Natale, un Dio che si rende storicamente

raggiungibile dall'uomo

e lo spinge a prendere posizione


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Premessa

Erano certo tempi molto duri per il giovane Acaz (735-716? a.C.), re di Giuda, di appena vent'anni (2Re 16,1-2a), da poco salito al trono dopo la morte del padre Iotam (740-735), allorché gli venne imposta l'alleanza contro l'espansionismo del re assiro Tiglat-Pileser III (747-727 a.C.) da parte di Rezin, re di Damasco, e di Pekach (735-732), re di Israele. Preso dal panico volle appellarsi al re assiro. Una simile decisione avrebbe avuto certamente dei riflessi negativi sulla fede in Jhwh e sui costumi religiosi di Giuda. A questa nefasta alleanza si oppose Isaia, invitando Acaz a confidare nel Signore e a riprova delle sue parole sollecitò il giovane re a chiedere un segno a Dio. Acaz, richiamandosi idealmente ad Es 17,2, si rifiutò di mettere alla prova il Signore. Anche se apparentemente la risposta del re sembrava dettata dal rispetto e dalla pietà verso Jhwh, in realtà era mossa da un subdolo opportunismo: Isaia aveva spinto Acaz a prendere posizione nei confronti di Jhwh e a fidarsi della sua parola. Il re, per evitare una simile decisione, in cui non riponeva alcuna fiducia, preferì non accettare la sfida che Isaia gli aveva lanciato e proseguire nelle sue politiche umane, senza tener in alcun conto gli interessi e le esigenze di Dio. Ma il profeta non si dette per vinto e rilanciò la sfida, indicando ad Acaz il segno con cui Dio si impegnava con lui, mettendolo in tal modo con le spalle al muro: “Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerai Emmanuele” (Is 7,14). Ora Acaz non aveva più alibi e Dio, per mezzo del suo profeta, lo stava interpellando direttamente; esigeva da lui una risposta, pretendeva da lui una presa di posizione. Gli sarebbe nato un figlio a cui egli doveva dare il nome di Emmanuele, il Dio con noi. Ma Acaz disattese la proposta di Dio e continuò nelle sue politiche e nelle sue alleanze, che portarono il regno di Giuda ad una grave decadenza morale e Dio abbandonerà Acaz al suo destino (2Cr 28,19-25).

La sfida tra Dio ed Acaz si è giocata tutta attorno ad un bambino, che nel nome indicava la pervicace fedeltà di Dio alle sue promesse; un Dio che non voleva abbandonare l'uomo ai suoi perversi disegni e gli dà, anzi gli impone, come segno della sua presenza e della sua alleanza con lui un bambino. Di fronte a tale segno, Acaz non può più fingere, ma deve fare la sua scelta, qualsiasi essa sia, anche se questa scelta non sarà scevra da conseguenze. Quel bambino, quindi, costituisce per Acaz, suo malgrado, una discriminante che lo metterà per o contro Dio; un bambino, dunque, che porta con sé un giudizio divino che viene posto sul re.

Dopo circa sette secoli, intorno all'anno zero, questo bambino torna nuovamente in mezzo agli uomini, si propone nuovamente a loro, anzi si impone a loro, poiché la sua presenza è divenuta fatalmente anche un elemento di discriminazione e di giudizio, indipendentemente dalla loro volontà. Al nome Emmanuele, il Dio con noi (Mt 1,23), ora si associa anche quello di Gesù, Dio salva. L'Emmanuele-Gesù, il Dio con noi che salva, dice che egli non è venuto per giudicare l'uomo, ma per salvarlo (Gv 3,17). Questo è il senso della sua missione. Dio, dunque, è dalla parte dell'uomo, ma ora spetta all'uomo stabilire da quale parte stare. L'offerta di salvezza, infatti, può anche essere rifiuta e l'uomo è libero di fare i suoi giochi lontano da Dio o contro di Lui. Ma ora ogni sua scelta, ogni sua presa di posizione, ogni suo orientamento esistenziale avrà per lui un peso escatologico determinante, proprio perché quell'offerta fatta nell'Emmanuele-Gesù è l'ultima proposta del Padre, l'ultima mano tesa del Padre offerta all'uomo e proprio perché ultima e definitiva porta con sé, suo malgrado, anche un giudizio decisivo, che si compie qui e ora e che l'eternità non potrà cambiare, ma renderà soltanto definitivo.

La nostra riflessione si svilupperà su tre passaggi: a) Il tempo compiuto; b) Natale, un dono che interpella ogni uomo; c) Rinnovarsi alla luce della Parola nell'attesa del Signore.

Il tempo compiuto

Nella sua grande visione della storia della salvezza il pensiero della chiesa primitiva colloca il piano salvifico di Dio ancor prima della creazione del mondo e lo enuncia in Ef 1,4-5.7: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, […] nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia”; un piano che ha il suo polo catalizzatore in Cristo: “egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,9-10). Vi sono dei tempi, dunque, che scandiscono questo piano pensato da Dio fin dall'eternità e che Paolo annuncia in Gal 4,4-5: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli”; tempi, la cui compiutezza è proclamata anche da Marco in 1,15: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”. Un tempo che anche i profeti sognarono e lo preannunciarono in quel bambino partorito da una vergine chiamato Emmanuele (Is 7,14); un bambino che Isaia vede posto a fondamento del nuovo regno d'Israele: “Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti” (Is 9,5-6). Tempi nuovi che Ezechiele vede dominati dallo Spirito, che rigenererà il popolo ad una nuova vita e che riscatterà il cuore di ogni uomo, consacrandolo al suo Dio (Ez 36,24-28; 37,11-14). Tempi in cui lo Spirito verrà effuso su tutti gli uomini di qualsiasi estrazione o appartenenza sociale essi siano, rendendoli testimoni di questi tempi nuovi (Gl 3,1-2), dandone così un respiro universale. Queste grandi visioni, queste voci dei profeti, che hanno percorso la storia e sostenuto il popolo nel suo cammino verso il compiersi della Promessa trovano ora il loro volto storico e la loro voce in Gesù: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1,1-2). Egli dunque è il Kaîros di Dio, il Tempo e il Luogo del compimento della Promessa, di quel progetto divino pensato per l'uomo fin dall'eternità. In lui ogni attesa trova il suo compimento, quel compimento che avrà il suo vertice sulla croce: “È compiuto” (Gv 19,30a), che Giovanni rende qui in greco, significativamente, con un perfetto indicativo: “Tetšlestai” (Tetélestai), un tempo verbale che indica uno stato presente che risulta come conseguenza di un'azione passata. Il compimento proclamato dal Gesù giovanneo sulla croce pertanto viene indicato come il compimento ultimo e definitivo di un progetto divino che, come si è visto in Ef 1,4-6.7, ha la sua origine nell'eternità stessa di Dio. A questo compimento viene fatta seguire quella che gli esegeti vedono come una sorta di effusione dello Spirito: “E piegato il capo, consegnò lo Spirito” (Gv 19,30b), inaugurando in tal modo i tempi nuovi. Proprio perché egli è il Kaîros di Dio, proprio perché ogni promessa in lui si è compiuta pienamente e definitivamente, l'evento Gesù si qualifica come escatologico; un evento che proprio per la sua natura diventa decisivo per ogni uomo. Un evento che si pone come discriminante, qui e ora, per ogni uomo. Non è un caso se l'intero vangelo giovanneo è percorso da una escatologia attuata o presenziale, in cui salvezza o perdizione già si attuano nel presente e saranno rese definitive nell'aldilà, non più soggetto al divenire e ai limiti della storia; e similmente è Luca, il cui vangelo è caratterizzato dalla gioia di una salvezza che si compie nell'oggi dell'uomo; ma non è da meno il Gesù marciano che apre la sua missione proclamando che : “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). A fronte di un evento escatologico che si compie anche per Marco nell'oggi (i tempi verbali sono tutti al presente indicativo), egli fa seguire il sollecito della risposta degli uomini, che è scandita in due tempi: la conversione, cioè il riorientare la propria vita verso Dio; e il credere al Vangelo, cioè l'aprire la propria vita a Dio, conformandosi esistenzialmente alle sue esigenze. L'evento escatologico, proprio per la sua natura definitiva e decisiva per l'uomo, non può rimanere e non rimane comunque senza risposta, poiché si colloca in mezzo agli uomini con prepotenza, cioè indipendentemente dalla loro volontà, come un evento discriminante e determinante. L'uomo ora, suo malgrado, è chiamato a prendere posizione nei confronti di tale evento: qualsiasi sia il suo comportamento, positivo, negativo o indifferente è sempre e comunque una risposta, conscia o inconscia, che egli dà all'evento e che grava su di lui; una risposta che sarà resa piena e definitiva nella metastoria, dove la dimensione spazio-temporale, che è la dimensione propria del divenire, è assente, per cui ognuno sarà pienamente, totalmente e definitivamente ciò che è stato qui. Nell'oggi dunque si gioca la salvezza e si compie nel contempo il giudizio, poiché la venuta di quel bambino non solo ha reso pieno, compiuto, cioè definitivo, questo tempo, ma lo ha reso anche decisivo per la salvezza dell'uomo. In altri termini, ha cambiato la valenza e il peso della storia.

Natale, un dono che interpella ogni uomo

All'interno di una flebile cornice dialogica che vede come protagonisti Gesù e Nicodemo, figura quest'ultimo di un giudaismo elitario alla ricerca della verità (Gv 3,1-9), favorevole a Gesù (Gv 7,50-52) e che sfocerà nella sequela (Gv 19,39-40), si impone il monologo di Gesù (3,10-21), da cui emerge una breve quanto significativa riflessione dell'evangelista: “16Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è giudicato; ma chi non crede è già stato giudicato, poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di Dio”1 (Gv 3,16-18).

Con tre semplici passaggi viene delineato il senso del Natale e l'incidenza che esso ha sull'uomo:

  1. il primo passaggio (v.16) qualifica il Natale essenzialmente come un dono di amore del Padre nei confronti del mondo, qui inteso nella sua accezione positiva di umanità. Oggetto di tale dono è “il Figlio”, qualificato come l'Unigenito e, in quanto tale, come colui in cui si riflette e si esprime in modo unico, esclusivo e irripetibile non solo l'amore, ma lo stesso agire salvifico del Padre (Gv 10,30), così che questo Figlio, riconosciuto dal credente come l'Emmanuele-Gesù, come il Dio con noi che salva, ne diviene il suo volto storico (Gv 14,9-12). Finalità di questo dono è la salvezza dell'uomo mediante la sua adesione di fede al Figlio: “affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”. Significativa è la modalità con cui Giovanni presenta questo “credere”: “p©j Ð pisteÚwn e„j aÙtÕn” (pâs o pisteúon eis autòn). Innanzitutto quel “pâs”, “ognuno, ciascuno, chiunque” che nel suo anonimato e nella sua genericità esprime l'universalità di un credere il cui accesso è aperto a tutti; un credere che è raggiungibile da tutti e quindi interpella tutti. Tutti gli uomini, dunque, al di là della loro configurazione storica, sono interpellati da questo credere. Un credere che in greco è fatto seguire dalla particella “eis”, “in, verso”, che indica un moto a luogo, imprimendo a questo credere il dinamismo proprio della vita. Non è un caso che Giovanni prediliga ai sostantivi i verbi, poiché i primi esprimono soltanto dei concetti, delle astrazioni, mentre il verbo indica il movimento e l'agire stesso della vita. E forse proprio per questo la fede in Giovanni viene espressa soltanto con il verbo “credere”, che percorre l'intero suo vangelo per ben 99 volte, e mai, neppure una volta, con il sostantivo “pstij” (pístis, fede). Non si tratta, dunque, per Giovanni di credere in qualcosa o in qualcuno, ma di aderire esistenzialmente alla proposta del Padre, manifestatasi nel suo volto storico Gesù. L'aderire esistenzialmente a tale proposta è già per se stesso fonte di salvezza: “abbia la vita eterna”, che per Giovanni è la vita stessa di Dio. Il credere dunque introduce il credente, rendendolo partecipe per Cristo, con Cristo e in Cristo, a questa Vita.

  1. Il secondo passaggio (v.17) precisa come: “Dio, infatti, non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Una precisazione che, riprendendo l'espressione “non perisca” del precedente v.16, tende a rafforzare il senso di questo dono: la salvezza, togliendo a questa venuta ogni ombra di giudizio o di condanna. Una precisazione che si rende necessaria perché il successivo v.18 parlerà degli effetti negativi di questa venuta su chi non crede; effetti negativi che non dipendono dalla venuta, che si qualifica come dono di amore accogliente e perdonativo, ma dalla posizione che l'uomo prende nei suoi confronti. Si tratta dunque di un dono e di una venuta che, al di là del suo modo di esprimersi e di porsi, interpella con il suo esserci storico l'uomo, spingendolo ad una scelta che lo può anche perdere, poiché questa venuta pone su di lui un giudizio.

  1. Il terzo passaggio (v.18) presenta l'aspetto negativo di questo dono, che tale può divenire qualora esso sia rifiutato dall'uomo: “Chi crede in lui non è giudicato; ma chi non crede è già stato giudicato, poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di Dio”. Un versetto molto pesante che si muove su di un bipolarismo radicale che non dà spazio di scelta: credere o non credere; non giudicato o giudicato, che in Giovanni è sinonimo di condannato. Se il credere, cioè l'accogliere nella propria vita questo dono di amore, sottrae il credente dal giudizio di condanna, non altrettanto avviene per chi rifiuta tale dono, precludendogli ogni spazio nella propria vita. Il destino di chi si colloca in questa posizione si compie già nel presente, qui e ora: “è già stato giudicato” (½dh kškritai, éde kékritai). In altri termini il giudizio di condanna non viene da Dio, ma è posto all'interno dell'uomo stesso che si pone fuori dal gioco della salvezza, chiudendosi nella sua incredulità. Il verbo qui usato, infatti, è un perfetto indicativo “kškritai” (kékritai) che indica uno stato presente di giudizio quale conseguenza di un'azione passata, che si radica in una scelta esistenziale: quella del non credere. Per questo il giudizio è “già” avvenuto, perché è insito nello stesso “non credere”, che preclude ogni possibilità di dialogo salvifico con questo dono di amore, che porta con sé una proposta di salvezza, che può anche essere rifiutata. Un rifiuto che può assumere diverse sfaccettature, quella netta di chi non gli importa niente di Dio o vive come se non esistesse, riducendo tutta la sua vita negli angusti spazi del presente; ma vi è anche un rifiuto più subdolo di chi, pur credendo, riduce il suo credere nell'assolvere il suo debito religioso attraverso una pratica sacramentale o devozionale talvolta ossessiva, che gli dà l'illusione di essere a posto con Dio, ma il suo livello di spiritualità è tiepido, molto basso, se non inesistente. Ed è proprio contro questa tiepidezza spirituale, che è divenuta menzogna di vita, che si scaglia Isaia contro Israele e i suoi capi, reclamando una religione del cuore, che sappia parlare il linguaggio della vita: “Udite la parola del Signore, voi capi di Sodoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, popolo di Gomorra! <<Che m'importa dei vostri sacrifici senza numero?>> dice il Signore. <<Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova>>” (Is 1,10-17). Giovanni, rivolto alla sua comunità, più semplicemente, ma non con meno efficacia, dirà: “Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Si tratta di una tiepidezza spirituale contro la quale Dio stesso usa parole molto dure, che suonano come un giudizio di condanna: “All'angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: Così parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,14-16).

Rinnovarsi alla luce della Parola nell'attesa del Signore

All'interno della chiesa primitiva era molto viva la coscienza di un imminente ritorno del Signore e i loro responsabili non mancavano di tenere desta l'attenzione dei credenti, affinché non si sperdessero nella futilità di un presente effimero, ma vivessero rivolti al Signore, così che Paolo esortava la comunità di Roma, sollecitandola, nell'attesa, alla vigilanza e ad una novità di vita: “Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,11-14); mentre l'autore della lettera agli Efesini indica alla sua comunità le nuove relazioni che la devono animare, da cui deve trasparire un nuovo stile di vita, fondato sul proprio essere nuove creature in Cristo. Si tratta per questa comunità di operare un continuo ripensamento della novità di vita di cui è permeata in virtù del suo essere in Cristo e per Cristo, conformandosi ad essa: “Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. Nell'ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo. Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,23-32)

In questo contesto di attesa, l'attenzione e la sensibilità del credente verso le esigenze di Dio nei suoi confronti devono acuirsi, creando in questa attesa degli spazi di silenzio per dare voce al Dio che passa e ci interpella. Sant'Agostino affermava: “Timeo Dominum transeuntem et non revertentem, “Temo il Signore che passa e non torna indietro”, sottolineando l'unicità della grazia e della chance, che viene offerta finché c'è tempo, poiché i giochi della nostra salvezza si fanno “hic et nunc, qui e ora, dopo, come avvenne per le vergini stolte, la porta sarà chiusa e il tempo del ripensamento sarà finito. Così il Deuteroisaia sollecitava i deportati a Babilonia: “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino” (Is 55,6). Sarebbe un grave errore pensare ad un Dio bonaccione, che ci salva sempre e comunque, poiché, ricorda ancora Sant'Agostino, che quel Dio che ci ha creato senza di noi non può salvarci senza di noi. Quello che Dio doveva fare, lo ha fatto, inviando suo Figlio, “perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16b). Ora i giochi sono in mano nostra ed Egli ci assiste con la sua Parola e il suo Spirito, gli unici in grado di illuminare la nostra vita, conformandola alle sue esigenze. Dopo la porta sarà chiusa per sempre.


Giovanni Lonardi



1 Traduzione personale dal greco, che predilige la rigorosa fedeltà al testo greco alle esigenze di un buon italiano.