PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI


Traduzione e commento esegetico e teologico

a cura di Giovanni Lonardi




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Preambolo


Per poter comprendere in tutta la sua profondità anche una sola lettera di Paolo è indispensabile conoscere chi è Paolo, poiché quando egli scrive trasfonde in quella lettera non solo il suo pensiero, ma tutto se stesso, poiché non c'è distinzione tra il pensiero di Paolo e i suoi sentimenti, la sua emotività, la sua umoralità, la sua passionalità, la sua veemenza, che rasenta il fanatismo, cioè l'assolutizzazione della sua profonda passione per Cristo, che non conosce ostacoli e sfida ogni pericolo e ogni limite imposto dalla ragionevolezza umana. Le sue lettere, infatti, non sono dei freddi e razionali trattatelli di cristologia o di teologia, ma strumenti attraverso i quali Paolo si rende presente con tutto se stesso presso la comunità, a cui egli indirizza la sua lettera. Le sue lettere pulsano della vita stessa di Paolo, che definire un appassionato del Cristo risorto sarebbe alquanto riduttivo. Lo potremmo definire come un veemente e indomabile fanatico del Cristo risorto, per il quale sopporta ogni sofferenza e peripezia (Rm 8,35-39; 2Cor 11,23-27) e attraverso il quale egli vede e legge la realtà che lo circonda e la vita stessa in tutte le sue espressioni. Tutti i problemi che egli è chiamato ad affrontare all'interno delle comunità da lui fondate sono approcciati e risolti attraverso e nel Cristo risorto. E tutto ciò è possibile perché tra Paolo e Cristo vi è una sovrapposizione di persone, che arriva ad essere una identificazione. Significative e rivelative in tal senso sono le sue affermazioni con cui egli definisce se stesso: “Sono stato crocifisso con Cristo: ora non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,19b-20a); e, similmente, in modo più lapidario e incisivo: “Per me il vivere è Cristo” (Fil 1,21a). Qui c'è tutto Paolo.

Di seguito, pertanto, prima di introdurci alla lettura esegetica e al commento della Prima Lettera ai Tessalonicesi, cercherò di tratteggiare la figura di Paolo, la sua personalità, la sua esperienza con il Cristo risorto, la sua strategia missionaria, il suo pensiero, che sottende, qua e là, le sue lettere. Tutti elementi necessari per comprenderle.

Note generali su Paolo

Dopo Gesù, Paolo è l’apostolo che maggiormente ha influenzato il pensiero cristiano; per alcuni è considerato il “fondatore del cristianesimo”, nel senso che il cristianesimo con Paolo uscì dai ristretti confini di Gerusalemme e della Palestina, staccandosi nettamente dal giudaismo ed aprendosi, invece, all’intero mondo dei Gentili, che costituiranno per Paolo un privilegiato terreno di conquista e di lavoro (Gal 2,7-9; Rm 1,5; 15,15-19).

Questa, infatti, è la specifica vocazione di Paolo, che egli stesso evidenzia in Gal 2,7-8: “ma per questo, avendo visto che mi fu affidato il vangelo dell'incirconcisione come Pietro (quello) della circoncisione, colui, infatti, che aveva operato in Pietro per l'apostolato della circoncisione operò anche in me per le genti”. E sarà proprio su questo terreno dei Gentili che Paolo dovrà scontrarsi con i giudeocristiani, che sostenevano la necessità di sottomettersi alla Legge di Mosè, tramite la circoncisione, per accedere alla salvezza in Cristo.

Un duro scontro questo, che farà soffrire non poco Paolo e che porterà al primo concilio della storia, quello di Gerusalemme nel 49 d.C., ricordato in At.15,1-33 e in Gal.2,1-10.

Egli è l’unico apostolo di cui abbiamo molta documentazione ed è il più commentato e conosciuto autore del N.T. Di lui o della sua scuola di pensiero si hanno complessivamente tredici lettere e numerosi riferimenti autobiografici, nonché ben 20 capitoli, che Luca dedica a Paolo e alla sua attività negli Atti degli Apostoli (capp.8-28). Neppure Pietro e Giacomo, che erano ritenute le colonne della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9), ebbero tanta risonanza. Di loro o comunque a loro attribuite ci sono rimaste soltanto due lettere di Pietro e una di Giacomo per complessivi 274 versetti.

Notevole il peso di Paolo e della sua scuola di pensiero, basti pensare che su 7957 versetti, che compongono l'intero Nuovo Testamento canonico, ben 20331 sono di Paolo o di scuola paolina, cioè il 25,55% dell'intero canone neotestamentario; mentre dei 27 libri di cui è composto il N.T. 13, quindi quasi il 50%, sono lettere di Paolo o di scuola paolina. Ma ciò che più lo contraddistingue è la profondità, la potenza e l'originalità di pensiero della sua teologia e della sua cristologia; nonché, da un punto di vista storico, le notizie che, tramite le sue lettere, ci pervengono circa la struttura, la vita e i problemi delle prime comunità credenti, cioè della chiesa nascente. Così che potremmo affermare, senza ombra di dubbio, che senza la persona di Paolo e della sua opera letteraria oggi il cristianesimo non avrebbe raggiunto la profondità del suo pensiero teologico e cristologico e probabilmente sarebbe stato fagocitato dal giudaismo o, quanto meno, avrebbe perso molto della sua originalità.

Una teologia e una cristologia quelle di Paolo del tutto originali e inedite. Basti pensare che, allorché Paolo scrive le sue lettere, tutte tra il 50 e il 60 d.C., i vangeli non erano stati ancora scritti. Il primo, quello di Marco, verrà composto tra il 65 e il 69 d.C., e Paolo, per primo, introdurrà le espressioni “vangelo” e “evangelizzare”, che ritroviamo nelle sue lettere, il primo, per ben 60 volte e 21 volte il secondo. Ed è sempre lui, per primo, a definire la sua predicazione come “il mio vangelo” (Rm. 2,16; 2Tm 2,8). Egli poi introdurrà nuovi termini e nuovi verbi, quindi, un nuovo vocabolario e un nuovo linguaggio per esprimere la novità dell'evento Cristo morto-risorto in quanto tale e in rapporto ai credenti.

Tuttavia le novità che Paolo predica non sono frutto di fantasia, ma si radicano nella fede, che egli ha acquisito e maturato presso le comunità credenti, che ruotavano attorno alle aree di Gerusalemme, Damasco ed Antiochia, dove rimarrà per una decina d'anni dopo l'evento di Damasco (circa 35 d.C.), prima di intraprendere i suoi viaggi missionari (45-57 d.C.), e delle quali riporta sovente nelle sue lettere formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici che egli non si è inventato, ma che ha ricevuto come eredità di fede da queste comunità. Una fede, quindi, non improvvisata o inventata, ma che si radica in quella delle comunità credenti e, quindi, della Tradizione. Lo ricorderà due volte in 1Cor 11,23: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore2 quello che a mia volta vi ho trasmesso”; e similmente in 1Cor 15,3: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto”. Ma ciò che Paolo trasmette non è una ripetizione meccanica e pedissequa di formule dottrinali, ma il tutto passa attraverso il potente filtro del suo pensiero innovativo e della sua esperienza del Cristo risorto. Paolo, dunque, riflette su quanto ha ricevuto e lo elabora personalmente, adattandolo alle varie situazioni delle comunità, che gli si presentano di volta in volta.

Le sue lettere, pertanto, scritte tutte tra il 50 e il 60, si presentano come delle risposte scritte a degli interrogativi posti dalle varie comunità o a loro problematiche interne. Lettere, quindi, occasionali. Di conseguenza la sua teologia e cristologia non si presentano come dei trattati dottrinali stesi a tavolino, ma nascono da situazioni contingenti e in risposta ai problemi posti dalle singole comunità.

Il linguaggio dei suoi scritti, pertanto, è caratterizzato dall’immediatezza, dalla spontaneità, dalla vivacità di espressione, che talvolta si carica di sentimenti forti e di emozioni violente, fino a sfociare nell’insulto verso i suoi detrattori. Ma questo modo di procedere pone dei limiti: infatti, non sempre conosciamo le circostanze che hanno prodotto le risposte di Paolo; del resto non era necessario che le precisasse in quanto erano ben conosciute dalle comunità interessate.

La profondità, la ricchezza, la complessità del pensiero di Paolo e il suo lungo periodare non sempre giocano a favore della sua chiarezza e della sua immediata comprensione. Ne dà testimonianza in tal senso l’autore della seconda lettera di Pietro: “… come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina” (2Pt. 3,15-16).

Tuttavia, questa lettera, di autore anonimo, databile tra il 120 e 135 d.C. circa, ci dà delle informazioni interessanti intorno agli scritti paolini e precisamente afferma che:

Ed è proprio per questa complessità di un pensiero innovativo, creativo e dirompente che Paolo trova lungo il suo cammino di evangelizzazione numerosi avversari e detrattori, che formano una sorta di fronte antipaolino, una specie di task-force di contro-evangelizzazione, formata prevalentemente da giudeocristiani giudaizzanti, cioè da cristiani provenienti dal giudaismo, ma che, non avendo ancora compreso la novità dell'evento Cristo, continuavano a praticare la Legge mosaica e a predicare la necessità della circoncisione per poter accedere alla salvezza, subordinando in tal modo la novità dell'evento Cristo a Mosè. Ne troviamo traccia in 2Cor11,13-15.22-23; 12,11; Gal 1,6-7; Fil 3,2.18; Rm 16,17-18; Col 2,8.


Questioni introduttive alla biografia paolina

A) Le fonti

Paolo, tra tutti i personaggi che si muovono nel N.T., è quello che storicamente ci offre una maggiore ricchezza di dati sia perché numerosi sono gli agganci storico-geografici che possiamo rilevare dai testi in nostro possesso, sia perché l’attività missionaria di Paolo fu piuttosto lunga e soprattutto straordinariamente densa (45-57 d.C.).

Due sono i pilastri fondamentali, che ci offrono il maggior numero di dati biografici di Paolo: da un lato, le sue Lettere, benché il quadro cronologico che ne risulta sia scarso e frammentario; dall'altro, gli Atti degli Apostoli, l'opera lucana che dedica ben 20 capitoli su 28, di cui e composta, alla figura di Paolo e alle sue imprese missionarie. Luca, tuttavia, per la sua opera usa fonti di seconda e terza mano, per cui non sempre i dati fornitici direttamente da Paolo coincidono esattamente da quelli offertici da Luca. In tal caso, la preferenza va sempre accordata alla testimonianza di Paolo. Vanno poi tenuti presenti gli intenti narrativi di Luca, che nel raccontare gli inizi della storia della chiesa, mostra maggiori interessi per gli aspetti teologici che biografici. In altri termini, Luca è si uno storico come egli reclama di essere nel suo prologo al vangelo (Lc 1,1-4), ma è uno storico interessato.

Tuttavia, da una prudente combinazione di questi Scritti, integrati da altre fonti storiche esterne, possiamo stilare, con discreta certezza, un quadro biografico abbastanza soddisfacente, in particolar modo per quello che va dall'evento di Damasco fino all'arrivo a Roma di Paolo come prigioniero. Rimangono fuori dal quadro biografico il periodo antecedente la sua conversione, al di là di qualche cenno, fornitoci in parte dagli Atti e in parte dallo stesso Paolo, e quello dei due anni successivi al suo arrivo a Roma, di cui si possono fare solo delle ipotesi.

B) I cardini della cronologia paolina

Benché la questione sulla cronologia sia un problema di difficile soluzione per la lacunosità delle fonti, tuttavia vi sono negli scritti di Paolo, in particolare nella Lettera ai Galati 1,11-2,14 e negli Atti degli Apostoli, dei punti di riferimento storici certi, ragionando sui quali si può ottenere, con discreta precisione una soddisfacente cronologia della vita di Paolo.

Primo testo

2Cor. 11,32-33: “A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così fuggii dalle sue mani”.

Il re qui menzionato è Areta IV, monarca del regno dei Nabatei, che governò dal 9 al 39 d.C. e al quale Caligola (37-41 d.C.) affidò il controllo, almeno parziale, della città di Damasco, inglobata nella provincia romana di Siria, per il periodo 37-39 d.C. Pertanto questa fuga di Paolo, calato dalla finestra in una cesta per sfuggire al re Areta, avvenne in questo periodo, probabilmente nel 38 d.C., ossia dopo tre anni dalla conversione, avvenuta intorno al 35 d.C.

Secondo testo

Gal 1,13-2,14 in cui Paolo riporta le tappe fondamentali da prima della sua conversione fino all’anno 49 circa, anno in cui avvenne il primo concilio di Gerusalemme, il primo della storia della chiesa. Dopo la sua conversione, avvenuta nell'anno 35 d.C. e che egli legge alla maniera degli antichi profeti (Gal 1,15-16), mentre era diretto a Damasco, fu folgorato dall'incontro con il Cristo risorto. Rimane presso la comunità credente di Damasco per tre anni, durante i quali, compie, di sua iniziativa, un viaggio missionario in Arabia, facendo poi ritorno a Damasco (Gal 1,17).

Tre anni dopo (qui il dopo va sempre riferito al “dopo l'evento di Damasco”), quindi nel 38 d.C., fa la sua prima visita a Gerusalemme per conoscere i capi della chiesa madre, Pietro e Giacomo e vi rimane quindici giorni (Gal 1,18). Poi riprende la sua attività missionaria, sempre di sua iniziativa nelle regioni della Siria e della Cilicia (Gal 1,21)

Quattordici anni dopo l'evento di Damasco (35 d.C.), quindi nel 49 d.C., torna nuovamente a Gerusalemme, assieme a Barnaba e a Tito, per dirimere una questione di vitale importanza, a motivo della quale tutti i responsabili della chiesa di Gerusalemme, Pietro, Giacomo e Giovanni si ritrovarono assieme per prendere una decisione comune. La questione era se i pagani, convertiti alla fede in Cristo, dovessero essere circoncisi e, quindi, sottoposti alla Legge mosaica (Gal 2,1-10).

Terzo testo

At 18,1-2: “Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro”.

Di questo decreto di Claudio (41-54) parla anche Svetonio nella sua opera “Vita dei Cesari” nella parte riferita a Claudio, il quale “Judeos assidue tumultuantes impulsore Chresto Roma expulit3.

La data di questo editto di espulsione è solitamente posta nel 49 d.C.

Quarto testo

At 18,12-17: “Mentre era proconsole dell’Acaia Gallione, i Giudei insorsero in massa contro Paolo…

Lucio Giunio Gallione, fratello di Seneca, era proconsole a Corinto tra il maggio del 51 e il maggio del 52. La data si ricava da un’iscrizione epigrafica trovata a Delfi nel 1905, che riporta il testo di una lettera di Claudio allo stesso Gallione. In questa lettera Claudio menziona di essere stato proclamato imperatore per la 26^ volta. Questa 26^ acclamazione ebbe luogo tra il gennaio e l’agosto del 52. Ora, poiché il proconsolato durava un anno a partire da aprile, il rescritto può essere giunto a Gallione o all’inizio o alla fine del suo proconsolato. Nel primo caso la data è 52-53 nel secondo caso, più probabile, tra il 51 e il 52. È, dunque, in questo periodo, probabilmente agli inizi del 52 che Paolo viene accusato davanti a Gallione.

L'episodio qui riportato concorda con il secondo viaggio missionario di Paolo (49-52 d.C.), che in quell'occasione visitò Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto.

Deduzioni e tentativo di costruire una cronologia

Alla luce di questi quattro punti cronologici di riferimento e con l’aiuto di un certo ragionamento storico, si può tentare di stilare una cronologia paolina di massima. Ogni data qui proposta va, quindi, sempre accompagnata da un ”circa”:

Per altri, invece, Paolo dopo i due anni di prigionia compie altri viaggi che si collocano tra il 63 e il 67, anno in cui muore martire4

Cenni biografici di Paolo

Sulla base della cronologia qui sopra ipotizzata e con l'aiuto delle due fonti a nostra disposizione, Lettere paoline e Atti degli Apostoli, cercherò di delineare alcuni cenni biografici di massima su Paolo.

Paolo nasce tra il 5 e 10 d.C. a Tarso, capoluogo della Cilicia, posta sul fiume Cidno, che collega il Mediterraneo con l’interno. Tarso è un importante centro commerciale e di cultura greca (At 22,39a).

Egli appartiene alla tribù di Beniamino, da cui uscì il primo re di Israele, Shaul, di cui assume il nome, grecizzato, poi, in Saulos e latinizzato in Paulus (At 13,9a).

Il triplice nome, ebraico, greco e romano stanno ad indicare le tre culture che si incrociano in Paolo, rendendolo un cosmopolita, e che si rifletteranno nelle sue lettere e nel suo annuncio.

La famiglia di Paolo proviene dalla diaspora e il padre, cittadino romano per acquisizione, trasmette al figlio la cittadinanza romana, di cui Paolo si avvarrà davanti al tribuno (At 22,24-28). Viene educato al rigore della Legge ebraica e, ancora adolescente, il padre lo invia a Gerusalemme per una più completa formazione nelle tradizioni dei padri. Suo maestro, qui, sarà, Gamaliele (At 22,3), discepolo di Hillel, capostipite della corrente giudaica più moderata e più aperta, che si contrapponeva a quella più rigorista e tradizionalista di Shammai.

È da pensare, pertanto, che Paolo abbia acquisito da Gamaliele un giudaismo più moderato ed aperto, benché, poi, il suo carattere impulsivo e passionale ne abbia accentuato ed esaltato i toni, divenendo un fariseo intransigente fino a spingersi a perseguitare attivamente i cristiani di Gerusalemme e a “votare la condanna a morte contro di loro”. Questo particolare (At 26,9-10) fa pensare che egli facesse parte del Sinedrio, che solo aveva il potere di deliberare le condanne a morte.

In questo contesto di fanatismo religioso, Paolo presenziò e condivise la lapidazione di Stefano avvenuta, probabilmente tra il 35 e il 36 (At 22,20).

Fu proprio in questo periodo che Paolo, diretto a Damasco per eseguire dei mandati di cattura contro i cristiani, viene folgorato dall’incontro con il Cristo risorto, che lo chiama a diventare “ministro e testimone delle cose che hai visto” (At 26,9-16). Un’esperienza questa che ha radicalmente sconvolto l’esistenza di Paolo e che Luca richiama nei suoi Atti per ben tre volte (At 9,1-30; 22,3-21; 26,9-20), benché Paolo non si riferisca spesso a questo episodio e quando lo fa (1Cor.15,5-8 e Gal. 1,12-17) è solo con una pallida allusione, quasi impercettibile.

Paolo visse questa esperienza del Cristo risorto come una chiamata (Gal 1,15-16), che produsse in lui un traumatico e radicale capovolgimento esistenziale, che lo portò ad una successiva maturazione della propria fede, inizialmente, all’interno della comunità credente di Damasco.

Infatti, Paolo inizierà il suo primo viaggio missionario nel 45. Fino ad allora egli rimane sostanzialmente in silenzio all’interno delle comunità di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia, che diverrà poi, quest’ultima, la sua base logistica, da cui partirà per compiere i suoi viaggi missionari.

All’interno di queste comunità egli acquisirà gli elementi fondamentali della fede, che poi trasmetterà ai pagani. Egli stesso, infatti, in 1Cor 11,23 attesta: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”, dove per “Signore” va inteso la comunità credente nel Signore e che si rifà alla tradizione fatta risalire al Signore stesso; e similmente in 1Cor 15,3 afferma che “Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto quello che anch’io ho ricevuto”. Le sue stesse lettere, del resto, denunciano la sua dipendenza dalle comunità, che egli ha frequentato durante il decennio di silenzio, che ha preceduto i suoi tre viaggi missionari. In esse, infatti, vi sono riportate formule e professioni di fede, formule kerigmatiche, testi liturgici, inni e parenesi, che Paolo non si è inventato, ma che ha mutuato da queste comunità, dislocate nelle aree di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia.

Dopo l’esperienza di Damasco Paolo si recherà subito in Arabia (Gal 1,17) e nella stessa Damasco annuncerà il Vangelo, ma sarà costretto a fuggire, calato in una cesta dalle mura della città (2Cor 11,32-33).

Trascorsi tre anni dalla sua conversione, siamo intorno all'anno 38 d.C., Paolo si reca a Gerusalemme, una prima volta, per un incontro con Pietro e Giacomo e qui vi rimane 15 giorni (Gal 1,18-19). E qui vi ritornerà, saltuariamente, a predicare il Vangelo, ma sarà costretto a fuggire perché gli ebrei lo vogliono uccidere (At 9,28-29). Dovrà fuggire, pertanto a Tarso, dove rimarrà in silenzio per alcuni anni (At 9,30).

Da qui sarà recuperato da Barnaba e condotto nella comunità di Antiochia, che diverrà la sua comunità di riferimento per tutta la sua attività missionaria e dove rimase un anno (At 11,25-26).

Dalla stessa comunità di Antiochia Paolo e Barnaba furono inviati in missione. (At 13,2-4). Siamo nel 45 d.C. Inizia così il primo viaggio missionario di Paolo che durerà fino al 48 d.C. (At 13,1-14,28). I punti toccati dai due furono: Cipro, Attalia, Perge, dove Marco, cugino di Barnaba, lascerà i due (At 13,13), Antiochia di Psidia, Iconio, Listra, Derbe, quindi il ritorno per le stesse località.

Al loro rientro Paolo e Barnaba trovano peggiorate le relazioni tra i giudeocristiani e gli etnococristiani al punto da creare una rilevante crisi all’interno della chiesa primitiva: Paolo e Barnaba non esigevano la sottomissione dei pagani convertiti alla circoncisione e, di conseguenza, alla Legge di Mosè; mentre i giudeocristiani, in particolare il gruppo che faceva a capo a Giacomo, richiedevano la circoncisione.

Il dissidio fu tale che si ritenne necessario un vertice a Gerusalemme tra i vari responsabili della chiesa madre. A tale incontro vennero inviati dalla comunità di Antiochia Paolo e Barnaba. Fu il primo concilio, che si tenne a Gerusalemme nel 49 (At 15,1-33; Gal 2,1-10) che chiarì, in linea di principio, la questione, ma non risolse di fatto il problema, sul quale Paolo tornerà nella sua lettera ai Galati.

Rientrati ad Antiochia, Paolo, ormai abbandonato anche da Barnaba (At 15,37-39), parte con Sila, suo nuovo compagno (At 15,40-41), per il suo secondo viaggio missionario, che durerà dal 49 al 52 (At 15,36-18,22) e risultò importante per la fondazione delle comunità cristiane in Grecia e nella Galazia.

Il percorso di questo viaggio portò Paolo lungo il cammino delle precedenti comunità (At 15,36), che aveva fondato nel primo viaggio (45-48 d.C.). A Listra si unì a lui anche Timoteo che, pur di avere con sé, accettò di farlo circoncidere (At 16,1-3).

Diretto a Troade, per un’improvvisa malattia, Paolo fu costretto a deviare sull’altipiano della Galazia, dove fondò le prime comunità cristiane (Gal 4,13). Proseguì, infine, per Troade da dove toccò Neapolis, Filippi, Tessalonica, Berea, Atene, Corinto, Efeso e ritorno a Cesarea e da qui a Gerusalemme, per relazionare del suo viaggio agli anziani della chiesa madre.

Il terzo viaggio, avvenuto tra il 53 e il 57 (At 18,23-21,15), fu prevalentemente di ricognizione tra le varie comunità fondate e per rinsaldare i rapporti tra loro. Le città presso cui si fermerà più a lungo saranno Efeso e Corinto. Durante questo viaggio Paolo raccoglierà presso tutte le comunità da lui fondate una colletta per i poveri della chiesa di Gerusalemme, alla quale egli attribuisce un valore importante, perché la sua accettazione da parte dei responsabili della chiesa madre di Gerusalemme significava che i cristiani provenienti dal paganesimo erano definitivamente accettati in seno ad essa.

Dopo questo terzo viaggio Paolo viene fatto prigioniero a Cesarea nel 60 e da qui trasferito a Roma, dove rimase per due anni in uno stato di semilibertà. Muore martire sotto Nerone intorno al 67.

Note su alcune particolarità di Paolo

L'evento di Damasco

Un’attenzione particolare va data all’evento di Damasco, meglio conosciuto come la “conversione di Paolo”, per l’importanza fondamentale che questo ha avuto nella sua vita, sulla quale ha inciso profondamente, trasformandola radicalmente e improvvisamente.

Due sono le fonti testimoniali: gli Atti e gli stessi scritti di Paolo.

Gli Atti degli Apostoli ci forniscono tre diverse narrazioni (9,1-30; 22,3-21; 26,9-20) alquanto particolareggiate, dove viene messa in evidenza l’iniziativa di Dio. Sono racconti non sempre tra loro concordanti e dal sapore popolare, costruiti da Luca sulla falsariga delle chiamate bibliche:

Nell’ambito di questa chiamata Luca introduce anche la figura di Anania, che fa da tramite tra Paolo e la comunità credente di Damasco e che, man mano che i racconti procedono, lentamente scema fino a scomparire completamente nel terzo racconto di At 26,9-20. Questi è definito come un discepolo della comunità di Damasco (At 9,10) e “un devoto osservante della legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei là residenti” (At 22,12).

Quanto agli Scritti di Paolo, questi ricordano l'evento, ma sempre con toni molto sobri, talvolta solo allusivi, e in modo strettamente personale. Dell’evento Paolo non parla mai in modo narrativo, ma mettendo in rilievo gli aspetti di grazia, di dono e di chiamata, che lo ha costituito missionario e apostolo. Il testo più significativo è quello di Gal 1,11-17, in cui Paolo si pone sulla linea delle chiamate profetiche. Egli, infatti, parla di “rivelazione”, di “una sua elezione fin dal seno di sua madre”, di “una chiamata per grazia”, di “una compiacenza di Dio nel rivelargli suo Figlio”. E quando Paolo parla di “compiacenza” allude ad un preciso disegno di Dio. A tutto ciò Paolo lega la sua missione di apostolo dei pagani. Un pensiero e una convinzione questi, che Paolo lascia trasparire chiaramente in apertura della lettera ai Galati, come una sorta di sua carta d'identità, mettendo in rilievo come il suo essere apostolo gli viene direttamente da Cristo e da Dio, suo Padre: “Paolo apostolo non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1).

Una maggiore precisazione sull’evento, Paolo la aggiunge in 1Cor 9,1 e 15,8-9, in cui parla rispettivamente di “aver veduto” e di “apparizione”.

Quanto alla sconvolgente rottura con il passato, che tale esperienza ha provocato in lui, ne fa accenno in Fil. 3,7-11, così che tutti i valori del suo passato, in cui ha creduto fermamente, gli sembrano ora spazzatura.

Come, dunque, interpretare l’evento di Damasco? Parlare di semplice conversione è del tutto inadeguato. Qui c’è un’evidente frattura esistenziale tra il prima e il dopo evento, che segnerà non solo la sua intera esistenza, ma tutta la sua teologia, il suo modo di pensare. Non si tratta, dunque, di una lenta e graduale maturazione interiore di certi valori, bensì di una radicale e improvvisa rottura con il suo passato e di un nuovo e improvviso riorientamento esistenziale e modo di pensare.

Paolo e la comunità cristiana primitiva

Dopo la sua esperienza di Damasco, Paolo ha avuto numerosi contatti con le comunità cristiane che sono nell’area di Gerusalemme, in cui riceve la sua formazione di giudeo ortodosso; di Damasco, dove dà una radicale e decisiva sterzata alla sua vita; di Antiochia, da dove prende forma e avvio il suo impegno missionario.

La dipendenza di Paolo da queste comunità si riscontra anche nelle sue lettere, dove riporta spesso formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici, che egli ha ricevuto come eredità di fede dalle comunità stesse (1Cor 11,23; 15,3). Così che si può ben dire che Paolo non fu il fondatore del cristianesimo, bensì il suo instancabile propagatore e il suo potente propulsore, ma sempre in una linea di continuità con la chiesa originale, da cui ha ricevuto la fede e in cui, per circa un decennio (35-45 d.C.), prima dei suoi viaggi missionari (45-62 d.C.), è stato formato.

Il metodo missionario di Paolo

Come sua strategia missionaria, Paolo sceglie sempre delle comunità che non hanno mai sentito parlare di Cristo. Lo attesterà apertamente in Rm 15,20: “Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui”. Il motivo di tale scelta probabilmente è duplice: a) non perdere tempo ad annunciare Cristo là dove è già stato annunciato. Una scelta dettatagli dalla convinzione, molto diffusa nella chiesa del I sec., dell'imminenza della parusia e, pertanto, l'urgenza di diffondere quanto più possibile, prima del ritorno di Cristo, il suo annuncio; b) la novità del “suo vangelo”, inoltre, rischiava di contrastare con le visioni forse meno aperte di altri missionari fondatori, con il rischio di creare turbamento e confusione nelle comunità fondate da altri. Farà tuttavia un'eccezione per la comunità di Roma, che lui non ha fondato, ma alla quale, come vedremo, tiene particolarmente.

Nel suo annuncio Paolo è mosso sempre da una sua personale convinzione circa un piano di salvezza prestabilito da Dio, che vede annunciare la salvezza prima al Giudeo e poi al Greco: “Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rm 1,16), seguendo in tal modo la logica della storia della salvezza, secondo la quale Dio ha rivelato se stesso e conclusa la sua Alleanza prima con Israele, mostrando tutta la sua predilezione per questo popolo che si è scelto, costituendolo, dopo la sua liberazione dalla schiavitù egiziana, sua proprietà tra tutti i popoli, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,4-6). Soltanto a seguito del rifiuto operato da Israele, l'annuncio della salvezza verrà esteso ai pagani, così che il rifiuto di Israele era diventato motivo di salvezza per gli altri (Rm 11,11-12). Una teologia questa che egli svilupperà meglio in Rm 9-11.

Per questo motivo Paolo, nell'annuncio del suo Vangelo, punta sempre sui grandi centri urbani, caratterizzati dalla presenza di ebrei e di sinagoghe, alle quali volge per prime il suo annuncio e, soltanto dopo il loro rifiuto, si rivolge al mondo dei pagani, seguendo così le logiche di ciò che egli riteneva fosse un piano di salvezza prestabilito da Dio.

Le comunità da lui fondate non sono, nel loro nucleo originale, numerose, ma si tratta di poche persone, qualche famiglia, che deve, quasi sempre, abbandonare precipitosamente per le ostilità degli ebrei lì presenti. In genere lascia sul posto o invia successivamente uno o più collaboratori perché completino l’opera da lui iniziata. Poi si incontrerà di tanto in tanto con i suoi collaboratori e, in base alle informazioni ricevute, scrive le lettere.

Paolo non è un pastore d'anime, ma un indomito annunciatore della parola. Rivelativa in tal senso è l'attestazione di 1Cor 1,14-17: “Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio, perché nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome. Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefana, ma degli altri non so se abbia battezzato alcuno. Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo”.

Queste comunità credenti che egli riesce a fondare con la sua predicazione non sono da lui ritenute sua proprietà o sua conquista. Non sono chiese fondate in opposizione ad altre chiese, ma desidera che queste siano legate con la chiesa madre di Gerusalemme, per la quale fa raccogliere una colletta, segno di comunione e di riconoscenza per la fede da essa donata.

La colletta per la chiesa madre di Gerusalemme

È necessario spendere una parola sulla colletta, un gesto di carità verso la chiesa madre di Gerusalemme, nei confronti della quale tutte le comunità credenti sono debitrici per la fede ricevuta. Ma, al di là dell'impegno che egli si è preso personalmente davanti ai responsabili della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,10), per aiutare i poveri di questa chiesa, colpiti da una grave carestia (At 11,28-30), Paolo vede nella colletta uno strumento di solidarietà e di comunione di tutte le comunità credenti con la chiesa madre di Gerusalemme. La colletta, pertanto, diventa per Paolo uno strumento missionario ed ecclesiologico, per legare in un'unica comunione di carità in Cristo tutte le chiese, indipendentemente dalla loro formazione giudeocristiana o etnocristiana.

La sua importanza è rilevata dal fatto che il tema della colletta viene ripreso ripetutamente da Paolo in varie sue lettere: Rm 15,25-26; 1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Gal. 2,10, qualificandola come "servizio", "comunione", "grazia", "atto di culto".

Ma perché Paolo mostra un così particolare interesse per la colletta? Quale significato le attribuisce? Essenzialmente un triplice significato:

  1. Essa è un gesto di carità;

  2. E', inoltre, un impegno che egli si era assunto di fronte ai responsabili della chiesa madre di Gerusalemme (Gal 2,10) in occasione del Concilio (49 d.C.);

  3. Ma, soprattutto, per Paolo assume, da un lato, un significato di comunione tra la Chiesa madre di Gerusalemme e le Chiese periferiche da lui fondate, costituite da etnico-cristiani; dall'altro, ciò che per Paolo è più importante, diventa un riconoscimento ufficiale della Chiesa madre della missione di Paolo presso il mondo pagano.


La motivazione che sottende la colletta è triplice:
  1. Cristologica: Cristo si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (2Cor.8,9);

  2. Ecclesiologico-sociale: non si tratta di rendersi poveri per arricchire gli altri, ma un atto di uguaglianza (2Cor 8,13);

  3. Teologico-scritturistica: Dio ama chi dona con gioia: “ha largheggiato, ha dato ai poveri; la sua giustizia dura in eterno” (2Cor 9,7-9)

Paolo, tuttavia, teme che la colletta, a cui lui attribuisce un grande valore e significato, possa anche non essere accolta (Rm 15,30-31). Dietro questo suo timore intuisce che qualcosa possa andare storto: egli non vede chiaro nel suo futuro, per la difficoltà dei rapporti con la Chiesa madre di Gerusalemme.

Il pensiero di Paolo e il suo Vangelo

Paolo fu certamente un teologo originale, profondo, fuori dagli schemi, ma non fu un pensatore sistematico. Il suo pensiero è occasionale e frammentario, variamente sparso tra le sue lettere, e ciò non permette di organizzarlo compiutamente.

Il nucleo centrale del pensiero di Paolo è il Cristo risorto. E non poteva essere diversamente, considerata l'esperienza da cui egli proviene.

Attorno al Cristo risorto Paolo sviluppa tutta una serie di tematiche ad argomenti prevalentemente contrapposti, sulle quali fonda tutta la vita morale e cristiana: fede e legge, luce e tenebre, carne e spirito, uomo vecchio e uomo nuovo, giustificazione e peccato, vita e morte, risurrezione, battesimo, ecc. Alla base di queste contrapposizioni ci sta probabilmente l'antitesi cristologica e pasquale “morte-vita”, “crocifissione-risurrezione”. Tuttavia, pur nella sua originalità e profondità di pensiero, Paolo si pone sempre nell'ambito dottrinale della Tradizione, che è già proprio del cristianesimo primitivo e che lo stesso Paolo testimonia nelle sue lettere, che riportano inni cristologici e formule di fede, che egli trova già elaborati nelle comunità credenti, che ha frequentato per un decennio dopo l'evento di Damasco. Del resto egli stesso attesta come la sua predicazione sia una sorta di trasmissione di ciò che anch'egli ha ricevuto, ponendosi in tal modo sulla linea della Tradizione cristiana (1Cor 11,23; 15,3).

Il pensiero e il Vangelo di Paolo si potrebbero così sinteticamente riassumere:

Nel suo grande disegno salvifico, Dio offre la sua salvezza a tutti, ebrei e gentili, in Cristo e per Cristo morto e risorto. Si diventa partecipi della salvezza unendosi a Cristo mediante la fede e il battesimo, morendo con lui al peccato e partecipando, così, alla sua risurrezione. Tuttavia, la salvezza, già presente, non è ancora definitiva finché egli venga. Ma, nel frattempo, colui che vive in Cristo è già stato liberato dal potere del peccato e della Legge e diventa un uomo nuovo, una creatura nuova, per opera dello Spirito Santo. Di conseguenza la condotta del credente deve adeguarsi alla nuova realtà, che è stata posta in lui dal battesimo e per mezzo della fede”.

Le lettere

Il pensiero di Paolo è raccolto ed esposto nel Corpus paulinum, che comprende 14 lettere a cui, idealmente, ne va aggiunta anche qualcun’altra andata perduta e della cui esistenza siamo a conoscenza, perché citata dallo stesso Paolo nelle sue lettere.

Quelle in nostro possesso sono in tutto tredici, alle quali se ne è aggiunta una quattordicesima, la Lettera agli Ebrei, di autore ignoto. Di queste, sette sono attribuite a Paolo, mentre le rimanenti sei sono di scuola paolina.

L’insieme di queste 14 lettere forma il Corpus paulinum, suddiviso in tre aree: le grandi lettere, sono le sette attribuite a Paolo, alle quali alcuni esegeti aggiungono anche la seconda ai Tessalonicesi; le lettere ecclesiologiche ai Colossesi e agli Efesini; le lettere pastorali, 1-2 Timoteo e Tito.

Tutte le lettere attribuite a Paolo sono state scritte tra il 50 e il 60 d.C. e costituiscono la primissima letteratura cristiana e tra queste, prima in senso assoluto, è la Prima ai Tessalonicesi, composta a Corinto nel 50 d.C.

Esse sono state scritte tutte in modo occasionale, in risposta ai problemi sorti, di volta in volta, nelle comunità che Paolo stesso aveva fondato e sono una sorta di prolungamento del dialogo pastorale.

Il linguaggio, pertanto, è spontaneo, immediato, vivace, appassionato e passionale, spesso polemico, sicuramente molto sentito e, per questo, molto avvincente. Certamente il tono non è mai meditativo e i contenuti non sono esposti in modo sistematico, ma buttati giù di getto e risentono molto della occasionalità e della contingenza del momento.

Esse, come già si è sopra accennato, sono caratterizzate da molteplici antitesi, come ad es. Adamo-Cristo; carne-Spirito; fede-opere; sapienza-stoltezza; uomo vecchio-uomo nuovo. All’origine di tutte queste antitesi c’è l’antitesi per eccellenza, quella cristologica e pasquale, da cui tutte le altre derivano: morte-vita. Sono giochi di chiari-scuri finalizzati a mettere meglio in evidenza il tema trattato.

Tutte le lettere di Paolo sono scritte nel greco della koinè e si strutturano essenzialmente in quattro parti: 1) il prescritto, che riporta il mittente, il destinatario e il saluto; 2) rendimento di grazie 3) corpo della lettera 4) conclusione o postscritto, comprendente le ultime raccomandazioni e i saluti finali. Unica eccezione a questo schema viene fatta dalla Lettera ai Galati, nella quale viene saltato il secondo punto: il rendimento di grazie, sia per la foga con cui Paolo si accosta ai Galati in questa occasione, e sia perché, visto il tradimento perpetrato alle sue spalle da queste comunità da lui fondate e particolarmente amate, non c'era proprio niente da rendere grazie.

Corpus paulinum:

Scritti attribuiti a Paolo o Grandi Lettere

Scritti di scuola paolina

Lettere ecclesiologiche

Lettere pastorali

Scritti di autore ignoto


Le lettere, poste sotto il titolo “Scritti di scuola paolina”, sono considerate come scritti pseudepigrafici, redatti nel contesto della tradizione paolina allo scopo di garantire e consolidare il pensiero di Paolo anche dopo la sua morte.

La pseudepigrafia era un fenomeno molto diffuso nell’antichità e consisteva nel porre dei propri scritti sotto il nome di personaggi importanti per dare valore e credibilità alla propria opera, agganciandola alla tradizione, verso cui si nutriva particolare rispetto.

I parametri per valutare l’autenticità o meno di uno scritto sono, in genere, lo stile, il vocabolario e la coerenza teologica, nonché il contesto a cui fanno riferimento.

Sono Scritti questi tenuti in notevole considerazione presso le comunità cristiane e, trattando tutti gli aspetti e le tematiche della vita cristiana, sono stati sentiti come normativi per il vivere cristiano.

Essi hanno certamente dettato legge a tutta la teologia successiva. Una teologia quella paolina complessa e profonda e, proprio per questo, si poteva prestare ad interpretazioni diverse, talvolta anche contrapposte, come si rileva dalla già citata 2Pt 3,15-16.

Un’ultima questione, posta dal Deissmann5, è la distinzione tra LetteraedEpistola. Secondo il Deissmann la Lettera è uno scritto privato, occasionale, vivace, immediato e mirato, il cui contenuto è prevalentemente comprensibile solo al destinatario. Mentre l' Epistola è una sorta di composizione letteraria, elaborata a tavolino con una esposizione di tipo sistematico e ragionato, rivolta ad una grande cerchia di persone. Un esempio di queste sono le “Lettere a Lucilio” di Seneca.

Le lettere di Paolo si pongono in una via di mezzo: sono sicuramente delle Lettere, ma non vi è esclusa la forma epistolare. Si prenda, ad esempio, la Lettera ai Romani, dove agli aspetti personali, rivolti ai destinatari, come nella sezione parenetica (12,1-15,13), si accompagna la sezione dottrinale (1-8).



COMMENTO ALLA PRIMA LETTERA

AI TESSALONICESI



PARTE INTRODUTTIVA




Panorama storico di Tessalonica

La città di Therma, posta sul golfo Thermaico nel mar Egeo, fondata probabilmente dai Corinti sul finire del VII sec. a.C., venne rifondata dal generale macedone Cassandro nel 315 a.C., alla quale dette il nome della propria moglie Thessalonike, sorellastra di Alessandro Magno, e così chiamata per commemorare la vittoria che Filippo II, padre di Alessandro Magno, ottenne sui Tessali nel giorno della sua nascita. Tessalonica, l'odierna Salonicco, infatti, significa “Vittoria sui Tessali”.

Dopo la conquista di Emilio Paolo nel 168 a.C., entrò nell’orbita di Roma, che nel 146 a.C. la fece capitale della provincia romana di Macedonia. Comincia così la sua ascesa verso il suo massimo splendore.

Già notevole centro commerciale e urbanistico, Tessalonica crebbe rapidamente d’importanza con la costruzione della via “Egnatia”, la principale arteria che univa Roma all’Oriente. Fu, dunque, un centro urbanistico e portuale tra i più grandi del mar Egeo e un crocevia etnico-religioso di notevole rilievo.

Lì si incontravano Greci, Romani, Egiziani ed asiatici, ognuno con le proprie divinità, le proprie credenze e le proprie culture. Lì vi era anche una consistente comunità ebraica con la propria sinagoga, con il proprio tribunale e con la propria assemblea degli anziani (At 17,1). Questo va tenuto presente, perché Paolo inizierà la sua evangelizzazione proprio a partire dalla comunità ebraica qui stanziata e da cui ne uscirà, come vedremo, la prima comunità credente di Tessalonica (At 17, 2-4), alla quale l'Apostolo indirizzerà, tra la fine del 50 e inizi del 51 d.C., la sua prima Lettera, qui in esame.

Proprio per la sua posizione socio-economica e geografica, il livello morale della popolazione lasciava alquanto a desiderare, con tutti i vizi tipici di un grande centro commerciale e portuale, che si riscontreranno anche a Corinto. Un richiamo in tal senso Paolo lo farà in 4,3-6. E non a caso i valori morali erano difesi e propagandati anche da retori e filosofi che, a pagamento, svolgevano il ruolo di educatori, ma che, spesso, erano avidi approfittatori. Forse proprio per non essere confuso con questi, Paolo ricorderà in 2,9-12 ai Tessalonicesi come lui ha sempre lavorato per non farsi mantenere da nessuno e, inoltre, chiamerà a testimonianza gli stessi Tessalonicesi e Dio sulla sua rettitudine e correttezza nei loro confronti (2,10a).

Nel 42 a.C. Tessalonica ottiene lo status giuridico di città libera, con una propria assemblea popolare, un consiglio, un collegio di magistrati eletti dal popolo e il cui numero variava da due a sei membri (At 17,6.8).


L’evangelizzazione

L’importanza della città ha sicuramente influito sulla decisione di Paolo di recarsi a Tessalonica, spinto anche da una visione notturna, in cui un Macedone lo supplicava di aiutarli (At. 16,9-10).

Paolo vi giunge durante il suo secondo viaggio missionario, svoltosi tra il 49-52 d.C.

L’annuncio del vangelo è brevemente descritto in At. 17,2-3: “Come era sua consuetudine Paolo vi andò (nella sinagoga nda) e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture, spiegandole e dimostrando che il Cristo doveva morire e risuscitare dai morti; il Cristo, diceva, è quel Gesù che io vi annunzio”.

L’annuncio viene rivolto, come di consueto, dapprima ai Giudei (per ben tre sabati si reca alla sinagoga), poi ai Greci, a delle donne nobili. Ma dove trova più credito è presso le classi più umili: schiavi, liberti e sfaccendati, che Paolo riprenderà in 1Ts 4,11-12.

Il tempo che Paolo dedicò alla predicazione ai Giudei fu di soli tre sabati, ma è da pensare che la sua permanenza a Tessalonica sia stata almeno di sei mesi e probabilmente anche di più, considerato che, nel fuggire, lascia una comunità già strutturata e con dei capi, che chiede ai Tessalonicesi di rispettare ed amare (1Ts 5, 12-13). Ma, tuttavia, non vi è rimasto un tempo sufficiente per completare la sua catechesi; infatti in 1Ts 3,10 afferma che desidera vedere nuovamente il volto dei Tessalonicesi per completare ciò che ancora manca alla loro fede. Temi di catechesi che Paolo anticiperà già in qualche modo nei capp. 4-5 della stessa Lettera, prima Tessalonicesi.

Inoltre, lì a Tessalonica ebbe il tempo di esercitare un mestiere (1Ts 2,9) e di ricevere per ben due volte doni dai Filippesi, come ricorderà in Fil 4,16: “ed anche a Tessalonica mi avete inviato per due volte il necessario” (Filippi dista da Tessalonica circa 150 Km).

Ma l’ostilità dei Giudei lo costringono ad una fuga repentina e precipitosa (At 17,10a). Si comprende, dunque, la sua ansia e preoccupazione, che lo tormentano vivamente per la fede di una comunità che aveva appena fondato e che ha dovuto abbandonare troppo presto: “per questo siamo consolati, fratelli, da voi in ogni nostra sofferenza e (in ogni nostra) afflizione per la vostra fede” (1Ts 3,7).

Da qui fugge a Berea, dove sarà contrastato da Giudei giunti appositamente da Tessalonica (At 17,10-14). Se ne andrà, dunque, ad Atene. Qui, però, fallisce il suo tentativo di evangelizzazione (At 17,15-33). Da qui prosegue per Corinto (At 18,1), dove, ricevute notizie rassicuranti sui Tessalonicesi da parte di Timoteo (3,6), appositamente inviato (3,1-5), scrive la sua prima lettera ai Tessalonicesi, che è sostanzialmente, da un lato, un rendimento di grazie a Dio per la saldezza della loro fede (capp.1-3); dall’altro, un completamento di istruzioni e catechesi che non aveva potuto perfezionare (capp.4-5), per la sua fuga repentina (1Ts 3,10).

La lettera

La lettera, scritta tra la fine del 50 e gli inizi del 51 d.C., è stata sempre da tutti riconosciuta come autentica di Paolo, in quanto che vocabolario, stile e pensiero sono tipicamente suoi. Tuttavia l'autenticità fu per la prima volta messa in discussione da Ferdinand Christian Baur (1792-1860), teologo ed esegeta di punta della scuola esegetica di Tubinga. Egli sosteneva che non poteva essere di Paolo uno scritto così poco originale, povero di concetti dogmatici e dove non compare mai il tema sulla libertà dalla Legge mosaica.

Se è vero che la Prima Lettera ai Tessalonicesi è uno scritto povero da un punto di vista dottrinale, tuttavia deve esserne compreso il motivo. Innanzitutto va detto che Paolo scrive alla comunità credente di Tessalonica solo per esprimere la sua incontenibile gioia nell'apprendere che la fede di questa comunità, che non aveva ancora completatamene catechizzato, ha saputo reggere all'urto delle persecuzioni. Quindi non c'erano problemi dottrinali o, comunque, intracomunitari tali da richiedere un suo intervento e un loro inquadramento teologico o cristologico, come avvenne, invece, per la Lettera ai Galati o per quelle due indirizzate ai Corinti o quella ai Romani, le uniche che il Baur ritiene autentiche. Questa prima ai Tessalonicesi è una lettera sui generis, che va compresa come una incontenibile esternazione di esultanza di Paolo per la forza che questa comunità ha saputo dimostrare non solo resistendo alle persecuzioni, ma anche diffondendo essa stessa l'annuncio del Vangelo in tutta la Macedonia e l'Acaia (1,7-10). È una lettera questa con cui Paolo ha voluto dare forma tangibile e concreta alla sua prorompente felicità, che per ben tre capitoli, capp. 1-3, si traduce in un continuo rendimento di grazie (1,2; 2,13; 3,9). Una Lettera che si pone in netta antitesi a quella dei Galati, dove Paolo, invece, sentendosi tradito dalle comunità della Galazia, per essere passate al giudaismo e, in parte, per essersi nuovamente aperte agli antichi riti pagani (Gal 1,6-7; 4,8-11; 5,1-6), salta completamente la sezione del rendimento di grazie, che invece si ritrova in tutte le altre lettere paoline o di scuola paolina.

Va poi detto che questa Lettera è il più antico scritto cristiano in nostro possesso e probabilmente anche il primo di Paolo, databile tra la fine dell'anno 50 e primi mesi del 51 d.C., cioè circa 14/15 anni dopo l'evento di Damasco (36 d.C. circa), che segna la svolta esistenziale di Paolo, che da fanatico della Legge mosaica diviene fanatico del Cristo risorto (Gal 1.13-17). Dopo tale evento Paolo rimane per circa dieci anni all’interno delle comunità cristiane di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia a maturare la propria fede; anni questi in cui egli comincia a formare e a strutturare il suo pensiero teologico e cristologico, che soltanto l'impatto con le realtà delle nuove comunità credenti, che egli andava fondando nel corso della sua attività missionaria e di evangelizzazione, riuscirà a sviluppare e ad approfondire fino a toccare i vertici della Lettera ai Romani, scritta tra il 57 e il 58 d.C., l'ultima de suoi scritti, mentre quella prima ai Tessalonicesi fu il primo dei suoi scritti, che risente, quindi, ancora dell'acerbità di un pensiero teologico e cristologico non ancora pienamente formato, ma in fase di formazione. Non stupisce, quindi, che questa prima lettera ai Tessalonicesi non brilli particolarmente per teologia e cristologia, poiché il suo pensiero teologico e cristologico qui è ancora in nuce, ma prevale l'esperienza della vita comunitaria e la testimonianza della fede, quella che anche lui ha vissuto di recente per dieci anni presso le diverse comunità credenti, che frequentava, e presso le quali ha imparato il modo di vivere e di conservare la fede, strutturata su inni cristologici e teologici e su numerose formule di fede, delle vere perle, che sintetizzano le prime elaborazioni teologiche e cristologiche del primitivo pensiero cristiano nei suoi albori. Formule di fede che troviamo numerose nelle sue lettere.

Tra la prima Lettera ai Tessalonicesi e quella ai Romani, quindi, intercorrono 7/8 anni di maturazione del pensiero paolino, più acerbo agli inizi, decisamente più maturo alla fine; più naȉf, potremmo dire, rispetto alle altre lettere succedutesi in seguito, anche se già si vede in questa prima ai Tessalonicesi l'impronta del futuro Paolo.

Tuttavia va detto che questa lettera, a mio avviso, riveste una sua particolare importanza storica, perché proprio per il fatto che qui il pensiero di Paolo non è ancora molto evoluto da un punto di vista teologico e cristologico, esso rispecchia quello delle primissime teologie e cristologie delle primissime comunità credenti, dalle quali Paolo ha mutuato il proprio pensiero, in cui sta muovendo i suoi primi passi da credente, testimoniando in tal modo il già possente pensiero dottrinale della chiesa nascente nei suoi primissimi albori, “quando c'era ancora buio” attesterà Gv 20,1 iniziando il suo racconto sulla scoperta della risurrezione di Gesù. Un pensiero che Paolo saprà ancor più potenziare ed approfondire, raggiungendo gli ineguagliabili vertici della Lettera ai Romani.

Il testo della Lettera si compone di cinque brevi capitoli e 89 versetti e si suddivide in due parti:

  1. la prima parte (capp.1-3) è caratterizzata dal ricorrente motivo del rendimento di grazie (1,2; 2,13 ; 3,9), attorno al quale girano e si strutturano questi primi tre capitoli e che sgorga da una incontenibile e prorompente gioia. Paolo, infatti, a motivo della persecuzione dei Giudei nei suoi confronti, ha dovuto abbandonare repentinamente la neonata comunità, con cui ha profondi legami di affetto e a cui si sente legato come una madre con la propria creatura e come un padre verso i figli (2, 7.11). Ma le buone notizie recate da Timoteo, gli tolgono ogni ansia e dubbio, lo sollevano alquanto (3, 6-8) e si traducono in gratitudine e in ringraziamento verso Dio.

  2. La seconda parte (capp.4-5) è costituita da una serie di esortazioni, ammonimenti, incoraggiamenti e istruzioni. Quattro i temi di questa seconda parte:

    Con questa seconda parte Paolo completa la formazione dei Tessalonicesi, lasciata in sospeso per la repentinità della sua fuga (1Ts 3,10).

La struttura della lettera

        1. Ringraziamento per la fede, carità e speranza dei Tessalonicesi (1,2-3)

        2. Ampliamento del ringraziamento per la risposta dei Tessalonicesi alla predicazione di Paolo (1,4-10)

        3. Il ricordo dell’attività di Paolo diventa motivo di ringraziamento (2,1-12)

        4. Ripresa del ringraziamento per la risposta dei Tessalonicesi alla predicazione di Paolo (2,13-16)

        5. Il tempo della lontananza: Paolo invia Timoteo a Tessalonica (2,17 – 3,5)

        6. Ripresa dei ringraziamenti: Timoteo, ritornato, porta buone notizie (3,6-13)

                                Introduzione (4,1-2)

            1. La ricerca della santità (4,3-8)

            2. L’amore fraterno (4,9-12)

            3. Il destino di coloro che sono morti (4,13-18)

            4. I tempi e i momenti della fine (5,1-11)

            5. I responsabili della comunità (5,12-13)

            6. Esortazioni varie e conclusive (5,14-22)



PARTE ESEGETICO - TEOLOGICA


SEZIONE DEI RENDIMENTI DI GRAZIE

(1,1 - 3,13)




Il primo rendimento di grazie (1,1-10)

Testo a lettura facilitata

Il prescritto (v.1)

1- Paolo e Silvano e Timoteo alla chiesa (dei) Tessalonicesi in Dio Padre e (nel) Signore Gesù Cristo, grazia a voi e pace.

Primo rendimento di grazie (v.2)

2- Rendiamo grazie a Dio sempre per tutti voi, facendo memoria nelle nostre preghiere incessantemente,

Le motivazioni che sottendono questo primo rendimento di grazie (vv.3-10):

a) La fervente vita spirituale della comunità (v.3)

3- ricordandoci davanti a Dio e Padre nostro dell'operosità della vostra fede e della fatica del (vostro) amore e della perseveranza della (vostra) speranza nel nostro Signore Gesù Cristo,

b) La forza dell'annuncio di Paolo (vv.4-5)

4- conoscendo, fratelli amati da Dio, la vostra elezione,
5- poiché il nostro vangelo non fu manifestato a voi con (la) sola parola, ma anche con forza e nello Spirito Santo e con molta convinzione, come sapete quali siamo stati in mezzo a voi (e) per voi.

c) E la risposta entusiastica dei Tessalonicesi (v.6)

6- E voi vi siete fatti nostri imitatori e del Signore, avendo accolto la parola in mezzo a molta afflizione, con (la) gioia (dello) Spirito Santo,

d) Che si fa azione missionaria in tutta la regione (vv.7-10)

7- così che voi diveniste modello per tutti i fedeli (che sono) nella Macedonia e nell'Acaia.
8- Da voi, infatti, è uscita fuori la parola del Signore non solo nella Macedonia e [nell]'Acaia, ma in ogni luogo la vostra fede, che (è) verso Dio, è stata esportata, così che noi non abbiamo più bisogno di parlarne.
9- Infatti, loro stessi raccontano su di noi quale accesso abbiamo avuto presso di voi e come vi siete convertiti a Dio dagli idoli (e) servire al Dio vivente e vero
10- e aspettare il suo Figlio dai cieli, che (Egli) risuscitò d(ai) morti, Gesù, che ci ha sottratti dall'ira che viene.

Note generale

Il primo capitolo si apre con un prescritto (1,1) che dà un tono ecclesiale all'intera lettera, presentandosi Paolo in comunione con altri due personaggi, Silvano e Timoteo. I verbi, poi, che seguiranno nella lettera, non sono quasi mai posti in prima persona singolare, ma in prima plurale, segno, questo, che qui non sta parlando solo Paolo, ma anche, in accordo con lui, i suoi collaboratori e con loro l'intera Chiesa.

Il capitolo prosegue, poi, in 1,2 con il primo “rendimento di grazie”, al quale ne seguiranno altri due in 2,13 e in 3,9 e attorno ai quali gireranno rispettivamente i capp. 2 e 3.

Al primo rendimento di grazie seguono le motivazioni che lo giustificano:

  1. il tenore di vita spirituale della “chiesa dei Tessalonicesi”, qualificato dalla fede operosa, da un amore faticoso e da una speranza, che li colloca solidamente in Dio Padre e in Gesù Cristo (1,3);

  2. l'accoglienza che i Tessalonicesi hanno fatto del Vangelo annunciato da Paolo e, facendosi suoi imitatori, divennero essi stessi esempio non solo di vita cristiana, ma anche di missionarietà, avendo essi stessi annunciato, a loro volta, la Parola accolta, all'intera regione della Macedonia e dell'Acaia (1,3-10).

In queste due motivazioni vengono posti i temi, che Paolo riprenderà, approfondendoli, nel cap.2, dove si darà ampio spazio all'attività missionaria di Paolo presso i Tessalonicesi (2,1-12) e all'accoglienza dell'annuncio del suo Vangelo, che verrà definito quale Parola di Dio e non di un semplice uomo, lodando i Tessalonicesi per aver saputo cogliere la vera natura di quel annuncio (2,13-14), facendosi poi imitatori di Paolo non solo nella sua missionarietà, ma anche nel saper soffrire le persecuzioni dei loro connazionali, così come la chiesa madre di Gerusalemme stava sopportando quelle dei Giudei (2,15-16). Il cap.2, quindi, sarà una ripresa e un approfondimento di questo primo capitolo.

Ci si trova, quindi, di fronte ad una riflessione sulla fondazione della chiesa di Tessalonica, resa possibile dall'entusiastica accoglienza che i Tessalonicesi hanno riservato all'annuncio del Vangelo e dal grande fermento spirituale che ha generato in essi, divenuto, poi, lievito fecondo per l'intera regione della Macedonia e dell'Acaia, nonostante le persecuzioni della comunità giudaica e dei loro connazionali. In tutto questo Paolo vede l'azione di Dio, a cui egli innalza per ben tre volte il suo ringraziamento per le opere che Egli ha operato in Tessalonica e che vengono qui ricordate nei primi tre capitoli della Lettera.


Commento ai vv. 1-10

Il prescritto (v.1)

Nell’antichità greco-romana la lettera iniziava con un prescritto composto da tre parti: mittente, destinatario e saluti. Ne abbiamo un esempio in At. 23,26: “Claudio Lisia all’eccellentissimo governatore Felice, salute”. Tuttavia, il nostro prescritto si differenzia in quattro punti da quello citato:

  1. Il mittente è plurimo: Paolo, Silvano e Timoteo, dove Paolo si associa con gli altri due suoi collaboratori, mettendo in evidenza l’aspetto collegiale ed ecclesiale dello scritto, che perde, quindi, la sua valenza personalistica per assumere un aspetto comunitario, dandogli un tono di ufficialità: non è più Paolo che scrive, ma è l'autorità ecclesiale, che prevale nello scritto.

Il primo collaboratore, che qui compare, è Silvano o Sila. Questi è un personaggio di rilievo nel cristianesimo del I sec. (il suo nome compare ben diciassette volte in At e nelle varie Lettere neotestamentarie) ed è membro stimato della chiesa madre di Gerusalemme e, insieme a Paolo, Barnaba e Giuda, è inviato dall'assemblea conciliare di Gerusalemme ad Antiochia con una lettera che decretava la non obbligatorietà della circoncisione per gli etnocristiani6 (At 15,22-32).

Quanto a Timoteo, questi nacque da padre greco e madre giudea, che gli insegnò le Sacre Scritture (2Tm 1,5; 3,15a). Paolo lo prese con sé nei suoi viaggi missionari, durante i quali egli si convertì al cristianesimo. Paolo lo definirà in Rm 16,21 “mio collaboratore”, mentre in 1Cor 4,17 lo chiamerà “mio figlio diletto e fedele nel Signore” e così in 1Tm 1,2 “Timoteo, mio vero figlio nella fede” e in 2Tm 1,2 “al diletto figlio Timoteo” e similmente in 1Tm 1,18 “figlio mio Timoteo”, mentre altrove lo chiamerà “fratello” (2Cor 1,1; 1Ts 3,2). Da questi appellativi, di cui Timoteo è insignito da Paolo, si può pensare che tra i due corresse un particolare legame di affetto e di grande e reciproca stima (2Tm 1,4), cose queste che non erano semplici da ottenere da Paolo, molto esigente e duro con i suoi collaboratori.

I nomi dei mittenti, infine, sono posti senza appellativi, contrariamente a quanto Paolo, invece, farà altrove, dove si presenterà sempre con le sue credenziali, affermando la sua speciale apostolicità, quale investitura proveniente direttamente da Dio Padre e da Gesù Cristo e non dagli uomini (Gal 1,1; Rm 1,1; 1 e 2Cor 1,1). Questo può significare, da un lato, che la sua autorità, qui, non è messa in discussione; ma anche, dall'altro, che egli doveva forse ancora maturare pienamente l'unicità esclusiva del suo ruolo apostolico di origine divina, lasciando, invece, maggior spazio alla ecclesialità. Del resto, fu questa la sua prima esperienza di vita cristiana. Solo successivamente, dopo una decina di anni trascorsi in seno a diverse comunità credenti, maturerà la sua vocazione missionaria e il suo ruolo esclusivo di “apostolo delle genti”, come si autodefinirà in Rm 11,13, inviato direttamente da Dio Padre e da Gesù Cristo, imponendosi così in mezzo agli altri apostoli.

  1. Destinatario qui non è una persona, bensì una comunità: l’ ™kklhs…a. (ekklesía). Questo titolo nel cristianesimo primitivo era assegnato alla Chiesa madre di Gerusalemme, formata esclusivamente da giudeocristiani, che si ispiravano ancora alla Legge mosaica e, quindi, prevalentemente giudaizzanti. La comunità credente di Tessalonica era, dunque, insignita del titolo di “ekklesía”, un termine questo che è la traduzione greca di quello ebraico “qâhâl”, che significa assemblea, adunanza, che la qualificava quale nuovo popolo di Israele, succeduto a quello vecchio. L'uso, tuttavia, del termine “ekklesía” assume anche un significato più pregnante. Il termine, infatti, deriva dall'espressione greca “ek kaleo”, che significa “chiamare fuori da” e quindi assume il senso di “convocare, eleggere”, dando un senso di universalità e di elezione universale. Paolo, quindi, superando il ristretto significato dell'appellativo “ekklesía”, riservato prevalentemente alla chiesa madre di Gerusalemme, lo estende anche alle comunità credenti etnocristiane, poiché anche queste sono delle elette e delle convocate a dare lode a Dio Padre in Gesù Cristo. Ma qui Paolo va ben oltre, poiché qualifica l' “ekklesía” quale comunità credente che si trova “™n qeù patrˆ kaˆ kur…J 'Ihsoà Cristù” (en tzeô patrì kaì kirío Iesû Cristô, in Dio Padre e Signore nostro Gesù Cristo), dove quel “™n” (en, in) sta ad indicare uno stato di vita, una condizione esistenziale, che pone la comunità di Tessalonica nel ciclo vitale di “Dio Padre e del Signore Gesù Cristo”. Questo esprime una profonda unione di appartenenza, che si fa vita di comunione intracomunitaria e con Dio Padre e con il Signore Gesù Cristo. Un concetto questo che verrà espresso anche in 1Gv 1,3: “quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”. In altri termini, la comune fede dei credenti crea una comunione di vita tra di loro e, nel contempo, anche con Dio Padre e con Gesù Cristo, rafforzata dal dono dello Spirito Santo.

Qui Dio è qualificato con il nome di “Padre” con il quale Gesù stesso si rivolgerà a Dio, ma che condividerà anche con noi: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17b). Quanto all’appellativo “Signore”, attribuito a Gesù Cristo, Paolo riconosce la potenza divina che si è sprigionata nell'uomo Gesù, riconosciuto quale Cristo, cioè Messia, nell’atto della sua risurrezione, riconoscendo in lui la sua signoria universale e, per questo, anche universalmente salvifica. Un termine, dunque, salvifico e potente in cui è posta la comunità di Tessalonica.

  1. Abbiamo, infine, qui una formula a due membri: “Dio Padre” e “Signore Gesù Cristo”, che Paolo ha probabilmente mutuato dalle primissime comunità cristiane durante la sua formazione.

  2. Il prescritto si conclude con la formula di rito, di stampo liturgico, che va ben al di là del semplice saluto augurale: “c£rij Øm‹n kaˆ e„r»nh” (cáris imîn kaì eiréne, grazia a voi e pace). Il termine “Cáris” indica, qui, l’amore misericordioso e gratuito di Dio, fonte del suo perdono e di salvezza; mentre “eiréne” ne esprime la conseguenza: la riconciliazione tra Dio e gli uomini, che deve riflettersi nella riconciliazione degli uomini tra di loro. Pace fatta, dunque, tra Dio e gli uomini in Cristo, quale dono del Risorto ai credenti (Gv 20,19).

Il primo rendimento di grazie (v.2)

Dopo il prescritto, Paolo apre la sezione dei ringraziamenti di grazie, che si estenderà a tutto il cap.3. Tre sono i personaggi qui coinvolti: Paolo con i suoi collaboratori, la chiesa di Tessalonica e Dio. Il v.2 inizia con il verbo “Eùcaristoàmen” (Eôcaristumen, rendiamo grazie), fatto seguire dall'altra espressione verbale “mne…an poioÚmenoi” (mneíav poiúmenoi, facendo memoria). Espressioni queste che in qualche modo richiamano il contesto liturgico e creano la cornice sacrale entro cui verranno poste le motivazioni, che hanno suscitato in Paolo e nei suoi collaboratori questo rendimento di grazie. Si tratta, del resto, di una comunità credente che è collocata “in Dio e nel Signore nostro Gesù Cristo” (1,1) e che, proprio per questo, i suoi membri sono insigniti in altre lettere, teologicamente più evolute, con l'appellativo di “santi”7, cioè partecipi della vita stessa di Dio, che in quanto tali, sono a Lui consacrati.

Significativi i due avverbi “p£ntote” (pántote, sempre) e “¢diale…ptwj” (adialeíptos, incessantemente), che qualificano il “rendimento di grazie” e il “fare memoria”, estendendoli nel tempo, quasi a sconfinare nell'eternità di Dio. Siamo, dunque, entrati in una liturgia di lode e di ringraziamento a Dio per quanto Egli ha dato ai credenti in Tessalonica, costituendoli “ekklesía”, cioè assemblea celebrante il culto al Dio Vivente.

Le motivazioni che sottendono questo primo rendimento di grazie (vv.3-10)

All'interno di questo contesto sacrale e celebrativo, Paolo pone ora quattro momenti, oggetto dell'azione di grazie, disposti a parallelismi concentrici in B)

La fervente vita spirituale dei Tessalonicesi (A) trova il suo completamento nell'esportazione dell'esperienza che essi hanno fatto della Parola di Dio, traducendosi in azione missionaria (A1). Motore e lievito di questa comunità credente, così viva e intraprendente (A-A1), sono, da un lato, l'annuncio di Paolo, carico della potenza dello Spirito Santo (B); dall'altro, la sua accoglienza entusiastica da parte dei Tessalonicesi, così da diventare modello di vita credente per tutta la regione circostante (B).

La fervente vita spirituale della comunità (v.3)

Il primo motivo di ringraziamento è il contesto spirituale entro il quale s'inquadra e si muove la vita spirituale de Tessalonicesi: “l'operosità della loro fede”; “la faticosità dell'amore”; “la speranza”, che li colloca nello stesso ciclo vitale del Signore Gesù Cristo e di Dio Padre in una prospettiva escatologica.

La fede, quale risposta all'annuncio della Parola di Dio, dice l'adesione esistenziale a tale annuncio, che si riflette in modo operoso nella quotidianità del proprio vivere, così che l'intera vita viene fermentata e animata da questa fede, al cui interno tutto acquista un nuovo senso. Anche i rapporti intracomunitari sono posti sotto una luce nuova, quella dell'amore, che dice la totale apertura di se stessi all'altro, la totale donazione di se stessi all'altro, la piena accoglienza in se stessi dell'altro. L'amore è il segno inconfondibile del proprio essere credenti, poiché “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). E il mio amore per l'altro, che mi spinge a farmi prossimo per l'altro (Lc 10,30-37), diviene nel contempo l'attestazione del mio amore per Dio, poiché “ Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20b). L'amore per Dio, quindi, passa attraverso l'amore per il prossimo. Infatti “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me” (Mt 25,40.45). Si noti come il Gesù matteano non dice “è come se l'aveste fatto a me”, ma “l'avete fatto a me”. Questo significa che nell'altro è sacramentato Gesù stesso, cioè Dio stesso, che per sua natura è ontologicamente Amore e nessuno può dire di appartenergli se non nell'amore.

Ma Paolo definisce questo amore “kÒpoj8 (kópos), cioè faticoso, che richiede sforzo e può provocare sofferenza e, in qualche modo, ha a che fare con un certo travaglio interiore, poiché questo amore, per sua natura, chiede di liberarsi del proprio “ego” e dalle sue pretese per dare spazio al “tu”, generando così un nuovo “Ego”, che trova la propria affermazione nel donarsi all'altro e nell'affermare l'altro.

L'elogio alla nuova vita della chiesa di Tessalonica si chiude evidenziando la “perseveranza della (vostra) speranza”. Il richiamo alla speranza, posta qui per ultima nell'elencazione delle tre virtù teologali, rompe lo schema, a cui la Tradizione ci ha abituati, che è quello citato da 1Cor 13,13: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!”. L'inversione dell'ordine di citazione non è casuale, ma obbedisce a delle precise finalità che Paolo si era proposto. Là, in 1Cor 13,13, l'intento era duplice: il primo teologico, il secondo letterario. Quanto al motivo teologico, Paolo intendeva mettere in evidenza l'amore, all'interno di una comunità dove vi erano divisioni e contrapposizioni (1Cor 1,11-12; 11,17-18), rilevando come, in ultima istanza, ciò che prevale su tutto è l'amore, poiché è ciò che rimane dopo che il credente è entrato nell'eternità di Dio. Allora cesserà la fede, perché si vedrà direttamente e in modo palpabile ciò che era stato oggetto della propria fede, che è un credere pur non vedendo e toccando; cesserà, poi, anche la speranza poiché le cose sperate sono ora possedute. Ma ciò che rimarrà è l'amore che si è vissuto nella quotidianità della propria vita, poiché quel amore era il riflesso dell'Amore, che entrando nell'eternità di Dio ci abbraccerà e ci riconoscerà come suoi figli, poiché “Dio è Amore” (1Gv 4,8.16).

Vi è poi anche un motivo letterario, che ha spinto Paolo a concludere l'inno alla carità (1Cor 13,1-13) con il termine “carità”, perché questo doveva fungere da parola aggancio al successivo cap.14, che si apre con un'esortazione: “Ricercate la carità,” con cui inizia il tema dei doni dello Spirito, di cui tutti sono investiti e che vanno spesi all'interno delle logiche della carità, per il bene di tutti i membri della comunità credente e per la loro crescita nello Spirito.

Tuttavia, qui in 1Ts 1,3, l'ordine di enumerazione cambia e il termine “speranza” viene posto come ultimo tra le tre virtù teologali: fede, amore e speranza. Anche qui il motivo è squisitamente teologico e punta ad una duplice finalità: da un lato, sostenere i credenti di Tessalonica nelle loro tribolazioni causate dalle persecuzioni, cercando di spingerli a guardare oltre le difficoltà presenti; dall'altro, sia per accendere una luce sul destino dei defunti, che ora vivono in Cristo, ma che con lui saranno risuscitati (4,13-18); sia per il prepararsi alla venuta del Signore, che era sentita come imminente (5,1-11). In tale contesto escatologico, la speranza spinge il credente a vivere la propria vita illuminata dalle realtà future, orientandola verso queste.

La speranza, poi, non è fondata su congetture umane ma “nel nostro Signore Gesù Cristo”, in cui quel “nel” dice il contesto di vita nuova entro cui si svolge quella dei Tessalonicesi. Significativo quel “nostro” che esprime il senso di appartenenza sia del “Signore” alla comunità credente di Tessalonica, che in lui si riconosce e vive; sia della comunità al suo Signore, divenendone sua proprietà, a lui consacrata. E poiché il titolo di “Signore” attribuito al Gesù della storia, riconosciuto quale Cristo, cioè Messia, uomo consacrato a Dio e da Lui proveniente, è un titolo che la chiesa primitiva attribuiva al Risorto, riconoscendone la Signoria universale, allora anche la speranza, che su questo “Signore Gesù Cristo” si fonda, dice come questa sia strettamente legata al mistero pasquale.

La forza dell'annuncio di Paolo (vv.4-5)

Il secondo motivo per cui Paolo rende grazie a Dio, assieme a Silvano e Timoteo (v.2a), nasce dalla coscienza che i Tessalonicesi sono stati eletti, cioè scelti da Dio in quanto da Lui amati fin dall'eternità (Ef 1,4a), ossia inclusi nel suo amore da sempre e, quindi, già fin da principio facenti parte della vita stessa di Dio e del suo progetto di salvezza. Un versetto, il 4, che richiama da vicino Dt 7,7-8a, dove Mosè attesta al popolo che “Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli - ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri”. Una elezione, dunque, fondata sull'amore (Rm 5,8), che non solo si apre ad un uomo decaduto, ma che intende anche incorporare nuovamente in Dio, poiché, benché questo uomo sia decaduto, è e rimarrà sempre “sua immagine e sua somiglianza”; un'immagine ed una somiglianza che dicono come in quest'uomo c'è l'impronta di Dio, un qualcosa che gli appartiene e che Lui intende recuperare e reintegrare in Se stesso, poiché quest'uomo fa parte di Se stesso.

Significativo, poi, quel “perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri”, un giuramento che lascia intravvedere come dietro tale giuramento vi sia un progetto di salvezza, generato dall'amore di Dio, per il quale Dio si sente legato, cioè impegnato nei confronti dell'uomo, sul quale c'è la sua stessa impronta divina e che in quanto tale gli appartiene da sempre. Non può, pertanto, permettersi di perderlo, poiché perderebbe un po' di Se stesso9.

Se il v.4 parla di elezione e di progetto di salvezza per l'uomo decaduto e del suo recupero in Dio, il tutto racchiuso nella sua elezione e in quel “amati da Dio”, il v.5 presenta lo strumento di questa azione divina di salvataggio dell'uomo: il Vangelo di Paolo, rivelato ai Tessalonicesi attraverso la parola umana di Paolo, ma con il vigore e la potenza dello Spirito Santo, che traluceva dalla convinzione stessa con cui Paolo trasmetteva il suo Vangelo ai Tessalonicesi, dalla quale fluiva la certezza della Verità, senza tentennamenti, dubbi o equivoci. Una forza che ha conquistato i Tessalonicesi, costituendoli comunità credente attorno alla Parola. Una forza e una potenza che emanavano le parole di Paolo, che i Tessalonicesi avevano percepito e di cui poi hanno preso coscienza, racchiusa in quel “o‡date” (oídate, sapete). Ciò che i Tessalonicesi hanno percepito è “quali siamo stati in mezzo a voi”, quindi lo stesso comportamento di Paolo e quello dei suoi collaboratori testimoniavano la veridicità dell'annuncio stesso. Quale fosse questo comportamento così convincente, Paolo lo dirà in 2,5-12: egli non ha mai approfittato del suo titolo di apostolo e delle prerogative che gli derivavano da tale titolo, per farsi mantenere, come facevano altri maestri e filosofi contemporanei a Paolo, ma egli lavorava notte e giorno per non gravare sui Tessalonicesi; né mai aveva usato parole di adulazione per convincerli ad aderire al suo Vangelo. Tutto ciò che egli desiderava era soltanto condividere il Vangelo con loro e con il Vangelo anche la sua vita, quale donazione totale a loro beneficio.

Paolo, quindi sottolinea qui al v.5 non solo le modalità con cui egli si è presentato ai Tessalonicesi e dimorando per almeno sei mesi o più presso di loro, ma in questo tempo ha donato loro tutto se stesso, condividendo la sua vita con loro. Per questo egli concluderà in 2,8 “ci siete diventati cari”, evidenziando un profondo legame di affetto con loro, che qui, in 1,5c con quel “per voi”, che dice tutta la forza donativa di Paolo che si accompagnava all'annuncio del suo Vangelo.

La conseguente risposta entusiastica dei Tessalonicesi …. (v.6)

La forza con cui Paolo aveva annunciato il suo Vangelo ai Tessalonicesi, nonché la correttezza e l'onestà del suo comportamento in mezzo a loro, ha avuto quale risposta da parte degli stessi un'entusiastica adesione al suo Vangelo; un entusiasmo che va compreso nel senso etimologico del termine, che esprime lo stato d'animo di beatitudine e di esaltazione di chi è “in Dio” (™n qeù, en tzeô) e, quindi, sostenuti da quella gioia spirituale che proviene dallo Spirito Santo, nonostante le persecuzioni a cui essi erano soggetti per la loro adesione alla Parola. In questo, dice Paolo, vi siete fatti miei imitatori e, di conseguenza, sono diventati imitatori del Signore, in quanto egli stesso è stato perseguitato per la sua fedeltà al Padre e al suo progetto di salvezza, che si era manifestato in lui e nella sua Parola. Del resto sarà lo stesso Gesù giovanneo che ricorderà questo parallelismo tra maestro e discepolo: “Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20a). Un concetto questo che Paolo riprenderà, approfondendolo e storicizzandolo in 2,13-16.

…. che diviene esemplare e si fa azione missionaria in tutta la regione (vv.7-10)

La pericope, circoscritta dai vv.7-10, si apre con la congiunzione consecutiva “éste” (óste, così che), che la lega al v.6 e ne fa una sua conseguenza.


La prima conseguenza di una simile entusiastica accoglienza del Vangelo di Paolo, un entusiasmo che già di per se stesso rivela l'azione dello Spirito Santo nei Tessalonicesi, fu quello di diventare essi stessi testimoni del nuovo stile di vita, inaugurato in loro per la loro accoglienza della Parola. Un nuovo modo di vivere, che si fa modello di vita cristiana secondo lo Spirito Santo e risuona in tutta la regione della Macedonia e dell'Acaia, che diviene anche terra di conquista missionaria, non più da parte di Paolo, ma da parte degli stessi Tessalonicesi: “Da voi, infatti, è uscita fuori la parola del Signore non solo nella Macedonia e [nell]'Acaia, ma in ogni luogo la vostra fede, che (è) verso Dio, è stata esportata, così che noi non abbiamo più bisogno di parlarne” (v.8).

Il v.8, pertanto, diviene la seconda conseguenza dell'accoglienza entusiastica del Vangelo di Paolo da arte dei Tessalonicesi: la Parola di Vita che ha generato nei Tessalonicesi, attraverso l'azione generante e rigenerante dello Spirito Santo, una nuova vita secondo lo Spirito, si fa, a sua volta, fermento di nuova Vita, che si traduce storicamente in un'azione missionaria sullo stile paolino, che folgorato dall'incontro con il Risorto, si reca immediatamente ad annunciare la Parola del Signore (Gal 1,15-17). Anche in questo i Tessalonicesi si sono fatti imitatori di Paolo, così che l'azione missionaria di Paolo è stata soppiantata da quella dei Tessalonicesi (v.8b).

Significativo è quel “Da voi, infatti, è uscita fuori la parola del Signore” (v.8a), che lascia intendere come ogni credente, in quanto tale e in quanto generato e rigenerato costantemente dalla Parola di Dio, che opera con la potenza dello Spirito Santo, sia diventato una sorta di tabernacolo vivente della stessa Parola, che, una volta accolta, dimora in lui, sospingendolo a generarla agli altri. Il Gesù giovanneo ricorderà proprio questi due aspetti, che caratterizzano ogni credente e la sua connaturata missionarietà: “[...] Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23) e di conseguenza “[...] Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5b). Ed è così che vengono creati i presupposti e il giusto contesto spirituale e morale per un'azione missionaria che continui quella di Gesù: “Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi” (Gv 20,21), generandosi in tal modo continuamente tra gli uomini e agli uomini.

I vv.9-10 confermano l'efficacia dell'annuncio dei neoconvertiti Tessalonicesi nella regione della Macedonia e dell'Acaia. Il soggetto qui, infatti, non sono più né Paolo né la comunità di Tessalonica, ma “gli altri”, quelli ai quali i credenti di Tessalonica hanno annunciato la Parola ad imitazione di Paolo. Questi divengono, a loro volta, testimoni dell'annuncio e nuovi credenti generati, a loro volta, dalla Parola annunciata dai primi credenti di Tessalonica, così che “La parola di Dio si diffondeva per tutta la regione” (At 13,49; 12,24).

I vv.9b-10 presentano gli effetti dell'annuncio della Parola accolta dapprima dai Tessalonicesi e poi dagli altri abitanti della Macedonia e dell'Acaia e che in qualche modo devono aver costituito gli elementi dell'annuncio del Vangelo di Paolo ai Tessalonicesi e da questi riversato sugli altri abitanti della regione della Macedonia e dell'Acaia:

  1. la conversione dei Tessalonicesi dagli idoli al Dio Vivente e vero, al cui servizio essi si sono posti. Vi è, quindi, ora, hinc et nunc, un cambio di rotta esistenziale di 180 gradi, che trasforma nei Tessalonicesi il loro stesso modo di vivere e di percepire il mondo, cioè se stessi, gli altri e le cose. Tutto acquista una nuova valenza, un nuovo significato, perché tutto viene posto sotto una nuova luce, quella divina, che genera una nuova comprensione delle realtà.

  2. Il servizio a Dio, poi, è condizionato da un evento escatologico, che nella chiesa del I sec. era sentito come imminente: la venuta del Signore, che si traduce per i credenti in una attesa del suo ritorno. L'attesa, come dice il suo significato etimologico, è un “ad tendere”, cioè una forte tensione esistenziale verso l'evento escatologico, che avrebbe posto fine a tutte le cose e instaurato il Regno di Dio, cambiando radicalmente e definitivamente il modo di vivere degli uomini. Il linguaggio con cui qui Paolo esprime tale evento e quello proprio della credenza primitiva della chiesa delle origini: “aspettare il suo Figlio dai cieli”.

  3. Ed è a tal punto che viene qui introdotto, quasi di soppiatto, con quel “suo Figlio”, un altro personaggio, che fa parte dell'annuncio che Paolo deve aver fatto ai Tessalonicesi e da questi riversato agli altri della regione della Macedonia e dell'Acaia: il Padre, colto qui come il regista e attore principale del suo progetto di salvezza, che ha attuato con l'incarnazione, la morte e la risurrezione di suo Figlio, inaugurando quei cieli nuovi e quella terra nuova vaticinati da Isaia (65,17; 66,22) e sognati da Giovanni nell'Apocalisse (21,1);

  4. e il tutto finalizzato a sottrarci all'ira che viene, in altri termini, al perdono dei peccati, ricostituendoci suoi figli nel Figlio, in cui pace è fatta tra Dio e gli uomini.

Il secondo rendimento di grazie (2,1-16)

Un commosso ricordo dell'azione missionaria di Paolo presso i Tessalonicesi (vv.1-12)



Testo a lettura facilitata

Introduzione ai ricordi della prima azione missionaria presso i Tessalonicesi (v.1)

1- (Voi) stessi, fratelli, sapete, infatti, che la nostra venuta presso di voi non fu vana,

L'annuncio del Vangelo nonostante le numerose difficoltà (v.2)

2- ma prima offesi e oltraggiati, come sapete, a Filippi (At 16,12.16-24), abbiamo parlato schiettamente nel nostro Dio, (cioè) annunciare presso di voi il vangelo di Dio con molto affanno.

Da dove trae forza l'annuncio del Vangelo (vv.3-4)

3- Infatti, la nostra esortazione (alla fede) non (è nata) da errore né da corruzione né n(ell') inganno,
4- ma come siamo stati giudicati degni da Dio di affidarci il vangelo, così (lo) annunciamo, non come per piacere agli uomini, ma a Dio, che giudica i nostri cuori.

Nel suo annuncio del suo Vangelo Paolo rifugge da ogni ricerca di supporto umano (vv.5-12)

5- Né, infatti, mai siamo stati in parola di adulazione, come sapete, né in motivo di avidità, Dio (è) testimone,
6- né cercando (la) gloria dagli uomini, né da voi né da altri,
7- (pur) potendo (farci valere) con autorità come apostoli di Cristo, ma diventammo bambini in mezzo a voi, come se una nutrice riscaldasse i suoi figlioletti,
8- così desiderandovi, volevamo condividere con voi non solo il vangelo di Dio, ma anche le (nostre) stesse vite, perché ci siete diventati cari.
9- Ricordate, infatti, fratelli, la nostra fatica e il (nostro) travaglio; lavorando di notte e di giorno per non gravare qualcuno di voi, annunciammo per voi il vangelo di Dio.
10- Siete testimoni voi e Dio, come (noi) fummo per voi, che credete, santi e giusti e irreprensibili,
11- come sapete, come (abbiamo incoraggiato) ciascuno di voi, come un padre (i) suoi figli,
12- esortandovi e consigliandovi(vi) e dando(vi) testimonianza affinché voi camminiate in modo degno di Dio, che vi ha chiamati per il suo Regno e (la sua) gloria.


Note generali

Sull'onda di quel “mnhmoneÚontej” (mnemoneúontes, ricordandoci, 1,3a), da cui sgorgano poi i tre rendimenti di grazie, dal sapore liturgico, Paolo prosegue, ora, nei suoi ricordi missionari presso i Tessalonicesi. Qui, in 2,1-12, rievoca i primi momenti del suo incontro con loro. Centrale in questo racconto, tuttavia, non è l'azione di Paolo e le relazioni che è riuscito ad instaurare con i Tessalonicesi, quanto il suo Vangelo, attorno al quale ruota l'azione di Dio e la totale dedizione di Paolo. Un Vangelo che gli è stato affidato da Dio stesso (v.4), così da spingere Paolo a superare ogni ostacolo (v.2), fino a raggiungere i Tessalonicesi, ai quali è stato annunciato, nonostante le difficoltà e le persecuzioni subite (v.2). Una dedizione, quella di Paolo, scevra da ogni interesse umano (vv.5-6), ma pregna di sacrifici e di sofferenza pur di non gravare sui Tessalonicesi per il suo mantenimento e le sue necessità (v.9), per evitare di adombrare in qualche modo l'annuncio del suo Vangelo con possibili interessi personali (1Cor 9,12), al punto tale da non far valere neppure la sua autorità di apostolo (v.7a), da cui dipendeva anche il diritto di farsi mantenere (1Cor 9,1-18). Per contro, il suo rapporto con i Tessalonicesi fu mite e affettuoso come quello di una madre nei confronti dei propri figlioletti, con i quali condivide la sua stessa vita (v.7b-8), perché li ama, e incoraggiandoli come può fare un padre, affinché percorrano la retta via e su questa si mantengano (v.11-12). Il comportamento materno e paterno nei loro confronti fu anche accompagnato da una irreprensibile correttezza, che esaltava la giustizia e la santità di Paolo (v.10).

Una rievocazione, quindi, dell'operato di Paolo presso i Tessalonicesi sull'onda di un commosso ricordo per i rapporti che si sono instaurati con loro: “così desiderandovi, volevamo condividere con voi non solo il vangelo di Dio, ma anche le (nostre) stesse vite, perché ci siete diventati cari”.

Introduzione ai ricordi della prima azione missionaria presso i Tessalonicesi (v.1)

Il v.1 si apre con “AÙtoˆ g¦r o‡date” (Autoì gàr oídate, voi stessi infatti sapete), dove quel “o‡date” (oídate, sapete) richiama alla memoria dei Tessalonicesi l'esperienza salvifica che essi hanno vissuto con l'annuncio di Paolo, che li ha poi coinvolti anche nell'esperienza missionaria, facendosi imitatori di Paolo (1,6a). Ma nel contempo con quel “g¦r” (gàr, infatti) essi vengono chiamati a dare la loro testimonianza su quanto ora Paolo sta rievocando, cioè il ricordo del primo incontro che egli ebbe con i Tessalonicesi. La sua “venuta” presso di loro “non fu vana”. Una battuta, quest'ultima, che dice il successo che Paolo ebbe presso di loro e che già, in qualche modo, era stato lasciato trasparire in 1,3.6-10, predisponendo, così, il lettore a saperlo cogliere anche là dove si parla di persecuzione e di sofferenza, perché è proprio questa diffusione inarrestabile del Vangelo in mezzo agli ostacoli e nonostante questi, che mette in evidenza la sua inarrestabilità e quella dell'azione divina, nonostante gli impedimenti frapposti dagli uomini. Il progetto salvifico di Dio procede comunque.

L'annuncio del Vangelo nonostante le numerose difficoltà (v.2)

Il v.1 attestava come la venuta di Paolo presso i Tessalonicesi “non fu vana”. Ora il racconto prosegue per rivelare il perché della fruttuosità dell'azione di Paolo presso di loro. Paolo qui fa un passo indietro e narra ai Tessalonicesi come egli sia arrivato da loro, dopo essere fuggito da Filippi, dove egli venne oltraggiato e perseguitato. Il racconto qui fa riferimento all'episodio riportato da At 16,19-24, dove si narra che una schiava, che possedeva poteri divinatori e della quale i suoi padroni si servivano per fare soldi e affari, venne da Paolo liberata dallo spirito che la possedeva, causando l'irritazione dei suoi padroni, che deferirono Paolo e Sila davanti alle autorità, accusandoli di sobillare il popolo. I magistrati li fecero bastonare e poi gettare in carcere, da dove vennero liberati, con le scuse dei magistrati e delle guardie, avendo saputo che Paolo era un cittadino romano, condannato e percosso senza processo, la quale cosa comportava delle dure sanzioni da parte dell'Impero contro comportamenti simili (At 16,35-40).

Dopo questo episodio, Paolo e Sila giunsero a Tessalonica, dove predicarono il Vangelo con fermezza e con la forza che veniva loro da Dio. Per tre sabati, infatti, predicarono nella sinagoga ottenendo numerose adesioni anche tra i Greci, suscitando la gelosia dei Giudei, che mettendo in subbuglio la città, li accusarono di sovvertire l'ordine costituito da Roma, esponendo i cittadini alle sue rappresaglie. Paolo e Sila vennero incarcerati e poi liberati su cauzione, pagata da un certo Giasone. A questi episodi, riportati da At 17,1-10, fa riferimento il v.2 nonché la menzione di aver annunciato il Vangelo “con molto affanno”. Da qui Paolo verrà fatto fuggire a Berea dai suoi discepoli, ma non prima che Paolo e Sila fossero riusciti a fondare una nuova comunità credente, la chiesa di Tessalonica, a cui è rivolta questa prima lettera. E benché i fatti qui sintetizzati sembrano occupare pochi giorni, in realtà la fondazione di una comunità come quella di Tessalonica, che ha saputo resistere alle persecuzioni e farsi anche promotrice di una propria azione missionaria in tutta la Macedonia e l'Acaia, lascia pensare che Paolo sia rimasto nella città almeno sei o più mesi, benché non sia riuscito a completare la catechizzazione dei credenti, ma lo farà nei capp.4-5 di questa Lettera, riservandosi di incontrarsi con loro quanto prima (3,10-11).

Da dove trae forza l'annuncio del Vangelo (vv.3-4)

Dopo aver illustrato ai Tessalonicesi quali furono gli eventi storici che lo condussero da loro; eventi che comunque i Tessalonicesi già dovevano conoscere in qualche modo, poiché qui se ne fa solo un vago accenno, sottolneato da quel “come sapete” (v.2), ora, con i vv.3-4, vengono presentate ai Tessalonicesi le motivazioni spirituali che lo spinsero presso di loro ad annunciare il Vangelo, presentando in tal modo la natura sia del suo Vangelo che della sua missione.

Il v.3 attesta che il loro incontro non fu dettato da motivazioni di natura umana; non fu dettato da una mera fatalità o da un errore di calcolo; né vi fu un gioco di interessi personali o tentativi di corruzione per poter accedere agli animi dei Tessalonicesi, cercando di approfittare di loro. Un versetto questo, che verrà poi ripreso ed ampliato dalla pericope vv.5-12, perché Paolo vuole escludere ogni interesse personale in questa faccenda dell'annuncio. Il motivo di questa marcata sottolineatura, alla quale viene dedicato un così ampio spazio, consiste nel fatto che all'epoca vi era una sorta di azione moralizzatrice da parte di numerosi filosofi, i quali, annunciando le loro teorie, cercavano di creare attorno a loro dei gruppi di propri discepoli, facendosi pagare e mantenere da questi in cambio del loro sapere. Paolo, quindi, con i vv.3.5-10 cerca di prendere le distanze da costoro, qualificando il suo annuncio come divino e non dettato da sapienza umana. Sarà il v.4 a precisarne la vera natura e, di conseguenza, il senso del loro incontro, che non fu vano.

Il Vangelo che egli aveva annunciato a loro, infatti, aveva un'origine divina. Lo renderà chiaramente noto qualche anno dopo ai Galati: “Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,11-12); mentre in apertura della stessa Lettera presenta la sua identità come “apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1) e così similmente farà in Rm 1,1.

Il pensiero di Paolo qui, circa la sua identità e la natura della sua missione, è ancora piuttosto acerbo rispetto a quanto dirà qualche anno dopo con la Lettera ai Galati (56/57 d.C.) e più ancora con quella ai Romani (57/58 d.C.), successiva di un anno a quella ai Galati. Qui si limita a dire che lui è stato giudicato degno da Dio a ricevere il suo Vangelo, che egli ha annunciato ai Tessalonicesi, lasciando intendere l'origine divina sia del suo Vangelo che della sua missione presso di loro e, di conseguenza, come essi rientrassero nel progetto di salvezza di Dio (1,4; 2,12b). Per questo il suo annuncio è scevro di secondi fini, tutti umani, perché egli deve piacere soltanto a Dio, che gli ha assegnato sia il Vangelo che la missione di annunciarlo alle genti.

Nel suo annuncio del Vangelo Paolo rifugge da ogni ricerca di supporto umano (vv.5-12)

Con il v.3 Paolo aveva affermato che il suo annuncio del Vangelo non era sotteso da una volontà di fuorviare o di corrompere o di trarre in inganno. Cosa egli intendesse dire concretamente con questo, lo spiega ora chiaramente in questa pericope, che punta a difendere le ragioni di Paolo quale apostolo e missionario del “suo” Vangelo, che egli chiama suo, perché a lui personalmente fu affidato da Dio stesso e non gli fu mai trasmesso dagli uomini (Gal 1,11-12). In realtà, con la difesa, che qui Paolo sta impiantando, non intende salvaguardare se stesso, ma evitare di screditare il suo Vangelo, così che si pensasse che egli se ne servisse quale strumento di profitto per i propri interessi personali e meramente umani.

La difesa di Paolo è in realtà la difesa del Vangelo ed è qui scandita in due parti: la prima, vv.5-8, riguarda prevalentemente gli aspetti morali, quali la sincerità e la correttezza delle sue intenzioni, scevre da una personale ricerca di una propria nomea o di gloria personale, e, a testimonianza della veridicità di quanto dice, egli chiama in causa Dio stesso (vv.5-6), e a riprova di quanto dice porta un dato oggettivo: egli è un apostolo e in quanto tale ha diritto di avere la sua ricompensa da coloro che aderiscono al suo annuncio. In merito, Paolo dedicherà un'ampia sezione del cap.9 della 1Cor (9,1-23), lettera questa scritta tra il 53 e il 54 d.C., quindi circa 3/4 anni dopo questa prima lettera ai Tessalonicesi (50/51), dove si trovano, qui, ancora in nuce il pensiero che egli svilupperà con dovizia di argomentazioni successivamente.

Egli rinuncia di fatto al suo diritto di apostolo, per evitare di essere confuso con gli altri filosofi moralizzatori, che predicavano le loro filosofie dietro compenso, che prevedeva anche il loro mantenimento. Anzi egli si è presentato ai Tessalonicesi nelle umili vesti di un bambino, aspirando di essere accolto come una nutrice o una madre accoglie i suoi figlioletti, desiderando solo di condividere con i Tessalonicesi non solo il suo Vangelo, ma anche fondere le proprie vite e fare un tutt'uno, quindi, con loro, perché “ci siete diventati cari” (v.8).

La seconda parte, riguardante la prova dell'onestà e della correttezza del suo annuncio presso i Tessalonicesi è data dai vv.9-12, che mettono in evidenza le fatiche fisiche, che Paolo si era sobbarcato, per evitare di gravare sui Tessalonicesi, lavorando giorno e notte per procurarsi da solo la propria sussistenza, a differenza degli altri filosofi. L'annuncio, pertanto, che egli faceva era gratuito e privo di secondi fini. Sacrifici che Paolo farà per evitare che qualche ombra di interesse personale o umano potesse screditare in qualche modo il suo Vangelo, distinguendolo dalle altre filosofie moraleggianti.

Anche qui il tutto si muove sull'onda del ricordo (v.9a) e della testimonianza (v.10), che dà conferma e certezza al ricordo stesso, chiamando in causa non solo i Tessalonicesi, che hanno potuto esperire la correttezza di Paolo, ma lo stesso Dio, che certifica la santità, la giustizia e l'irreprensibilità di Paolo, rilevando il suo affetto paterno nei confronti dei Tessalonicesi, esortandoli, incoraggiandoli e consigliandoli, come un padre può e deve fare con i propri figli.

Il motivo di questo affettuoso e paterno interesse di Paolo nei confronti dei Tessalonicesi è dato dalla frase finale che conclude la sezione dei ricordi di Paolo: “affinché voi camminiate in modo degno di Dio, che vi ha chiamati per il suo Regno e (la sua) gloria”.

Il secondo rendimento di grazie (2,13-16)

Testo a lettura facilitata

I motivi del secondo rendimento di grazie (v.13)

13- E per questo anche noi rendiamo incessantemente grazie a Dio, perché avendo ricevuto da noi (la) parola (dell')ascolto di Dio, (l')avete accolta non (come) parola di uomini, ma come è veramente, (quale) parola di Dio, che anche opera in voi che credete.

I Tessalonicesi simili alle chiese perseguitate della Giudea (v.14)

14- Infatti, voi, fratelli, diveniste imitatori delle chiese di Dio che sono in Giudea in Cristo Gesù, poiché anche voi soffriste le medesime cose dai vostri stessi connazionali, come anche loro dai Giudei,

Il giudizio di Dio sui Giudei (vv.15-16)

15- i quali uccisero anche il Signore Gesù e i profeti e ci perseguitarono e non sono graditi a Dio e (sono) avversi a tutti gli uomini,
16- impedendoci di predicare alle genti, affinché si salvino, per completare (così) i loro peccati sempre (di più). Ma l'ira (di Dio) è giunta a compimento su di loro.


Note generali

Paolo riprende qui il v.1,6, dove si attestava, da un lato, che i Tessalonicesi si erano fatti imitatori di Paolo e del Signore; dall'altro che essi accolsero, con la gioia animata dallo Spirito Santo, la parola annunciata da Paolo. Ora qui completa il senso di quel “accogliere la parola con gioia” e ne spiega il motivo (v.13); e così similmente quel essere divenuti “imitatori di Paolo e del Signore” acquista qui una nuova estensione, che crea un parallelismo tra la chiesa di Tessalonica e quelle della Giudea: anche la chiesa di Tessalonica, similmente a quelle della Giudea, è perseguitata dai suoi connazionali: Tessalonicesi qui, Giudei là, sui quali Paolo non perde l'occasione di formulare un giudizio di condanna per la loro radicale opposizione all'annuncio, prima dei Profeti, poi del Signore, che i Profeti avevano preannunciato, legando in tal modo il profetismo a Cristo.

La struttura della pericope in esame può essere scandita in tre parti:

Commento ai vv.13-16


I motivi del secondo rendimento di grazie (v.13)

Il v.13 si apre con un “Kaˆ di¦ toàto” (Kaì dià tûto, E per questo), con cui Paolo si collega ai vv.11-12 immediatamente precedenti, dove attesta che egli, come un padre, aveva esortato e consigliato i Tessalonicesi a camminare “in modo degno di Dio, che vi ha chiamati per il suo Regno e (la sua) gloria”. E i Tessalonicesi si sono conformati alla sua parola (1,6b), dando quei frutti che furono oggetto del primo rendimento di grazie (1,2): una vita fondata sulla fede, sulla carità e sulla speranza (1,3), che si è poi tradotta in azione missionaria in tutta la Macedonia e l'Acaia (1,7-10). Ora Paolo, “per questo”, innalza a Dio il suo secondo rendimento di grazie, non tanto per l'accoglienza che i Tessalonicesi hanno riservato alla sua parola, conformandosi esistenzialmente ad essa, ma perché hanno saputo cogliere nell'annuncio di Paolo quella differenza che lo distingueva dalle altre dissertazioni filosofiche dei tanti filosofi itineranti di quel tempo, cogliendo, invece, l'autentica natura della parola di Paolo, quella di essere la stessa Parola di Dio, quale essa era veramente e non come parole di uomini. Un rendimento di grazie per i Tessalonicesi perché, mossi dall'azione dello Spirito (1,6b), hanno saputo cogliere la potente presenza di Dio nelle parole di Paolo, quella potenza che “opera in voi che credete”. Con quest'ultima espressione viene posta in rilievo la condizione perché questa Parola sia efficace: il credere, che sprigiona la potenza generatrice e rigeneratrice di Dio sacramentata nella Parola (1Pt 1,23).

I Tessalonicesi simili alle chiese perseguitate della Giudea (v.14)

Paolo, ora, prosegue riprendendo il v.1,6 nella parte che attesta come i Tessalonicesi hanno saputo accogliere “la parola in mezzo a molta afflizione”, creando un parallelismo, scandaloso per l'epoca, tra la chiesa di Tessalonica, formata da etnocristiani, alle chiese della Giudea, formate da giudeocristiani, tra le quali spiccava la chiesa madre di Gerusalemme. Un accoppiamento, giudaismo e paganesimo, ed ora, giudeocristianesimo ed etnocristianesimo inaccettabile, ma non per Paolo, perché sono tutti accomunati, giudeocristiani ed etnocristiani, nell'unica e medesima sofferenza per Cristo. In entrambi i casi i credenti della Giudea come quelli della Tessalonica sono perseguitati dai propri connazionali.

Qui Paolo deve ancora maturare la profonda comunione di vita spirituale che intercorre tra giudeocristiani e etnocristiani, vedendo soltanto un semplice parallelismo di eventi storici, che in qualche modo accomunano le chiese giudeocristiane alla chiesa etnocristiana di Tessalonica, causati per la comune adesione alla Parola. Come si può rilevare siamo ancora ben lontani dalle grandi elaborazioni teologiche e cristologiche di Rm 10,12 che attesterà che “non c'è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l'invocano”, preceduta da una lunga dissertazione sulla comunanza di giudei e pagani nel peccato (Rm 1,18-3,24), che si conclude attestando che: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23); giungendo con Rm 2,28-29 fino ad annullare la vera identità del Giudeo, togliendogli l'unico suo vanto, quello della circoncisione, il segno indelebile della sua appartenenza al popolo dell'Alleanza, segno della sua elezione divina, attestando che “Giudeo non è chi appare tale all'esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini ma da Dio”; e ancor più lontani si è con Gal 3,28, dove Paolo vede un'unica realtà plasmata da Cristo Gesù: “Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”.

Tutto questo attesta come in Paolo ci fu una evoluzione della sua fede, nata dal suo incontro con il Risorto e maturata attraverso la sua convivenza con i credenti delle comunità di Gerusalemme, Damasco e Antiochia. Non furono, quindi le sue esperienze mistiche a fondare la sua fede, ma queste, piuttosto, furono elementi spirituali che l'aiutarono ad approfondirla. In altri termini, Paolo non era nato spiritualmente grande, così come ora lo si conosce, ma ha dovuto passare anche lui attraverso un suo lungo e personale travaglio interiore, che lo ha portato da implacabile persecutore di Cristo a fanatico di Cristo.

Il giudizio di Dio sui Giudei (vv.15-16)


Il richiamo alle persecuzioni che il giudaismo aveva innescato contro il nascente cristianesimo, scatena in Paolo una sorta di anatema, invocando l'ira di Dio contro la sua stessa gente, colpevole di aver rifiutato i richiami dei profeti, che in qualche modo preannunciavano la venuta del Messia, il quale, una volta giunto, non solo non venne riconosciuto, ma altresì rifiutato dai suoi stessi concittadini (Gv 1,11), fino a condannarlo a morte per crocifissione. E successivamente impedendo ai suoi discepoli di annunciare il messaggio salvifico ricevuto in eredità dal loro Maestro ed escludendo dalla sinagoga, condannandoli ad una sorta di morte civile, tutti quelli che aderivano a Cristo (Gv 9,22; 12,42; 19,38; 20,19).

Un comportamento questo di Paolo, che svanirà completamente e si trasformerà in Rm 9-11 in una lunga e tormentata riflessione, alla ricerca di un qualche chiarimento interiore e di una qualche consolazione, rivelando la sua grande sofferenza per i suoi connazionali, i quali, pur beneficiando della Legge e dei Profeti, dell'elezione divina e dell'Alleanza, tutte realtà queste che dovevano prepararli ad accogliere il Messia, non solo non lo riconobbero, ma anche lo rifiutarono e lo crocifissero. Tre capitoli questi della Lettera ai Romani, che vedono la profonda trasformazione spirituale e missionaria di Paolo, che non si dà pace per il popolo dell'Alleanza, elaborando, tuttavia uno spiraglio di salvezza anche per loro: “Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe” (Rm 11,25-26).

Un altro esempio di evoluzione spirituale e di nuova comprensione della fede avvenute in Paolo, che dall'acerbo pensiero della prima Lettera ai Tessalonicesi lo porterà alla grandiosità di quello delle Lettere ai Galati e ai Romani.

Il desiderio di Paolo di rivedere i Tessalonicesi (2,17-3,8)


Testo a lettura facilitata

Il desiderio di Paolo di reincontrare i Tessalonicesi (2,17-20)

17- Ma noi, fratelli, privati di voi per qualche breve tempo, di persona non di cuore, ci demmo da fare con più solerzia per vedere la vostra persona con molto desiderio.
18- Per questo abbiamo desiderato più di qualche volta di venire da voi, io Paolo, e satana ci impedì.
19- Chi, infatti, (è) la nostra speranza o (la nostra) gioia o (la nostra) corona di vanto, non forse voi, davanti al nostro Signore Gesù nella sua venuta?
20- Voi, infatti, siete la nostra gloria e (la nostra) gioia.

Paolo anticipa il suo incontro con i Tessalonicesi inviando Timoteo (3,1-5)

1- Perciò non potendo contenerci più a lungo stabilimmo di essere lasciati soli in Atene
2- e mandammo Timoteo, il nostro fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo, per fortificarvi ed esortar(vi) nella vostra fede,
3- (perché) nessuno sia turbato in queste afflizioni. (Voi) stessi sapete che siamo posti per questo;
4- e, infatti, quando eravamo presso di voi vi predicevamo che saremmo stati oppressi, come anche è accaduto e (voi ben) sapete.
5- Per questo anch'io, non potendo contenermi più a lungo, mandai (Timoteo) per conoscere la vostra fede, affinché non vi avesse in qualche modo provati colui che tenta e la nostra fatica sia stata vana.

Le buone notizie portate da Timoteo consolano Paolo (vv.3,6-8)

6- Ma, ora, giunto Timoteo da voi a noi e avendoci annunciate buone notizie circa la (vostra) fede e il vostro amore e che avete sempre un buon ricordo di noi, desiderando vivamente di vederci, (come) anche noi voi,
7- per questo siamo consolati, fratelli, da voi in ogni nostra sofferenza e (in ogni nostra) afflizione per la vostra fede,
8- poiché, ora, viviamo, se voi rimanete nel Signore.

Note generali

Dopo essere passato attraverso la celebrazione dei ricordi e dei primi due rendimenti di grazie (1,2; 2,13), che si muovono quasi su di uno sfondo liturgico, dove il fare memoria si accompagna sempre al rendimento di grazie, creando una sorta di cornice cultuale per gli avvenimenti occorsi, leggendo in essi una sorta di mano divina che li conduce, Paolo non può che concludere questa parte dei ricordi se non con il desiderio di rivedere e reincontrare i Tessalonicesi. Una sezione questa che è tutta fremente e palpitante di desiderio, da cui traspare l'ansia apostolica e missionaria di Paolo.

Il ricordo che Paolo ha della chiesa di Tessalonica da lui fondata, quello di una comunità dalla vita spirituale fervente, edificata sulla fede, la carità e la speranza (1,6); animata da uno spirito missionario, che ha diffuso con efficacia la Parola del Vangelo in tutta la Macedonia e l'Acaia (1,8-10), divenendo imitatori e collaboratori di Paolo (1,6a); i ricordi del suo primo incontro con i Tessalonicesi e l'accoglienza ricevuta da questi (2,1-12), nonché la necessità di completare la catechizzazione della comunità credente di Tessalonica (3,10b), lasciata incompleta perché costretto a fuggire a motivo della persecuzione scatenata dai Giudei contro di lui, catechizzazione che comunque completa in qualche modo qui, anticipandola nei capp.4-5, tutto questo accende il desiderio di Paolo di reincontrasi con la comunità di Tessalonica, sapendola, inoltre, vessata dalla persecuzione, che teme la distrugga. Ma le notizie portate da Timoteo, inviato appositamente in Tessalonica per sostenere la chiesa nella sua lotta, sono ottime e placano l'ansia e le preoccupazioni di Paolo, che torna a rivivere, e lo consolano per il lavoro fatto (3,6-8).

La sezione del “desiderio” occupa la parte finale del cap.2 (2,17-20) e la prima parte del cap.3 (3,1-8) ed è strutturata in tre parti, che qui riporto per facilitarne la comprensione:

  1. Desiderio di Paolo di reincontrare i Tessalonicesi (2,17-20);

  2. Paolo, impossibilitato a recarsi in Tessalonica (2,18) e fremente di avere notizie su questa giovane chiesa da lui recentemente fondata, invia Timoteo (3,1-5);

  3. Le buone notizie portate da Timoteo consolano Paolo (vv.3,6-8)

Commento ai vv. 2,17-3,8



Desiderio di Paolo di reincontrare i Tessalonicesi (2,17-20)

Il v.17 apre la sezione del “desiderio” rilevando come l'assenza dai Tessalonicesi fosse stata soltanto un'assenza fisica, ma certamente non del cuore, poiché essi erano sempre presenti in Paolo. Già lo aveva fatto capire in 1,2 dove egli rende sempre grazie a Dio per loro ed essi sono sempre presenti nelle incessanti preghiere che egli rivolge a Dio a loro favore; e così similmente in 2,8, dove ricordandosi del suo primo incontro con loro, si esprime in termini di desiderio nei loro confronti (“desiderandovi”), di condivisione della sua vita con le loro vite, così che essi gli sono divenuti cari, presentandosi a loro come una madre e un padre nei confronti dei loro figli (2,7.11). Tutte espressioni che dicono il profondo legame affettivo e di fede che intercorreva tra Paolo e i Tessalonicesi.

Tutto questo aveva spinto Paolo ad attivarsi per trovare lo spazio opportuno per incontrasi con loro (2,17), tentando di raggiungerli più di qualche volta, ma, conclude amaramente Paolo: “e satana ce lo impedì”. Significativo quel “e” che congiunge gli sforzi di Paolo per realizzare il suo desiderio e l'azione opposta di satana, quasi ci fosse stata una sorta di logica consequenzialità, tale che l'azione del primo veniva puntualmente vanificata dal secondo. Paolo, tirando in ballo il personaggio di satana, sembra quasi dare una lettura escatologica a tali impedimenti, come una sorta di lotta finale tra il bene e il male.

Con i vv.19-20 Paolo sembra quasi volersi scusare con i Tessalonicesi per la sua mancata visita presso di loro, più volte programmata, ma puntualmente disattesa per motivi che non ci sono noti e qui attribuiti genericamente a satana. Non vuole che i Tessalonicesi pensino che egli stia solo campando delle scuse per giustificare la sua prolungata assenza, per cui cerca di dire chi sono loro per lui e quanto essi siano preziosi e altamente considerati e desiderati da lui, definendoli con una serie di titoli che dicono tutta la passionalità di Paolo: “nostra speranza”, “nostra gioia”, “nostra corona di vanto”, “nostra gloria e nostra gioia”. Significativa e la nota escatologica che viene introdotta all'interno della titolatura e che in qualche modo tradisce il senso escatologico che Paolo dà al suo rapporto con i Tessalonicesi e al suo desiderio di reincontrarsi con loro: “corona di vanto davanti al nostro Signore Gesù nella sua venuta”. Essi, quindi, diventano per Paolo moneta da spendere a suo vantaggio alla venuta del Signore Gesù.

Paolo anticipa il suo incontro con i Tessalonicesi inviando Timoteo (3,1-5)

La pericope 3,1-5 è circoscritta da un'inclusione, data dal ripetersi della stessa identica frase in 3,1 e 3,5 e riguarda l'invio di Timoteo ai Tessalonicesi e le motivazioni di tale invio.

Il v.3,1 apre la seconda parte della sezione del “desiderio”, che viene definito “incontenibile”. In 2,18, infatti, Paolo attestava che più volte aveva cercato di andar a trovare i Tessalonicesi, che aveva definito in modo affettuoso, entusiastico e passionale la sua gioia e la sua gloria, vanto e speranza, ma ne fu sempre impedito. Questi continui tentativi frustrati e frustranti hanno generato in lui una forte tensione incontenibile, così che lui assieme a Silvano e Timoteo decisero di rompere gli indugi e di inviare da Atene Timoteo presso la comunità di Tessalonica per avere notizie su di essa: “stabilimmo di essere lasciati soli in Atene e mandammo Timoteo”. Paolo, qui, sta ancora facendo memoria di quanto è avvenuto, che poi si concluderà con un terzo ed ultimo rendimento di grazie al v.9. Si è quindi, sempre all'interno di una cornice celebrativa e cultuale.

Paolo, Silvano e Timoteo si trovano quindi ad “Atene” e decidono di inviare Timoteo e di essere lasciati “soli” in città. Ma perché i tre si trovano ad Atene? E cosa significa quel “soli”. Per comprenderlo è necessario ripercorre il cammino di fuga che da Tessalonica li ha portati ad Atene e da qui, poi a Corinto, da dove Paolo scriverà questa prima lettera ai Tessalonicesi, dopo aver ricevuto notizie rassicuranti da Timoteo.

Paolo, dopo essere fuggito nottetempo da Tessalonica per sottrarsi alla persecuzione dei Giudei, si rifugiò a Berea (At 17,10), dove incominciò a predicare il Vangelo. Ma anche da qui dovette fuggire, perché i Giudei di Tessalonica, venutolo a sapere, lo raggiunsero anche a Berea (At 17,13). Da Berea, quindi, Paolo si diresse ad Atene (At 17,15), dove tentò un'evangelizzazione, ma senza successo, per il pervicace rifiuto della risurrezione da parte degli ateniesi (At 17,32-33). Da qui, quindi, Paolo partì per Corinto, dove scrisse questa prima Lettera ai Tessalonicesi. Mentre Paolo si rifugiava ad Atene, Sila e Timoteo rimasero, invece, a Berea, dove ricevettero l'ordine di Paolo di raggiungerlo ad Atene (At 17,15b-16a). Giunti, dunque, ad Atene, assieme decidono di inviare Timoteo a Tessalonica per prendere notizie sulla neonata chiesa (1Ts 3,1-2), e quindi rimasero “soli”, cioè Paolo e Silvano, ad Atene.

Paolo, dunque, invia Timoteo a prendere notizie sulla chiesa di Tessalonica. Un Timoteo che qui viene definito con 2 titoli: “nostro fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo”. Il primo, “nostro fratello”, riguardava la comunanza dell'unica fede e, qui, anche degli unici intenti missionari, mentre quel “nostro” dice tutto l'affetto che legava Paolo a Timoteo, che in 1Cor 4,17 chiamerà “mio figlio diletto e fedele nel Signore”. Più significativo è il secondo titolo, “collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo”. Si noti come qui Paolo considera l'impegno missionario, non solo di Timoteo, come collaborazione all'azione salvifica di Dio nell'ambito della diffusione del “Vangelo di Cristo”, cioè della stessa Parola di Dio. Nella missionarietà, dunque, opera Dio stesso in mezzo agli uomini e a loro favore. È questo il nuovo cammino storico della Parola di Dio, che fattasi carne e disvelatasi agli uomini in Gesù (Gv 1,14), morto e risorto, continua ora la sua azione salvifica, sacramentandosi nella Parola e nella Chiesa, e in queste forme continua l'azione salvifica del Padre in mezzo agli uomini: “Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi” (Gv 2,21b). Vi è in queste ultime parole di Giovanni il crearsi di un filo diretto e continuo tra la Chiesa e il Risorto e tra la Chiesa-il Risorto e il Padre, così che l'azione della Chiesa è azione salvifica del Padre, cioè il tentativo di Dio di ricondurre in seno a Se stesso quel uomo che era drammaticamente fuoriuscito da Lui nei primordi dell'umanità.

La finalità dell'invio di Timoteo alla chiesa di Tessalonica è quello di “fortificarvi ed esortar(vi) nella vostra fede” in mezzo alle afflizioni. L'azione di Timoteo doveva, dunque, essere consolatoria ed esortativa nel contempo. Paolo aggiunge qui quanto lui già aveva detto e predetto a suo tempo ai Tessalonicesi, come, cioè, la loro scelta di aderire a Cristo e alla sua Parola sarebbe stata osteggiata e causa di numerose tribolazioni e persecuzioni (v.4), predisponendoli in tal modo ad affrontare i tempi più duri e difficili della loro fede, quelli della testimonianza. È questo il destino del credente in mezzo agli uomini nemici di Dio: “(Voi) stessi sapete che siamo posti per questo” (v.3b), cioè per dare testimonianza.

Anche per questo Paolo invia Timoteo presso di loro: “per conoscere la vostra fede, affinché non vi avesse in qualche modo provati colui che tenta e la nostra fatica sia stata vana” (v.5b). Paolo, dunque, ha bisogno di sapere e di conoscere come i Tessalonicesi stanno reagendo alle persecuzioni e all'ambiente loro ostile.

Le buone notizie portate da Timoteo consolano Paolo (vv.3,6-8)

Le ansie apostoliche di Paolo, che lo hanno spinto ad inviare Timoteo a Tessalonica, vengono ora placate dalle buone notizie dello stesso. Queste sono sostanzialmente tre: la fede della chiesa di Tessalonica è salda e così pure i rapporti intracomunitari sono fondati sull'amore, le quali cose Paolo loderà in apertura di questa lettera (1,3), e i legami di affetto tra Paolo e la comunità credente di Tessalonica sono sempre più vivi che mai, così che entrambi, Paolo e la comunità, desiderano vivamente reincontrarsi.

Notizie ottime, dunque, che appagano Paolo e leniscono le sue sofferenze e le sue afflizioni, così che ora egli si sente rivivere, sapendo che essi sono saldi nel Signore.

Terzo rendimento di grazie (3,9-13)

Testo a lettura facilitata

La gioia di Paolo si fa rendimento di grazie a Dio per le notizie ricevute (v.9)

9- Quale ringraziamento, infatti, possiamo rendere a Dio per voi, per tutta la gioia con cui gioiamo per voi davanti al nostro Dio,

E spinge Paolo ad intensificare le sue preghiere per reincontrare i Tessalonicesi e completare la loro catechizzazione (vv.10-11)

10- pregando sovrabbondantemente, notte e giorno, per vedere il vostro volto e disporre ciò che manca alla vostra fede?
11- Dio stesso e Padre nostro, e il nostro Signore Gesù, (vogliano) guidare il nostro cammino verso di voi;

Benedizione bene augurale sui Tessalonicesi (vv.12-13)

12- il Signore vi (faccia) sovrabbondare e (vi) ricolmi con l'amore gli uni verso gli altri e (verso) tutti, come anche noi verso di voi,
13- per fortificare i vostri cuori irreprensibili n(ella) santità davanti a Dio e Padre nostro n(ella) venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi, [amen].

Commento ai vv. 9-13

La gioia di Paolo si fa rendimento di grazie a Dio per le notizie ricevute ….. (v.9)

Le notizie portate da Timoteo sulla condotta della neo chiesa di Tessalonica, vessata dalle persecuzioni, riempiono di gioia e di consolazione l'animo di Paolo, che proprio in questo trova un nuovo motivo di rendimento di grazie. Una gioia che viene vissuta “davanti al nostro Dio”, quasi che il gioire di Paolo sia una sorta di risposta cultuale che egli celebra davanti a Dio, che ha concesso alla neonata comunità credente di Tessalonica la forza non solo di resistere alle persecuzioni, ma anche di condurre una vita intracomunitaria esemplare (1,7), fondata sulla fede, sull'amore e la speranza (1,3), facendosi essa stessa, nonostante le difficoltà, ad imitazione di Paolo e del Signore (1,6), annunciatrice indefessa della Parola di Dio in tutta la Macedonia e l'Acaia (1,8-10).

. e spinge Paolo ad intensificare le sue preghiere per reincontrare i Tessalonicesi e completare la loro catechizzazione (vv.10-11)

La gioia di Paolo, per le ottime notizie ricevute, rafforza ancor di più il suo desiderio di incontrare la comunità di Tessalonica; desiderio che si fa intensa, persistente e indefessa preghiera, così che il Padre e suo Figlio, il Signore, i due protagonisti, qui citati, dell'opera della salvezza, di cui Paolo è un prezioso e insostituibile strumento nelle mani di Dio, “vogliano guidare il nostro cammino verso di voi”. Significativo quel “vogliano”, che dice come per Paolo tutto va ricondotto alla volontà di Dio, che con la sua volontà determina e dà attuazione al suo progetto di salvezza, ma nel contempo è in grado di vincere gli ostacoli frapposti da satana, che fino a quel momento gli hanno impedito di raggiungerli (2,18).

Benedizione bene augurale sui Tessalonicesi (vv.12-13)

Con i vv.12-13 Paolo chiude la prima parte della Lettera (1,2-3,13), che abbiamo definito dei “rendimenti di grazie”. Questi ultimi due versetti si rifanno al linguaggio benedizionale tradizionale, che riscontriamo similmente anche in Gen 28,3; 48,16; 49,25; Nm 6,24-27; Sal 66,2; 127,5.

Ci si trova di fronte ad una benedizione che, per sua natura, impone sulla comunità la fecondità stessa di Dio, quanto all'amore vicendevole, che si farà, poi, azione missionaria, in cui si esprime la fecondità che Dio ha operato in questa neonata chiesa. Il termine “benedizione”, infatti, va compreso nell'accezione del termine ebraico “berakhah”, che deriva dall'altro termine “berek”, che significa “ginocchio”, un eufemismo che indica gli organi genitali, la fonte della fecondità. Non a caso, infatti, Gen 1,28a alla benedizione di Dio posta sull'uomo fa seguire il comando di essere fecondi e di moltiplicarsi: “Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”. E similmente Gen 1,22.

Una benedizione fecondante e fruttificante, che va letta e compresa in un contesto escatologico, avendo come finalità quella di fortificare nelle difficoltà e nelle afflizioni delle persecuzioni i cuori dei Tessalonicesi, confermandoli nella loro vita di santità, cioè di comunione di vita con quella di Dio, nell'imminente prospettiva della parusia: “n(ella) venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”, dove l'espressione “con tutti i suoi santi” va compresa nel duplice senso di schiere celesti e di mondo celeste, poiché la Parusia porta con sé la fine di questo mondo e del regno umano, per l'instaurazione definitiva di quello di Dio (1Cor 15,23-28); ma questo non esclude l'altro senso del termine “santi”, quello con cui Paolo definisce i credenti, i quali, in quanto che sono partecipi della vita di Dio, che per sua natura è il Santo e fonte di ogni santità, partecipano anche della Santità stessa di Dio, che, anzi, in Lv 19,2b sollecita ad esserlo: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo10.


SEZIONE PARENETICA E CATECHETICA

(4,1 - 5,28)



Note generali

Se i primi tre capitoli della Lettera hanno celebrato il rendimento di grazie, fondato sui ricordi, sul fare, cioè, memoria degli eventi, che hanno portato alla istituzione della comunità credente di Tessalonica, questi ultimi due capitoli formano una sorta di contenitore costituito da tre distinte sezioni: la prima (vv.2-12) riguarda esortazioni e insegnamenti che Paolo aveva già dato nel momento della fondazione della comunità e che qui vengono richiamati. Il v.2, infatti, inizia con l'espressione: “Sapete, infatti, quali precetti vi abbiamo dato”; la seconda sezione (vv.4,13-5,11) riguarda il completamento della catechesi, di cui Paolo aveva fatto cenno in 3,10b: “per vedere il vostro volto e disporre ciò che manca alla vostra fede”. Paolo, quindi ha espresso il desiderio di reincontrare la chiesa di Tessalonica non solo per vederla ed avere sue notizie in prima persona, ma anche per completare la sua catechizzazione che, a motivo della persecuzione dei Giudei, ha dovuto lasciare in sospeso. E benché si riservi di parlarne in presenza, tuttavia, qui, l'anticipa; la terza sezione (5,12-23) riguarda la vera e propria esortazione, che consiste in una rapida, quasi fugace, carrellata di temi, oggetto dell'esortazione stessa, mentre i vv.24-28 formano la conclusione della Lettera con i saluti finali.


Commento ai capp. 4,1-5,28



Prima sezione: richiami agli insegnamenti già impartiti (vv. 1-12)

Testo a lettura facilitata

Introduzione (v.1)

1- Per il resto, fratelli, vi preghiamo e (vi) supplichiamo nel Signore Gesù, affinché come imparaste da noi in quale modo bisogna che voi camminiate e piaciate a Dio, come anche (già) camminate, sovrabbondiate (ancora) di più.

Richiamo riguardo alla fornicazione (vv.2-8)

2- Sapete, infatti, quali precetti vi abbiamo dato per mezzo del Signore Gesù.
3- Questa, infatti, è la volontà di Dio, la vostra santificazione, che (vi) teniate lontani dalla fornicazione,
4- (e) che ciascuno di voi sappia possedere il suo vaso in santità e (nell')onore,
5- affinché non subisca (il) desiderio come anche le genti, che non conoscono Dio;
6- (che nessuno) n(ella) faccenda prevarichi e inganni il suo fratello, perché (il) Signore (è) vindice circa tutte queste cose, come anche vi ho già detto e (vi) ho asserito.
7- Dio, infatti, non ci ha chiamati all'impurità, ma alla santità.
8- Di conseguenza, chi opera con perfidia non opera con perfidia contro un uomo, ma contro Dio, il quale vi dà anche il suo Spirito Santo.

Richiamo riguardo all'amore fraterno (vv.9-12)

9- Quanto all'amore fraterno non avete bisogno che vi scriva, infatti voi stessi siete ammaestrati da Dio nell'amar(vi) gli uni gli altri,
10- e, infatti, fate lo stesso verso tutti i fratelli [che sono] in tutta quanta la Macedonia. Ma vi esortiamo, fratelli, a sovrabbondare (ancora) di più,
11- e aspirare a vivere in pace e occuparsi delle proprie cose e lavorare con le vostre [stesse] mani, come vi abbiamo ordinato,
12- affinché camminiate in modo decoroso davanti agli estranei e non abbiate bisogno di nessuno.


Note generali

Questa prima sezione è circoscritta da un'inclusione data per complementarietà tematica ai vv.1 e 12. Al v.1b, infatti, vi è l'espressione “in quale modo bisogna che voi camminiate e piaciate a Dio”; mentre al v.12 ritroviamo sostanzialmente la stessa espressione, ma riguardante gli uomini: “affinché camminiate in modo decoroso davanti agli estranei”. Il tono, quindi di questa prima sezione riguarda la dignità e onorabilità dei credenti nei confronti di Dio e degli uomini, così che gli uomini possano onorare Dio nei credenti. Onorabilità e dignità che si esprimono nel rispetto del proprio corpo (vv.3b-5) e di quello altrui (v.6), nonché nell'amore fraterno e nell'impegno del vivere quotidiano (v.11).

Sono tematiche queste che Paolo doveva aver già trattato in occasione della fondazione della chiesa di Tessalonica e che qui si limita a richiamare. Il v.2, infatti, attesta: “Sapete, infatti, quali precetti vi abbiamo dato per mezzo del Signore Gesù”.

La struttura della pericope, che qui propongo, è la seguente:

  1. Introduzione (v.1);

  2. richiamo riguardo alla fornicazione e impurità di vario genere (vv.2-8);

  3. richiamo riguardo all'amore fraterno e all'onestà e all'impegno del proprio vivere (vv.9-12)

Commento ai vv.1-12

Introduzione (v.1)

Il v.1 si apre con l'espressione “Per il resto”, che crea uno stacco netto tra i capp.1-3 e i seguenti 4-5, che si muovono su toni esortativi. Il “resto” a cui Paolo fa riferimento è ciò che segue oltre i primi tre capitoli. L'esortazione è qui accalorata, sottolineata dai due verbi che la introducono “vi preghiamo e (vi) supplichiamo nel Signore Gesù”. Un'esortazione, quindi, che avviene nel nome del Signore ed è caricata dalla sua autorità. L'esortazione è finalizzata non tanto a raddrizzare la condotta morale della comunità, che già vive in modo encomiabile la nuova fede (1,3.6-10), come hanno già testimoniato i tre capitoli precedenti e come Paolo, qui, sottolinea nuovamente, attestando che essa già cammina secondo le prescrizioni che le sono state date nel momento della sua prima catechizzazione e fondazione, quanto piuttosto perché la comunità cresca sempre più nel Signore: “affinché […] sovrabbondiate (ancora) di più”. Quanto segue, pertanto, è finalizzato ad una maggior crescita spirituale e ad un miglior rafforzamento dei vincoli di amore. Da qui il variegato contenuto di questi due capitoli, che puntano a richiamare (vv.2-12), a completare (vv.4,13-5,11) e ad esortare (vv.5,12-23). 

Richiamo riguardo alla fornicazione (vv.2-8)

La pericope vv.2-8 è introdotta dal v.2 che si richiama ad insegnamenti già precedentemente impartiti. La questione qui ricordata riguarda la fornicazione in rapporto a se stessi (vv.4-5) e agli altri (v.6). Un tema questo che doveva essere alquanto sensibile per una comunità credente, i cui membri provenivano tutti dal paganesimo e vivevano in un contesto sociale, quello di Tessalonica, città portuale, dove la licenziosità dei costumi è facilmente intuibile. La questione è inclusa dai vv.3.7 dove si parla rispettivamente di “vostra santificazione” e di “chiamata alla santità”, che danno il tono all'intera pericope, contrapponendo in tal modo la fornicazione, che caratterizzava la precedente condotta di vita dei Tessalonicesi, alla santità, che caratterizza, invece, il loro attuale stato di vita e li rende partecipi alla stessa vita di Dio.

Significativo è l'accostamento dei termini “santificazione” (v.3) e “santità” (v.7): il primo allude al processo dinamico attraverso il quale il credente viene gradualmente conformato nel suo modo di vivere alla vita stessa di Dio, così che egli si comporta e vive secondo le esigenze di Dio, guardando e comprendendo le cose dalla sua prospettiva divina e non più secondo la propria prospettiva umana, degradata dal peccato, che si manifesta nella fornicazione e nell'impurità. Comportamenti questi che Paolo, in altre occasioni chiamerà il vivere secondo la carne11, a cui si contrappone il vivere secondo lo Spirito.

La santificazione, pertanto, porta il credente ad essere pienamente santo, conformandolo alla santità di Dio, che deve riflettersi nel suo modo di vivere. Un percorso esistenziale in cui si sente l'eco dell'esortazione di Lv 19,2b: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo12 e che lascia trasparire come questa santità risieda nella volontà stessa di Dio, che intende recuperare a Sè quell'uomo fatto a sua immagine e somiglianza e che in qualche modo è parte di Se stesso. Da qui il progetto di “santificazione”, che Paolo qui presenta come una sorta di programma divino: “Questa, infatti, è la volontà di Dio”

La santificazione comporta implicitamente il ripudio del vivere in modo contrario a Dio, in quanto deturpa la santità stessa di Dio, con la quale il credente è chiamato ad esprimersi nella quotidianità della sua vita e di cui è già insignito in virtù della sua fede e del battesimo. Da qui la necessità di saper controllare il “proprio vaso”, cioè il proprio corpo, la propria carnalità, quale fonte di passioni, che sospingono a vivere secondo le logiche della carne, in cui vivono i pagani che non conoscono Dio (vv.4-5) e dai quali provengono anche i Tessalonicesi. Un “possesso” che non dice soltanto il “controllo” di se stessi, ma anche il “sapersi mantenere” all'interno della condizione di vita, che proprio per virtù della fede e del battesimo, è stata inserita nelle nuove realtà spirituali, che devono trasparire dal modo di vivere, di pensare e di relazionarsi del credente, non solo verso se stesso, ma anche verso gli altri.

Se il credente è chiamato a possedere il proprio corpo, per non soccombere alla carne, è altresì chiamato a non abusare del proprio fratello, inducendolo a prostituirsi o, prevaricandolo, ad appropriarsi del suo partner, violando la sacralità della sua relazione matrimoniale e familiare (v.6).

Il v.7 si richiama al v.2, dove si attesta che la nostra santificazione, cioè il processo di riassorbimento e di conformazione della nostra vita in quella di Dio, da cui siamo drammaticamente fuoriusciti nei primordi dell'umanità (Gen 3,16-24), fa parte del progetto divino fin dall'eternità (Ef 1,4), che “non ci ha chiamati all'impurità, ma alla santità”, cioè a vivere secondo quel decreto divino iniziale che ci ha voluti sua immagine e sua somiglianza (Gen 1,26-27), condividendo la sua vita con noi.

Il v.8 conclude la pericope in esame (vv.2-8) con un ammonimento, mettendo in guardia colui che opera con perfidia, cioè con una malvagità subdola, che punta ad ingannare il proprio fratello, pur di soddisfare il proprio desiderio, poiché così facendo agisce contro Dio stesso, che nel “fratello” è in qualche modo sacramentato in virtù della sua fede e del suo battesimo. Un Dio, attesta Paolo, che “vi dà anche il suo Spirito Santo”, cioè che vi ha fatti suoi per mezzo del dono dello Spirito Santo, accorpandovi alla sua vita di santità, di cui i credenti sono insigniti in virtù della loro fede e del loro battesimo.

Richiamo riguardo all'amore fraterno e alla onorabilità del proprio modo di vivere (vv.9-12)

La pericope, che viene introdotta con il tema dell'amore fraterno, è scandita in due parti: la prima, vv.9-10a riguarda la “filadelf…a” (filadelfía, amore fraterno); la seconda, vv.10b-12, riguarda, invece, l'esortazione ad eccedere nella perfezione spirituale, come, del resto, Paolo già aveva sollecitato in tal senso in apertura di questo cap.4 (v.1b). La perfezione da conseguire, oltre che nell'amore fraterno, si accentra anche sulle modalità del proprio vivere in mezzo agli altri, tenendo di fronte a loro un contegno decoroso e dignitoso.

Quanto all'amore fraterno, Paolo sottolinea come non c'è bisogno di esortazioni in tal senso, perché la chiesa di Tessalonica è, in questo, esemplare. Lo aveva già evidenziato in apertura della lettera, sia in 1,3a che in 1,7, dove elogiava i Tessalonicesi perché “voi diveniste modello per tutti i fedeli (che sono) nella Macedonia e nell'Acaia”, verso i quali testimoniano il proprio amore per loro, che essi stessi hanno saputo catechizzare, annunciando loro la Parola di Dio (1,8). I fedeli della Macedonia e dell'Acaia sono pertanto figli spirituali della chiesa di Tessalonica, che li riconosce come suoi fratelli e li beneficia del proprio amore accogliente. Un amore, quindi, che sa abbracciare ogni credente in Cristo alla pari dell'amore che Dio mostra verso quelli che credono nel suo Figlio. Del resto, continua Paolo, “voi stessi siete ammaestrati da Dio nell'amar(vi) gli uni gli altri”. Di certo, qui, non si sta parlando di visioni particolari ricevute dai Tessalonicesi dal Cielo, né di segrete ed arcane cose, ma l' “essere ammaestrati da Dio” significa soltanto l'aver accolto la Parola di Dio annunciata loro dalla predicazione di Paolo e che essi hanno riconosciuto come Parola di Dio e non di un semplice uomo: “perché avendo ricevuto da noi (la) parola (dell')ascolto di Dio, (l')avete accolta non (come) parola di uomini, ma come è veramente, (quale) parola di Dio, che anche opera in voi che credete” (2,13b). Un ammaestramento che non è avvenuto soltanto attraverso l'ascolto della predicazione, ma anche facendosi imitatori di Paolo e del Signore (1,6). A buona ragione, quindi, Paolo può dire che i Tessalonicesi “sono ammaestrati da Dio”. Si noti come qui Paolo usa il presente indicativo e non l'imperfetto o l'aoristo, “qeod…dakto… ™ste” (tzeodídaktoí este, siete ammaestrati), rilevando come questo ammaestramento, cioè la presenza e l'efficacia della Parola di Dio in mezzo alla chiesa di Tessalonica, è una realtà costante, il pilastro e il cardine attorno a cui gira e si sostiene l'intera comunità credente.

L'esortazione “a sovrabbondare (ancora) di più” (v.10b), nel chiudere la prima parte, introduce nel contempo la seconda parte (vv.10b-12), che in qualche modo dà continuità e completamento al tema dell'amore fraterno con quel “kaˆ” (kaì, e) iniziale con cui apre.

Il richiamo qui è triplice: “aspirare a vivere in pace”, “occuparsi delle proprie cose” e “lavorare con le vostre [stesse] mani” (v.11). In altri termini, il richiamo altro non è che un sollecito ad una tranquillità operosa, evitando guazzabugli, disordini, dai quali nascono chiassi e liti, prodromi a divisioni e contrasti intracomunitari, che possono minacciare l'unità e la pacifica convivenza della comunità e certamente non sono di edificazione né per i credenti né per i pagani, in mezzo ai quali la chiesa di Tessalonica vive. La pace, qui richiamata, è fondata sui due elementi che seguono: “occuparsi delle proprie cose”, in altri termini “fatevi i fatti vostri senza infastidire gli altri”; il secondo elemento complementare “lavorare con le vostre [stesse] mani”, in altri termini, “datevi da fare per campare del vostro senza importunare gli altri”. La finalità di questo richiamo è quello di vivere in modo decoroso e dignitoso davanti non solo ai fratelli di fede, ma anche agli “estranei”, così che questi traggano un buon esempio di fede vissuta nell'operosità della vita quotidiana, evitando in tal modo l'indecorosità di elemosinare un aiuto presso gli altri, potendo procurarsi il necessario con la propria fatica.

Un richiamo, quindi, ad una vita che fosse esemplare, che desse onorabilità e decoro, oltre che a se stessi, anche alla fede, che si è chiamati a professare anche in questo modo. Ma perché Paolo si vede costretto a fare un richiamo di questo genere? Il motivo viene accennato in 5,1, dove si parla della venuta del Signore e che formerà il tema della prima sezione del cap.5 (vv.1-11). Una venuta che si sentiva ormai imminente, come riterrà e attesterà lo stesso Paolo in 1Cor 7,29-31: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!”. Ma come Paolo anche la chiesa del I sec. era sulla stessa linea, tant'è che dovrà intervenire l'anonimo autore di 2Pt 3,1-18 per affrontare il ritardo della venuta del Signore, che tutti si attendevano come incombente, ma che il passare del tempo stava smentendo. E con questa Seconda lettera di Pietro siamo già intorno all'anno 120 d.C. circa. Quindi la certezza dell'imminente ritorno del Signore era molto diffuso e molto persistente nella chiesa dei primi tempi.

Di fronte ad un simile evento, ritenuto imminente se non incombente e che doveva porre fine al regno degli uomini e instaurare quello di Cristo (1Cor 15,23-28), molti si dovevano chiedere se valesse la pena di impegnarsi negli affari, faticare nel lavoro e impegnarsi nella dura quotidianità del vivere. L'incertezza del domani, pertanto, portò molti al disimpegno, scivolando lentamente nel disordine e nella violenza, cercando di rubare o rubacchiare o di elemosinare un tozzo di pane, vivendo in modo indecoroso e indegno oltre che per la propria persona anche per la propria fede. Un simile comportamento verrà ripreso duramente in 2Ts 3,10-11: “Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene”.

Seconda sezione: il completamento della catechizzazione (4,13-5,11)

Testo a lettura semplificata

Primo tema: la risurrezione dei morti (4,13-18)

Introduzione al tema (v.13)

4,13- Non vogliamo che voi ignoriate, fratelli, circa coloro che dormono, affinché non siate tristi come come anche gli altri che non hanno speranza.

La fede nel Risorto fondamento della nostra risurrezione (v.14)

14- Se, infatti, crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio per mezzo di Gesù condurrà con lui coloro che si sono addormentati.

Il rapporto tra viventi e defunti alla venuta del Signore (v.15)

15- Questo, infatti, vi diciamo sulla parola del Signore: che noi, i viventi, (noi) rimasti alla venuta del Signore, non avremo nessun vantaggio su quelli che si sono addormentati;

Le modalità con cui avviene la risurrezione (vv.16-17)

16- poiché il Signore stesso, ad un ordine, a(lla) voce (dell')arcangelo, al (suono della) tromba di Dio, scenderà dal cielo e i morti in Cristo risorgeranno per primi,
17- poi noi, i viventi, coloro che sono rimasti, assieme con loro saremo rapiti tra (le) nuvole per (l')incontro del Signore in alto; e così saremo per sempre con (il) Signore.
18- Confortatevi, dunque, gli uni e gli atri con queste parole.

Secondo tema: la Parusia del Signore (5,1-11)

Introduzione al tema (vv.1-3)

5,1- Quanto ai tempi e agli specifici momenti, fratelli, non avete bisogno che vi scriva,
2- (voi) stessi, infatti, sapete perfettamente che il giorno del Signore viene come un ladro n(ella) notte.
3- Quando dicono: “pace e sicurezza”, allora repentina sopraggiunge su di loro la rovina come le doglie del parto a colei che (le) ha nel ventre, e non hanno scampo.

I figli della luce chiamati a vigilare nell'attesa della venuta del Signore (vv.4-6)

4- Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno vi sorprenda come un ladro;
5- voi tutti, infatti, siete figli della luce e figli del giorno. Non siamo (della) notte né (delle) tenebre;
6- quindi, non dormiamo come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.

Contrapposizione del modo di vivere tra i figli della luce e quelli delle tenebre (vv.7-8)

7- Quelli che dormono, infatti, dormono di notte e quelli che si ubriacano di notte si ubriacano;
8- ma noi che siamo (del) giorno, siamo sobri, rivestiti con la corazza della fede e dell'amore e per elmo la speranza della salvezza;

Il destino dei credenti (vv.9-11)

9- poiché Dio non ci ha stabiliti per (l')ira, ma per l'acquisto della salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo,
10- morto per noi, affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui.
11- Pertanto, esortatevi gli uni e gli altri e edificate l'uno per l'altro, come anche fate.


Note generali

Paolo in 3,10 esprimeva il suo grande desiderio non solo di rivedere i Tessalonicesi, ma anche per “disporre ciò che manca alla vostra fede”. Lo fa ora con questa ampia sezione 4,13-5,11, anticipando in qualche modo il suo proposito di completare la catechizzazione della chiesa di Tessalonica, che ha dovuto abbandonare repentinamente, nottetempo, per sottrarsi alla persecuzione dei Giudei (At 17,10b). L'importanza, che Paolo attribuisce a questa sua lettera, si evince da 5,27, dove egli scongiura che essa sia portata a conoscenza di tutti: “Vi scongiuro, per il Signore, che la lettera sia letta a tutti i fratelli”, cosa che in genere le chiese destinatarie facevano, ricopiandole e diffondendole presso le altre chiese, perché l'insegnamento apostolico si divulgasse ovunque.

L'importanza è probabilmente dovuta proprio a questo anticipo di catechesi, a cui egli sembra tenere particolarmente sia perché, nell'attesa della sua venuta a Tessalonica, la chiesa locale aveva modo già di conoscere il suo insegnamento, discutendone al suo interno, così che, giunto Paolo, la catechesi era già avviata e doveva solo essere approfondita; ma sia anche, perché, continuamente perseguitato e logorato da continui viaggi, notti insonni, digiuni, imprigionamenti, fustigazioni (2Cor 11,23-28; Rm 8,35) poteva anche non giungere più a destinazione, lasciando così la sua opera incompleta. Del resto già più volte “satana ci impedì” (2,18b).

La sezione catechetica comprende due insegnamenti tra loro concatenati e complementari: la risurrezione dei morti (4,13-18) e la parusia del Signore (5,1-11). Ogni insegnamento è suddiviso nel seguente modo:

    1. La risurrezione dei morti (4,13-18)

b. La Parusia del Signore (5,1-11)


Commento ai vv. 4,13-5,11

Primo tema: la risurrezione dei morti (4,13-18)


Note generali

La pericope tematica riguardante la risurrezione dei morti, qui presa in esame, è circoscritta dall'inclusione data per complementarietà tematica. Il v.13b, infatti, allude alla tristezza di coloro che ignorano la sorte dei defunti; il v.18, concludendo un cammino di riflessione (vv.14-17), esorta a consolarsi reciprocamente circa il destino di coloro che sono già morti. L'intera pericope, pertanto, viene posta sotto l'egida del dissolvimento dell'ignoranza circa il destino dei defunti, accendendo nei credenti la speranza, che scioglie ogni tristezza.

Commento ai vv.13-18

Introduzione al tema (v.13)

Il v.13 annuncia il tema che viene trattato nella pericope circoscritta dai vv.13-18: il destino di coloro che sono morti, qui, eufemisticamente definiti “koimwmšnwn” (koimoménov), cioè “coloro che dormono”. La morte qui assimilata ad un sonno, lascia intendere come questo sonno, come qualsiasi altro sonno, non è eterno, ma prima o poi terminerà, aprendo in tal modo al risveglio, che allude alla risurrezione, definita nella chiesa primitiva con il verbo “gerw” (egheíro), che significa destarsi, svegliarsi, risvegliarsi e, quindi, per traslato e in senso metaforico, risvegliarsi dal sonno della morte, cioè risorgere. Un verbo questo che ricorre nel N.T. 144 volte, quasi sempre riferito direttamente o indirettamente alla risurrezione. Significativo è quel frammento di inno, recitato nelle liturgie battesimali, riportato da Ef 5,14: “Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà”.

Un verbo, quello che definisce i morti (“koimwmšnwn”, koimoménov), posto qui al participio presente (“i dormienti”) per indicare una particolare categoria di defunti: coloro che sono morti dopo la conversione. Quale destino attende loro? In quale rapporto i credenti viventi si pongono nei loro confronti alla venuta del Signore? La questione che qui si pone è quale posizione occupano i credenti morti e quelli che, invece, sono viventi al momento della Parusia; entrambe le categorie avranno lo stesso trattamento? Oppure i viventi sono avvantaggiati rispetto a coloro che sono morti? Avranno destini diversi oppure sono accomunati in un unico destino? Paolo, infatti, deve aver accennato circa la Parusia del Signore, lo lascia intendere in 5,1-2, dove si parla dei tempi della venuta del Signore. È proprio questo accenno al ritorno del Signore, ritenuto imminente, che fa sorgere il problema nei Tessalonicesi: i viventi di certo andranno incontro al Signore che viene, ma coloro che sono morti al momento della sua venuta quale destino avranno? La finalità della pericope, pertanto, è quella di accendere nei credenti la speranza, che vede tutti, viventi e dormienti, riuniti nel Signore, in cui tutti, viventi e defunti, hanno creduto nel Signore della Vita.

Ora Paolo sviluppa un suo ragionamento, che vede nei vv.14-15 la premessa e nei vv.16-18 la sintesi deduttiva e conclusiva.


La fede nel Risorto fondamento della nostra risurrezione (v.14)

Il v.14 dedica la sua attenzione a “coloro che si sono addormentati”, posti in relazione al dogma di fede riguardante la “morte e risurrezione di Gesù”, dove quel “crediamo”, in prima persona plurale, abbraccia non solo i defunti, che si sono addormentati credendo nel Signore della Vita, ma anche i viventi e con loro anche Paolo, così che l'assunto di fede viene posto a fondamento della nostra morte e risurrezione, in quanto associati, per fede e battesimo, alla morte e risurrezione di Gesù, accendendo nei credenti, morti o viventi, la speranza nella Vita. Tena questo che verrà ripreso e sviluppato successivamente da Paolo in 1Cor 15,1-58 e in Rm 6,3-9, ma che qui già troviamo in bozza e che assume la forma di una sorta di formula di fede, che sicuramente Paolo deve aver appreso durante il suo lungo tirocinio presso le comunità credenti di Gerusalemme, Damasco ed Antiochia, che ha frequentato per circa un decennio prima di iniziare la sua attività missionaria.

Il rapporto tra viventi e defunti alla venuta del Signore (v.15)

Se il v.14 riguarda l'enunciato di fede nella morte e risurrezione di Gesù, posto a fondamento della nostra morte e risurrezione, che avverrà per associazione alla sua morte e risurrezione, ma con riguardo ai defunti, qui, il v.15 affronta la questione non più dalla parte dei defunti, ma da quella dei viventi, qui posti in rapporto con i defunti: “noi, i viventi, (noi) rimasti alla venuta del Signore, non avremo nessun vantaggio su quelli che si sono addormentati”. Così posta la questione sembra che i Tessalonicesi temano della sorte dei defunti, cioè di quei credenti che non saranno più presenti al momento della venuta del Signore. Ebbene, rassicura Paolo, i viventi, cioè, viene precisato, quelli che sono rimasti, scampando alla morte fisica, non avranno nessun vantaggio o privilegio rispetto ai defunti e, pertanto, questi ultimi non subiranno alcun detrimento dalla loro morte anticipata rispetto alla venuta del Signore. Il motivo su cui poggia tale certezza sta nel fatto che, in quanto anch'essi credenti alla pari dei viventi, sono stati associati alla stessa morte di Cristo, che porta in se stessa la promessa della risurrezione. Entrambi, quindi, morti e viventi sono posti sullo stesso piano rispetto alla venuta del Signore, poiché entrambi sono accomunati nella medesima ed unica fede nel Risorto.

Un'attestazione quella del v.15 che Paolo carica di autorità e, quindi, di credibilità, riconducendola alla parola stessa del Signore, che, però, all'epoca in cui Paolo scrive questa lettera, tra fine 50 e primi 51 d.C., non trova riscontro in alcun altro testo, considerato che questa prima lettera ai Tessalonicesi è il testo cristiano più antico in nostro possesso. Quindi, il riferimento alla “parola del Signore” va compreso, a mio avviso, come insegnamento apostolico, cioè le prime elaborazioni dottrinali di natura magisteriale e che successivamente troveranno spazio nei vangeli e nelle sezioni parenetiche delle successive Lettere neotestamentarie.

Le modalità con cui avviene la risurrezione (vv.16-18)

I due assiomi, enunciati nei vv.14 e 15, riguardanti il rapporto tra viventi e defunti alla venuta del Signore, trovano la loro ricomposizione qui in questa pericope (vv.16-18), che crea una sorta di scaletta di precedenze, che ritroveremo molto simile, ma in modo molto più elaborato e complesso in 1Cor 15,22-28.

Il v.16 è scandito in due parti, la prima (v.16a) crea lo scenario escatologico ed apocalittico in cui viene collocata la venuta del Signore. Uno scenario che viene mutuato dalle elaborazioni escatologiche ed apocalittiche proprie del giudaismo e che certamente non intende descrivere dettagliatamente ciò che accadrà. Ciò che qui Paolo immagina, secondo la cultura del suo tempo, è che la fine dei tempi e il ritorno del Signore è decretato da Dio stesso: “ad un ordine”, che risuona nella voce di un arcangelo, che per sua natura è il messaggero di Dio che attua la sua volontà, e la cui voce risuona come uno squillo di tromba, che proviene da Dio stesso. In questo contesto il Signore scenderà dal cielo, da dove è salito al momento della sua risurrezione, ricongiungendosi al Padre nella sua gloria, che gli apparteneva fin dall'eternità (Gv 17,5).

La seconda parte (v.16b) presenta la risurrezione dei morti in concomitanza con la discesa dal cielo del Risorto, legando la loro risurrezione alla Fonte stessa della risurrezione, in cui hanno creduto. Un primato che in qualche modo spetta loro di diritto, sia perché essi per primi, rispetto ai viventi, hanno partecipato anche alla sua morte fisica; e sia perché l'avvento del Signore pone fine al dominio della morte, l'ultima ad essere sconfitta, secondo 1Cor 15,26, per lasciare definitivamente posto alla Vita che viene, che è Vita eterna, cioè Vita stessa di Dio.

Uno scenario questo della venuta del Risorto, associata alla risurrezione dei morti, quale primo effetto della risurrezione, è presente nello stesso vangelo di Mt 27,52-53, la quale cosa lascia intravedere come l'immagine qui descritta da Paolo fosse in qualche modo già presente tra le prime comunità credenti.

Stabilita la priorità dei defunti sui viventi circa la risurrezione alla venuta del Signore (v.16b), ora Paolo volge la sua attenzione ai “viventi”, cioè a i superstiti, a quelli che sono rimasti in vita rispetto ai morti. Anche questi, i viventi, parimenti ai morti, “risorgeranno”. Un passaggio, questo, che Paolo salta ma lascia sottintendere in quel “assieme con loro saremo rapiti tra (le) nuvole”, cioè quella che noi conosciamo come “assunzione al cielo”, ma che qui Paolo, rifacendosi al linguaggio veterotestamentario, definisce come “rapimento”13, che presuppone la risurrezione, che altro non è che la trasformazione di noi, esseri dotati di un corpo carnale, corrotto dal peccato e soggetto per questo alla sofferenza e alla morte (Gen 3,16-24), in esseri dotati di un corpo spiritualizzato. Passaggio questo che verrà ripreso e approfondito in 1Cor 15,42-44.51-52.

Anche qui il linguaggio è escatologico, parlando di “essere rapiti tra le nuvole”, che sono poste in alto, nel framezzo tra il cielo e la terra, e per la loro natura nascondono le realtà celesti da quelle terrene. Entrare nelle nubi significa, pertanto, essere sottratti alle realtà terrene ed essere ricollocati in qualche modo nelle realtà celesti, cioè nella vita stessa di Dio (At 1,9), da cui siamo drammaticamente fuoriusciti nei primordi della creazione e dell'umanità.

La temuta disparità tra morti e viventi da parte dei Tessalonicesi viene qui dissolta con il v.17, che vede i viventi e i morti, resi nuovamente viventi per la potenza del Risorto, che vivifica parimenti i viventi, rendendoli idonei ad entrare nelle nuove realtà celesti, che sono per loro natura realtà spirituali. In tal modo, non vi è più lo svantaggiato o l'avvantaggiato, perché tutti, allo stesso modo e “assieme”, morti resi viventi e viventi vivificati, raggiungono la comune meta finale: il rimanere per sempre con il Signore.

Dopo questa densa riflessione sulla morte e risurrezione di Cristo, posta a fondamento della nostra morte e risurrezione, che ci associa a quelle di Cristo e, per sua virtù, a lui ci accomuna, il v.18 ne trae le conclusioni con toni esortativi, che spinge i credenti a riflettere sulle parole di Paolo, traendo da queste, sulle quali è impressa l'autorità stessa del Signore (v.15), il loro reciproco conforto, sorretto dalla speranza che non è una vacua attesa, ma certezza nel Signore.


Secondo tema: la Parusia del Signore (5,1-11)

Note generali

Il tema catechetico precedente (4,13-18) riguardava la posizione dei morti e dei viventi e il loro rapporto alla venuta del Signore, concludendo che non vi era alcuna discriminazione tra i due stati di vita, poiché i primi venivano risuscitati in virtù della loro fede nel Risorto, mentre i secondi, i viventi, venivano vivificati per la potenza dello Spirito Santo, così che “morti risorti” e “viventi vivificati” venivano unificati nel medesimo ed unico destino: la loro glorificazione, cioè la loro associazione alla gloria del Risorto, in cui avevano creduto e sperato.

Questo secondo tema catechetico (5,1-11) è la naturale conseguenza del precedente, che parlava di Parusia del Signore, ma mentre il primo tema cercava di spiegare la dinamica di ciò che sarebbe accaduto ai morti e ai viventi alla venuta del Signore, di cui i Tessalonicesi dovevano essere già a corrente (5,5,1-2), qui la Parusia diviene motivo e occasione, più che di una vera e propria catechesi, di una parenesi, riguardante i tempi di attesa della venuta del Signore, che in qualche modo il Vangelo di Matteo metaforizzerà nel racconto delle cinque vergini vigilanti e sagge e di quelle stolte, che si lasciarono traviare dalle occupazioni del presente, distraendosi dall'evento che stava loro dinnanzi: lo Sposo che stava per venire, così che la sua venuta le colse di sorpresa e impreparate (Mt 25,1-13).

Anche questo secondo tema si svilupperà tutto su di un continuo confronto tra il giorno e la notte, tra l'essere figli del giorno e quelli delle tenebre, che divengono la metafora di due diversi e contrapposti comportamenti realizzati nell'attesa della venuta del Signore, il quale, si concluderà, è “morto per noi, affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui” (v.10), di conseguenza “esortatevi gli uni e gli altri e edificate l'uno per l'altro” (v.11).

La struttura di questa pericope è scandita in quattro momenti, che propongo qui di seguito:

  1. Introduzione al tema, che crea la cornice escatologica entro cui viene posta la parenesi dei successivi versetti (vv.1-3);

  2. I figli della luce chiamati a vigilare nell'attesa della venuta del Signore, in cui si sottolinea la diversità del loro nuovo stato di vita, che li colloca nella luce del Signore e non nelle tenebre (vv.4-6);

  3. Contrapposizione del modo di vivere tra i figli della luce e quelli delle tenebre (vv.7-8);

  4. Il destino dei credenti: la salvezza, acquistata dal Risorto, che ci ha associati a lui perché vivessimo inseme a lui (vv.9-11).


Commento ai vv.1-11

Introduzione al tema (vv.1-3)

La questione della Parusia non era nuova per i Tessalonicesi, poiché Paolo qui non si sofferma su di essa, cercando di spiegarne le modalità, come è avvenuto nel tema precedente (4,13-18), in quanto doveva averne già parlato nella prima catechesi, quella fondativa della chiesa di Tessalonica, alla quale in qualche modo si richiama implicitamente ora: “non avete bisogno che vi scriva, (voi) stessi, infatti, sapete perfettamente” (vv.1b-2a). Qui si limita a sottolineare come l'evento della venuta del Signore sarà improvviso e giungerà nel momento che meno ci si aspetti.

Il v.1, infatti, parla di “tempi” e di “specifici momenti”, di cui i Tessalonicesi dovevano essere già al corrente, poiché qui Paolo non sente il bisogno di parlarne ancora. Ma cosa sono questi “tempi” e i suoi “specifici momenti” a cui Paolo fa riferimento? Qui Paolo usa due termini molto simili tra loro, ma che acquistano un diverso se non contrapposto significato: “Perˆ de tîn crÒnwn kaˆ tîn kairîn” (Perì de tôn crónon kaì tôn kairôn). Il primo termine “crÒnwn” indica il tempo fisico, quello proprio della storia, che viviamo quotidianamente, per poi entrare nei nostri ricordi, formando così il nostro passato. È il tempo che scorre come un fiume inarrestabile. Questo tempo è il luogo fisico entro cui irromperà la Parusia, sfasciando questo tempo e ponendovi fine, per instaurare un nuovo tempo, quello di Dio: l'eternità. Il “crÒnwn”, quindi, è il tempo proprio degli uomini, lo spazio a loro riservato.

Il secondo termine “kairîn” indica sempre il tempo, ma non in senso fisico o generico, ma un tempo particolare, un tempo specifico e, in senso lato, definisce l'occasione, la circostanza, la situazione14 e, quindi, un momento specifico del tempo fisico, che si colloca all'interno del “crÒnoj”. Con questo termine Paolo allude agli eventi che precederanno la Parusia e in qualche modo la preannunciano. Eventi che per la loro natura tendono a incrinare il “crÒnoj” e lentamente ne decretano il suo disfacimento e la sua fine. Eventi che, successivamente, i Sinottici descriveranno nei loro vangeli15 e che certamente non si sono inventati, ma li hanno mutuati dal comune sentire della chiesa primitiva, quella del I sec. d.C.

I vv.2-3 richiamano le modalità dell'avvento del Signore, qui definito con un'espressione veterotestamentaria mutuata dal profetismo: “il giorno del Signore”16, che indicava la sua venuta, che portava con sé un giudizio di condanna contro gli avversari di Jhwh, rendendo giustizia agli oppressi. Una venuta caratterizzata da due elementi, che ritroveremo anche successivamente nei vangeli e nelle altre lettere più tardive, a testimonianza di un diffuso sentire della chiesa primitiva: essa è raffigurata ad un ladro, che viene di notte, quando nessuno se l'aspetta (v.2), anzi essa piomba improvvisa proprio nel momento in cui l'uomo si sente maggiormente sicuro, distruggendo in tal modo ogni sua sicurezza, fondata su se stesso in contrapposizione a Dio. Una venuta improvvisa assimilata all'immagine, anche questa tratta dal linguaggio sapienziale e profetico (Sal 47,7; Ger 22,23), delle doglie del parto per indicare non solo una venuta inattesa, ma anche gli effetti che porta con sé. Una venuta che non lascia scampo proprio perché coglie gli uomini di sorpresa e del tutto impreparati, chiusi nelle loro sicurezze, nei loro giochi di potere e nelle loro faccende quotidiane. Un'immagine questa che verrà ripresa sotto altra forma anche dai Sinottici: “Quanto a quel giorno e a quell'ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre. Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell'uomo” (Mt 24,36-39)17.

I figli della luce chiamati a vigilare nell'attesa della venuta del Signore (vv.4-6)

La breve pericope si sviluppa su tre semplici quanto efficaci versetti, di cui i primi due, vv.4-5, che accostano due comportamenti contrapposti: quello in cui vivevano prima i Tessalonicesi (v.4) e quello in cui si trovano ora (v.5). Il tutto si conclude con un'esortazione a vigilare (v.6).

Significativi sono i due vv.4-5, le cui frasi sono disposte a parallelismi concentrici in B). Il v.4, infatti, si apre rilevando come “non siete nelle tenebre” (A), mentre il v.5 si chiude con l'espressione sostanzialmente identica a quella del v.4a: “Non siamo (della) notte né (delle) tenebre” (A1), rimarcando in tal modo come ora i Tessalonicesi non appartengono più al mondo pagano, da cui provengono; un mondo che ormai si sono lasciati alle spalle. Incorniciata all'interno di queste due negazioni (A-A1), la cui insistenza suona come un invito al rifiuto definitivo di quel mondo, spicca, centrale e, quindi, la più importante secondo le regole della retorica ebraica, la nuova condizione di vita, che apre il v.5: “voi tutti, infatti, siete figli della luce e figli del giorno” (B).

Altrettanto significativo è il cambio di soggetto tra le due espressione in 4a e 5b: dal “voi” (Tessalonicesi) si passa al “noi”, che assume qui una significanza ecclesiale.

Dalle precedenti immagini bibliche, cariche di insegnamenti e di ammonimenti, Paolo passa ora all'oggi della sua comunità di Tessalonica, traducendo quelle immagini in parenesi, che fonda su di una riflessione, ricordandole come i suoi membri non appartengono più al mondo pagano, da cui provengono, un mondo avvolto dalle tenebre dell'ignoranza di Dio; ignoranza che li spingeva a vivere in modo dissoluto, sospinti dai propri egoismi e dalla propria connaturata perversità, poiché, proprio perché privi della Luce della Parola di Dio, non sapevano distinguere il bene dal male, confondendo l'uno con l'altro, non avendo nessun altro orizzonte se non se stessi, i propri interessi e la propria istintualità, così che la venuta del Signore li avrebbe colti di sorpresa e del tutto impreparati, come il ladro coglie di sorpresa il padrone di casa che dorme tranquillo nella sua camera. Una venuta, quella del ladro, che sottolinea non solo la sua inattesa e sgradita visita, ma anche un implicito giudizio di condanna, poiché l'improvvisa venuta del ladro che ti arreca certamente dei danni, è accaduta proprio perché non hai preso le tue precauzioni, dormendo, anziché vigilare.

Racchiuso tra due negazioni, “non siete” (4a) e “non siamo” (v.5b), il v.5a con quel “g¦r” (gàr, infatti, poiché) iniziale assume una valenza dichiarativa ed esplicativa: “voi tutti, infatti, siete figli della luce e figli del giorno”. È, dunque, l'appartenere alla luce, qui associata al giorno, che colloca i membri della chiesa di Tessalonica in una diversa dimensione contrapposta a quella da cui essi provengono. Per questo essi non appartengono più a quel mondo, proprio perché, ora, vivono in un altro, quella della Luce del Risorto.

Il v.6 potremmo definirlo come un versetto di transizione, perché concludendo la riflessione dei vv.4-5 con l'esortazione a vegliare, introduce nel contempo il tema della pericope successiva (vv.7-8), che in qualche modo riprende la riflessione dei vv.4-5 dettagliandola ulteriormente attraverso una sorta di esemplificazione.

Anche qui l'esortazione viene rimarcata dalla contrapposizione dei due mondi: quello della luce e quello delle tenebre, che in ultima analisi si riduce alla contrapposizione dei due modi di vivere dei Tessalonicesi, quello prima della loro conversione e quello attuale, illuminati dalla Luce del Risorto. Tre sono qui gli elementi di spicco di questa esortazione: il “non dormire”, ma il “vigilare” e la “sobrietà”. Elementi questi che ritroveremo ora nella pericope vv.7-8.

Contrapposizione del modo di vivere tra i figli della luce e quelli delle tenebre (vv.7-8)

L'assunto dei vv.4-5 viene ora qui esemplificato dai vv.7-8, rilevando, anche qui con il metodo della contrapposizione luce-tenebre, giorno-notte, come il “dormire” e l' “ubriacarsi” sono due comportamenti che si addicono alla notte ed appartengono ad essa. A questi si contrappone un comportamento che è caratterizzato dalla luce, alla quale appartengono i credenti di Tessalonica, il cui spazio vitale è il giorno, che deve mettere in luce non solo la sobrietà, contrapposta all'ubriachezza, ma anche lo specifico proprio del credente, di cui esso è rivestito e che già era stato evidenziato in 1,3: la fede, l'amore e la speranza, qui associati alle immagini della corazza e dell'elmo, elementi questi che fanno parte dell'abbigliamento militare, lasciando intravvedere come il vivere queste tre virtù, dandone forma di quotidianità di vita e di testimonianza, sia tutt'altro che facile, per cui il credente è chiamato ad una lotta e ad un combattimento quotidiano.

Una riflessione questa fin qui esposta nei vv.5,1-8, che Paolo riprenderà sostanzialmente identica, usando la stessa terminologia, benché all'interno di un quadro molto più elaborato, più profondo e più incisivo in Rm 13,11-14: “Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri”.

Il destino dei credenti (vv.9-11)

La riflessione sviluppata nei vv.1-8 trova ora, qui in 5,9-11 la sua motivazione cristologica, l'unica in tutta la lettera.

La pericope inizia con un “Óti” (óti, poiché) che assume qui un senso sia causale che esplicativo, poiché deve, sia motivare che spiegare il perché i Tessalonicesi sono “figli della luce e del giorno e non delle tenebre e della notte” e di conseguenza devono assumere un comportamento adeguato al loro nuovo stato di vita.

La prima motivazione la fornisce il v.9: il destino del credente non è l'ira di Dio, ma la salvezza, che il credente ha già ottenuto in virtù del fatto che egli ha accolto in sé la Parola del Vangelo e vi ha aderito esistenzialmente. Una salvezza che poggia sul “Signore nostro Gesù Cristo”, cioè sul Risorto, riconosciuto nella sua signoria universale. Una salvezza che è stata acquisita attraverso la sua morte, dove quel “per noi” dice come gli uomini erano i destinatari di tale morte e risurrezione di Gesù, detto il Cristo, cioè l'unto del Padre, da Lui inviato per tendere la mano agli uomini nel suo Figlio. Gv 3,17 sintetizzerà questo concetto attestando come “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”.

Morte e risurrezione di Gesù, a cui i credenti sono stati associati in virtù della loro fede e del loro battesimo, affinché “sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui”, dove il “vegliare e il dormire” perdono qui il senso attribuito loro dai vv.6-8, per acquistare un senso meramente temporale e totalmente inclusivo della vita di ogni singolo credente, la cui vita e scandita dai due tempi del vegliare durante il giorno e del dormire durante la notte, così che l'intera sua vita sia accorpata alla vita stessa di Dio nel suo Cristo, che proprio in Gv 12,32, riguardo alla sua morte, ma alludendo in quel “elevato”anche alla sua risurrezione, attestava: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”.

Il v.11 conclude questa ampia riflessione con una esortazione “inutile”, poiché Paolo stesso riconosce in quel “come anche fate”, come i Tessalonicesi già vivano in conformità al suo Vangelo, non solo conformando la loro vita alla fede, all'amore e alla speranza (1,3), ma divenendo essi stessi, ad imitazione di Paolo e del Signore (1,6), missionari e diffusori della Parola del Vangelo in tutta la Macedonia e l'Acaia (1,7-10).

Esortazioni conclusive (vv.12-28)

Testo a lettura facilitata

Rispetto e stima per i responsabili della comunità (vv.12-13)

12- Vi preghiamo, fratelli, di rispettare quelli che si affaticano tra voi e sono i vostri capi nel Signore e vi ammoniscono,
13- e di stimarli con sovrabbondanza nella carità per la loro opera. State in pace con loro.

Aiuto e sostegno ai fratelli fragili (vv.14-15)

14- Vi esortiamo, fratelli, ammonite gli indisciplinati, incoraggiate i pusillanimi, sorreggete coloro che sono deboli, siate magnanimi verso tutti.
15- Guardate affinché qualcuno non renda a qualcun('altro) male per male, ma perseguite sempre il bene verso gli uni e gli altri e verso tutti.

Atteggiamenti propri del credente (vv.16-18)

16- Gioite sempre,
17- pregate incessantemente,
18- in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.

Ascolto dello Spirito e rispetto nelle forme in cui si manifesta (vv.19-22)

19- Non spegnete lo Spirito,
20- non siate proclivi al disprezzo delle profezie,
21- esaminate tutte le cose, tenete ciò che (è) buono,
22- tenetevi lontani da ogni specie di male.

Invocazione benedicente in prospettiva escatologica (vv.23-24)

23- Ma lo stesso Dio della pace vi santifichi in tutto, e la vostra interezza, lo spirito e l'anima e il corpo, sia custodita in modo integro nella venuta del Signore nostro Gesù Cristo.
24- Fedele (è) colui che vi chiama, colui che anche fa.

Saluti e raccomandazioni finali (vv.25-28)

25- Fratelli, pregate anche per noi.
26- Salutate tutti i fratelli con il bacio santo.
27- Vi scongiuro, per il Signore, che la lettera sia letta a tutti i fratelli.
28- La grazia del Signore nostro Gesù Cristo (sia) con voi.


Note generali

La brevità delle raccomandazioni e delle esortazioni, nonché la quantità con cui si susseguono lasciano chiaramente intendere che ormai si è giunti al termine della Lettera e Paolo, da buon padre, che non smette mai di accudire ai propri figli con amorevole sollecitudine e attenzione per ciascuno di loro (2,11), le somministra con abbondanza, sapendo anche che queste dovranno essere diffuse a “a tutti i fratelli” (v.27).

Le tematiche, numerose e appena accennate, si presentano sotto forma di brevi imperativi, lasciati alla discrezionalità di ciascun membro della chiesa di Tessalonica e di quanti altri leggeranno la Lettera, così da farne un personale tesoro spirituale di crescita nel Signore; una crescita spirituale qui colta in una prospettiva escatologica (v.23).

Gli argomenti trattati in questa ultima sezione della Lettera, si posso raggruppare in sei parti come di seguito specificati:

  1. Rispetto e stima per i responsabili della comunità (vv.12-13);

  2. Aiuto e sostegno ai fratelli fragili (vv.14-15);

  3. Atteggiamenti propri del credente (vv.16-18);

  4. Ascolto dello Spirito e rispetto nelle forme in cui si manifesta (vv.19-22);

  5. Augurio benedicente (vv.23-24);

  6. Saluti e raccomandazioni finali (vv.25-28).


Commento ai vv.12-28

Rispetto e stima per i responsabili della comunità (vv.12-13)

La prima esortazione, con cui si apre quest'ultima sezione della lettera (vv.12-28), è dedicata al rispetto dei capi e delle persone che si occupano in vario modo alle esigenze della comunità. Il richiamo dà l'idea di una comunità numerosa, ben organizzata e già istituzionalizzata, con dei capi e dei ministeri al suo interno; non solo, ma si parla anche di una comunità ben amalgamata e che vive una intensa vita spirituale intracomunitaria (1,3.6-7), che sa reggere molto bene le persecuzioni (1,6b; 2,14; 3,2-4) ed è divenuta essa stessa missionaria (1,8-9) “ad imitazione di Paolo e del Signore” (1,6a). Una comunità, quindi, ben strutturata e ben avviata, nonostante la giovane età. Quando Paolo scrive questa lettera, tra la fine dell'anno 50 e primi mesi del 51 d.C., la chiesa di Tessalonica non doveva avere più di un anno di vita e, francamente, sembra quasi impossibile una simile trasformazione: da pagani incalliti e culturalmente radicati nel paganesimo a ferventi credenti. Ma se sono giusti i calcoli delle date e vero quello che dice Paolo, e non c'è motivo per dubitare, non si può che concludere che in tal senso. Un vero miracolo di trasformismo (cfr. pag.16).

Tuttavia l'esortazione al rispetto di chi è preposto alla comunità e ai suoi servizi e il successivo richiamo agli indisciplinati e ai pusillanimi (v.14) e a perseguire sempre il bene, nonché di evitare comportamenti sessualmente disdicevoli e scandalosi per i fratelli (4,3-7), nonché gli ammonimenti dei loro capi (v.12), lascia intravvedere come in questa comunità, i cui membri provenivano dal paganesimo e ne risentivano l'influenza, vi fossero delle turbolenze, che rendevano difficile la sua gestione ai loro “capi nel Signore”, cioè che operano in nome e per conto del Signore, cercando, quindi, di vedere in essi l'opera stessa del Signore e non delle semplici persone che si possono anche contestare o da cui dissentire. Da qui la necessità di accostarsi ad essi con quel rispetto amorevole, che è frutto di una profonda carità, che porta alla comprensione del lavoro che essi svolgono. Il richiamo si conclude con un'esortazione: “State in pace con loro”. Un invito non solo ad evitare conflitti con l'autorità costituita, che opera nel Signore, ma anche di sapersi riconciliare con essa ed accettarla, poiché la chiesa di Tessalonica, a differenza di quella giovannea, non era una comunità carismatica, ma istituzionalizzata e, comunque, i possibili carismi andavano sempre spesi per il bene della comunità, ponendosi al suo servizio, per farla crescere nel bene.

Aiuto e sostegno ai fratelli fragili (vv.14-15)

.Ed è qui che si apre la seconda esortazione (vv.14-15) di quest'ultima parte della lettera, quella riguardante il rapporto con quei credenti deboli nella fede, con problemi di convivenza e di carattere, che incidono negativamente con il loro modo di comportarsi all'interno della comunità e nel vivere la propria fede. Queste persone non vanno perseguite disciplinarmente, ma aiutate nelle loro fragilità, che probabilmente venivano messe in maggior evidenza dai tempi particolarmente difficili delle persecuzioni, che dovevano creare tensioni non solo a livello sociale civile, ma anche intrafamiliare. Si pensi alla testimonianza dei Sinottici nei loro discorsi escatologici, dove si parla di persecuzioni, di imprigionamenti, di tribunali e di condanne solo perché si crede nel nome di Gesù18; o si pensi alla testimonianza di Lc 12,51-53 e 21,16,17 dove si parla delle divisioni intrafamiliari a causa della propria fede. Non da meno Giovanni nel suo vangelo testimonia delle persecuzioni dei Giudei contro chi aveva aderito al messaggio di Cristo, fino a subire l'espulsione dalla sinagoga, la quale cosa equivaleva ad una sorta di morte civile e religiosa19.

Un esempio di richiamo fraterno all'interno della comunità nei confronti di chi ha sbagliato ci viene da Mt 18,15-17, dove il richiamo è già istituzionalizzato e sono previsti tre gradi di intervento: il primo, personale, a tu per tu; il secondo con la presenza di testimoni; il terzo con deferimento davanti al consiglio degli anziani. Il mancato ravvedimento era sanzionato con una sorta di scomunica.

Paolo, tuttavia, è sempre sulla linea della benevola comprensione e del perdono fondato sull'amore reciproco al fine di evitare scismi o divisioni tali da creare problemi all'interno delle comunità. La carità è la virtù sublime, la virtù per eccellenza, a cui Paolo dedica uno stupendo inno in 1Cor 13,1-13.

Ed è su questa linea dell'amore che si muove il v.15, che sollecita a fare attenzione affinché al male non si risponda con il male, nella logica dell'occhio per occhio e dente per dente. Comportamenti questi che inaspriscono gli animi, creando tensioni e divisioni interne, alimentando rancori, odii e voglia di vendetta. A questa contrapposizione dalle conseguenze mortali, Paolo sollecita a perseguire, invece, il bene degli altri e la crescita della comunità stessa. In altri termini, Paolo qui suggerisce di superare i propri egoismi e i propri interessi personali, cercando, invece, l'affermazione dell'altro e il bene della comunità stessa, poiché in questo il credente realizzerà se stesso non solo nella sua crescita spirituale, ma anche come persona.

Un'esortazione quest'ultima che tende all'espansività, poiché la sollecitazione va dagli uni verso gli altri, con riguardo qui ai rapporti intracomunitari, al verso tutti, dove con quel “tutti” Paolo abbraccia anche i non credenti, dando in tal modo una testimonianza del nuovo stile di vita proposto dal cristianesimo nascente: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

Atteggiamenti propri del credente (vv.16-18)

Sotto l'egida della volontà di Dio manifestatasi in Cristo Gesù vengono qui posti tre livelli di vita spirituale che devono caratterizzare il vivere del credente: il “gioire sempre”, il “pregare incessantemente” e il “rendere grazie”.

Quanto al “gioire sempre” Paolo si riferisce non tanto ad un sentimento umano, che nasce nel vedere realizzato un proprio desiderio o soddisfatti dei propri interessi, quanto alla gioia che proviene dallo Spirito Santo; quella gioia che egli aveva già menzionato in 1,6b: “avendo accolto la parola in mezzo a molta afflizione, con (la) gioia (dello) Spirito Santo”. Una gioia, quindi, che proviene dallo Spirito Santo e pervade il credente anche in mezzo alle tribolazioni, poiché la gioia dello Spirito è uno stato di vita di Dio stesso, di cui è pervaso il credente in virtù della sua fede. Non si tratta, quindi, di un sentire umano, ma divino, che nasce dallo stupore dell'esperienza di Dio nella sua Parola, quella che i Tessalonicesi hanno sperimentato in modo così proficuo nel loro incontro con il Vangelo di Paolo. E che così sia è significato in quel “sempre” che accompagna il gioire e che dice come questa gioia non ha ostacoli né qualcuno o qualcosa vi si può contrapporre, poiché le sue sorgenti sono in Dio stesso e non provengono dalle cose.

Quanto al “pregare incessantemente”, questo diviene una logica conseguenza del “gioire sempre”, poiché la preghiera, qui, non va intesa come una serie di formule da recitare in determinati momenti della giornata o in contesti liturgici e cultuali, quanto un atteggiamento esistenziale rivolto a Dio, di apertura a Dio, di ricerca della sua volontà. La preghiera, quindi, supera i limiti della formula per farsi vita vissuta orientata a Dio, così che tutta la propria vita diviene preghiera, trasformandosi in una perenne liturgia di lode e di ringraziamento a Dio. Ed è ciò che Paolo attesterà poi, in diverso contesto, in 1Cor 10,31: “Sia dunque che mangiate sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”.

Una preghiera che, parimenti alla gioia, deve essere “incessante”. La natura di questa preghiera, pertanto, è strettamente legata al vivere della propria quotidianità, facendone una costante celebrazione di lode e di ringraziamento, quale atto di culto spirituale a Dio gradito, conformandosi esistenzialmente alla sua Parola e cercando nel proprio vivere la sua volontà.

Significativo in tal senso è Rm 12,1-2, dove Paolo fa appello al sacerdozio connaturato al credente, affinché questi trasformi la sua vita in un atto di consacrazione di se stesso e di tutte le realtà create in un atto di culto., sollecitando a rinnovare la propria mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

La preghiera, pertanto, diviene un potente lievito della propria vita spirituale, che già fin d'ora ci colloca nella vita stessa di Dio e ci fa vivere per Lui e di Lui.

Quanto “al rendere grazie in ogni cosa”, questo diviene la logica conclusione dell'esperienza della gioia, dono dello Spirito, e della preghiera, quale orientamento esistenziale a Dio, che crea una comunione di vita con Dio. Entrambe le esperienze aprono il credente alla comprensione di Dio e lo rendono partecipe fin d'ora della sua stessa vita, aprendolo ad una nuova comprensione della propria vita e dell'intera realtà delle cose, in cui Dio si muove, conducendole al proprio fine di salvezza. Tutto questo diviene motivo di un continuo e incessante “rendimento di grazie”, la cui incessante continuità viene espressa nell'espressione “in ogni cosa”, poiché tutto è dono, tutto è grazia. E Paolo ne ha dato atto nei primi tre capitoli di questa Lettera, che sono un interminabile rendimento di grazia, che trasforma in atto di culto l'annuncio del Vangelo e il fermento di conversione e di rinnovamento spirituale, che Dio ha operato nella comunità credente di Tessalonica, in un atto di consacrazione a Dio e un'offerta a Lui gradita.

Ascolto dello Spirito e un attento rispetto nelle forme in cui si manifesta (vv.19-22)

Un'attenzione viene, ora, rivolta allo Spirito, che opera nei credenti e in mezzo alla comunità credente e che fu il fautore della loro conversione (1,5). Il primo ammonimento è di “non spegnere lo Spirito”. In altri termini di essere attenti, disponibili e malleabili alla sua voce, che si manifesta nelle ispirazioni personali, illuminando le menti, aiutandole a discernere il vero dal falso, il bene dal male, ma anche, lo si vedrà subito al v.20, a quella voce dello Spirito che si manifesta nei profeti e nelle loro profezie. Essere, dunque, sensibili all'azione dello Spirito, che opera in particolar modo nella Parola di Dio, che illumina il cammino di ogni credente (Sal 17,29; 118,105). Da qui il secondo ammonimento (v.20), quello di non disprezzare o essere tendenti al disprezzo delle profezie. Il riferimento, qui, non riguarda, o almeno non in modo prevalente e diretto, alle profezie veterotestamentarie, ma alla profezia, cioè alla voce di quei credenti che, in mezzo alla comunità, si sentivano ispirati dallo Spirito e parlavano nel suo nome e consigliavano e indirizzavano l'azione dei responsabili della comunità (1Tm 4,14). La figura del profeta, infatti, era tra quei ministeri che pullulavano nella chiesa dei primi tempi20 e animavano e trasformavano le comunità credenti, facendole fermentare. Profeti che si potrebbero definire come i consiglieri di Dio in mezzo alle comunità credenti. Per questo, i profeti vanno attentamente ascoltati, ma, anche attentamente valutati e soppesati nelle cose che dicono, richiamandosi in tal modo alla capacitò di discernimento che ogni credente dovrebbe avere in virtù del fatto che anch'egli è stato investito e rivestito dello stesso Spirito. Un richiamo che risuonerà anche in 1Cor 14,29-33 in modo più elaborato e approfondito: “I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. Se uno di quelli che sono seduti riceve una rivelazione, il primo taccia: tutti infatti potete profetare, uno alla volta, perché tutti possano imparare ed essere esortati. Ma le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti, perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace.” Da qui gli altri due ammonimenti (vv.21-22), quello dell'esaminare attentamente tutto ciò che i profeti dicono, ritenendo ciò che i credenti sentono vibrare dentro di loro come cosa buona, giusta e vera. L'attenzione allo Spirito e la propria sensibilità nei suoi confronti vengono acquisite e affinate sempre più se si cammina nella rettitudine e nella giustizia, sottese e alimentate dalla Parola di Dio, che dello Spirito Santo è ripiena, per cui si rende necessario anche quest'ultimo ammonimento: “tenetevi lontani da ogni specie di male” (v.22); quel male che è contrario allo Spirito e alla sua opera e ne soffoca la voce, rendendo insensibile il credente alla sua azione e cieco alla sua luce. Un ammonimento che successivamente Rm 12,2 trasformerà in quel “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”.

Invocazione benedicente in prospettiva escatologica (vv.23-24)

A conclusione della sua lettera Paolo impone sulla comunità di Tessalonica la benedizione che discende dal “Dio della pace”, cioè quel Dio che nel suo Spirito ricolma di ogni bene spirituale i credenti e crea tra loro una comunione di vita, che è vita nello Spirito Santo in conformità ai suoi dettami. Una comunione di vita che colloca la comunità credente nella vita stessa di Dio, di cui diviene partecipe. Una pace che è finalizzata alla “santificazione in tutto”. Santificare significa lasciarsi assimilare alla vita stessa di Dio attraverso l'azione dello Spirito, Lui che è il Santo per eccellenza e fonte di ogni santità, conformando in tal modo la propria vita alla sua. Ed era proprio questo il comando di Lv 19,2b: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo”. Una santità ed una santificazione, che oltre ad definire uno stato di vita in Dio, indicava anche un processo di continua conversione per conformare il proprio modo di vivere a quelle realtà spirituali in cui ogni credente, in virtù della propria fede e del proprio battesimo, è stato collocato. Una santità ed una santificazione che devono abbracciare “tutto”. Che cosa significhi quel “in tutto” viene specificato al v.23b, dove si parla di “interezza” e dove questa “interezza” viene dettagliata secondo la logica dell'antropologia greca in cui risuona in qualche modo anche quella ebraica: “lo spirito e l'anima e il corpo”. Per gli ebrei l'uomo non è un composto di anima e di corpo, per questo si deve attendere Platone, ma è uno spirito incarnato e una carne spiritualizzata, che si rifà in qualche modo al soffio vitale che Dio inalò nel primo uomo, trasformandolo in essere vivente (Gen 2,7); quel soffio vitale che Giovanni farà ricomparire nel suo vangelo: “Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo>>” (Gv 20,22). Quello Spirito che è di rigenerazione e di santificazione, poiché è lo Spirito del Risorto, che ci ha tratti tutti a sé (Gv 12,32), ricollocandoci in seno al Padre (Col 1,13).

Ma come combinare lo spirito dell'uomo con la sua carne? Spirito e carne hanno due nature contrapposte e inconciliabili tra di loro (Gv 3,3-6). È il terzo elemento, l'anima dell'uomo, che diviene il luogo di incontro e di conciliazione tra spirito e corpo, in cui lo spirito può convivere con il corpo ed esprimersi in lui e per suo mezzo; mentre il corpo si lascia informare dallo spirito, ospitandolo in se stesso, e lasciandosi condurre da lui, cercando di conformarsi alle sue esigenze, così come lo spirito si può conformare a quelle del corpo che lo ospita.

La santificazione del credente nella sua interezza acquista in questo contesto una dimensione escatologica, così che il vivere del credente, santificato dalla sua fede e rigenerato alla vita divina in virtù del battesimo, si fa orientamento esistenziale verso la venuta del Signore, che illumina l'intera vita del credente nel suo vivere quotidiano, dandole la pienezza del suo senso.

Il v.24 chiude definitivamente la lettera e in qualche modo la sottoscrive, confermando come Colui che ha chiamato alla fede i Tessalonicesi è anche Colui che sa compiere le promesse in essa contenuta, così che l'adesione esistenziale dei Tessalonicesi alla Parola del Vangelo, attua in loro stessi la Promessa dei cieli nuovi e della terra nuova, che altro non è che il ricollocamento del credente in quella dimensione divina da cui l'umanità decaduta, drammaticamente fuoriuscita nei suoi primordi (Gen 3,16-24), proviene.

Saluti e raccomandazioni finali (vv.25-28)

Con queste quattro battute finali Paolo chiude la sua lettera, che è un inno di ringraziamento a Dio o, per meglio dire, una celebrazione di rendimenti di grazie per il fervore di una giovane chiesa che non solo ha saputo resistere alla pressione delle persecuzioni, ma si è fatta anche promotrice di una vasta azione missionaria in tutta la Macedonia e l'Acaia, divenendo esempio per tutte le altre chiese.

In 1,2 Paolo attestava ai Tessalonicesi come egli riservasse per loro uno spazio di preghiera davanti a Dio, “facendo memoria”, che evoca in qualche modo una sorta di incessante azione liturgica, la cui celebrazione li vedeva coinvolti quale offerta gradita a Dio. Ora, Paolo, in chiusura della lettera invoca per lui la loro preghiera (v.25), che dev'essere incessante (v.17), come lo è la sua per loro (1,2b), creando in tal modo uno spazio di comunione vitale, che ha il suo punto di congiunzione in Dio.

Se per Paolo la preghiera assume in questo contesto sfumature liturgiche, ecco che anche i saluti risentono di tale contesto. Da qui l'invito a “salutare tutti i fratelli con il bacio santo”, cioè con una sorta di abbraccio fraterno in cui tutti si riconoscono nell'unico Padre e in comunione tra loro. Un bacio-abbraccio che era in uso presso le comunità credenti in particolar modo durante l'azione liturgica, per esprimere sacramentalmente la pace, che si fa comunione fraterna nel Signore, chiamando così ogni credente a superare i possibili ostacoli con gli altri membri della comunità per ritrovarsi riconciliati nella celebrazione del culto all'unico e comune Padre.

Un gesto che ritroviamo, oltre che qui, anche in Rm 16,16; 1Cor 16,20; 2Cor 13,12 e 1Pt 5,14, dove l'espressione “bacio santo” trova la sua variante equivalente in “bacio della carità”. Un gesto che troverà la sua ragione nell'esortazione del Gesù matteano: “Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24).

Il v.27 esce dallo schema liturgico dei vv.25.26 per tornare nuovamente, con un accentuato tono esortativo (“vi scongiuro”), a rivolgersi ai responsabili della comunità di Tessalonica, affinché la lettera fosse letta a tutti i fratelli, facendone parte con loro. La ragione di questa particolare esortazione finale sta probabilmente nella catechesi enunciata nella sezione 4,13-5,11, che va a completare quella iniziata con la fondazione della chiesa di Tessalonica, non ancora completata (3,10), per cui Paolo si riserva di portarla a compimento in un prossimo incontro con la comunità tessalonicese, che tanto desidera incontrare (3,10-11), e i cui contenuti vengono qui anticipati (4,13-5,11).

Il v.28 conclude la lettera con una sorta di invocazione benedicente, imposta sulla comunità credente di Tessalonica. Una formula di uso comune che troviamo in chiusura di numerose altre lettere21, dove il termine “grazia” sta ad indicare la sovrabbondanza dei beni spirituali acquisiti dal Signore, qui riconosciuto come il Gesù, Messia inviato dal Padre, morto e risorto e insignito della Signoria universale nella risurrezione. Beni che si esprimono nel dono della pace22, quale segno e sacramento di riconciliazione tra Dio e li uomini in Cristo, sacramento di incontro e di comunione tra gli uomini e il Padre.


N O T E

1Da questi 2033 versetti che compongono gli scritti paolini sono stati scorporati i 303 versetti che compongono la Lettera agli Ebrei, la quale, benché inserita nel Corpus paulinum, tuttavia non è attribuile né a Paolo né alla sua scuola.

2Quando qui Paolo parla di “aver ricevuto dal Signore” non si riferisce a visioni particolari, ma ad una Tradizione che viene fatta risalire al Signore.

3Traduzione: L'imperatore Claudio “espulse da Roma i Giudei che creavano tumulti sotto la spinta di Cresto”. Il nome “Cresto” va compreso come una deformazione di “Cristo”, appellativo che era attribuito a Gesù, da cui ne seguì quello di “cristiani”, quali seguaci di Cristo. A Roma vi era la presenza di due folte comunità di Giudei e di cristiani, che, probabilmente per motivi di proselitismo, non di rado creavano problemi di ordine pubblico, così che l'imperatore Claudio pensò bene di espellere da Roma i Giudei, ma con loro anche i cristiani.

4Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, II,22,1-2: “1. Come successore di Felice, Nerone inviò Festo, davanti al quale Paolo fu processato e poi mandato prigioniero a Roma. Era con lui Aristarco, che l'apostolo, in un passo delle sue lettere chiama giustamente compagno di prigionia (Col 4,10a ndr). Anche Luca, che ha riportato per iscritto gli Atti degli apostoli, terminò a questo punto la sua narrazione, precisando che Paolo passò a Roma due interi anni in libertà e vi predicò senza ostacoli la parola di Dio. 2. Dopo aver sostenuto la propria difesa in giudizio, si dice che ripartì per il ministero della predicazione, ma ritornò una seconda volta a Roma sotto Nerone e vi subì il martirio. Durante la sua prigionia scrisse la seconda lettera a Timoteo, in cui accenna alla sua prima difesa ed alla fine imminente

5Gustav Adolf Deissmann (1866-1937) è uno storico e teologo tedesco, il cui nome è legato ad approfonditi studi di filologia dell'Antico e del Nuovo Testamento e sul cristianesimo primitivo.

6All'interno della chiesa delle origini vi era una corrente giudeocristiana giudaizzante che sosteneva la necessità che i convertiti provenienti dal paganesimo fossero circoncisi e, quindi, sottomessi alla Legge mosaica, legando la salvezza non più a Cristo, ma a Mosè, vanificando in tal modo l'opera salvifica di Cristo stesso (At 15,1). Il pericolo concreto era che il cristianesimo nascente, rifacendosi non più a Cristo, ma a Mosè, venisse fagocitato dal giudaismo. Paolo denuncerà chiaramente, in termini duri e categorici, la questione in Gal 5,4: “Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia”. Un duro giudizio di condanna per quei Galati che, lasciatisi convincere dai giudeocristiani giudaizzanti, abbandonarono il Vangelo di Paolo per seguire quello dei giudaizzanti (Gal 1,6-7).

7Cfr. Rm 1,7; 1Cor 6,1-2a; 7,14; 2Cor 1,1; 8,4; 9,1.12; 13,12; Fil 1,1; 4,21.22; Fm 1,5

8Il termine greco “kÒpoj” significa letteralmente “pena, sforzo, fatica, sofferenza, travaglio”.

9E questo accende la speranza che, alla fine dei tempi, l'amore di Dio sappia spegne anche le fiamme dell'Inferno.

10Cfr. anche Lv 11,44; 20,7

11Cfr. Rm 7,5.25b; 8,4.5.8.9; 13,14; Gal 5,13.16.17.19; 6,8

12Cfr. anche Lv 11,44; 20,7

13Cfr. Gen 5,24; 2Re 2,11; Sap 4,10-11

14Circa il senso lato del termine “kairÒj”, cfr. la voce ““kairÒj”, lett. c, in L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiaano, ed. Società editrice Dante Alighieri, Roma 1993.

15Cfr Mc 13, 1-29; Mt 24, 1-33; Lc 21,5-31

16L'espressione ricorre16 volte solo nei Profeti

17Cfr. anche Lc 17,24-30

18Cfr. Mt 24,9-12; Mc 13,9-13; Lc 21,12-15

19Cfr Gv 7,13; 9,22; 12,42; 19,38; 20,19

20Cfr. 1Cor 12,27-30; 14,29.32; Ef 2,20; 3,5; 4,11; 1Pt 1,10

21Cfr. 1Cor 16,23; 2Cor 13,13; Gal 6,18; Fil 4,23; 1Ts 5,18; 2Ts 3,18; Fm 1,25; Ap 22,20b

22Cfr. Gv 14,27; 20,19.21.26.