appartenenza a Cristo, che deve diventare la forma mentis propria del vero credente.

Con il v. 2 Paolo si indirizza a Timoteo, suo fedele collaboratore e lo insignisce del titolo di “figlio carissimo”, un appellativo che oltre a rivelare i particolari rapporti di affetto e di stima che lo lega a questo giovane, lo carica anche di autorità presso la comunità, dove svolge un incarico pastorale (1Tm 1,3). L’opera di Timoteo, pertanto, presso la comunità di Efeso è opera stessa di Paolo ed esprime la continuità apostolica, che Timoteo ha acquisito per mezzo dell’imposizione delle mani da parte dei presbiteri e dello stesso Paolo (1Tm 4,14; 2Tm 1,6). Questo dono spirituale è sintetizzato dal saluto caratteristico di Paolo, che viene mutuato dalla 1Tm 1,2: “grazia, misericordia e pace da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro”46. Un saluto che esprime lo stesso dono della piena vita in Dio per mezzo di Cristo, da cui deriva comunione di vita divina (grazia), perdono del peccato (misericordia) e piena riconciliazione con Dio e i fratelli (pace). L’espressione “Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro” è una formula caratteristica della primitiva fede cristiana con cui si riconosceva Dio come il vero Padre di Gesù, oltre che Padre nostro; mentre con Cristo Signore nostro si riconosceva nell’uomo Gesù l’unto di Dio (Cristo47), cioè il suo inviato; mentre con l’appellativo Signore nostro si confessava che l’uomo Gesù, inviato di Dio, è stato costituito nella risurrezione Signore del cielo e della terra (Rm 1,4; Ef 1,10), a cui il credente appartiene per sua natura (nostro) ed Egli appartiene al credente, in virtù del dono fattogli dal Padre (Gv 3,16) per suo mezzo (Gv 20,17).

vv. 3-5: nello stile proprio delle lettere di Paolo, anche questa seconda a Timoteo fa seguire al prescritto il ringraziamento a Dio, che qui viene legato alla figura di Timoteo, colto nel duplice aspetto di fedele collaboratore di Paolo, suo amico e suo figlio diletto, che lo lega sentimentalmente ed emotivamente a lui; e per la fede stessa di Timoteo, che gli è stata inculcata dalla nonna e dalla madre fin dalla sua tenera età (2Tm 1,5; 3,15). È un ringraziamento che nasce dal ricordo ed è pervaso di nostalgia, di sentimenti ed emozioni per la dedizione di questo giovane, legato profondamente a Paolo fino a piangere (2Tm 1,4) per la sua partenza per la Macedonia, mentre egli doveva rimanere ad Efeso per dirimere delle questioni interne a quella comunità (1Tm 1,3). Tutto per Paolo diviene motivo di preghiera e di ringraziamento a Dio, perché egli ha fatto della sua vita un’offerta totale a Dio al quale egli si sente di appartenere (Rm 14,8). Ed è proprio da questa vita, fatta dono a Dio e totalmente a lui orientata, che scaturisce la preghiera più autentica perché fatta con la vita stessa (1Cor 10,31; 1Ts 5,10).

In 1,3 Paolo si pone nei confronti di Dio come colui che lo serve, indicando la sua totale dedizione esistenziale a Dio, un servizio che egli rende “con coscienza pura come i miei antenati”. Quest’ultima espressione pone l’azione di Paolo in linea continuativa con l’ebraismo da cui egli proviene e che nel contempo si apre al cristianesimo. Jhwh è lo stesso Dio dei cristiani e la sua volontà, espressa nella Torah, trova il suo pieno compimento in Cristo (Mt 5,17). Non vi è opposizione tra cristianesimo ed ebraismo, ma soltanto una soluzione di continuità in Cristo. Ebraismo e cristianesimo sono due momenti storici dell’unico atto salvifico di Dio. Il dramma del rifiuto di Cristo da parte di Israele costituirà per Paolo un tormento che esprimerà nella sua lettera ai Romani nei capp. 9-11.

vv. 6-8: con questi versetti entriamo nel cuore della lettera. Paolo affronta qui la questione della testimonianza da dare al Vangelo con fermezza, senza vergognarsi e senza reticenze. Egli deve sostenere il suo giovane amico, che sta affrontando l’aggressività di quei credenti giudeocristiani, i quali, richiamandosi alla loro cultura ebraico - ellenistica, deformano la retta dottrina trasmessa da Paolo, mettendo in difficoltà e in confusione i neocredenti di Efeso.

Il v.6 pone in rilievo tre aspetti: a) “per questo motivo ti ricordo”; il motivo a cui Paolo allude è la fede che Timoteo ha ricevuto dalla famiglia fin dalla sua infanzia (1,5.3,15). Alla base dell’esortazione, quindi, ci sta la fede, che per sua natura colloca l’uomo nella vita divina, giustificandolo48. Essa costituisce il fondamento per ogni altro dono spirituale e nel contempo chiede al credente di conformare la propria vita a quelle realtà divine che vivono in lui per la stessa fede; b) l’esortazione a ricordare è finalizzata a “ravvivare il dono di Dio che è in te”. Di certo Timoteo non si era dimenticato di aver ricevuto un pubblico incarico attraverso l’imposizione delle mani da parte dei presbiteri di Efeso (1Tm 4,14) e dello stesso Paolo (2Tm 1,6). Il ricordare, quindi, in questo contesto, ha prevalentemente il senso di prendere coscienza della realtà spirituale che si era innestata in lui per rendere un servizio alla comunità e che Paolo definisce come “il dono di Dio”. Il dono di cui qui si parla non è l’incarico, bensì lo stesso Spirito Santo, che è azione divina nell’uomo e nella comunità credente; c) il terzo aspetto evidenziato è l’infusione dello Spirito Santo attraverso l’imposizione delle mani, un gesto che il N.T. ha ereditato dall’A.T. L’imporre le mani ha sempre il significato di trasmettere un qualcosa che, a seconda delle circostanze, assume diverse valenze49. Nel nostro caso essa ha una particolare importanza perché testimonia come già nei primissimi tempi della Chiesa, ancora all’interno del I sec., la trasmissione del potere fosse già presente e quindi le comunità avessero già una loro struttura gerarchica o comunque di riferimento, anche se rudimentale. Su questa catena di trasmissione, posta a servizio della comunità e a tutela della correttezza nella trasmissione della Parola di Dio, poggia il deposito della fede giunta fino a noi. L’imposizione delle mani, che definisce e individua gli incarichi e i responsabili di riferimento, costituisce, dunque, una sorta di garanzia che quanto noi crediamo oggi è genuino e autentico, su cui vale la pena scommettere la nostra vita. Va tuttavia rilevato che l’imposizione delle mani nel I sec. non ha ancora assunto il significato dell’ordinazione sacerdotale di tipo sacramentale, così come oggi noi la intendiamo, benché essa ne sia in qualche modo una sorta di anticipazione. A partire dagli inizi del III sec. nella Tradizione Apostolica di Ippolito50 (circa 215 d.C.) abbiamo testimonianze di consacrazioni episcopali, presbiterali e diaconali con definizione dei relativi compiti. Ma sarà a partire dal IV secolo, dopo la svolta costantiniana (313), che la Chiesa darà un assetto definitivo alla sua struttura, creando al proprio interno l’ordinazione sacerdotale sacramentale51. In linea di massima va detto che la Chiesa più si istituzionalizza e più definisce i propri ruoli al suo interno.

Con il v.7 il dono di Dio assume ora una sua identità precisa: è lo Spirito di Dio, cioè che proviene da Dio e che si fa dono al credente, rendendolo fin d’ora partecipe della vita divina. Esso è definito come “forza, amore, saggezza”. Sono di fatto le tre qualità spirituali di cui ha bisogno Timoteo. La forza dello Spirito, infatti, deve sostenere il timido e titubante Timoteo, il quale deve prendere coscienza del suo ruolo all’interno della comunità efesina, benché la sua azione debba svolgersi nella carità (1Tm 1,5), che è l’amore di Dio che si fa presente nella comunità attraverso la sacra mentalità dei pastori e degli stessi credenti che la compongono. Forza, coraggio, determinazione sono indispensabili per affrontare le dissidenze interne, ma l’intervento non deve mai prescindere dall’amore caritatevole che “Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,7). Ciò comporta un grande equilibrio e saggezza, che devono essere propri del pastore.

Il v.8 trae le conseguenze di quanto affermato in 6-7: “Non vergognarti …, ma soffri anche tu insieme a me per il vangelo”. È un chiaro e perentorio invito che scuote la fragilità di Timoteo, che deve, infine, quale pastore, prendere posizione ferma e senza reticenze. Di due cose non deve vergognarsi: della testimonianza da rendere al Signore e di Paolo, ingloriosamente imprigionato per lo stesso Signore. Paolo e Timoteo, dunque sono due figure chiamate per vocazione e missione alla testimonianza del Signore, ma ben diversi sono gli esiti: Timoteo, timido e titubante, nicchia; Paolo è imprigionato e sta pagando di persona. L’esortazione a non vergognarsi sprona ad uscire dall’omertà, dai compromessi e chiede di decidersi per Cristo, di scommettere la propria vita su di lui. Il cristianesimo, per la sua radicalità (Mt 12,30; Lc 11,23), non può essere vissuto nella mediocrità, né può essere adattato ad un comodo stile di vita, che soddisfi le proprie esigenze. Dio, infatti, ammonendo la Chiesa di Laodicea, sentenzia: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,15-16). Il vivere del credente è un vivere consacrato, cioè riservato e dedicato al Signore: “Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,7-8).

Paolo e Timoteo diventano pertanto due modi, due stili di vivere il cristianesimo, che è testimonianza del Risorto. A giochi finiti non si tratta di fare gli eroi, ma semplicemente di essere coerenti, conformando il proprio vivere a quelle realtà spirituali in cui siamo stati collocati e di cui siamo permeati in virtù della fede e del battesimo. Di conseguenza il credente non è un semplice uomo, ma un uomo cristificato, una nuova specie di umanità sgorgata dalla morte e risurrezione di Cristo.

L’invito di Paolo a Timoteo, pertanto, è di non vergognarsi, ma di soffrire “assieme a lui”. Il verbo greco dice “con-soffrire” assieme a lui” “per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio”. Significativo è quel “con-soffrire” perché evidenzia come la testimonianza del Vangelo comporti da un lato una sofferenza, ma dall’altro essa non è mai un fatto esclusivamente personale, ma ecclesiale. Ogni testimonianza, anche se individuale, è sempre un evento che coinvolge la Chiesa stessa. Ha, quindi, una dimensione ecclesiologica.

L’espressione “per il vangelo”, infine, dice la finalità, l’obiettivo verso cui Timoteo deve volgere il suo spendersi; come dire che tutta la sua vita deve essere apertamente consacrata e orientata alla testimonianza del Vangelo; deve farsi dono e offerta al Vangelo, sorretta in questo dalla forza di Dio. Per la terza volta in tre versetti (6-8) viene in vario modo definito lo Spirito Santo: esso è “dono di Dio” (v.6), “Spirito di forza, di amore e saggezza” (v.7) e, infine, “forza di Dio” (v.9). L’insistenza sullo Spirito dice l’importanza di questa presenza in noi (2Tm 1,14) per la testimonianza. La testimonianza infatti non è un mettere in mostra ciò che crediamo, con il rischio di trasformare il cristianesimo in un’azione promozionale e commerciale, ma è questa Presenza divina che vive ed opera in noi e ci permea nelle profondità del nostro essere, che rende per mezzo nostro testimonianza al Risorto. Il Vangelo ricorda, infatti, che “non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10,20; Mc 13,11). Ma lo Spirito non può fare nulla se non ci trova attenti alla sua presenza in noi e disponibili alla sua azione. Per questo Paolo invita Timoteo a “ravvivare il dono di Dio”, un ravvivare che avviene per mezzo della Parola, perché da questa illuminati, prendiamo piena coscienza del nostro essere cristiani, senza illuderci di esserlo perché frequentiamo i sacramenti. Il cristianesimo e la testimonianza del Risorto vanno ben oltre a qualche pratica religiosa, poiché interpellano l’uomo nel profondo del suo cuore ed è da lì che deve venire la risposta esistenziale.


Introduzione ai vv. 1,9-10


vv. 9-10: l’esortazione contenuta nei vv.6-8 ha come finalità primaria il vangelo, per il quale va spesa la testimonianza senza risparmio di sofferenza. Il vangelo di cui Paolo parla trova il suo progressivo sviluppo nei seguenti versetti secondo questo schema:


  1. vv. 1,9-10: prima enunciazione del vangelo: Dio ci ha salvati e ci ha chiamati ad una vocazione santa e ciò è un puro dono della sua misericordia e grazia, senza alcun merito nostro (v.9). Questo piano salvifico è stato rivelato e attuato nel suo Figlio per mezzo della sua risurrezione (v.10). L’enunciazione si chiude con i vv. 11-12 che vedono Paolo “araldo, apostolo e maestro” privilegiato di tale piano (v.11) a causa del quale egli soffre senza vergognarsene (v.12).

  2. vv. 2,8: seconda enunciazione del vangelo: costituisce una ripresa e un completamento della prima: “Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo”. Il completamento consiste nell’enunciare che Gesù Cristo è della stirpe, cioè della discendenza di Davide, dal quale si attendeva il messia, secondo la profezia di Natan al re Davide (2Sam 7,5-17). Tale profezia, afferma Paolo, si è attuata per mezzo della risurrezione di Gesù. Ed è proprio questo secondo aspetto (la risurrezione), che costituisce l’aggancio alla prima enunciazione, che termina al v.1,10 con la chiara allusione alla risurrezione: “Egli che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'immortalità per mezzo del vangelo”. Anche questa seconda enunciazione si chiude con i vv. 2,9-10 che a loro volta si richiamano e completano i vv. 1,9-10. Il richiamo consiste nell’evidenziare come questa testimonianza è causa di sofferenza per Paolo (2,9); mentre il completamento consiste nell’evidenziare l’utilità di questa sofferenza: “…per gli eletti, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna” (2,10).

  3. vv. 2,11-13: terza enunciazione del vangelo completa definitivamente il vangelo di Paolo, annunciato nei versetti precedenti (punti 1 e 2). Essa specifica qual è la conseguenza al piano salvifico del Padre, attuato per mezzo della morte e risurrezione di Gesù, nella quale ogni credente è coinvolto in prima persona: “Certa è questa parola: Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”. Questa terza enunciazione fornisce anche la motivazione di fondo della sofferenza causata dalla testimonianza del Vangelo.


Vediamo ora, attraverso il testo, lo sviluppo della sequenza di questo triplice annuncio:


Prima enunciazione del vangelo (1,9-10): “Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall'eternità, ma è stata rivelata solo ora con l'apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'immortalità per mezzo del vangelo,

Paolo modello di testimone sofferente (1,11-12): “del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro. E' questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto e son convinto che egli è capace di conservare fino a quel giorno il deposito che mi è stato affidato”

Seconda enunciazione del vangelo (2,8) (aggancio e completamento alla prima): “Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo,”

Paolo modello e testimone sofferente per la salvezza degli eletti (2,9-10) (ripresa e completamento a “Paolo modello e testimone sofferente”): “a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna”

Terzo annuncio del vangelo (2,11-13) (le conseguenze del piano salvifico del Padre sul credente e, contemporaneamente motivazione di fondo della testimonianza sofferente per il vangelo): “Certa è questa parola: Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”.

Queste rincorrersi di enunciazioni, riprese e completamento, che dànno l’idea di un continuo ripetersi, formano qui la struttura a spirale del pensiero di Paolo, che ritroviamo anche nel vangelo di Giovanni e nella sua Prima Lettera.


Commento ai vv. 1,9-10


Questi versetti costituiscono una concentrazione molto densa del pensiero paolino e ne sono in qualche modo il cuore stesso. Essi riprendono il tema della giustificazione, molto caro a Paolo, contenuto prevalentemente nella Lettera ai Galati e in quella ai Romani.

Il v.9 si apre con un pronome “Egli”, che forma il soggetto principale e dominante dell’intero versetto, per indicare come la salvezza è opera esclusiva di Dio. Il pronome, infatti, si riferisce a Dio, appena nominato a conclusione del v.8 (forza di Dio). Dio, cioè il Padre è, dunque, l’attore principale a cui va demandata ogni azione salvifica, quale attuazione di un suo preciso piano, al quale Paolo allude quando qui parla di “secondo il suo proposito”. C’è quindi un disegno che ha tre momenti di attuazione: 1) l’azione salvifica a favore dell’uomo (ci ha salvati), ad esclusiva iniziativa del Padre ed operata attraverso l’invio e la morte-risurrezione di suo Figlio52; 2) e che si esplicita in una conseguente universale chiamata alla santità53; 3) la rivelazione e l’attuazione di tale progetto, nonché la stessa chiamata alla santità avvengono per mezzo di Gesù Cristo, che qui Paolo definisce “salvatore”54 per indicarne la primaria missione in favore degli uomini (il nome Gesù significa “Dio salva”). Tale azione divina si traduce in una chiamata con una vocazione santa; santa sia perché proviene da Dio, che è Padre e Fonte di ogni santità55, sia perché tale chiamata è finalizzata alla santificazione dell’uomo, grazie alla quale il Padre ci introduce nella sua stessa vita divina, rendendocene partecipi nel suo Figlio56. Questa santificazione, che avviene attraverso la fede57 e il battesimo58, produce in noi una consacrazione, che ci fa proprietà di Dio e a Lui appartenenti per un servizio santo59.

A tal punto Paolo introduce un tema che gli è particolarmente caro e che forma il cuore della Lettera ai Romani e di quella ai Galati: la giustificazione che avviene per grazia, cioè per atto totalmente libero e gratuito da Parte di Dio e non in virtù delle opere dell’uomo, cioè dell’impegno che quest’ultimo profonde nell’osservare attentamente la Legge o nell’impegnarsi nel fare delle opere buone. Circa tale argomento Paolo proclama solennemente in Rm 3,28, a conclusione di un lungo ragionamento iniziato in Rm 1,18: “Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge”; così come in Gal 2,16 afferma: “… sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno". La totale gratuità della salvezza trova la sua piena attuazione e il suo definitivo compimento in Cristo, per il quale Paolo afferma che “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Questo progetto di salvezza a favore dell’uomo, continua l’Apostolo, costituiva il sogno di Dio fin dall’eternità (1,9c). Vi è qui un forte richiamo alla Lettera agli Efesini60 : “In lui (cioè in Cristo) ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia” (Ef 1,4-7). Il progetto salvifico di Dio, quindi, è coeterno a Dio stesso, ancor prima che l’uomo esistesse, e consisteva nel rendere l’uomo suo figlio adottivo attraverso l’azione redentrice di suo Figlio stesso, facendoci figli nel Figlio (Gal 4,4-7).

Tale progetto divino, nascosto in Dio dall’eternità, irraggiungibile e inconoscibile per l’uomo, è stato rivelato all’umanità attraverso il suo Figlio, il quale ci ha lasciato lo splendore di questa Verità nel Vangelo, costituendosi Egli stesso, Parola eterna del Padre (Gv 1,1), quale “Via, Verità e Vita” (Gv 14,6) per il credente. Tale mistero incominciò a disvelarsi fin dalla creazione della creazione del mondo61 e, via via nel tempo, fino alla sua definitiva pienezza in Cristo Gesù: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1,1-2)

vv. 11-14: se i vv. 1,9-10 parlano del Vangelo, cioè di questo grande e misterioso progetto divino, ideato dal Padre fin dall’eternità e disvelatosi in Cristo, a tutto favore dell’uomo, che viene informato per mezzo della Parola del senso del suo esserci, della sua dignità e del suo destino, con questi versetti (vv.11-14) Paolo esprime la coscienza del suo ruolo primario all’interno di questo progetto, nel quale anche Timoteo e ogni credente sono coinvolti: “del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro”. Il progetto divino, disvelatosi in Cristo e in lui attuatosi, deve risuonare lungo la storia perché l’uomo di ogni tempo e di ogni latitudine venga a conoscenza di quanto il Padre ha attuato nel suo Cristo, del quale noi siamo rivestiti e permeati e, pertanto, abilitati a far conoscere e trasmettere l’opera di Dio che è in noi, affinché tutti ne possano essere coinvolti e beneficiare. Noi, infatti, partecipiamo, in virtù del battesimo, del triplice Ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo62 e pertanto resi efficaci trasmettitori di Cristo al mondo, chiamati a consacrare le realtà terrene e la stessa umanità per farne al Padre, per mezzo del suo Cristo, un’offerta spirituale a Lui gradita (Rm 12,1). Consacrati in Cristo, siamo chiamati a consacrare, perché Dio sia nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,28).

Ma questo mondo, segnato dalla colpa originale (Rm 5,12), ha perso il senso di Dio e ne ha pure smarrito la strada. Per questo ogni annuncio e ogni testimonianza del Cristo trova grande difficoltà ed è osteggiata, soprattutto nel nostro mondo occidentale, perché noi, pur essendo nel mondo non ne facciamo parte e il mondo non ama ciò che non è suo (Gv 15,18-21). Per questo Paolo considera l’annuncio del Vangelo come causa di ogni suo male, ma non se ne vergogna, anzi si propone a Timoteo, come ad ogni credente, come un modello da imitare e con il quale condividere il peso e le sofferenze dell’annuncio: “E' questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto e son convinto che egli è capace di conservare fino a quel giorno il deposito che mi è stato affidato. Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù”.

Ma se è compito di ogni credente annunciare e rivelare con la propria vita il mistero di Dio, che abita in lui e di cui è permeato in virtù del battesimo, altrettanto doveroso è custodire questa ricchezza divina da cui è avvolto, di cui fa parte e in cui dimora. Non è scontato, infatti, che il dono di Dio permanga in noi per sempre e indipendentemente da noi. Il Padre nel suo Figlio si è donato a noi, ma spetta a noi conservare tale dono, che può essere anche perduto o sciupato per la nostra pochezza. La Parola, elemento vitale ed essenziale per il vivere credente, costituisce lo strumento insostituibile per conoscere il mistero di Dio in noi. Soltanto se noi, per mezzo della Parola, ne prendiamo sempre più coscienza e sempre più conformiamo la nostra vita alle sue esigenze, possiamo anche alimentarlo e conservarlo in noi, divenendone per ciò stesso testimoni e trasmettitori al mondo della stessa vita divina che palpita in noi, per opera dello Spirito Santo: “Custodisci il buon deposito con l'aiuto dello Spirito santo che abita in noi”.

vv. 15-18: dopo un così denso intervento (vv. 9-14), Paolo sembra bruscamente interrompere la sua riflessione e passare ad altre questioni, riportando due episodi della sua vita personale: i suoi discepoli dell’Asia, tra i quali Fìgelo ed Eremègene, lo hanno abbandonato; mentre la famiglia di Onesìforo, sobbarcandosi un viaggio da Efeso a Roma, lo ha cercato con premura per sostenerlo nelle sue difficoltà senza per questo vergognarsene. Questi due episodi autobiografici, apparentemente buttati lì in modo estemporaneo, in realtà costituiscono i due modelli di vita diffusi tra i neocredenti: c’è chi si vergogna dell’annuncio del Vangelo e, cedendo alle lusinghe del mondo e alle sue esigenze (2Tm 4,10), abbandonano la fede; mentre altri se ne fanno carico con fermezza e senza vergogna la annunciano con la propria vita. Il tema di questi quattro versetti verrà ripreso e ampliato nel proseguo della lettera.


Capitolo Secondo


Premessa

Il secondo capitolo si struttura su due parti63: la prima (2,1-13) è una ripresa e uno sviluppo di 1,6-14. Qui, infatti, siamo ancora all’interno della parte teologica e cristologica; risuona ancora il Vangelo annunciato da Paolo (2,8.11-13), il tema della testimonianza e della sofferenza a motivo del Vangelo (2,3.9-10) e Paolo si pone sempre come modello da imitare. La seconda parte (2,14-26) costituisce una sorta di applicazione pratica di quanto trattato in 1,6-2,13, il quale forma da bacino motivazionale dell’intera esortazione che risuona in tutta la lettera. Qui l’esortazione si fa più diretta e didascalica, più pratica, individuando gli attori che costituiscono il motivo dell’invio di questa lettera: Timoteo e i dissidenti, che deviano dalla verità (2,18). Essi sono posti a confronto tra loro e Paolo delinea per entrambi un profilo, positivo per il primo, negativo per i secondi (2,19-21). Il tenue e quasi impercettibile confronto, appena abbozzato, di 2,14-26 sfocerà in un confronto aperto e diretto nel cap. 3, dai toni fortemente escatologici e in cui verranno delineati i due comportamenti contrapposti dei dissidenti (3,1-9.13) e di Timoteo (3,10-12.15). Già da questi brevi cenni si intuisce come i capp. 2,14-26 e 3 siano tra loro collegati, nel senso che il primo va a sfociare e a completarsi nel secondo.


Il commento

vv. 1-3: i primi tre versetti sono posti tra loro in parallelo: da un lato (v.1) si esorta Timoteo trovare la forza della sua testimonianza in Cristo; dall’altro (v.3) lo si esorta, da buon soldato di Cristo, a condividere la sofferenza della testimonianza con Paolo. Al centro (v.2) si colloca il movimento fondamentale della testimonianza cristiana all’interno della comunità: la trasmissione fedele del Vangelo: “le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri” (v.2,2). Come dire che la forza acquisita in Cristo deve tradursi in una testimonianza coraggiosa fino alla sofferenza, che Timoteo è chiamato a condividere con i pastori dediti all’annuncio del Vangelo. La forza dell’annuncio e della testimonianza devono condensarsi in una fedele trasmissione della Verità del Vangelo, così che tale Verità giunga integra a tutti, superando in tal modo le dissidenze teologiche e dottrinali interne alla comunità. Il pastore, quindi, è chiamato in prima persona ad essere il garante della Verità trasmessa, con la forza della testimonianza fino alla sofferenza, creando in tal modo una catena ininterrotta tra Cristo e l’ultimo credente, il quale può tranquillamente scommettere la sua vita su quanto gli viene annunciato.

Il v.1 si apre con “SÝ oán” (Sü un), “Tu, pertanto” o “Tu, dunque”. La particella “pertanto/dunque”, aggancia il cap. 2 a quanto si è fin qui detto nel cap. 1 creando una sorta di continuità logica e consequenziale tra i due capitoli.

Paolo si rivolge a Timoteo chiamandolo “figlio mio”. Per quattro volte nelle due lettere l’Apostolo definisce Timoteo con l’appellativo di figlio: “mio vero figlio nella fede” (1Tm 1,2), in quanto generato da Paolo nella fede64; “figlio mio, Timoteo” (1Tm 1,18); “diletto figlio Timoteo” (2Tm 1,2) e “figlio mio” (2Tm 2,1). Tutto ciò denota, da un lato, il particolare rapporto di affetto che legava tra loro i due apostoli e testimoni del Vangelo; dall’altro la vera natura dell’apostolato, che è una paternità generativa alla vita stessa di Dio, operata attraverso l’annuncio e la testimonianza fedele del Vangelo.

L’esortazione si fa forte e rimanda Timoteo alla sorgente stessa della forza testimoniale: “la grazia che è in Cristo Gesù”. In questo contesto, il termine “grazia” acquista il significato di “vita di Dio che è in Cristo Gesù per mezzo dello Spirito” o che si è manifestata in lui, come vita di misericordia e di benevolenza offerte gratuitamente al credente. La conoscenza di Cristo, che sta alla base della testimonianza, al di là del mero aspetto intellettuale proprio del conoscere, è innanzitutto esperienza di Cristo, che richiede di conformare la propria vita alle sue esigenze, imparando a vedere le cose dalla sua prospettiva. Colto entro questa cornice, Cristo diviene il punto di riferimento da cui trarre la forza vitale per dare la propria testimonianza. La testimonianza, quindi, trova la sua forza in Cristo, grazia di Dio che si è manifestata agli uomini (Rm 3,21; 1Tm 3,16), e che chiede al credente di offrirla al mondo per mezzo della sua stessa vita, che è nascosta in Cristo (Col 3,3), perché altri ne possano beneficiare.

“Insieme con me prendi anche tu la tua parte di sofferenze”: è l’invito di Paolo ad associarsi alla sofferenza di una difficile testimonianza, che nasce dal rifiuto di Cristo da parte del mondo. Questa associazione alla sofferenze dice come la testimonianza non è mai un fatto privato, ma ecclesiale e come la sofferenza associa sempre il credente a Cristo stesso, “che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato” (1Tm 6,13; Gv 18,29 -19,22); quel Cristo che, dopo aver fatto della sua vita una missione intesa a manifestare il Padre65, si ritrova alla fine incompreso, rifiutato e perseguitato, così che Giovanni concluderà l’attività pubblica di Gesù con un’amara constatazione: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (Gv 12,37); una considerazione che già era stata in qualche modo preannunciata nel prologo: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto” (Gv 1,11).

Il v.2 possiede in sé una grande importanza testimoniale, perché attesta storicamente la dinamica di trasmissione della fede che era nella chiesa primitiva e che costituisce una sorta di catena inscindibile che lega ogni credente a Cristo stesso: “le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri”. Le cose che Timoteo ha udito da Paolo è l’annuncio stesso del Vangelo; tale annuncio è stato fatto alla presenza di molti testimoni. Quest’ultima affermazione dà rilevanza e importanza all’annuncio stesso. Paolo infatti non dice che il suo annuncio è stato fatto davanti a molte persone, ma a molti testimoni, quindi persone qualificate a ricevere e a dare la testimonianza. L’annuncio di Paolo, quindi, acquista una valenza di ufficialità e di solennità, che è proprio del kerigma apostolico, e che va a costituire nel suo insieme quel “buon deposito” della fede, che Timoteo è già stato esortato a custodire con l’aiuto dello Spirito Santo (1,14). A sua volta Timoteo è chiamato a trasmetterlo “a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri”. C’è, quindi, all’origine di ogni fede un annuncio apostolico, il kerigma66, pubblicamente proclamato e che acquisisce per ciò stesso una valenza ecclesiologica; questo accolto nella propria vita, viene a sua volta fedelmente trasmesso ad altri e così di seguito. Quanto oggi noi crediamo è una fede che ci è stata trasmessa proprio attraverso questa fedele catena di trasmissione, di cui noi siamo gli ultimi eredi e depositari. Il cammino della fede, tuttavia, non si ferma nel nostro oggi, ma continua attraverso ciascun credente, che, in virtù della sua fede e del suo battesimo, è chiamato a generare tale annuncio agli altri. È il buon deposito della fede che anche noi abbiamo ricevuto e che dobbiamo trasmettere in comunione con il nostro Vescovo e con il Papa. Il cammino del Vangelo nei secoli ha le gambe e i piedi di ogni credente, che è chiamato a renderlo noto al mondo con la parola, ma soprattutto con il proprio stile di vita, da cui deve trasparire la conformità di questa al “buon deposito” che è in noi. Su ciascun credente, dunque, grava la responsabilità del coltivare e del custodire in se stesso quanto ha ricevuto per trasmetterlo, a sua volta, agli altri nelle forme e nei modi che la propria vita gli consente. Nessuno può sottrarsi a tale trasmissione, perché verrebbe meno ai suoi uffici fondamentali di sacerdote, re e profeta dei quali è stato insignito nel battesimo e che lo abilitano al dovere della testimonianza della fede che è in lui.

vv. 4-7: questi versetti tratteggiano, attraverso le metafore del buon soldato, dell’atleta e dell’agricoltore, alcune regole fondamentali che andavano formandosi all’interno della chiesa primitiva circa i diritti e i doveri dei pastori nei confronti delle comunità alle quali erano preposti67. I vv. 4-7 vengono posti immediatamente dopo l’esortazione del v.2, con il quale viene enunciato il principio, fondamentale e molto delicato per la vita cristiana, della trasmissione della fede. Tale compito è proprio del pastore, responsabile della fede della propria comunità. Le tre metafore, pertanto, sono finalizzate a tutelare e a sostenere la figura di Timoteo, quale pastore insignito di un incarico molto importante e difficile e che Paolo associa alle sue fatiche apostoliche (2Tm 2,3). Proprio in virtù di questa assimilazione del pastore al lavoro dell’apostolato, Paolo richiama a Timoteo i suoi doveri e i suoi diritti nei confronti della comunità efesina in cui opera.

Il precedente v. 2,3 terminava con l’esortazione a Timoteo ad essere “un buon soldato di Cristo Gesù”. Quest’ultima espressione forma da aggancio al successivo v. 2,4 che introduce la prima metafora, presa dalla vita militare: nessun soldato si immischia nelle faccende della vita civile se non vuole creare problemi al proprio comandante. In altri termini, Paolo esorta il giovane Timoteo a starsene fuori dalle diatribe filosofiche e dalle inutili e interminabili discussioni68 su questioni che potrebbero coinvolgerlo al punto tale da perdere la sua autorità, mettendo in tal modo in discussione la sua credibilità in mezzo alla comunità efesina, rimanendone, così, vittima lui stesso. Prima regola, quindi, del buon pastore è quella di non immischiarsi nelle polemiche69, ma di rimanere guida salda e sicura in mezzo alla comunità, custodendo il “buon deposito della fede” e indicandolo ad essa come punto di riferimento sicuro70.

La seconda metafora (v.5) rimanda alla disciplina dell’atleta, che Paolo già aveva utilizzato rivolgendosi ai cristiani di Corinto (1Cor 9,24-25), cercando di spronarli per un proficuo impegno nella vita cristiana. Benché il tema in questa metafora non cambi sostanzialmente, tuttavia Paolo fa una significativa modulazione sul tema. Egli, infatti, non si sta rivolgendo a dei semplici credenti, ma ad un pastore, suo carissimo collaboratore, che si trova in difficoltà per l’aggressività di sedicenti maestri e dottori giudeocristiani (1Tm 1,6-7): “Anche nelle gare atletiche, non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole”. Qui non si tratta più di un semplice impegno, ma questo deve essere svolto “secondo le regole”, che sono quelle dettate dal buon deposito della fede, che Timoteo deve custodire e salvaguardare dagli attacchi dei giudaizzanti, e che ha appreso dallo stesso Paolo71. Seconda regola, quindi, è quella dell’impegno pastorale che ha come fondamento l’annuncio e la difesa di una fede certa.

La terza metafora (v.6) riguarda l’agricoltore a cui è riconosciuto il diritto di beneficiare dei frutti di quella terra che lui ha coltivato. Una simile metafora Paolo l’aveva già utilizzata scrivendo ai Corinti (1Cor 9,7.10); essa è posta in un contesto in cui egli rivendica i diritti dell’apostolo di vivere del suo apostolato72. Molto probabilmente viene qui ripreso questo tema a sostegno di Timoteo, forse accusato dai giudaizzanti, con i quali era in polemica, di farsi mantenere dalla comunità. Terza regola è, pertanto, il diritto del pastore di vivere del frutto del suo lavoro apostolico.

v. 8: i vv. 1,9-10 presentavano il contenuto del vangelo paolino, che si concludeva con un riferimento alla risurrezione “… del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto73 la morte e ha fatto splendere la vita e l’immortalità per mezzo del vangelo”. Il contenuto di questo riferimento è squisitamente teologico, in quanto che esprime il senso e il significato della risurrezione di Gesù e le sue conseguenze, ma senza alcun aggancio storico fondante, utile per comprendere come la risurrezione non nasce da una riflessione teologica, susseguente la morte di Gesù ad opera delle prime comunità cristiane, ma si radica concretamente nelle vicende storiche, anche se le trascende74. A questo pone rimedio il v. 2,8 che completa 1,9-10 e lo aggancia in qualche modo alla storia: “Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo”. Qui Paolo riporta un’antica formulazione di fede che ritroviamo, in modo più elaborato, anche in Rm 1,3-4: “riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” in cui si evince come la risurrezione è un passaggio dallo stato carnale e storico ad uno divino, che viene operato per mezzo della potenza dello Spirito Santo. Si tratta quindi di una trasformazione da una carne mortale ad una carne spiritualizzata con la quale l’uomo viene attratto nella sua interezza nella sfera divina. In tal modo l’uomo viene ricostituito nella pienezza della vita divina così come’era nei primordi quando “il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò75 nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente” (Gen 2,7). L’aggancio storico è proprio la figura di “Gesù della stirpe di Davide”. Con questa espressione la fede dei primi credenti vedeva realizzarsi nella risurrezione di Gesù l’antica profezia che Natan fece al re Davide: “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza76 uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio” (2Sam 7,12-14). Vi è quindi nella risurrezione di Gesù un aggancio alla storia della salvezza, che affonda le sue radici nella storia d’Israele. Il cristianesimo non predica ideologie o filosofie, ma annuncia un evento storico di salvezza, che iniziatosi con la creazione del mondo, in cui Dio inaugura la sua manifestazione agli uomini (Rm 1,20), trova il suo vertice in Cristo, verso il quale tende tutta la creazione (Col 1,16) e il suo definitivo compimento alla fine dei tempi, quando la storia sfocerà nell’oceano dell’eternità divina (1Cor 15,20-28).

Paolo termina il v. 2,8 con l’affermazione “secondo il mio vangelo”. Noi siamo abituati a sentir parlare di “Vangelo secondo Matteo, Marco, Luca o Giovanni”, mai “secondo Paolo”. Ci lascia forse ancor più perplessi quando Paolo parla del “mio vangelo”, quasi fosse una sua invenzione personale. In realtà non si tratta di un nuovo vangelo, ma nel linguaggio paolino il vangelo è il messaggio dell’opera di Dio che si è compiuta in Cristo e per mezzo di Cristo77; mentre il pronome possessivo “mio” afferma l’annuncio che di tale vangelo egli ha fatto e che si contrappone a quello predicato dai giudeocristiani giudaizzanti. Questi, infatti, interpretavano la figura di Cristo e del suo messaggio alla luce di Mosè, togliendo tutta la loro freschezza e la loro novità e facendo di Gesù e del suo messaggio delle entità subordinate a Mosè stesso78. Il pronome “mio”, quindi, posto sul vangelo, cioè sull’annuncio paolino, costituisce una sorta di marchio di garanzia e di autenticità79 e certamente non va contrapposto ai Vangeli che noi oggi conosciamo, anche perché all’epoca in cui Paolo scriveva le sue lettere (tra la fine del 50 al 58 d.C. circa) i vangeli ancora non erano nati80.

vv. 9-10: con il v. 1,12a Paolo affermava come l’annuncio del vangelo (1,9-10) fosse la causa dei suoi mali, che egli affrontava senza alcuna vergogna e reticenza, anzi, come dirà altrove (2Cor 11,23-30), vantandosene. Con il v. 2,9 l’Apostolo riprende quel tema già annunciato e ne dà completezza. In questo versetto l’apostolo pone a confronto il suo stato di detenzione con la libertà di cui, invece, gode, comunque e sempre, la Parola di Dio: lui è incatenato, ma non lo è la Parola di Dio, mettendo in rilievo il suo impegno nell’annuncio nonostante le difficoltà, che lo rendevano anche fisicamente inidoneo all’annuncio, come lo stato di detenzione. L’annuncio della Parola e la sua testimonianza diventano per Paolo una sorta di ossessione, che riesce a superare ogni barriera: innanzitutto la Parola!
La sofferenza causata dalla testimonianza di Cristo, tuttavia, non è fine a se stessa, ma il tutto è speso a favore degli eletti81, cioè di coloro che sono chiamati alla salvezza secondo il piano salvifico di Dio operato in Cristo (Rm 8,29-30). Paolo, dunque, vede la sua sofferenza per il vangelo come rientrante in questo progetto salvifico, concepito ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4-6); una sofferenza feconda perché finalizzata alla redenzione degli uomini “perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna”. Paolo, dunque, vede questa sua sofferenza necessaria, poiché egli si sente il tramite attraverso cui si veicola l’attuazione del disegno salvifico divino agli uomini, affinché tale progetto li possa raggiungere ovunque.

vv. 11-13: questi versetti riportano un antico inno primitivo, probabilmente molto diffuso presso le primissime comunità credenti. Frammenti di questo inno sono riportati sia nella Lettera ai Romani (6,8-9) che in Matteo (10,33) e in Luca (12,9). Esso viene qui riprodotto a sostegno e a completamento dell’enunciazione della sofferenza sofferta per il Vangelo, una sorta di motivazione teologica e cristologia ai vv. 1,12a e 2,9. Il soffrire fino alla morte, la perseveranza e il rinnegamento erano condizioni proprie dello stato di persecuzione, nel quale i credenti potevano trovarsi con frequenza. Pertanto la risposta che il credente dà alla necessaria testimonianza del Vangelo costituisce l’elemento stesso di giudizio che ricadrà su di lui.

Strutturalmente questo inno si snoda in versetti tra loro paralleli, che all’improvviso interrompono il loro ritmo:

“Certa è questa parola82:

  1. se moriamo con lui, vivremo anche con lui;

  2. se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo;

  3. se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà;

  4. se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”.

Vediamo come nei primi tre versetti (a,b,c) vi è una corrispondenza tra il comportamento di chi è chiamato alla testimonianza e quello tenuto da Cristo: egli ci dà quello che noi diamo a lui. Vi è sotto quindi una logica di ricompensa, che consegue sempre il giudizio emesso sul comportamento del testimone, riuscito o mancato. Ma giunti all’ultimo versetto (d), il parallelismo e la corrispondenza si interrompono bruscamente: “se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele”. Il motivo di questa sua fedeltà ad oltranza, anche se ripagata dall’infedeltà, risiede nella natura stessa di Dio, che è Amore (1Gv 4,8.16), infatti Egli “non può rinnegare se stesso”. Alla fine di tutto quindi ci sta l’Amore stesso di Dio, da cui è sgorgato il suo progetto di salvezza a favore dell’uomo e che lo soccorre nella sua fragilità.


LA SECONDA SEZIONE DELLA LETTERA: 2,14 – 4,8



Premessa

Con il v. 2,14 ha inizio la seconda sezione della lettera, dedicata all’esortazione rivolta alla pratica pastorale. I vv. 2,14-26, che compongono la prima parte della seconda sezione, sono raggruppati secondo uno schema parallelo:


A) vv. 14-18: Esortazione ad assumere la corretta posizione nei confronti di coloro che si riempiono la bocca con vane discussioni su questioni di fede, creando scompiglio all’interno della comunità: Timoteo non deve lasciarsi coinvolgere, ma deve presentarsi come un autorevole e “scrupoloso dispensatore della parola di verità”.

B) vv. 19-21: La comunità efesina poggia su saldi fondamenti, poiché essa è opera di Dio e ha impresso su di essa il sigillo del Dio vivente. Dio quindi vigila su di essa. Questo deve costituire motivo di forza e coraggio per Timoteo. La pericope B) forma, quindi, una sorta di motivazione teologica sulla quale Timoteo deve fondare la sua missione di pastore.

A’) vv. 22-26: questa pericope riprende tematicamente il contenuto di A) e lo completa. Se in 2,14-18 Timoteo era sollecitato ad assumere un autorevole comportamento nei confronti dei faziosi giudaizzanti, in qualità di guida della comunità, qui viene completata la figura ideale del pastore. Ne esce una sorta di vademecum.


vv. 14-18.22-26 (A, A’): anche questa pericope segue uno schema parallelo: Il v.14, infatti, diventa una sorta di enunciazione esortativa con la quale si richiama Timoteo al suo preciso e imperativo dovere di pastore, che per la sua funzione è posto davanti a Dio: “Richiama alla memoria queste cose, tu che sei chiamato davanti a Dio a scongiurare che non avvengano futili discussioni: in ciò non vi è niente di utile, se non il soggiogamento di chi ascolta”.

Tale richiamo alle responsabilità, che Timoteo deve assumersi nei confronti della comunità, contrapponendosi ai giudeocristiani dissidenti, si completa con i vv. 17-18 in cui si mette in rilievo la pericolosità delle vacue diatribe che questi hanno scatenato all’interno della chiesa di Efeso: “la parola di costoro infatti si propagherà come una cancrena. Fra questi ci sono Imenèo e Filèto, i quali hanno deviato dalla verità, sostenendo che la risurrezione è già avvenuta e così sconvolgono la fede di alcuni”.

Tra i vv. 2,14 e 2,17-18 si interpolano i vv. 15-16 che delineano i primi tratti del comportamento del vero pastore, che troveranno il loro completamento nei vv. 22-26. L’insieme dei vv. 15-16 e 22-26 formano una sorta di vademecum del bravo pastore.

Il v.14 si apre con un imperativo: “Richiama alla memoria queste cose”. Le cose che Timoteo deve ricordarsi, o meglio ancora di cui deve prendere coscienza, è quanto è stato già detto nella prima sezione (1,6-2,13), che forma da fondamento teologico e cristologico ad una testimonianza ferma, decisa e senza reticenze a cui egli, in qualità di responsabile della comunità di Efeso, è chiamato in prima persona davanti a Dio. La presa di coscienza del proprio carisma, infuso a Timoteo attraverso l’imposizione della mani (1Tm 4,14; 2Tm 1,6), ma che è proprio anche di ogni credente in virtù del suo battesimo e della cresima, è la conditio sine qua non, cioè è l’elemento essenziale e indispensabile su cui poggia la testimonianza di ogni credente. Senza questa coscienza fondamentale il vivere cristiano si riduce ad una sterile quanto inutile pratica cristiana che inaridisce la vera natura del credente. Vivere cristianamente significa innanzitutto conformare il proprio vivere alle realtà divine in cui si è stati inseriti e delle quali si è permeati nella profondità del proprio essere per mezzo del battesimo, che ci ha cristificati, cioè rivestiti e impastati di Cristo così da fare un solo essere con lui. La testimonianza cristiana diviene pertanto una naturale e logica risposta esistenziale a tali realtà, che palpitano in ogni credente.

Il secondo elemento, che compone il v.14, è l’evitare le vacue discussioni all’interno della comunità. La vera testimonianza del Vangelo nasce dalla vita e si trasfonde, all’occorrenza, nella parola. Il cristianesimo, infatti, non è una ideologia o una filosofia in cui si dibatte la verità, ma è essenzialmente vita in Cristo, è un conformarsi esistenzialmente alle sue esigenze, che trovano la loro chiarezza e il loro splendore nella Parola di Dio, l’unica in grado di illuminare il credente sulle realtà spirituali che vivono in lui. Solo se la propria vita è illuminata e sostanziata dalla Parola, anche le parole diventano in pari modo parole di vita, veicolate attraverso quella carità che “tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,7); diversamente esse sono un vacuo suono destinato a fomentare divisioni e discordie83. Il cristianesimo non è chicchera, non è dogma o dottrine, ma azione di vita, che nasce dalla Parola di Dio incarnata nella vita stessa e si genera attraverso la vita. La storia della Chiesa è disseminata di defezioni che rendono ancor oggi difficile, se non pressoché impossibile, ogni riconciliazione. Esse sono nate dall’orgoglio e da gravi negligenze pastorali a cui si è posto rimedio drasticamente attraverso elaborazioni dottrinali cristallizzate poi in dogmi, insuperabili. Questi sono paletti che se da un lato hanno il pregio di definire la verità e salvaguardare la retta dottrina della fede, dall’altro dividono e rendono molto difficile ogni dialogo e ogni riconciliazione.

Il v.15 si apre con un verbo all’imperativo esortativo: “spùdason”, che viene tradotto con “sforzati”. Il significato del testo greco è molto più incisivo e coinvolge l’intera persona, interpellandola nella profondità del proprio essere. Esso dice: “darsi da fare, occuparsi seriamente di qualcosa, essere premuroso, zelante; darsi pensiero, prendersi cura, adoperarsi per qualcosa”. Non si tratta, quindi, di fare un semplice sforzo di volontà, ma di prendersi cura e di adoperarsi con tutto se stesso per essere sempre beneaccetto a Dio. Viene, pertanto, chiesto a Timoteo di assumere uno stile di vita che lo renda “idoneo di stare davanti a Dio”, poiché è proprio questo stile di vita, gradito a Dio, che lo qualifica come vero testimone presso la comunità. La testimonianza, quindi, ha radici profonde e nasce dal cuore stesso del credente e deve essere continuamente alimentata con la Parola e la preghiera, perché dalla vita del credente traspaia l’impronta di Dio.

La conseguenza di questo impegno di vita per la testimonianza, cioè per rendere visibile al mondo la presenza delle realtà divine che dimorano nel credente, è il conformarsi ad un determinato standard di vita che dia visibilità e spazio a Dio: “Fuggi le passioni giovanili”, cioè quell’irruenza tutta giovanile che porta a comportamenti sconvenienti, quali “le discussioni sciocche e non educative, sapendo che generano contese” (v.23), evitando in tal modo “le chiacchiere profane, perché esse tendono a far crescere sempre più nell'empietà” (v.16). Proprio perché Dio è per sua natura Amore (1Gv 4,8.16) si muove attraverso le logiche della sua stessa natura; per questo Timoteo viene sollecitato a cercare “la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro” (v.22) e per questo gli viene presentato il modello del vero buon pastore: “Un servo del Signore non dev'essere litigioso, ma mite con tutti, atto a insegnare, paziente nelle offese subite, dolce nel riprendere gli oppositori, nella speranza che Dio voglia loro concedere di convertirsi, perché riconoscano la verità e ritornino in sé sfuggendo al laccio del diavolo, che li ha presi nella rete perché facessero la sua volontà” (vv 24-26). Tutti questi solleciti hanno un comune denominatore: mettere la propria vita in sintonia con le esigenze di Dio così che da essa traspaia la bontà divina che si offre all’uomo e lo chiama alla conversione.

Su queste logiche si muove l’autore della Lettera agli Efesini, richiamando la turbolenta comunità di Timoteo ad uno stile di vita conforme alle nuove realtà che vivono in essa: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell'ignoranza che è in loro, e per la durezza del loro cuore. Diventati così insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile. Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. Nell'ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo. Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,17-32). Similmente gli fa eco la Lettera ai Colossesi: “Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l'ira di Dio su coloro che disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti.

12Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e eletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione” (Col 3,5-14).

Ce n’è a sufficienza per capire come la vera testimonianza richieda uno stile di vita nuovo, perché nuove sono le realtà che sono state trasfuse e incardinate nel credente, chiamato a lasciar trasparire proprio dalla sua vita il nuovo mondo che Dio è venuto ad inaugurare nel suo Cristo. Questa testimonianza dice come Dio si è reso presente in mezzo agli uomini. Nessuna testimonianza, tuttavia, è possibile se il credente non si lascia plasmare dalla Parola di Dio, perché testimoniare significa manifestare quel Dio che è in noi; un Dio che si è fatto dono nel Figlio (Gv 3,16); un dono che continua ancor oggi per mezzo nostro.

vv. 19-21: questi versetti posti al centro di due passi tra loro paralleli e complementari (14-18 e 22-26) costituiscono la motivazione di fondo della testimonianza: essa si incardina all’interno della comunità credente, che non è una semplice associazione di persone riunite tra loro nell’unica fede, ma essa costituisce il fondamento stesso che Dio ha posto in mezzo agli uomini, luogo della dimora divina, attraverso la quale Dio perpetua nel tempo la sua azione salvifica, che risuona nel mondo proprio attraverso la testimonianza della comunità. La comunità credente, pertanto, è stabile azione di Dio in mezzo agli uomini e porta in se stessa il suo sigillo, che dice appartenenza al Signore, anche se al suo interno vi sono delle defezioni o deviazioni.

Per comprendere in cosa consista questo sigillo bisogna rifarsi alle due citazioni giustapposte l’una accanto all’altra nel v.19. Esse sono state tratte liberamente da Nm 16,5, la prima e da Nm 16,2684 la seconda e sono accostate tra loro per evidenziare come, attraverso lo Spirito santificatore, Dio rende suoi e li riconosce come tali tutti i credenti (prima citazione); di conseguenza il credente, santificato in Cristo per mezzo dello Spirito infuso in lui dal battesimo, deve dar la sua risposta esistenziale (seconda citazione). All’iniziativa santificatrice di Dio, che attrae in sé ogni credente, deve corrispondere un adeguato stile di vita da persona santificata. È proprio in questo gioco di “dono divino e risposta esistenziale” che si qualifica la vera comunità credente e i suoi appartenenti. Questo è il sigillo che la rende riconoscibile al mondo come appartenente a Dio. Ed è proprio in questo gioco di dono-risposta che vanno letti anche i due passi sopra citati di Ef 4,17-32 e Col 3,5-14.

La variegata situazione all’interno della comunità, composta da credenti fedeli e deviati, viene ripresa nel v.20 dalla metafora di vasi, che Paolo deve aver preso da Rm 9,21: “In una casa grande però non vi sono soltanto vasi d'oro e d'argento, ma anche di legno e di coccio; alcuni sono destinati ad usi nobili, altri per usi più spregevoli”. In altre parole, nella Chiesa vi è un po’ di tutto: vi sono dei cristiani eccellenti (vasi d’oro), quelli un po’ tiepidi (vasi d’argento) e quelli che proprio sono spiritualmente freddi e deviati (vasi di legno e di coccio). Tutti però sono nella Chiesa (la casa) e appartengono a Dio (vasi), ma in vario modo: infatti “Chi si manterrà puro astenendosi da tali cose, sarà un vaso nobile, santificato, utile al padrone, pronto per ogni opera buona” (v.21). Soltanto, quindi, chi si mantiene nella retta dottrina e all’interno del buon deposito della fede (2Tm 1,14) può considerarsi un vaso nobile, santificato, cioè appartenente a Dio e per ciò stesso capace di vera testimonianza, attraverso la quale Dio si rende ancora visibile al mondo e ancora si fa dono all’uomo. Gli altri, i vasi di legno e di coccio, devono diventare oggetto di attenzioni particolari da parte di Timoteo perché “ritornino in sé sfuggendo al laccio del diavolo, che li ha presi nella rete perché facessero la sua volontà” (2,26).


Capitolo Terzo

Premessa

Le deviazioni e le defezioni dalla retta dottrina, provocate dai giudeocristiani giudaizzanti85 all’interno della comunità di Efeso, sedicenti maestri, sapienti e dottori della Legge (1Tm 1,6-7), sono lette qui da Paolo in una prospettiva escatologica, caratterizzata dallo scatenarsi delle forze del male, che perseguitano coloro che si mantengono fedeli a Cristo (3,12). L’impegno che Timoteo deve affrontare nel combattere questi eretici, pertanto, si colloca all’interno di questa cornice escatologica. Si tratta, quindi, di una battaglia in cui le forze del bene si confrontano con quelle del male, il cui destino è però segnato e senza speranza di vittoria (3,13; 4,1).

Il cap. 3 sviluppa il tema escatologico dell’impegno cristiano secondo questa struttura parallela:

La chiave di lettura del cap.3


  1. v. 1: cornice introduttiva, che fornisce la chiave di lettura a quanto segue, collocato in un contesto escatologico;

I due comportamenti contrapposti: i malvagi (vv.2-9) e Timoteo (vv.10-12)

  1. vv. 2-9: viene illustrato il comportamento degli uomini malvagi, tra i quali vengono posti anche coloro che fanno del proselitismo ingannevole, deviando dalla retta via quanti sono deboli nella fede;

  2. vv. 10-12: al comportamento malvagio degli uomini e degli eretici viene contrapposto quello di Timoteo, fedele discepolo di Paolo, che gli si pone come modello di vero pastore;

Ripresa e completamento dei vv.2-9, che si completano nel v.13; i vv.10-12 in vv.14-26

  1. v. 13: vengono ripresi i vv. 2-9 e completati con la presentazione del triste destino riservato ai malvagi, agli ingannatori e ingannati: finiranno molto male;

  2. vv. 14-16: riprendono, completandoli, i vv. 10-12: esortazione a Timoteo a rimanere saldo nella fede che gli è stata trasmessa fin dall’infanzia, sollecitandolo a tenere davanti a sé le Scritture, quale parametro di raffronto del retto vivere.

Vedremo, poi, come il discorso escatologico del cap. 3 troverà la sua conclusione nel cap. 4,1-5. L’aggancio sarà dato da 4,1 in cui si parlerà di giudizio finale.


Il commento


vv. 1-9: questa pericope si snoda in due momenti: il primo (vv.1-5), seguendo il pensiero apocalittico ed escatologico giudaico, presenta lo scatenarsi della malvagità degli uomini che caratterizzerà gli ultimi tempi. Esso costituisce la premessa giustificativa entro cui verrà collocato il secondo momento, che deve essere pertanto letto alla luce del primo. Questo secondo momento (vv.6-9) descrive coloro che agitano la comunità di Efeso e cercano i loro proseliti presso quelle persone più deboli nella fede, che Paolo ironicamente definisce: “donnicciole cariche di peccati, mosse da passioni di ogni genere, che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità” (vv.6b-7), cioè persone di poco conto e di scarsa levatura culturale e spirituale. Un’ironia che si riversa contro gli stessi giudaizzanti, che con queste persone hanno a che fare. Questi sedicenti dottori e maestri sono di fatto associati alla malvagità degli ultimi tempi e ne sono una sua manifestazione. Il clima, quindi, che si respira è quella da fine dei tempi dove le forze del bene si scontrano con quelle del male. La battaglia che Timoteo è chiamato a sostenere contro queste persone dottrinalmente deviate è inserita entro questo quadro escatologico.

Gli ultimi tempi sono caratterizzati da uomini malvagi e depravati che Paolo definisce con diciotto espressioni che occupano ben quattro versetti (vv. 2-5). Significativo è in questo contesto il numero diciotto, dato da 6 x 3, in cui il sei esprime l’imperfezione dell’uomo, il male, mentre il tre simboleggia la perfezione. Combinati assieme avremo che il diciotto è la perfezione dell’imperfezione, la perfezione del male, che si traduce in una pienezza della malvagità, che in questi tempi raggiunge il suo culmine86.

I vv. 6-9 descrivono probabilmente quanto avveniva all’interno della comunità efesina: i sedicenti maestri e dottori, esperti della Legge mosaica, convertiti al cristianesimo, non si decidevano di abbandonare il giudaismo e leggevano l’evento Cristo attraverso le imposizioni mosaiche, subordinando di fatto Cristo a Mosè. Questi personaggi, che cercavano di fare dei proseliti all’interno della comunità credente, creavano scompiglio e minavano la tranquillità della fede cristiana e l’unità della stessa comunità. Di questi Paolo dice due cose: a) con il v.6a li associa alla perversione e alla malvagità degli ultimi tempi: “Al loro numero appartengono certi tali”, cioè al numero dei malvagi, la cui perversione è stata descritta nei vv. 2-5; b) essi sono definiti come frequentatori di donnette di poco conto, che cercano di farsele discepole. In tal modo svilisce non solo la loro persona, associandola di fatto a queste donnette,come dire “loro sono come queste”, ma anche la loro azione di proselitismo.

vv.10-12: Il v.10 si apre con una contrapposizione: “Tu, invece”. Essa dà il tono all’intera pericope e, definendo il comportamento retto di Timoteo, che ha avuto come maestro Paolo, lo contrappone alla pericope precedente, popolata, invece, di malvagi ed eretici (vv.1-9).

La contrapposizione (Timoteo - giudaizzanti) segue la logica propria dell’escatologia, che vede negli ultimi tempi il contrapporsi del bene al male in una dura lotta senza esclusione di colpi, ma che terminerà con l’inevitabile vittoria finale del Bene sul male, anche se questo può momentaneamente prevalere. Timoteo, suggerisce Paolo, deve muoversi entro questa logica di battaglia finale.

Timoteo, infatti, non è seguace di questi malvagi, bensì discepolo di Paolo, da cui non solo ha appreso la fede e l’insegnamento, ma fu anche testimone delle sue sofferenze, che egli ha patito per il Vangelo. In realtà tutto il v.10 mette in rilievo non tanto Timoteo, quanto la figura di Paolo da cui Timoteo, invece, ha attinto pienamente e dipende in tutto, per questo Paolo lo definisce più volte figlio87: “Tu invece mi hai seguito da vicino nell'insegnamento, nella condotta, nei propositi, nella fede, nella magnanimità, nell'amore del prossimo, nella pazienza, nelle persecuzioni, nelle sofferenze, come quelle che incontrai ad Antiochia, a Icònio e a Listri. Tu sai bene quali persecuzioni ho sofferto. Eppure il Signore mi ha liberato da tutte” (vv.10-11). È proprio questa stretta dipendenza di Timoteo da Paolo e la sua pedissequa sequela che fa di Timoteo una sorta di immagine di Paolo e suo stretto collaboratore. È proprio questa stretta identità tra i due che spinge Paolo a chiamare Timoteo come “mio diletto figlio e fedele nel Signore” (1Cor 4,17; 2Tm 1,2), “fratello” (2Cor 1,1; Col 1,1; Fm 1,1; Eb 13,23), “servo di Gesù Cristo” (Fil 1,1), “nostro fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo” (1Ts 3,2), “mio vero figlio nella fede” (1Tm 1,2), “figlio mio Timoteo” (1Tm 1,18).

Timoteo, quindi, non appartiene al mondo della perversione, ma a quello di Dio. Per questo motivo egli deve dare il meglio di sé in questa lotta escatologica contro il male, impersonato dagli agitatori e dai dissidenti, associati alla perversione finale, soggetta al giudizio divino.

La riflessione si chiude con il v.12 che si richiama ad una regola generale già nota agli stessi evangelisti, che ne hanno fatto una beatitudine: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi” (Mt 5,11-12). La persecuzione a causa di Cristo trova la sua origine in Cristo stesso, che avverte i suoi discepoli: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me” (Gv 15,18); di conseguenza, continua Gesù: “Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Gv 15,20). Il parallelismo tra maestro e discepolo lascia intuire come nel discepolo continui in qualche modo a vivere il maestro e come questo abbia associato a sé il proprio discepolo, quasi a farne un altro se stesso, una sorta di dilatazione di se stesso nel tempo e nello spazio. L’identità tra discepolo e maestro viene espresso magistralmente da Paolo nella sua lettera ai Galati: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Nel rapporto tra credente e Cristo, pertanto, vi è un’associazione tale che sfocia in una vera e propria assimilazione a Cristo, così da fare dei due una cosa sola. La persecuzione, pertanto, diventa per il vero credente un po’ come una cartina di tornasole della sua vera identità e della sua reale capacità di testimonianza: se il mondo lo odia significa che ha capito che in lui vivono delle realtà che lo condannano: per questo il cristiano è respinto; infatti: “Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15,19). Essere cristiani, in ultima analisi, significa vivere nel mondo senza però appartenergli; per questo il credente è come una sorta di corpo estraneo, che tende ad essere espulso88.

vv. 13-16: questi versetti possono essere considerati come di transizione, sia perché da un lato riprendono i vv.3,2-12, portandoli a conclusione89; sia perché anticipano i vv. 4,1-5. Il v.13 infatti conclude il lungo discorso sui malvagi e ne prevede il triste destino: “i malvagi e gli impostori90 andranno sempre di male in peggio, ingannatori e ingannati nello stesso tempo”. Con il termine “malvagi” l’autore si riferisce a quelli descritti nella pericope 3,2-5; mentre con “impostori” si richiama ai giudeocristiani giudaizzanti dei vv. 3,6-9. “Malvagi ed impostori” sono tra loro accomunati nel rispetto della logica introdotta dal v. 3,6a: “Al loro numero appartengo certi tali …”. Questi “andranno sempre di male in peggio”; il testo greco dice questi “progrediranno verso il peggio”. Il significato del verbo e il suo tempo al futuro dicono l’evolversi e l’incancrenirsi del male, che toglie a questi malvagi ogni speranza e ne fanno oggetto della condanna eterna nel giudizio divino, che in qualche modo viene richiamato in 4,1. Alla stessa stregua sono posti gli ingannatori e gli ingannati. I verbi greci “planòntes” e “planòmenoi”, qui tradotti con ingannatori e ingannati, in realtà esprimono un significato più profondo che potremmo rendere con “coloro che traggono in errore” e “coloro che si lasciano trarre in errore”. Il participio presente “planòntes” indica un’azione costante che si svolge ora, qui nel presente, e ne dice tutta l’insidiosità; mentre “planòmenoi” è posto al participio presente medio passivo ed indica un’azione che è si subita, ma nel contempo consenziente. Per questo chi induce in errore e chi si lascia condurre nell’errore hanno la medesima responsabilità; per questo essi sono associati tra loro e accomunati alla malvagità escatologica. È necessaria quindi un’attenta vigilanza sostanziata dalla preghiera e, ancor più, dalla presenza della Parola di Dio nella propria vita.

La centralità della Parola di Dio in questo contesto escatologico viene subito messa in rilievo dai vv. 15-16 immediatamente seguenti: “… fin dall'infanzia conosci le Sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona”. La Scrittura, pertanto, indica la strada da percorrere per raggiungere quella salvezza che è stata attua in Cristo e dalla quale ogni credente può attingere attraverso la fede. Questa va intesa non tanto come una semplice azione intellettuale del credere in qualcosa, ma come apertura e accoglienza esistenziali delle esigenze di Dio, rivelate in Cristo e codificate nella Bibbia (Scritture). Essa deve essere posta al centro della propria vita e costituire il parametro di raffronto costante del proprio vivere. Paolo, nella sua Lettera ai Filippesi, esclamava: “Per me infatti vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). È un’espressione molto forte che esprime la perfetta identificazione di Paolo con Cristo, che ne permeava totalmente ogni espressione esistenziale. Per Paolo Cristo era diventato la sua forma mentis, il suo modo di pensare e di essere, che manifesta il processo di cristificazione che era avvenuto in lui. Quanto è avvenuto in Paolo è altrettanto accaduto, per mezzo della fede e del battesimo, ad ogni credente, che tuttavia necessita di conformare la propria vita a quel Cristo che vive in lui. Ciò che permette questa conformazione è soltanto la Parola di Dio, che rivela quelle realtà spirituali di cui si è permeati in virtù del battesimo stesso. Ma spesso la nostra fede è un fatto meramente intellettuale ed ereditario proprio per l’ignoranza delle Scritture. Un simile cristianesimo è destinato a rinsecchire e a morire, venendo ridotto ad una mera esecuzione incomprensibile di pratiche cristiane, che ci rendono incapaci di dare la vera testimonianza del Vangelo in un’epoca di triste e ingannevole relativismo, che ci fa credere che è sufficiente essere buoni e credere in qualcosa per ottenere la salvezza, dimenticando che Cristo si è posto di fronte al mondo non come una delle tante vie per raggiungerla, bensì come l’unica ed esclusiva via: “"Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6).

Ecco, pertanto, l’esortazione rivolta a Timoteo: “Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l'hai appreso” (v.14). L’espressione è scandita in quattro momenti strettamente legati tra loro, segnati dalla presenza di altrettanti verbi, che per loro natura indicano il compiersi di precise azioni. Il v.14 pertanto racchiude in sé l’intera dinamica della testimonianza. Il sollecito è di “rimanere saldo”, cioè di fondare e radicare il proprio vivere in ciò di cui Timoteo ha imparato ed è convinto. Due verbi posti l’uno accanto all’altro e che indicano una consecutività di azione: dapprima c’è l’imparare, che implica in sé il concetto di trasmissione della fede. Nessuno, infatti, impara se non c’è qualcuno che trasmette l’oggetto dell’apprendimento. Il qualcuno a cui Paolo fa riferimento (3,14b) sono tre personaggi che sono stati fondamentali nella formazione cristiana di Timoteo: la nonna Loìde, la madre Eunice (1Tm 1,5) e Paolo stesso (1Tm 3,10-11). La formazione dottrinale e teologica ricevute da queste persone costituiscono il buon deposito della fede91 sul quale Timoteo è sollecitato a fondare saldamente la propria vita.

Molto più significativo è il verbo “di cui tu sei convinto”. Esso infatti implica un passaggio fondamentale: il buon deposito della fede ricevuto dalla nonna, dalla madre e da Paolo non deve rimanere un semplice apprendimento intellettuale, ma passare nella vita. In altri termini, la fede ricevuta deve permeare la vita di Timoteo e trasparire nella sua quotidianità. Soltanto a tal punto il cammino della fede può dirsi completo, diventando un pieno evento testimoniale.

Capitolo Quarto


Premessa

Il capitolo forma la conclusione della lettera e strutturalmente si suddivide in tre parti:


  1. vv. 1-5: questa pericope costituisce una sorta di eco complementare del cap. 3. Siamo ancora, infatti, in un contesto escatologico. Il cap. 4 si apre con un richiamo a “Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti”, mentre i vv. 3-4 si richiamano a situazioni che la chiesa primitiva considerava come segni escatologici92, cioè l’avvento di falsi profeti e il facile seguito che questi avrebbero avuto. Di conseguenza, la necessità di una decisa testimonianza e di un fermo annuncio del Vangelo.

  1. vv. 6-8: forniscono il contesto storico entro il quale è stata scritta la lettera. Essi presentano un Paolo giunto ormai alla fine della sua vita, in attesa dell’esecuzione. Di conseguenza lo scritto assume il significato di una sorta di testamento spirituale.

  1. vv. 9-22: conclusione e saluti, ultime disposizioni. Questa pericope costituisce un problema poiché contrasta nettamente con i vv. 6-8 che la precedono. In questi, infatti, si vede un Paolo giunto alla fine dei suoi giorni, mentre i versetti successivi presentano un Paolo ancora in piena attività e liberato dal carcere. Vedremo, quindi, alcune ipotesi su questa incongruenza.


Commento

vv. 1-5: la struttura di questa pericope presenta uno schema parallelo e si sviluppa nel seguente modo:

  1. v. 1: si apre con uno scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo, colto qui nella sua veste escatologica di giudice universale, agganciandosi in tal modo, tematicamente, al cap.3. Essi sono chiamati quali testimoni delle parole (vv. 2-5) che Paolo rivolge a Timoteo, rivestendole in tal modo di una gravità solenne. Il v.1, pertanto, funge da introduzione ai vv. 2-5. Tale scongiuro, che colloca Paolo e Timoteo alla presenza divina, ha anche un ulteriore aggancio che si lega alla manifestazione di Gesù Cristo e la costituzione finale del suo regno: “per la sua manifestazione e il suo regno”. Lo scongiurare pertanto ha come fondamento l’intera opera salvifica, su cui si basa ogni pastoralità: il progetto salvifico, pensato fin dall’eternità dal Padre (Dio), trova il suo adempimento in Cristo Gesù, costituito dal Padre centro vitale della nuova creazione, il quale viene e verrà nella sua manifestazione al mondo, dapprima per mezzo dei credenti, raccolti nella Chiesa, poi in quella gloriosa del suo ritorno finale, in cui instaurerà definitivamente il suo regno, riconducendo l’umanità e l’intera creazione in seno al Padre, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti, com’era nei primordi della creazione e dell’umanità93

  1. v. 2: contiene un’intensa esortazione caratterizzata da un elenco di cinque verbi: “annuncia, insisti, ammonisci, rimprovera, esorta”, che dànno l’idea della dinamicità e della forza di questo versetto, che trova il suo completamento in 4,5. La prevalenza dei verbi qui gravita intorno al dire, cioè sulla parola quale strumento primario della pastorale.

  1. vv. 3-4: questi versetti si riagganciano tematicamente al cap.3 e si collocano anch’essi in una cornice escatologica. La loro posizione centrale (B, C, B’) indica non soltanto la centralità del tema, che costituisce il motivo profondo delle tre lettere pastorali, da cui dipende ogni esortazione, ma anche come i vv. 2 e 5 siano in loro funzione., cioè come il ministero pastorale di Timoteo deve convergere verso le deviazioni dottrinali che minano la fede e l’unità stessa della comunità. Il problema delle insidie alla retta dottrina ha sempre turbato la chiesa delle origini, chiamata quotidianamente a confrontarsi con la religione ebraica, ma soprattutto con il pensiero greco e, man mano che il cristianesimo si espandeva, con sempre nuove culture, che tendevano a distorcere la Verità originaria, che Paolo chiama la “sana dottrina”94 o il “buon deposito” della fede (2Tm 1,14).

  2. v. 5: questo versetto riprende e completa il v. 2 ed è composto da quattro verbi, che ne esprimono tutto il dinamismo pastorale: vigilare, saper sopportare, compiere l’opera, adempiere il ministero. Se i primi cinque verbi del v. 2 sono incentrati, come si è visto, tutti sull’annuncio e sull’ammonizione, quindi sulla parola, questi ultimi quattro del v. 5 vertono, invece, sulla vigilanza e sull’adempimento, anche sofferente, del proprio ministero e, quindi, sul fare pastorale. I vv. 2 e 5, pertanto, abbracciano nel loro insieme l’azione pastorale nella sua interezza, spesa per contenere l’azione nefasta delle distorsioni della retta dottrina.


vv. 6-8: questa breve pericope costituisce un elemento importante per collocare storicamente la 2Tm e fornisce una sorta di chiave di comprensione della stessa. Paolo si trova prigioniero a Roma (1,17) e deve aver già subito la sentenza definitiva, che lo condanna alla pena capitale. Ciò che gli preme quindi è lasciare delle indicazioni imperative a Timoteo, che vede come una sorta di suo prolungamento, considerati il particolare rapporto apostolico e il vincolo d’affetto che lo legano a sé (3,10-11)95. In questa prospettiva la lettera (2Tm) è da considerarsi l’ultima, una sorta di testamento spirituale96, in particolar modo gli ultimi versetti (vv. 4,1-5), che formano una sorta di vademecum del buon pastore. Il v. 6, infatti, si apre con la particella “gar” (infatti) che aggancia i vv. 6-8 al testo immediatamente precedente: “Io infatti già mi offro in sacrificio, e il tempo della mia morte97 si è imposto98”. La vita del pastore e dell’autentico testimone è qui colta da Paolo come un sacrificio gradito a Dio, un’offerta della propria vita, che diviene una sorta di celebrazione liturgica99. Tale atteggiamento esistenziale di fondo richiama da vicino quanto l’Apostolo andava scrivendo nella sua Lettera ai Romani: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Paolo, dunque, celebra il suo impegno apostolico e la sua testimonianza del Risorto come una liturgia di lode a Dio e la sua morte come un sacrificio, che lo associa alla stessa morte redentiva di Cristo (Gal 2,20). Non a caso, infatti, il verbo dell’offerta sacrificale (spéndomaispšndomai) è posto al presente, quasi ad indicarne una costante offerta, che si attua in ogni momento. La vita per Paolo è, quindi, concepita come un unico atto cultuale che trova il suo vertice nello spargimento del sangue, di cui egli è la vittima sacrificale. Tutta la sua esistenza, infatti, è stata vissuta nei termini di offerta a Dio, per il quale ha sofferto ogni duro patimento (2Cor 6,4-5; 11,23-28).

Il v.7 è una sorta di consuntivo che Paolo fa della propria vita ed è scandito in tre momenti: il ricordo del suo impegno missionario, interpretato come una battaglia per la fede; la coscienza di essere giunto ormai alla fine della corsa e la consolante constatazione di aver conservato la fede nonostante il duro travaglio e le dure lotte.

Il v.8 proietta Paolo nel futuro di Dio: “Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno”. È il giorno non della sua morte, ma del suo trionfo in cui egli si vede incoronato da quel Signore che egli ha servito con fedeltà e piena dedizione per tutta la sua vita.

Le immagini di questa breve pericope (vv.6-8), quelle della lotta, della corsa e della corona di alloro sono tratte dal mondo greco - ellenista dei giochi olimpici100. In questo contesto, tuttavia, l’immagine della corona di alloro viene stemperata in una prospettiva più spirituale che si muove su di uno sfondo escatologico (“il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno” v.8a) e viene definita “corona di giustizia”, che, da un lato, celebra la fedeltà di Paolo, che al termine del duro combattimento e della corsa ha saputo conservare la fede (v.7) e, dall’altro, diventa la ricompensa divina al suo impegno per il Vangelo.

Il v.8b conclude la breve pericope estendendo la gloriosa e trionfale ricompensa divina, riservata a Paolo, a tutti i credenti: “e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione”. La vita cristiana è quindi percepita da Paolo come un’attesa della venuta finale di Cristo. Nel suo significato etimologico il termine attesa deriva dal latino “ad tendere” che significa essere tesi verso. Si allude, quindi, all’orientamento esistenziale del credente verso Cristo, la cui presenza deve già fin d’ora manifestarsi nel modo di vivere, nell’attesa della sua manifestazione finale e definitiva. Questo senso profondamente escatologico del vivere cristiano viene evidenziato anche nella celebrazione eucaristica, in cui il credente viene associato al sacrificio di Cristo. Al “Mistero della fede”, che il celebrante proclama a conclusione della consacrazione, l’assemblea liturgica proclama solennemente: “Annunciamo Signore la tua morte, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta”. Un’attestazione che esplicita il senso di quel “mistero della fede”, che fa di tutta la vita cristiana una celebrazione eucaristica, associata al mistero della morte e risurrezione di Cristo (Gal 2,20; Rm 6,5). Tale mistero fa muovere la vita del credente su di uno sfondo pasquale: un continuo passaggio dalla morte dell’uomo vecchio, crocifisso con Cristo (Rm 6,6; Gal 5,24), ad una vita nuova in cui siamo costituiti nuove creature in Cristo (2Cor 5,17). Per questo il nostro vivere deve essere rivolto verso l’alto, da dove viene la nostra salvezza (Col 3,1-3). Il vivere del credente pertanto è un vivere escatologico, teso tra un già e un non ancora, che va tuttavia verso il suo pieno compimento.


Ultime disposizioni e saluti finali


vv. 9-22: questa sezione si presenta molto complessa, poiché possiede nel suo interno una sostanziale contraddizione di fondo, che la rende incompatibile con il resto della lettera, mentre nel suo dispiegarsi letterario presenta un notevole disordine che cozza contro ogni logica. Lo stesso modo di procedere e gli argomenti contenuti in essa, tutti di ordine pratico, si discostano notevolmente da tutte le conclusioni proprie delle altre lettere attribuite, direttamente o indirettamente, a Paolo. Se da un lato essa si configura senza dubbio alcuno come la chiusura della lettera, dall’altro lascia molto perplessi se non sconcertati proprio per il suo modo di porsi.

Così come essa si presenta si può dividere in quattro parti:

  1. vv. 9-13: Paolo si rivolge direttamente a Timoteo e, dopo essersi lamentato per l’abbandono da parte di tutti, lo esorta a raggiungerlo subito e gli impartisce alcune disposizioni di ordine pratico: gli chiede di portare con sé Marco, perché lo aiuti nel suo ministero apostolico; di portargli il mantello, che si era dimenticato presso Carpo in Troade; e, infine di portargli sia i libri che le pergamene, che probabilmente aveva lasciato sempre presso Carpo;

  2. vv. 14-15: sollecita Timoteo a guardarsi da un certo Alessandro, che lo aveva ostacolato nella sua predicazione e gli fu causa di non pochi guai;

  3. vv. 16-18: si lamenta con Timoteo che nella sua prima difesa in tribunale era rimasto senza sostegno alcuno, perché tutti lo avevano abbandonato. Egli, tuttavia, ha confidato nel Signore che lo ha liberato da ogni male;

  4. vv. 19-22: i saluti finali di prassi.

Già da questa prima sintetica esposizione si può rilevare come gli argomenti delle quattro pericopi, che compongono questa sezione conclusiva, siano tra loro molto eterogenei e giustapposti l’uno accanto all’altro senza ordine e legame alcuno, mentre per certi altri aspetti sono ripetitivi: il tema dell’abbandono e della solitudine risuona continuamente in tutte le prime tre pericopi e presentano un Paolo che continuamente si lamenta di tutto. Non c’è ordine né logica in quanto viene detto. Spesso, per spiegare tutto ciò si è fatto ricorso a motivi psicologici, di età nonché di stanchezza che gravavano su Paolo. Ma posizioni di questo tipo non sono, a nostro avviso, difendibili, poiché tutto ciò si sarebbe dovuto riscontrare anche nel resto della lettera, che invece risulta molto logica e ben strutturata anche da un punto di vista retorico. Altri ancora, invece, che non ritengono di Paolo le lettere pastorali, attribuiscono a movimenti maldestri dell’ignoto autore, mentre proprio queste dissonanze attestano il carattere fittizio delle Lettere101.

Vediamo ora le incongruenze che sono disseminate in questa sezione:

  1. Nei vv. 6-8 ci viene presentato un Paolo giunto ormai alla fine dei suoi giorni: la morte gli si impone senza via di scampo e davanti a lui non c’è più futuro (v.6) se non quello della vita eterna (v.8a). Fa inoltre una sorta di bilancio del suo passato, che ritiene molto positivo (v.7) e nel contempo spera che Dio gliene renda merito (v.8). Per Paolo è proprio finita. Mancano probabilmente soltanto pochi giorni alla sua esecuzione capitale, forse una o due settimane, non di più, considerando che egli dice che il suo sangue sta per essere sparso e sta per andarsene per sempre verso l’eternità (v.6). Un tempo, comunque, sufficientemente congruo per poter scrivere questa lettera, abbastanza elaborata. Tuttavia, a un passo dalla morte (quindici giorni circa), egli scrive a Timoteo, che si trovava ad Efeso (1Tm 1,3), perché lo venga a trovare. Il tempo di inviare la lettera a Timoteo (Roma - Efeso) e quello necessario a Timoteo per organizzare e compiere il viaggio per Roma, sarebbero stati tempi troppo lunghi: alcuni mesi.

  2. Una seconda incongruenza: Paolo chiede a Timoteo di portargli il mantello, i libri e le pergamene (v.13). Che cosa se ne faceva un condannato a morte, a due passi dall’esecuzione, di un mantello e dei libri che sarebbero giunti certamente dopo due o tre mesi dalla sua esecuzione?

  3. Terza incongruenza: Paolo chiede a Timoteo di venire insieme a Marco, che nei progetti dell’Apostolo doveva essergli di aiuto nel suo ministero (v.11b). Questa richiesta presuppone che Paolo veda davanti a sé un futuro di piena libertà, in cui può progettare i suoi impegni missionari, per i quali chiede l’aiuto di Marco. Non può essere questa una richiesta di un condannato a morte, la cui esecuzione è lì a due passi.

  4. Nel v.17b Paolo afferma: “… e così fui liberato dalla bocca del leone”. Qui sta parlando di un processo in cui fu abbandonato da tutti, ma che comunque gli è andato bene per l’aiuto ricevuto dal Signore, che invece non lo ha abbandonato. Situazione del tutto incongruente e contraddittoria con la condizione in cui si trova Paolo, che è stato invece condannato dal tribunale romano alla pena capitale. Quanto qui viene scritto, pertanto, non appartiene a 2Tm, ma ad un diverso contesto. Le evidenti contraddizioni non possono pertanto essere imputate ad azioni maldestre di autori ignoti e tanto meno essere assunte a prova della pseudonimia della lettera stessa. Pensare questo significa ritenere l’ipotetico ignoto autore uno sprovveduto, mentre l’accuratezza della lettera e la sua struttura dicono il contrario. Il disordine e le incongruenze riscontrabili nella sezione 4,9-22 sono dovuti, a nostro avviso, alla forzatura conseguente all’inserimento di un biglietto appartenente ad un contesto completamente diverso, anzi opposto a 2Tm. L’ignoto autore dell’inserimento probabilmente ha cercato di renderlo in qualche modo compatibile, smembrando il biglietto stesso con risultati comprensibilmente modesti.

L’ipotesi più logica, a nostro avviso, è che questa sezione (4,9-22) abbia subito un profondo rimaneggiamento a seguito di una interpolazione con un biglietto che Paolo deve aver mandato a Timoteo antecedentemente a questa lettera, databile nel 63 d.C. , ma sempre nel contesto della sua prigionia Cesarea Marittima - Roma (58-63 d.C.). Egli deve aver subito un primo processo, finito bene, a seguito del quale invia il biglietto, che poi, in un secondo momento, probabilmente nel II sec. d.C., epoca della formazione del canone cristiano, è stato inserito all’interno della 2Tm, sia perché non andasse perduto e sia perché, in qualche modo, era connesso con le identiche vicende. Abbiamo, pertanto, cercato di dare un ordine logico e congruente all’intero testo di 4,6-22, separando quello che secondo noi doveva essere il testo originale della Lettera dal biglietto successivamente interpolato.


Testo della conclusione della lettera (come doveva essere)

[6]Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele.

[7]Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.

[8]Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.

[18]Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

[14] [Guardati da] Alessandro102, il ramaio, mi ha procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue opere;

[15] (guàrdatene anche tu) infatti è stato un accanito avversario della nostra predicazione.

[19]Saluta Prisca e Aquila103 e la famiglia di Onesìforo.

[22b]La grazia sia con voi!


Il biglietto interpolato successivamente (probabilmente nel II sec.)

[Breve prescritto andato perduto]

[16]Nella mia (prima) difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro.

[10]Infatti Dema104 mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia105, Tito106 in Dalmazia107.

[20]Eràsto è rimasto a Corinto; Tròfimo l'ho lasciato ammalato a Milèto.

[17]Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone.

[9]Cerca di venire presto da me,

[11]Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero.

[12]Ho inviato Tìchico108 a Efeso109.

[13]Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade110 in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene.

[21a]Affrettati a venire prima dell'inverno.

[21b]Ti salutano Eubùlo, Pudènte, Lino, Claudia111 e tutti i fratelli.

[22a]Il Signore Gesù sia con il tuo spirito.

Quanto qui sopra elaborato è chiaramente un tentativo di sistemazione della sezione 4,9-22, che ha tuttavia il pregio, a nostro avviso, di rispondere a molti interrogativi e di risolvere tutte le incongruenze.


Giovanni Lonardi



N O T E

1 Tale denominazione fu attribuita a queste lettere per la prima volta da D. N. Berdot nella sua opera “Exercitatio teologica-exegetica in epistulam S.Pauli ad Titum, Hallae1703. Il titolo venne ripreso da Paul Anton in una sua raccolta di conferenze tenute ad Halle tra il 1726 e 1727, benché già gli antichi scrittori avessero riconosciuto il carattere pastorale di queste lettere, indirizzate ai responsabili delle comunità di Efeso (Timoteo) e di Creta (Tito) per normarne la vita comunitaria. Cfr. R.Fabris in Le lettere di Paolo, Edizioni Borla, Roma 1990.

2 Cfr. 1Tm 1,17; 2,5-6a; 3,16; 6,15-16; 2Tm 1,9-11; 2,8.11-13; 3,15b; Tt 2,11-14; 3,4-7.

3 Cfr. 1Tm 1,3-4.6; 4,1-3; 6,20-21; 2Tm 2,16-18.20-21; 3,6-9; Tt 1,10-14; 3,9-11.

4 Cfr. 1Tm 1,7; Tt 1,10.

5 Cfr. 1Tm 3,1-13; 5,3-25; 6,1-2.17-19; Tt 1,5-9; 2,1-10; 3,1-2.

6 Cfr. 1Tm 2,1-2.8-15.

7 Oltre che a ricerche mie personali, mi sono servito per la presentazione della figura di Timoteo della Introduzione della Bibbia TOB, Ed. Elle Di Ci, Leumann (TO) 1992; e Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Ed. Piemme Spa, Casale Monferrato (AL), nuova edizione rivista e integrata, 2005.

8 Il corpus paulinum comprende 14 lettere di cui sette (1Ts, 1Cor, 2Cor, Fil; Gal, Rm e Fm) ritenute di Paolo, mentre le rimanenti (Col, Ef, 2Ts, 1Tm, 2Tm, Tt) sono attribuite al pensiero paolino. La lettera agli Ebrei, invece, è di autore sconosciuto e comunque non appartenente a nessuna delle due aree sopra menzionate.

9 L’attività missionaria di Paolo è scandita da tre viaggi che lo hanno portato attraverso tutta l’Asia minore (l’attuale Turchia) fino a raggiungere le coste sud-orientali della Grecia. Il primo viaggio, di cui si parla nei capp. 13,4-14,28 degli Atti degli Apostoli, è posto tra il 45 e il 48 d.C.; il secondo (At 15,36-18,22) si colloca tra il 49 e il 52; il terzo viaggio (At 18,23-21,15) venne compiuto da Paolo tra il 53 e il 58. A questi tre ufficiali potremmo aggiungere anche un quarto viaggio (At 27-28,16), tra il 60 e il 61, molto movimentato e periglioso, che lo porterà, come prigioniero, a Roma, in giudizio davanti all’imperatore, al quale si era appellato in qualità del suo status giuridico di civis romanus acquisito per nascita (At 22,25-28).

10 Non è chiaro se le due donne fossero di religione ebraica quando istruirono Timoteo, nel qual caso Timoteo crebbe nell’osservanza della Legge mosaica e venne successivamente convertito da Paolo; oppure fossero già convertite al cristianesimo, come sembra da At 16,1. Del resto proprio qui, in At 16,1, Timoteo viene definito “discepolo” un titolo che veniva dato, in origine, ai credenti. Questo fa pensare che quando Timoteo incontrò Paolo fosse già addentro al cristianesimo. In questa seconda ipotesi Timoteo ebbe fin dalla sua infanzia un’educazione cristiana perfezionata, poi, da Paolo (2Tm 3,10-11) . È molto più probabile questa seconda soluzione, considerato che Timoteo non fu sottoposto a circoncisione all’ottavo giorno dalla sua nascita come prescriveva la Torah (Gen 17,12; Lv 12,3), visto che Paolo, prima di prenderlo con sé, lo fa circoncidere per riguardo ai Giudei (At 16,2).

11 Va tenuto presente che nell’antichità il termine giovane si contrapponeva a quello di anziano. Molto raramente si parlava di età adulta. Pertanto quando si parla di “giovane” il termine va esteso anche all’area dell’età adulta.

12 Cfr. anche 1Tm 5,1 e 2Tm 2,22a.

13 Cfr. At 17,15; 18,5; 19,22; 20,4; 1Cor 4,17; 2Cor 1,19; Fil 2,19; 1Ts 3,2; .

14 Cfr. Rm 16,21; 2Cor 1,1.19; Fil 1,1; Col 1,1; 1Ts 1,1; 2Ts 1,1; Fm 1,1.

15 Il primo testo che attribuisce le Pastorali a Paolo è il Canone Muratoriano (170/180 d.C.) a cui si associa Ireneo di Lione nella sua prefazione all’opera Adversus haereses e i rappresentanti della Scuola alessandrina, Clemente ed Origene (III sec.), come pure lo stesso Eusebio da Cesare nella sua monumentale opera Historia Ecclesiastica. Questa convinzione rimase persistente fino agli inizi del XIX sec. quando Schmidt (1804), Schleiermacher (1807), Eichorn (1812) ed Holtzmann (1880) aprirono e consolidarono il fronte del dibattito sull’autenticità delle Pastorali. Per il tema cfr. R.Fabris, Le lettere di Paolo, op. cit.; Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

16 Stabilire l’autenticità partendo dal raffronto tra le lettere ritenute autentiche di Paolo significa soltanto rilevare le inevitabili differenze che le divide, ma non stabilirne la paolinità.

17 Vedi sopra: “La figura di Timoteo”.

18 Cfr. anche sopra “La figura di Timoteo”

19 Cfr. il titolo sotto “La finalità della lettera”.

20 Il pensiero di Paolo si ritrova in 1Tm 1,12-17; 2,1; 3,16;; 6,1-2; 2Tm 1,9; 2,10.25; 3,15; Tt 3,1.5.7; la metafora di Rm 9,21 si ritrova anche in 2Tm 2,20; il tono di Rm 12,6-21 si ritrova in 2Tm 2,22-26; l’espressione “secondo il mio vangelo” è presente sia in Rm 2,16 che in 2Tm 2,8b; così l’espressione “della stirpe di Davide” si ritrova in Rm 1,3 come in 2Tm 2,8a. Il tema di Rm 1,21-22 si ritrova in 2Tm 2,14. Il tema di 2Tm 2,11 si ritrova identico in Rm 6,8. L’esempio della gara atletica in 2Tm 2,5 richiama 1Cor 9,24-27, mentre quello dell’agricoltore che semina si rifà in qualche modo a 1Cor 1,3-6. L’espressione “in Cristo Gesù”, caratteristica di Paolo e tale da formarne quasi una firma di autentica, si ritrova 45 volte soltanto nelle sue Lettere. Di queste 45 volte 9 sono nelle Pastorali. Va comunque detto che questa espressione si ritrova anche al di fuori delle Lettere di Paolo soltanto una volta negli Atti degli Apostoli in 24,24. E’ tuttavia significativo come questa espressione negli Atti venga riferita proprio alla fede predicata da Paolo: “…lo ascoltava intorno alla fede in Cristo Gesù”.

21 Da questa analisi delle lettere di Paolo va esclusa la quella ai Galati, in cui i ringraziamenti vengono saltati tout-court a motivo della forte passionalità che la anima.

22 Cfr. A.A. , Lettere Paoline e Altre Lettere, Ed. Elle Di Ci, Leumann (TO) 1996 – Pag. 227

23 Per una più ampia trattazione sulla cronologia paolina cfr. il mio sito www.webalice.it/lonardi48 - Sezione Teologica - Introduzione Scritti Paolini

24 Gli Atti degli Apostoli e gli scritti paolini sovente contengono dei riferimenti a personaggi storici, come il re Areta, Gallione proconsole dell’Acaia, Felice e Festo governatori della Palestina, che consentono di ancorare cronologicamente i movimenti di Paolo, le sue lettere e gli avvenimenti descritti negli Atti e nelle Lettere.

25 V. nota 9

26 Paolo scrive la lettera ai Romani nel 58 a Corinto, sulla strada di ritorno dal terzo viaggio. In questa lettera Paolo esprime il desiderio di visitare la comunità di Roma, non prima però di essere passato a consegnare la colletta alla chiesa madre di Gerusalemme (Rm 16,25-28). Teme tuttavia che la sua presenza a Gerusalemme scateni delle reazioni negative da parte dei Giudei, come poi di fatto successe (At 21,20-34). Teme inoltre le reazioni dei responsabili della comunità di Gerusalemme nei confronti della sua colletta. Accettare la colletta, che Paolo aveva raccolto presso le comunità cristiane provenienti dal paganesimo, significava per la Chiesa madre di Gerusalemme riconoscere e accogliere tra i credenti e i salvati anche il tanto odiato e temuto popolo dei Gentili.

27 Cfr. Rinaldo Fabris, Paolo l’apostolo delle genti, Ed. Paoline Editoriale Libri, Milano 1997 – Pagg. 470-482.

28 Lett. “fino alle catene”. Considerata la condizione di libertà vigilata in cui Paolo si trovava, l’espressione “fino alle catene” va presa, a mio avviso, in senso figurato, tant’è che subito afferma che “la parola di Dio non è incatenata”. Il termine greco desmòs, infatti, assume il significato oltre che di catena, fune, corda, anche quello di vincolo, legame in senso figurato. Paolo, quindi, nonostante le ristrettezze imposte alla sua libertà, può comunque svolgere in qualche modo ancora liberamente il suo ministero di annuncio. Se effettivamente fosse stato posto in catene e, quindi, imprigionato, certamente non avrebbe potuto svolgere nessuna attività apostolica.

29 In Rm 15,24.28b Paolo dà per certo il suo progetto di andare in Spagna passando da Roma. Di questo viaggio in Spagna si hanno soltanto testimonianze da parte della Lettera di Clemente ai Corinti (96 d.C.), la quale afferma soltanto che Paolo giunse al confine dell’Occidente, che si suppone essere la Spagna; da parte del Canone Muratoriano (170 d.C.) e dagli apocrifi Atti di Pietro (200 d.C.). Sommando il suo ipotetico viaggio in Spagna con l’attività missionaria testimoniataci dalle Lettere pastorali, Paolo dal 63 al 66/67 avrebbe dovuto da Roma andare in Spagna, svolgervi dell’attività apostolica, ritornare in Oriente e infine giungere nuovamente a Roma dove sarebbe stato arrestato una seconda volta. Un’attività decisamente intensa se pensiamo ai mezzi di trasporto dell’epoca e alla ormai avanzata età di Paolo, già duramente provato da quattro anni di detenzione. Molto più semplice pensare che Paolo, scaduti i due anni di detenzione romana, senza che sia intervenuto nessun processo, sia stato messo in libertà (Cfr. R. Fabris, Paolo l’apostolo delle genti, op. cit.). E’ più credibile pertanto pensare che dopo la sua messa in libertà Paolo rimase a Roma fino alla sua morte, avvenuta intorno al 66.

30 Le date della morte di Paolo proposte sono varie e vanno tutte dal 63 al 68 a seconda degli autori e dei loro calcoli. In realtà non abbiamo nessun documento certo, al di là di tradizioni, che ci indichi che Paolo sia morto a Roma martire, anche se ciò, come vedremo, è molto probabile o quantomeno verosimile.

31 Paolo infatti si lamenta di aver dovuto sostenere tutto da solo la propria difesa nella prima udienza. Segno che altre ce ne devono essere state successivamente, altrimenti non avrebbe specificato “Nella mia prima difesa in tribunale” (4,16)

32 Per due volte infatti nel giro di pochi versetti Paolo afferma con certezza che andrà in Spagna (Rm 15,24.28).

33 Questa interpretazione è possibile soltanto se i vv. 4,6-8 non sono presi alla lettera, ma soltanto come espressione di uno temporaneo stato di depressione. Qualora, invece, Paolo facesse effettivamente riferimento ad una sua fine imminente, allora il quadro storico e letterario cambierebbe completamente, nel modo in cui si è esposto nel commento al cap. 4. Questa seconda soluzione ci sembra la più attendibile.

34 In che cosa consistessero esattamente queste teorie devianti non è ben comprensibile. Si tratta probabilmente della esaltazione della Legge mosaica che in qualche modo veniva contrapposta all’azione salvifica di Gesù Cristo (1Tm 1,8-9.15-16); si vietava il matrimonio e si predicava l’astensione da alcuni cibi (1Tm 4,3); si enunciavano speculazioni, tutte giudaiche, sulle genealogie (1Tm 1,4) o si affermava che la risurrezione è già avvenuta (2Tm 2,14). Tutte cose queste che Paolo non esita a definire favole o chicchere profane e vane, roba da vecchierelle (1Tm 1,4; 6,20; 2Tm 2,16), mentre definisce i loro sostenitori e propagatori come dei vasi di legno o di coccio destinati ad usi spregevoli (2Tm 2,20) In queste teorie alcuni studiosi vedono un riferimento allo gnosticismo, un’eresia che s’impone intorno al II sec. d.C. la quale cosa farebbe pensare che le due lettere a Timoteo e quella di Tito non siano di Paolo, ma pseudoepigrafiche e poste sotto il falso nome di Paolo. In realtà non è possibile da questi pochi elementi attribuire allo gnosticismo queste teorie, riferibili prevalentemente al pensiero giudaico. In tal senso cfr. R.Fabris, Le Lettere di Paolo, Ed. Borla, Roma 1990 – Pag. 349, nota 1.

35 Doveva essere una caratteristica propria degli ebrei quella di sentirsi culturalmente e religiosamente superiori ai popoli pagani e di ergersi nei loro confronti come dei dotti maestri, se Paolo nella sua Lettera ai Romani stigmatizza ironicamente questo vizietto: “Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l'espressione della sapienza e della verità... ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso?” (Rm 2,17-21)

36 L’uso del termine “deposito”, che Paolo cita per tre volte soltanto in 1Tm 6,20; 2Tm 1,12.14, denota in modo significativo come, al tempo in cui Paolo scriveva questa seconda lettera (62 d.C.), all’interno delle prime comunità credenti si erano già formati e consolidati dei principi teologici e dottrinali che costituivano la base indiscutibile e distintiva della vera fede a cui esse si conformavano e in cui si riconoscevano. Significative in tal senso sono le formule di fede che ricorrono numerose nelle Lettere paoline. Esse testimoniano come già fin d’allora i nuovi credenti avevano elaborato delle comprensioni e delle convinzioni circa i contenuti del loro credere, che venivano condensati in formule anche per facilitarne la trasmissione. Tale deposito costituiva inoltre il contenuto della Tradizione cristiana, da cui ogni credente ha attinto e attinge continuamente a fondamento e sostentamento della propria fede e che è chiamato a tramandare fedelmente. Circa le formule di fede cfr. il mio sito www.webalice.it/lonardi48 , “Sezione esegetica” alla voce “Credo”.

37 Questo è il caso della Lettera agli Ebrei, che pur chiudendosi con dei saluti, manca del prescritto; o la Lettera di Giacomo che si apre con un prescritto, ma che tale in realtà non può essere definito per la sua genericità, ma manca totalmente di conclusione; similmente si può dire della Seconda Lettera di Pietro, che manca della parte conclusiva o delle prime due Lettere di Giovanni e di quella di Giuda.

38 La Galazia è una regione posta al centro nord dell’Asia minore, l’attuale Turchia.

39 In tutte le lettere attribuite a Paolo o quelle che a lui si ispirano (cfr. nota 8) Paolo si definisce come “apostolo”. Questa persistenza nell’attribuirsi il titolo di apostolo si muove su di uno sfondo polemico (2Cor 11,4-5.13-15.18-30) con quei giudeocristiani giudaizzanti i quali mal sopportavano la persona di Paolo che predicava un cristianesimo tutto incentrato su Cristo e che prescindeva totalmente dalla Legge, da Mosè ed apriva anche al mondo pagano. Gli si contestava che a) non aveva mai avuto contatti con il Gesù terreno; b) che non era stato testimone delle apparizioni di cui i Dodici invece avevano beneficiato e dalle quali essi avevano ricevuto il mandato e c) quindi non era stato inviato né da Cristo né dai Dodici. Paolo quindi non poteva fregiarsi di questo titolo così autorevole. Al contrario Paolo sosteneva che anche a lui è apparso il Cristo risorto alla stregua degli altri apostoli, anche se in tempi diversi (1Cor 15,5-10; 2Cor 2,1); che da lui ha ricevuto il mandato di annunciare il Vangelo ai Gentili (Rm 15,15-18; Gal 1,15-16; 2,8) e che il suo annuncio ha fondato nuove comunità credenti (1Cor 9,1-3) e che molti travagli egli ha sofferto per l’annuncio di Cristo (2Cor 11,24-28). Egli, inoltre, non si è mai messo contro i capi della chiesa di Gerusalemme, ma ha sempre cercato l’intesa e la comunione con la chiesa madre (Gal 1,18; 2,1-2.6-10), per la quale aveva organizzato una raccolta di fondi a favore dei suoi poveri, quale segno di comunione e solidarietà tra tutte le chiese, sia esse provenienti dal mondo pagano che da quello giudaico (Rm 15,25-27; 1Cor 16,1-3).

40 Il termine deriva dal verbo greco apostello che significa mandare, inviare.

41 La formula “Cristo Gesù” compare soltanto una volta negli Atti degli Apostoli (At 24,24) e ben 72 volte nelle sole lettere attribuite direttamente o indirettamente a Paolo, diventandone quasi un segno distintivo.

42 È molto probabile che qui Paolo avesse presente Is 49,1 e Ger 1,5.

43 Cfr. Rm 1,5.16; 15,18; Gal 2,16; 3,8a.

44 Cfr. Rm 6,8; 1Cor 6,17; Gal 2,20a; Col 2,12-13; 3,3; 1Ts 5,10; 2Tm 2,11.

45 Cfr. Rm 7,4; 14,8; 1Cor 6,19; 2Cor 10,7.

46 Saluti simili si trovano in Rm 1,7; 1Cor 1,3; 2Cor 1,2; Gal 1,3; Ef 1,2; Fil 1,2; Col 1,2; 1Ts 1,1; 2Ts 2,2; 1Tm 1,2; 1Tt 1,4; Fm 1,3.

47 Il termine Cristo è la traduzione letterale greca dell’ebraico mashiah, che significa “unto”, cioè persona consacrata a Dio e suo incaricato.

48 Cfr. Gv 3,15.16b; Rm 1,16; 3,28.30; 5,1

49 Nel giorno dell’Espiazione, attraverso un complesso rituale (Lv 16,1-34), venivano imposte le mani su di un capro nel mentre che il sacerdote confessava tutte le iniquità del popolo, trasferendole su quel capro (Lv 16,21-22). L’imposizione delle mani poteva anche assumere il significato di una trasmissione di poteri e di autorità, come avvenne tra Mosé e Giosuè (Nm 27,18-20) o come atto di consacrazione e di offerta a Dio dei Leviti dediti al culto (Nm 8,10-14). Nel N.T. attraverso l’imposizione delle mani si esprimeva la potenza taumaturgica di Gesù, una sorta di potenza divina che veniva da Gesù infusa nell’uomo risanandolo dalle sue infermità (Mt 8,3; 9,18; Lc 4,40); ma significativa è anche l’imposizione delle sue mani sui bambini unitamente alla preghiera, che assume il senso di una sorta di loro benedizione e consacrazione speciale a Dio (Mt 19,13). La Chiesa primitiva ha ripreso questa consuetudine dell’imposizione delle mani utilizzandola prevalentemente nell’ambito liturgico-sacramentale come nel battesimo, la cresima e per creare ministri a servizio della comunità. In tal senso cfr. il lemma “Imposizione delle mani” in Nuovo dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988.

50 Ippolito di Roma nacque in Asia nel 170 d.C. e morì martire in Sardegna nel 235. Teologo e scrittore cristiano, fu il primo antipapa della storia della Chiesa. Tuttavia prima della morte si riconciliò con papa Ponzianao assieme al quale subì il martirio. È venerato come santo sia dalla Chiesa Cattolica che da quella Ortodossa. Tra i suoi vari scritti si annovera anche la “Tradizione apostolica” che, assieme alla Didachè, forma la più antica documentazione sulla costituzione ecclesiastica dell’antichità. In essa sono contenuti i primi e rudimentali rituali per le ordinazioni del vescovo, presbiteri e diaconi, nonché della celebrazione eucaristica e del battesimo. Essa fu composta intorno all’anno 215 d.C. (Johannes Quasten, Patrologia, Vol. I , Ed. Marietti 1992 – Traduzione italiana del Dott. Nello Beghin.

51 Cfr.Franz-Josef Nocke, Dottrina dei Sacramenti, Ed. Queriniana, Brescia 2000.

52 Cfr. Rm 3,21-26; 5,10, 1Ts 5,9; 2Ts 2,13

53 Cfr. Rm 5,18-19; 1Tm 2,4.

54 Il termine “salvatore” attribuito a Gesù ricorre 12 volte nelle lettere del corpus paolinum, con esclusione della Lettera agli Ebrei, che è solo ospite di tale corpus, ma che non appartiene né direttamente né indirettamente a Paolo.

55 Nell’A.T. spesso il nome di Jhwh è sostituito con quello di “Santo” o “il Santo d’Israele”. In tal senso cfr. Sal 77,41;Sir 47,8; 48,20; Is 1,4; 12,6; 29,23; 30,11.12.15; Ger 50,29; Os 11,9; Ab 3,3.

56 Cfr Rm 5,10; 8,29.32; 1Cor 1,9; Gal 4,4-7; Ef 1,3-7.

57 Cfr. Rm 3,22.25.28.30; 5,1-2; 9,30; Gal 2,16; 3,11.24.26; Ef 2,8; Fil 3,9;

58 Cfr. Rm 6,4; Gal 3,27; Col 2,12; 1Pt 3,21.

59 Cfr. Rm 6,18-19.22; 7,6; 12,11; 14,8.

60 Benché tale lettera non sia attribuita direttamente a Paolo, vi è tuttavia convergenza nell’assegnarla alla scuola paolina.

61 L’autore della Lettera ai Colossesi vede la creazione attuata per mezzo della potente Parola del Padre, Gesù Cristo, verso il quale tende l’intera creazione stessa, che in lui trova il suo compimento: “… poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui.” (Col 1,16).

62 In tal senso cfr. il cap. II, §§ 9-12 della Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen Gentium

63 Cfr. il titolo “La struttura della Seconda Lettera a Timoteo” nella parte introduttiva sopra riportata.

64 Quando Paolo ha conosciuto Timoteo, questi era già addentro alla fede cristiana grazie alla nonna Lòide e alla madre Eunìce, che lo hanno istruito nelle Scritture fin dall’infanzia (2Tm 1,5; 3,15). È quindi probabile che Paolo quando chiama Timoteo “mio figlio nella fede” intenda il perfezionamento di questa fede che egli ha operato in Timoteo, che ha assunto presso di sé come suo fedele collaboratore.

65 Cfr. Gv 1,18; 5,19-20.36; 8,28.38; 10,32; 12,49-50; 14,10.

66 Il termine greco kerigma significa letteralmente “proclamazione o intimazione per mezzo di un araldo” inviato dal re per rendere note al popolo le sue volontà. Questo termine è usato nella chiesa primitiva per indicare la prima proclamazione, il primo annuncio del Vangelo da parte degli apostoli. Molti esempi di kerigma si possono trovare negli Atti degli Apostoli (Cfr. a titolo esemplificativo At. 2,16-36; 3,12-15). La predicazione è essenziale e verte sulla figura di Gesù, sulle sue opere e in particolare sulla sua morte e risurrezione e si conclude in genere con un invito alla conversione.

67 Cfr. R. Fabris, Le Lettere di Paolo, pag. 480 - op. cit.

68 Cfr. i richiami di nota 3.

69 Cfr. 1Tm 6,11.20-21; 2Tm 2,16.20-21.22-23; 3,5b.

70 Cfr. 2Tm 4,1-5.

71 Cfr. 1Tm 2,6,2b-3; 2Tm 1,13; 2,2.10-11.

72 Il tema dei diritti dell’apostolo circa il suo sostentamento posto a carico della comunità è trattato ampiamente da Paolo in 1Cor 9,1-23.

73 Il testo greco dice “katarghésantos mén tòn tzànaton” che letteralmente significa “che ha annullato, reso inefficace, vana la morte”, mentre nella sua forma passiva significa “sono liberato, sono sciolto dalla morte”.

74 Significativo infatti come tutti i vangeli e i testi neotestamentari parlino della risurrezione di Gesù e delle apparizioni del Risorto, ma nessuna testimonianza ci viene trasmessa circa il momento in cui Gesù è risorto. Questo per dire che la risurrezione è un evento che opera sul corpo storico di Gesù, ma non nasce dalla storia in quanto evento operato da Dio sulla storia. La sua origine è pertanto divina e in quanto tale sfugge all’esperienza dell’uomo e all’indagine della storia. In tal senso la Lettera ai Romani attesta che “riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,3-4).

75 Il verbo “soffiare” (gr. ™nefÚshsenenefusesen) si trova in tutta la Bibbia soltanto due volte (Gen. 2,7 e Gv 20,22) e in entrambi i casi è posto in stretta relazione con l’effusione dello Spirito Santo.

76 Circa la discendenza, in questo caso con riferimento ad Abramo, Paolo in Gal 3,16 afferma: “Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: "e ai tuoi discendenti", come se si trattasse di molti, ma e alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo”. Similmente anche qui, nella profezia di Natan, il termine discendenza va compresa con riferimento a Cristo. Tale discendenza davidica fu resa stabile proprio attraverso la risurrezione di Gesù. Nell’espressione, poi, “Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio”, riferita nella profezia alla regalità di Davide, va ricompresa alla luce di Cristo come attribuibile a Cristo stesso, che nel sopra citato passo di Rm 1,3-4 Paolo vede Cristo “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti”.


77 Cfr. il lemma “Vangelo” in G.F.H. Hawthorne, R.P. Martin, D.G. Reid, Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999.

78 Proprio su tale questione Paolo si rivolgerà ai Galati, che avevano abbandonato il messaggio liberatore di Paolo per abbracciare la Legge mosaica, sedotti dai giudeocristiani giudaizzanti: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù (cioè la Legge mosaica, ndr). Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia” (Gal 5,1-4).


79 Proprio in tal senso Paolo nella sua Lettera ai Galati afferma: “Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. In realtà, però, non ce n'è un altro; soltanto vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema! L'abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema! Infatti, è forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo! Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,6-12).

80 Il primo vangelo, da un punto di vista storico, fu quello di Marco, scritto tra il 65 e il 70 d.C., molto probabilmente a ridosso dell’anno 70.

81 Quando Paolo parla di eletti, di elezione e di predestinazione non intende certo dire che Dio ha già stabilite le sorti di ogni uomo, ma allude sempre ad un suo piano salvifico stabilito fin dall’eternità, prima ancora quindi della creazione del mondo (Ef 1,4-6) inteso a recuperare ogni uomo alla sua dimensione divina da cui proviene e tutto ciò indipendentemente dalle opere dell’uomo, ma secondo la sua grazia e la sua misericordia, fondamenti su cui si muove il piano salvifico speso a favore dell’uomo e attuato per mezzo di suo Figlio nella morte-risurrezione. Per una maggiore trattazione del tema dell’elezione e della predestinazione cfr. il lemma “Elezione e Predestinazione” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, op. cit.

82 Questa espressione “Certa è questa parola” si ripete similmente cinque volte nelle tre lettere pastorali e serve per dare un tono di solennità alle parole che seguono (cfr. 1Tm 1,15; 3,1; 4,9; 2Tm 2,11; Tt 3,8).

83 Divisioni e discordie erano nate anche nella comunità di Corinto proprio a motivo di discussioni sulle verità del Vangelo loro annunciato. Questo portò la chiesa di Corinto a profonde spaccature interne, formate da gruppuscoli l’un contro l’altro opposti, si confronti la Prima Lettera ai Corinti: “Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d'intenti. Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: "Io sono di Paolo", "Io invece sono di Apollo", "E io di Cefa", "E io di Cristo!". Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?” (1Cor 1,10-13)


84 Nm 16,5: “poi disse a Core e a tutta la gente che era con lui: "Domani mattina il Signore farà conoscere chi è suo e chi è santo e se lo farà avvicinare: farà avvicinare a sé colui che egli avrà scelto” – Nm 16,26: “Egli disse alla comunità: "Allontanatevi dalle tende di questi uomini empi e non toccate nulla di ciò che è loro, perché non periate a causa di tutti i loro peccati".

85 Circa i giudeocristiani giudaizzanti vedasi il commento al cap.8 e nota n.73

86 Similmente nell’Apocalisse la bestia (cap.13), che si oppone a Dio e perseguita i suoi fedeli, è definita con il 666 (anche qui il 6 è ripetuto per 3 volte) per definirne l’empietà. La gematria, scienza che calcola il valore numerico dei nomi, affida ad ogni lettera del nome il numero corrispondente e poi li somma assieme. Il numero totale risultante costituisce il valore numerico del nome. Nel nostro caso il valore del 666 è dato dalla somma del valore numerico delle singole lettere che compongono il nome di Cesare Nerone, scritto in ebraico.

87 Cfr. il titolo “La figura di Timoteo” all’inizio del presente scritto.

88 Circa la vita del cristiano nel mondo, un anonimo autore cristiano del II sec. scrisse una lettera ad un suo amico pagano, tale Diogneto, che si accingeva a conoscere il cristianesimo e il suo mondo. Questa operetta costituisce una piccola perla della letteratura cristiana antica ed è una testimonianza della comprensione della vita cristiana collocata in un mondo pagano: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell'odio” (Dgn V,1-17).

89 Vedasi in proposito quanto si è detto nella premessa di questi cap.3 alla lettera E).

90Quest’ultimo termine, tradotto dalla CEI con “impostori”, in greco ha “gòetes” che letteralmente significa “incantatori” mettendo in rilievo la loro opera di persuasione perversa, che richiama la subdola tentazione genesiaca.

91 Cfr. 1Tm 6,20; 2Tm 1,12.14

92 Cfr. Mt 24,4-5.11.24; Mc 13,5-6.21-23; Lc 21,8; 2Ts 2,1-12; 1Gv 2,18-19; 2Pt 3,2-3; Gd 1,17-18.

93 Cfr. 1Cor 15,20-28; Ef 1,4-7.10; Col 1,16.

94 Cfr. 1Tm 1,10; 2Tm 4,3; Tt 1,9.13; 2,1.

95 Cfr. sopra il titolo “La figura di Timoteo”; parte introduttiva della presente operetta.

96 Cfr. R. Fabris, Le Lettere di Paolo, pag. 499, op. cit.

97 Questa è la traduzione letterale del testo greco. Il termine greco analùseos (¢nalÚsewj) ha vari significati, tutti connessi con lo scioglimento. In termini marinareschi esso è connesso con il levare l’ancora e, quindi, il partire, l’andarsene, ma anche con la dissoluzione della vita e, quindi, la morte. Ho preferito scegliere quest’ultima espressione perché rispecchia esattamente il pensiero di Paolo. Circa i vari significati del termine ¢nalÚsij cfr. Lorenzo Rocci, Vocabolario Greco – italiano, Trentasettesima edizione, Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello (PG) 1993.

98 Il verbo efesteken (™fšsthken) è posto a perfetto indicativo, che indica un tempo compiuto, definito, che non prevede in sé altri sviluppi. L’uso di tale tempo in questo contesto indica come ormai Paolo ha la certezza di non avere davanti a sé nessun’altra prospettiva e ritiene, pertanto, conclusa la sua missione.

99 Il concetto del proprio morire come atto di sacrificio gradito a Dio per la salvezza propria e del popolo era già presente nella tradizione giudeo-ellenistica. In tal senso si cfr. 2Mac 7,32.36-37.

100 La stessa metafora dei giochi olimpici applicata all’impegno cristiano per la testimonianza del Vangelo ricorre in 1Cor 9,24-27.

101 Cfr. R. Fabris, Le Lettere di Paolo, pag. 505, op. cit.

102 Questo Alessandro doveva essere quel tale di cui Paolo parla nella sua 1Tm: “ […] perché, fondato su di esse, tu (Timoteo) combatta la buona battaglia con fede e buona coscienza, poiché alcuni che l'hanno ripudiata hanno fatto naufragio nella fede; tra essi Imenèo e Alessandro, che ho consegnato a satana perché imparino a non più bestemmiare” (1Tm 1,18b-20). Con l’espressione “consegnato a satana” probabilmente Paolo intendeva dire di averli posti fuori dalla comunità credente, cioè scomunicati.

103 Aquila e Prisca o Priscilla erano due coniugi giudei, originari del Ponto, regione a nord-est dell’Asia minore (attuale Turchia), che Paolo incontrò per la prima volta a Corinto. Questi erano da poco giunti dall’Italia perché espulsi, assieme ad altri giudei e cristiani, dal decreto di Claudio del 49 d.C. con il quale l’imperatore intendeva pacificare Roma dalle continue liti che scoppiavano tra ebrei e cristiani, probabilmente per il forte proselitismo che questi ultimi svolgevano nei confronti degli ebrei. Aquila era un fabbricante di tende come Paolo, che ospitò presso di sé nel suo soggiorno a Corinto, dove divenne cristiano (At 18,1-3). Accompagnarono Paolo nel tratto di viaggio tra Corinto ed Efeso, dove si stabilirono definitivamente (At 18,18-19). La loro casa divenne un luogo di ritrovo dei cristiani. I due coniugi furono dei fedeli collaboratori di Paolo e per lui rischiarono anche la vita (Rm 16,3).

104 Dema compare in Col 4,14 assieme a Luca, definito da Paolo “il caro medico” e nel biglietto scritto a Filèmone (Fm 1,24). In questi due scritti Dema compare ancora come stretto collaboratore di Paolo, mentre qui, in 2Tm 4,10, ultima lettera paolina, viene segnalata la sua defezione.

105 La Galazia è una regione interna all’Asia minore, dove Paolo fondò delle comunità cristiane a cui aveva in dirizzato la focosa e passionale Lettera ai Galati. Nel nostro caso il termine Galazia fa riferimento, molto probabilmente, alla Gallia, l’attuale Francia. Infatti, gli autori di lingua greca, da Paolo fino a tutto il II sec. d.C. , designavano la Gallia con il nome di Galazia. Quando, invece, si riferivano alla Galazia propriamente detta, la indicavano come la Galazia che è in Asia.

106 Tito, definito da Paolo come “mio vero figlio nella fede comune” (Tt 1,4), viene citato 11 volte nelle lettere paoline: 8 volte nella 2Cor, 2 volte in Gal e 1 volta nell’omonima lettera. Egli, di origine greca (Gal 2,3), fu un apprezzato e molto stimato collaboratore di Paolo.

107 La Dalmazia era un'antica provincia dell'impero romano che comprendeva i territori dell'attuale Croazia, Bosnia e della Serbia occidentale.

108 Tìchico viene citato cinque volte (At 20,4; Ef 6,21; Col 4,7; 2Tm 4,12; Tt 3,12). Egli è un asiatico (At 20,4) e un fedele collaboratore di Paolo (Ef 6,21). Tìchico doveva probabilmente occuparsi dei collegamenti tra Paolo e le varie comunità cristiane fondate dall’Apostolo. Infatti in tutte le cinque volte che compare è sempre citato con questa funzione.

109 Il v.12 andrebbe logicamente associato al v.20, in tal modo completerebbe la lista di quelli che si sono a vario titolo allontanati da Paolo, lasciandolo solo. Ma potrebbe anche essere che Paolo nello stilare la lista delle persone assenti dal suo fianco si sia ricordato soltanto dopo di Tìchico, inserendolo qui al v.12. per questo abbiamo preferito non spostarlo dalla sua posizione originale.

110 Troade è una città portuale posta a Nord-Ovest dell’Asia minore, l’attuale Turchia, ed è prospiciente sul mar Egeo. Fu fondata da Antigono Monoftalmo (382-301 a.C.), uno dei successori di Alessandro Magno. Paolo vi passò durante il suo secondo viaggio, tra il 49-52 circa.

111 Sono tutti collaboratori di Paolo, che si trovano citati soltanto qui. I loro nomi tradiscono la loro origine romana.