LETTERA AGLI EFESINI

Traduzione e commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi


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Introduzione

Va subito detto che la “Lettera di Paolo agli Efesini” non è una lettera, non è di Paolo e non è indirizzata agli Efesini. Se così è, e questa è la mia tesi, ma non solo mia, che cos'è, dunque? Chi ne è l'autore, a chi è indirizzato questo “scritto”? Perché è stato composto e qual'è la sua vera natura?

Benché questo scritto abbia assunto una forma di lettera, (c'è, infatti, un prescritto (1,1-2), un corpo della lettera (1,3-6,9), una specie di epilogo (6,10-22) e una sorta di saluti (6,23-24), ma che tali non sono proprio, se li poniamo a confronto con le altre lettere paoline o di scuola paolina), tuttavia non si tratta di una lettera, ma di uno scritto a cui è stata data forma di lettera ed attribuito a Paolo. Siamo quindi nell'ambito di quel fenomeno definito come pseudepigrafia, oggi un reato penalmente perseguibile, ma all'epoca un modo diffuso per far valere il proprio scritto e il proprio pensiero, che in qualche modo si rifaceva ad un noto autore o personaggio, mettendolo sotto la sua egida.

Perché, dunque, gli è stata data forma di lettera e perché riferita a Paolo? Il motivo, a mio avviso, è semplice, perché lo scritto, considerata la sua ricchezza e la sua profondità teologica, cristologica ed ecclesiologica non andasse perduto. Nel II sec. d.C., infatti, la produzione letteraria era abbondante e si doveva dare certezza dottrinale agli scritti. Nacque così la necessità di dar loro una scrematura, e lo strumento che la operò fu il canone, cioè alcune regole essenziali, cui dovevano rispondere gli scritti per essere dichiarati canonici, cioè in conformità al pensiero magisteriale della chiesa nascente. Tre erano essenzialmente i requisiti che dovevano avere gli scritti: a) l'apostolicità, cioè gli scritti dovevano dipendere direttamente o indirettamente dagli apostoli o quanto meno fatti risalire in qualche modo ad essi; b) la correttezza dottrinale; c) un'ampia diffusione presso le comunità credenti, nella logica che tale diffusione era probabilmente sottesa anche da una valutazione critica da parte dei responsabili delle comunità stesse dove tali scritti erano adottati.

Da qui la necessità di dare a questo scritto una forma di lettera e, poiché il contenuto si rifaceva in qualche modo al pensiero paolino o alla sua scuola, si pensò di metterlo sotto l'egida di Paolo, l'indiscusso apostolo delle genti (Rm 11,13), considerato che lo scritto è rivolto a degli etnocristiani.

Ma, come si è detto, non ci si trova di fronte ad una vera e propria lettera né questa è di Paolo. L'analisi interna del testo, infatti, sembra suggerire che l'autore non sia mai stato ad Efeso e non conosca i destinatari del suo scritto (1,15; 3,2-4), la quale cosa lascia alquanto perplessi, visto che Paolo ad Efeso ci rimase per tre anni circa (At 19,8.10; 20,31). Lo scritto, pertanto, non può essere di Paolo, anche per lo stile ampolloso, solenne e ieratico con cui viene espresso il pensiero, ben lontano dal modo sobrio, incisivo ed utilitaristico di esprimersi di Paolo, cioè che punta a risolvere il problema per cui la lettera è stata scritta; né può essere una lettera. Lo scritto, infatti, è impersonale e non fa riferimento a specifiche problematiche che sono sorte in seno alla comunità credente. Manca, quindi, il movente immediato e concreto che giustifichi lo scritto. Il linguaggio assume toni ieratici, solenni, riflessivi e meditativi, sfociando in forme di preghiera poste all'inizio (1,16-23) e a conclusione (3,14-19) della sezione teologica/cristologica (1,3-3,21) dello scritto . Considerevole è la composizione innica con cui si apre lo scritto (1,3-14) e che assume, come vedremo in seguito, la funzione di prologo tematico. Nessuna lettera paolina o qualsiasi altra lettera neotestamentaria si apre in questo modo. Gli stessi saluti risultano anonimi, distaccati, generici. I destinatari non sono mai interpellati con l'appellativo di “fratelli”, a differenza di tutte le altre lettere neotestamentarie, in cui il termine compare ripetutamente. Qui in questo scritto il termine compare solo due volte: la prima in 6,21, al singolare, riferito a Tichico, prezioso collaboratore di Paolo, che figura essere il latore di questo scritto (6,22); e in 6,23, al plurale, con riferimento generico ai credenti, destinatari dell'augurio di pace. Significativa, poi, è la conclusione dello scritto in 6,24, dove l'autore augura che “La grazia (sia) con tutti coloro che amano il Signore nostro Gesù Cristo con integrità”. Ci si sarebbe aspettati: “La grazia (sia) con tutti voi, che amate il Signore nostro Gesù Cristo con integrità”. Sarebbe già stata una forma, sia pur vaga, di personalizzazione dello scritto. Difficile, quindi, classificarlo tra il genere “lettera”.

Più che “lettera” lo scritto, qui, sembra avvicinarsi maggiormente ad una “epistola”. Una distinzione questa, tra lettera ed epistola, che ha posto il Deissmann (1866-1937)1, secondo il quale la “lettera è uno scritto privato, occasionale, mirato, vivace e immediato nel suo modo di esprimersi, il cui contenuto è prevalentemente comprensibile solo al destinatario. Mentre la “epistola è una sorta di composizione letteraria, scritta a tavolino, con una esposizione di tipo sistematico e ragionato, rivolto ad una grande cerchia di persone. Un esempio di epistola sono le “Lettere a Lucilio” di Seneca.

Il nostro scritto assume qui la forma di una sorta di sermone, di predica, di riflessione ragionata messa giù per iscritto e finalizzata a far prendere coscienza delle nuove e complesse realtà spirituali di cui il credente è stato rivestito e in cui si muove, nonché la finalità che esse si propongono. Lo scritto è ben strutturato e sostenuto da un possente pensiero soteriologico, in cui si muovono numerosi attori, in primis, Dio, che qui è colto come il Padre, che opera nel Figlio con la potenza dello Spirito Santo, e il cui disegno è quello di ricapitolare l'intera creazione nel Figlio per farne una cosa nuova e il tutto è finalizzato a ricondurre il credente in seno al Padre attraverso l'opera della chiesa, concepita quale pienezza del corpo di Cristo e strumento di realizzazione del progetto soteriologico del Padre, della quale il credente fa parte ed è chiamato a costruire e a far crescere secondo i doni propri ricevuti dallo Spirito.

Ci troviamo di fronte ad un pensiero, le cui radici affondano in quello paolino, ma viene elaborato a modo proprio dall'autore ed è ben lontano e molto più sviluppato e perfezionato di quello di Paolo o della sua scuola, la quale cosa fa pensare che una simile elaborazione soteriologica, così avanzata, debba essere posta qualche decennio dopo Paolo e la sua scuola, poiché qui non si parla più di giustificazione per fede, di legge e fede, di circoncisi e incirconcisi, e dove il contrasto giudeocristianesimo ed etnocristianesimo è stato ampiamente superato (2,11-18), creando una pacificazione all'interno delle comunità credenti di queste due componenti, e là dove esse compaiono (2,9) risuonano come un'eco ormai lontana, che si è tradotta in una semplice elaborazione cristologica (2,11-18), dove le due componenti sono ormai percepite come un'unica e nuova realtà (2,13-17). La figura di Paolo, poi, che occupa un suo spazio specifico in 3,2-13, sembra essere solo un ricordo, che si traduce in una sorta di panegirico rivolto ad una platea di lettori, che non hanno mai conosciuto Paolo, ma che forse ne hanno sentito parlare per le sue gesta di apostolo delle genti, delle quali i destinatari di questo scritto fanno parte e dalle quali provengono. Le comunità credenti, poi, sembrano qui già strutturate in un'ampia gamma di ministeri, finalizzati a far crescere il corpo di Cristo che è la Chiesa (4,11-13). Si pone già, quindi, una distinzione tra magistero e fedeli, corrispondente alla nostra distinzione tra clero e laici.

L'insieme di questo quadro, quindi, colloca il nostro scritto intorno intorno al 110 d.C., ben lontano da quello normalmente ipotizzato dal comune pensiero degli esegeti, che colloca lo scritto intorno agli anni 80 d.C.

La lettera, poi, è rivolta “ai santi che sono in Efeso”. Tuttavia un simile indirizzo epistolare non è presente in P46, il papiro più antico, collocabile tra il 175 e il 225 d.C., contenente l'epistolario paolino; e così, parimenti assente è nei due grandi codici più importanti, quali il Vaticano (B 03) e il Sinaitico (א o 01) ), entrambi databili tra il 325-350 d.C. Del resto la stessa critica letteraria mette tra parentesi quadre l'espressione “™n 'EfšsJ” (en Eféso), perché ritenuta di dubbia autenticità. Perché, dunque, intestarlo “agli Efesini”? È difficile come si sia arrivati a definirne l'indirizzo in questi termini. L'unica ipotesi che si può azzardare, ma non suffragata da nessun indizio e tanto meno da prove, è che tale scritto, probabilmente, fosse largamente diffuso nell'Asia minore, dove vi erano numerose comunità credenti fondate da Paolo o nate anche successivamente, a seguito della sua azione missionaria. Tra queste vi era Efeso, città metropolita, capitale della provincia romana dell'Asia minore fin dal 133 a.C., dove Paolo soggiornò per circa tre anni (At 19,8.10; 20,31). Considerata, dunque, l'importanza di Efeso e che in essa vi era una fiorente comunità credente è probabile che l'intestazione sia naturalmente caduta su Efeso.

A chi, dunque, questo scritto era indirizzato o, quanto meno, perché è stato elaborato? Innanzitutto, già lo si è detto sopra, questo scritto, più che lettera, sembra essere un sermone, una sorta di predica posta per iscritto destinata a dei catecumeni, giunti al termine del loro percorso di formazione, ed ammessi al battesimo, con cui si accompagnava il dono dello Spirito Santo; battesimo che dovevano aver ricevuto solo da qualche giorno o comunque da poco tempo. Già questo cammino catecumenale finalizzato al battesimo dice come questo scritto non può essere di Paolo né databile intorno agli anni 80, ma ben più tardivo, considerato che i primi cenni del cammino catecumenale compaiono con Giustino nella sua opera “Prima Apologia” datata intorno al 150 d.C. e poiché Giustino non può essersi inventato il catecumenato, ma ha elaborato nella sua opera ciò che lui ha riscontrato nella realtà chiesa, è da pensare che il catecumenato, come istituzione, si sia formato agli inizi del II sec. l'epoca, cioè, del nostro scritto.

Ma che cosa mi spinge a pensare che questo scritto sia rivolto a dei catecumeni neobattezzati? Se analizziamo attentamente i versetti 1,13 e la pericope 4,21-25 rileviamo come la riflessione sia indirizzata a questa categoria di persone.

Il v.1,13 attesta: “Nel quale anche voi che avete ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, nel quale anche (voi) che avete creduto siete stati contrassegnati con lo Spirito Santo della promessa,”. Questo versetto riporta tre passaggi, che scandiscono il cammino catecumenale: l'ascolto della Parola del Vangelo, cioè la catechesi, come verrà precisato in 4,21, dove si parla di “essere istruiti”; l'adesione di fede e, quindi, l'adesione esistenziale alla Parola ascoltata; ed infine il battesimo, che qui viene definito come il sigillo dello Spirito Santo con cui viene contrassegnato il credente e che segna la fine del cammino catecumenale e l'entrata, ad ogni effetto, nella comunità credente. I destinatari dello scritto sono, quindi, già stati contrassegnati con lo Spirito Santo e, quindi, già battezzati. L'aver associato il battesimo all'ascolto e all'adesione esistenziale alla Parola, infatti, spinge a credere che questi siano dei catecumeni neobattezzati.

Il secondo passo che spinge a pensare a dei catecumeni neobattezzati è la pericope 4,21-25: “se dunque lo avete ascoltato e in lui foste istruiti, com'è la verità in Gesù, (dovete) deporre, quanto alla condotta precedente, l'uomo vecchio corrotto secondo i desideri dell'inganno, ma (dovete) rinnovarvi nello spirito della vostra mente, e rivestirvi dell'uomo nuovo, che è stato creato secondo Dio n(ella) giustizia e santità della verità. Per questo, deposta la menzogna, parlate (la) verità, ciascuno con il suo prossimo, poiché siamo membra gli uni degli altri”.

La pericope si apre riprendendo in qualche modo 1,13 e ne trae le conseguenze in quel “dovete deporre la condotta precedente, quella dell'uomo vecchio”, un'esortazione che costituirà il perno attorno al quale girerà l'intera sezione parenetica 4,1-6,17. La raccomandazione a cambiare radicalmente modo di vivere non è di tipo generico, ma è strettamente legata al percorso catecumenale che qui viene richiamato da 1,13 con le due espressioni “avete ascoltato”, che viene tradotta subito con “foste istruiti”. L'ascolto, quindi, è l'istruzione, che questi catecumeni neobattezzati, hanno ricevuto di recente e che qui viene loro ricordato, quasi a sollecitarli a non dimenticare mai l'insegnamento recentemente ricevuto, comporta per loro un nuovo modo di vivere, che si stacca da quello precedente.

La stessa struttura dello scritto lascia intendere come esso sia rivolto a questa categoria di persone. La struttura, infatti, è scandita in due parti: una sezione teologica/cristologica (1,3-3,21) con cui l'autore cerca di far prendere coscienza ai neobattezzati delle nuove realtà spirituali che hanno preso dimora in loro e di cui, ora, loro fanno parte. Realtà che sono state sintetizzate e celebrate nel prologo innico di apertura dello scritto (1,3-14) e che hanno il loro vertice nel cap. 2,1-22. La sezione teologica/cristologica è subito seguita da quella esortativa (4,1-6,24), quasi a dire come queste realtà spirituali, di cui i neobattezzati sono rivestiti e in cui sono collocati e si muovono, hanno delle conseguenze, che incidono profondamente sul loro modo di vivere e di pensare e di relazionarsi e chiedono un radicale cambio di marcia. L'oggi non può più continuare con le logiche del passato, poiché oggi sono diventati “concittadini dei santi e familiari di Dio” (2,19b) nonché “dimora di Dio nello Spirito” (2,22b) e, quindi, hanno cambiato dimensione esistenziale, che Col 1,13 vede come un trasferimento “quasi fisico” da una dimensione di peccato e di morte ad una di vita piena in Dio: “E' lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto”.

Solo pensando a questa categoria di persone, catecumeni neobattezzati, l'intero scritto trova un suo senso logico e comprensibile sia quanto a struttura che a contenuto e getta luce anche sull'autore, che va pensato, a mio avviso, come un vescovo, cioè una sorta di ispettore, sovraintendente responsabile e coordinatore di tutte le comunità credenti della regione Asia minore e certamente non va equiparato al nostro “vescovo”. È, quindi, probabile che questo vescovo, pur seguendo lo sviluppo delle singole comunità, non conosca personalmente questi catecumeni neobattezzati, ma ne abbia avuto tuttavia notizia. Da qui la precisazione di 1,15 e 3,2-4, che lasciano intendere chiaramente che chi scrive non conosce direttamente questi neobattezzati, ma ne è direttamente informato, così da scrivere questo scritto, che probabilmente era indirizzato a questa categoria di persone, ma non solo ai catecumeni neobattezzati di Efeso, ma di tutta la regione dell'Asia minore, di cui l'autore era, in quanto, vescovo, responsabile. Lo scritto, pertanto, va pensato come una sorta di predica scritta, che veniva inviata, di volta in volta che si verificava l'occasione, a tutti i catecumeni neobattezzati dell'Asia minore, qualificandosi in tal modo come una sorta di scritto aperto all'intera categoria di persone della regione.

Una particolarità di questo scritto è la presenza di numerosi pronomi personali alla prima e seconda persona plurale: “noi” e “voi” o “ci” e “vi” disseminati ovunque nello scritto, con un continuo passaggio dei verbi dalla prima alla seconda persona plurale e viceversa, che rendono questo scritto dialogico tra due categorie di persone: il “noi”, cioè quelli che da tempo sono affermati credenti all'interno della comunità (1,12); e il “voi”, cioè quelli che, pur credenti alla pari degli altri, sembrano esserlo da poco tempo e che solo di recente hanno iniziato il loro cammino di fede e sono, in qualche modo, alla scoperta delle ricchezze della fede, che hanno assunto da poco nella loro vita.

Tuttavia, succede anche che il “noi” o i verbi alla prima persona plurale, in un determinato contesto dello scritto, inglobi anche i credenti di recente data, in quanto accomunati alla pari degli altri nelle uniche e comuni realtà spirituali (1,19; 2,4-7.10; 3,20; 4,7; 5,2).

Ed è proprio attraverso questo continuo flusso tra il “noi” e il “voi” e viceversa, che veniamo a scoprire che i “voi” non solo sono catecumeni neobattezzati (1,13; 4,21), ma sono altresì degli etnocristiani, cioè cristiano provenienti dal paganesimo (2,1-2.11-13; 3,1-2); così come l'autore del presente scritto è egli stesso un etnocristiano. Infatti in 2,3, associandosi al “voi” di 2,1-2, dove si parla della condotta di vita secondo le logiche di questo mondo e dello spirito che opera nei figli della disobbedienza, egli attesta che “tra i quali eravamo anche noi tutti rivolti, un tempo, nei desideri della nostra carne, facendo le volontà della carne e del (nostro) modo di pensare; ed eravamo per natura figli dell'ira, come anche gli altri”. E qui il “noi” riguarda non solo l'autore dello scritto, ma anche le comunità credenti dell'Asia minore, a cui lo scritto, con l'intestazione “agli Efesini” sembra alludere.

Uno scritto questo che sembra trovare la sua matrice o quanto meno il suo punto di riferimento nella Lettera ai Colossesi, dalla quale dipende. Al di là di alcune parti comuni, che ricorrono in entrambi gli scritti quasi identici come il prescritto (Ef 1,1-2 e Col 1,1-2) e la parte conclusiva (Ef 6,21-22 e Col 4,7-8), nonché le esortazioni in ambito familiare (Ef 5,22-6,9 e Col 3,18-4,1), sostanzialmente identiche, è l'intero scritto “agli Efesini” che sembra una sorta di rielaborazione della Lettera ai Colossesi, che l'autore della “Lettera agli Efesini” ha riadattato in funzione dei propri interessi e intenti.



Commento esegetico-teologico
alla
Lettera agli Efesini


Sezione teologica-cristologica-pneumatologica

(1,2 - 3,21)





Note generali

Questa sezione teologica/cristologica può essere definita come una sorta di celebrazione liturgica o quantomeno paraliturgica dell'azione salvifica del Padre, che ha operato nel suo Figlio, Gesù Cristo, incarnato, morto e risorto, per mezzo della potenza dello Spirito Santo, con il quale il credente è stato segnato nel battesimo, quale anticipo della vita stessa di Dio, in cui è già inserito e in qualche modo coinvolto. Finalità di questa azione salvifica del Padre è il recuperare l'uomo, per mezzo della fede, alla dimensione di Dio, da cui era drammaticamente fuoriuscito nei primordi dell'umanità (Gen 3,16-24). Strumento storico-spirituale, attraverso cui passa questa azione salvifica del Padre, è la Chiesa stessa, qui non più intesa come singola comunità credente locale, ma come Chiesa universale2.

Significativa è la struttura di questa sezione teologica/cristologica, particolarmente curata, che è delimitata da un'inclusione data per complementarietà di azione: con l'inno 1,3-14 si celebra l'azione salvifica del Padre; mentre con 3,20-21 si chiude con una dossologia, che altro non è che un riconoscimento e una lode imperitura al Padre per mezzo della Chiesa e di Cristo Gesù per tale azione salvifica.

Così delimitata, la struttura della sezione teologica/cristologica si sviluppa in parallelismi concentrici in C, dove C è l'intero cap.2, vertice dell'intera sezione. Per cui si avrà il seguente schema:

- Prescritto: 1,1-2

A) Inno soteriologico (1,3-14);

B) rendimento di grazie per l'azione salvifica del Padre, celebrata nell'inno, e che l'autore contempla nella comunità credente (1,15-23);

C) memoria celebrativa dell'azione salvifica operata dal Padre in Cristo su questi catecumeni neobattezzati (1,13-14; 4,21-25), ai quali è rivolto questo scritto e individuati nel “voi” (2,1-22)

B1) rendimento di grazie per l'azione salvifica del Padre operata in Cristo per mezzo dello Spirito Santo e che l'autore ha contemplato nei catecumeni neobattezzati ripercorrendo la loro storia di conversione (3,1.14-19);

A1) dossologia finale, che va a chiudere l'inno soteriologico, contemplato e celebrato nei catecumeni neobattezzati, del quale questi sono una testimonianza vivente (3,20-21).

Da questi parallelismi concentrici ho estrapolato la pericope 3,2-13, perché si tratta di un evidente inciso, che nulla ha a che vedere con gli intenti celebrativi dell'autore, tant'è che il testo iniziatosi in 3,1 viene sospeso per dare spazio alla pericope 3,2-13, per poi essere ripreso e portato a termine con 3,14-19. La pericope 3,2-13 altro non è che una sorta di panegirico celebrativo su Paolo, quale strumento dell'opera salvifica del Padre, e che l'autore ha voluto menzionare per presentare ai destinatari di questo scritto la figura di Paolo, verso cui devono avere una particolare venerazione perché fu lui, l'apostolo dei gentili, quali essi sono, a consentire la loro salvezza.

Il prescritto (1,1-2)

Testo a lettura facilitata

Mittente e destinatari della lettera (v.1)

1- Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, ai santi che sono [in Efeso] e fedeli in Cristo Gesù,

Saluti iniziali (v.2)

2- grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e da(l) Signore Gesù Cristo.

Commento ai vv.1-2

Questi primi due versetti, che aprono lo scritto, costituiscono il prescritto con il quale, nell'antichità, si apriva ogni lettera e in cui compaiono il mittente e i destinatari (v.1), accompagnati da saluti bene augurali (v.2).

Un prescritto questo, che è l'esatta copia di quello con cui si apre la Lettera ai Colossesi, ma qui mancano due elementi rispetto a quella: non vi è nessun co-mittetnte, mentre in Colossesi compare il nome di Timoteo (Col 1,1), a cui Paolo dedicherà due Lettere e che chiamerà “mio vero figlio nella fede”3 (1Tm 1,2) e “diletto figlio” (2Tm 1,2); manca poi l'appellativo “fratelli”, con cui l'autore di Colossesi si rivolge ai destinatari e che viene collocato accanto al termine “fedeli”, mentre qui, in Efesini, scompare. Perché copiando il prescritto l'autore di Efesini tralascia l'appellativo di “fratelli”? Forse perché troppo ridondante definire i destinatari “fedeli fratelli” (pisto‹j ¢delfo‹j, pistoîs adelfoîs), considerato che i credenti in quanto tali sono già implicitamente “fratelli”; oppure perché l'autore di Efesini non sente ancora come “fratelli” i destinatari del suo scritto, considerato che il termine “fratello” assume un senso molto più pregnante del semplice “fedele”, poiché quest'ultimo riguarda la sola fede, mentre la “fratellanza” presuppone una comune esperienza di vita di fede provata, i destinatari, invece, come già più volte ho evidenziato, sono dei catecumeni neobattezzati, ai quali questo scritto è indirizzato. Di certo, quindi, si possono chiamare “fedeli”, cioè “credenti”, ma il cammino di fratellanza presuppone una convivenza provata della fede, una comune esperienza di fede, che i destinatari di questo scritto, solo agli inizi del loro cammino di fede, ancora non hanno. Forse proprio per questo l'autore dello scritto agli Efesini lo ha tralasciato e l'omissione, a mio avviso, non è stata casuale o una semplice svista.

Quanto ai due prescritti, Col 1,1-2; Ef 1,1-2, sembra che questi non siano propriamente autonomi, ma a loro volta dipendano da 2Cor 1,1-2. Da un'attenta analisi, infatti, dei tre prescritti, dei quali il lettore può riscontrare le parti in comune cromaticamente evidenziate nello schema sinottico qui sotto, si può rilevare come Col 1,1-2 sia sostanzialmente identica a 2Cor 1,1-2, fatta salva qualche necessaria modifica richiesta dalla destinazione dello scritto e dagli intenti del suo autore; mentre Ef 1,1 è sostanzialmente sovrapponibile a Col 1,1 per quanto riguarda il v.1, ma per quanto riguarda il v.2, questo è la coppia esatta di 2Cor 1,2. Dal che sembra potersi dedurre che l'autore di Ef 1,1-2, nel comporre il suo prescritto, avesse sotto mano sia 2Cor 1,1-2 che Col 1,1-2. Poiché la seconda lettera ai Corinti è databile tra il 55 e il 56 d.C. è evidente che Colossesi ed Efesini, considerata la loro comune dipendenza dalla seconda lettera ai Corinti per quanto riguarda il prescritto, siano successive a questa. E considerata la cosa nel suo quadro complessivo, ma ciò va attentamente valutato, è da chiedersi se le lettere ai Colossesi e agli Efesini non abbiano in qualche modo lo stesso autore, la quale cosa comporterebbe anche una revisione della loro datazione.


Schema sinottico dei tre prescritti


2Cor 1,1-2

Col 1,1-2

Ef 1,1-2


Paàloj ¢pÒstoloj Cristoà 'Ihsoà di¦ qel»matoj qeoà kaˆ TimÒqeoj Ð ¢delfÒj tÍ ™kklhs…v toà qeoà tÍ oÜsV ™n Kor…nqJ sÝn
to‹j ¡g…oij p©sin to‹j oâsin ™n ÓlV tÍ 'Acaiv
,

c£rij Øm‹n kaˆ e„r»nh ¢pÕ qeoà patrÕj ¹mîn kaˆ kur…ou 'Ihsoà Cristoà.

Paàloj ¢pÒstoloj Cristoà 'Ihsoà di¦ qel»matoj qeoà kaˆ TimÒqeoj Ð ¢delfÕj

to‹j ™n Kolossa‹j ¡g…oij kaˆ pisto‹j ¢delfo‹j ™n Cristù:

c£rij Øm‹n kaˆ e„r»nh ¢pÕ qeoà patrÕj ¹mîn.

Paàloj ¢pÒstoloj Cristoà 'Ihsoà di¦ qel»matoj qeoà

to‹j ¡g…oij to‹j oâsin [™n 'EfšsJ] kaˆ pisto‹j ™n Cristù 'Ihsoà:


c£rij Øm‹n kaˆ e„r»nh ¢pÕ qeoà patrÕj ¹mîn kaˆ kur…ou 'Ihsoà Cristoà.


Traduzione letterale dei testi


Paolo apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio e il fratello Timoteo alla chiesa di Dio che è in Corinto con

tutti i santi che sono in tutta quanta l'Acaia

grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo

Paolo apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio e il fratello Timoteo

ai santi in Colossi e fedeli fratelli in Cristo

grazia a voi e pace da Dio Padre nostro

Paolo apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio

ai santi che son in Efeso e fedeli in Cristo Gesù

grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo



Il prescritto si apre, come di consueto, con il nome del mittente, a cui Paolo fa seguire la titolatura con cui si presenta ai destinatari, la quale cosa equivale a presentare le proprie credenziale e, di conseguenza, l'autorità e l'autorevolezza dello scritto. Egli si presenta come “apostolo”, cioè “inviato” di “Cristo Gesù”. Il genitivo “di Cristo Gesù” assume qui diversi significati: di appartenenza, cioè egli è un apostolo che appartiene a Cristo Gesù; o di origine, cioè che proviene da Cristo Gesù e, quindi, ne porta con sé l'autorità; oppure esprime il contenuto o la finalità del suo apostolato, cioè egli è l'inviato per annunciare Cristo Gesù in mezzo alle genti, la quale cosa comparirà, come titolatura, in Rm 11,13. Significativa, poi, è la sequenza dei due nomi “Cristo Gesù” e non “Gesù Cristo”, poiché il secondo, “Gesù”, riguarda il Gesù della storia, che Paolo non ha mai conosciuto; mentre il primo, “Cristo”, è un appellativo4 con cui il Gesù della storia è definito nella sua ricomprensione postpasquale da parte dei credenti, cioè il “Messia”, l' “Unto”, il “Consacrato” inviato e proveniente da Dio. Ed è proprio questo secondo “Gesù” che egli ha conosciuto e di cui egli ha avuto esperienza, quella del “Risorto”, attraverso il quale Paolo vede e ricomprende in modo nuovo tutte le cose, le relazioni umane e la stessa persona, concepita come nuova creatura (2Cor 5,17; Gal 6,15), rinnovata e rigenerata in e per mezzo del Risorto e della sua Parola di vita eterna (1Pt 1,23) e di lui rivestita come di un abito nuovo nel battesimo (4,24; Gal 3,27; Col 3,10).

Un titolo, quello di “apostolo”, che nessuno poteva attribuirsi da solo, ma Paolo si presenta così ai responsabili della chiesa madre di Gerusalemme, sentendosi investito di un apposito mandato, quello di annunciare il Vangelo in mezzo alle genti (Gal 1,15-17). Un Vangelo che non gli era stato annunciato da qualche altro apostolo, ma direttamente dal Risorto: “Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,11-12). Una posizione questa che Paolo attesta già nel prescritto della Lettera ai Galati, con cui si presenta alle comunità della Galazia: “Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1). La comprensione, quindi, che Paolo ha di se stesso e della propria missione è quella di essere un inviato direttamente da Dio e di rientrare nel suo progetto salvifico “fin dal seno di mia madre” (Gal 1,15). Per questo egli attesta anche qui, in Ef 1,1a, di essere apostolo “per volontà di Dio”, così che il suo apostolato e la sua stessa persona sono caricati della stessa autorità divina. Ma dietro quella “volontà di Dio” non c'è soltanto una decisione divina, ma questa è conseguente al progetto divino riguardante la salvezza universale dell'umanità, sintetizzato nello stupendo prologo innico con cui si apre lo scritto “agli Efesini” (1,13-14) e che l'autore vede successivamente riflesso e attuato nella storia della salvezza personale e collettiva in cui sono stati coinvolti i catecumeni neobattezzati (2,1-22).
Lo scritto è indirizzato “ai santi che sono [in Efeso] e fedeli in Cristo Gesù”. L'appellativo “santi”, per indicare i credenti, ricorre 32 volte in dieci lettere neotestamentarie; nove di queste sono di Paolo o di scuola paolina5, e una non paolina, quella agli Ebrei6. Una simile titolatura assegnata ai credenti nasce dalla convinzione che il credente, e in quanto tale battezzato, sia inserito in Cristo e in lui in Dio stesso e, quindi, in Cristo, per Cristo e con Cristo partecipe della vita stessa di Dio, che per sua natura è il Santo per eccellenza (2Mac 14,36) e fonte di ogni sanità7. Una santità che l'autore dello scritto vede già come prestabilita in ogni credente, ancor prima della creazione del mondo, e che trova il suo apice e la sua perfezione nell'amore (1,4), proprio perché per sua natura “Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui (1Gv 4,16), venendo così a crearsi un circolo virtuoso di santità, che avvolge il credente nella vita stessa di Dio, permeandolo nell'amore che si fa carità nella quotidianità del suo vivere.


I “santi” a cui il prescritto si rivolge sono quelli che sono “in Efeso”, espressione quest'ultima che la critica letteraria ritiene di dubbia autenticità, poiché manca nei manoscritti più importanti come il P46, il Vaticano e il Sinaitico. Come, dunque, possiamo pensare i destinatari se si dovesse togliere la loro localizzazione geografica “in Efeso”? Probabilmente lo scritto risulterebbe genericamente rivolto “ai santi che sono […] anche fedeli in Cristo Gesù”, dove quel “fedeli in Cristo Gesù” diventa una sorta di endiadi, che spiega il senso e il significato di quel essere “santi”. Una santità, dunque, che si realizza nella fedeltà al proprio essere in Cristo, quel nuovo stato di vita che i catecumeni hanno acquisito con il battesimo. Solo, pertanto, con l'essere “fedeli” a Cristo, permanendo fedelmente in lui con il proprio vivere, su di lui riparametrato e a lui conformato, si può anche trovare la propria cittadinanza e con questa la propria fratellanza tra i santi e fratelli, che formano la comunità dei santi (2,19).

A questi santi e alla loro comunità l'autore, rifacendosi al linguaggio e al modo di esprimersi di Paolo, rivolge i suoi saluti iniziali: “grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e da(l) Signore Gesù Cristo”. Una formula bene augurale che troviamo identica in tutte le lettere di Paolo o di scuola paolina, posta in apertura di lettera.

La formula si scandisce in due parti: a) “grazia a voi e pace”; b)da Dio, Padre nostro, e da(l) Signore Gesù Cristo”. La prima parte riguarda il dono che viene offerto alla comunità credente; la seconda parte la sua provenienza.

Grazia a voi” è il primo termine che compare in apertura della lettera e con cui l'autore si rivolge alla comunità credente; ed è anche l'ultimo con cui tutte le lettere paoline si chiudono con i saluti finali, formando in tal modo una sorta di grande inclusione, che pone l'intero scritto sotto l'egida della grazia divina. Ma cosa intende Paolo per “grazia”? Il termine, che ricorre 58 volte nelle sole Lettere a lui attribuite, ha un minimo comune denominatore, che lo lega a Dio Padre ed esprime il suo muoversi e il suo agire benefico, benevolo e misericordioso, che in vario modo si fa dono per gli uomini, finalizzato a riconciliarli con Lui per mezzo di Gesù Cristo, attraverso il quale questo dono benefico e misericordioso si è riversato su tutti gli uomini (Ef 1,4-8), così che egli stesso è divenuto dono di amore del Padre all'intera umanità (Gv 3,16). Grazia, dunque, quale azione misericordiosa e salvifica del Padre che opera su tutti e in tutti gli uomini in e per mezzo di Cristo, finalizzata a riconciliarli a Lui e a ricondurli in senso a Lui, da cui erano drammaticamente fuoriusciti nei primordi dell'umanità (Gen 3,16-24). Ed è proprio per questo che, accanto al termine “grazia”, compare immancabilmente il termine “pace”, che dice riconciliazione, pace fatta tra Dio e gli uomini in e per mezzo di Cristo. Una riconciliazione che si fa comunione di vita tra Dio e i credenti, e i credenti tra loro, così che tutti siano uno in Cristo e, in lui, nel Padre (1Cor 15,28; Gv 17,21).

Se “grazia e pace” sono il contenuto dei saluti iniziali, la loro natura e il loro senso sono specificati dalla loro stessa origine: “da Dio, Padre nostro, e da(l) Signore Gesù Cristo”. L'origine, dunque, è Dio, che viene qualificato come “Padre nostro”, cioè come “comune Padre” non solo di tutti i credenti, ma anche del Risorto, che ha voluto condividere con noi suo Padre e suo Dio (Gv 20,17b), evidenziando in tal modo la profonda unità e comunione di vita tra tutti i credenti, il Cristo e il Padre, che li qualifica a loro volta quali “concittadini dei santi e familiari di Dio” (2,19b). L'origine del credente, pertanto, è Dio stesso, che lo ha generato e rigenerato attraverso la sua Parola di Vita eterna e la potenza dello Spirito Santo (Gv 1,12-13; 3,3-6; 1Gv 1,3; 1Pt 1,23).

L'inno soteriologico (1,3-14)


Testo a lettura facilitata

Un virtuoso ciclo di benedizioni: dai credenti al Padre e dal Padre ai credenti (v.1)

3- Benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo,

A) Un progetto soteriologico che nasce ancor prima della creazione del mondo (vv.4-6)

4- allorché ci ha scelti in lui prima della creazione del mondo per essere santi e perfetti davanti a lui ne(ll')amore,
5- avendoci predestinati a(ll')adozione a figli per se stesso, per mezzo di Gesù Cristo, secondo il desiderio della sua volontà,
6- a lode de(lla) gloria della sua grazia, di cui ci ha riempito nel (suo Figlio) diletto.

B) Il progetto soteriologico attuatosi e manifestatosi in Cristo (vv.7-10)

7- Nel quale abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione dei peccati, secondo la ricchezza della sua grazia,
8- di cui ha sovrabbondato per noi, con ogni sapienza e intelligenza,
9- avendoci fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo il suo desiderio, che prestabilì in lui,
10- per (l')amministrazione della pienezza dei tempi: ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle nei cieli e quelle sulla terra in lui.

A1) Il progetto si storicizza nei credenti e nella chiesa (vv.11-14)

11- Nel quale siamo stati designati eredi, essendo stati predestinati secondo la deliberazione di colui che opera tutte le cose secondo la determinazione della sua volontà,
12- per essere noi, che primi abbiamo sperato in Cristo, a lode della sua gloria.
13- Nel quale anche voi che avete ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, nel quale anche (voi) che avete creduto siete stati contrassegnati con lo Spirito Santo della promessa,
14- che è caparra della nostra eredità per la redenzione dell'acquisto, per la lode della sua gloria.


Note generali

L'inno, con cui si apre lo scritto, si configura come un denso trattatello di soteriologia dove si muovono diversi personaggi: il Padre, autore del progetto salvifico (vv.4-6); il Figlio Gesù Cristo, attuatore e rivelatore di tale progetto (vv.7-10); i credenti, destinatari e beneficiari di tale progetto, contrassegnati dallo Spirito Santo, che diviene per loro un anticipo della gloria divina a cui sono destinati ancor prima della creazione del mondo (vv.11-14). Si vedrà, poi, nel corso dello scritto, come questi credenti non sono personaggi a se stanti, ma assumono il volto stesso della chiesa e sono chiesa, cioè comunità di comunione tra credenti e tra questi e Dio (1Gv 1,3), tra i quali si stabilisce un flusso vitale, ascendente e discendente, di benedizioni (v.3). Una chiesa che, configurata a Cristo e concepita quale suo corpo, assume tratti di universalità e di fulcro storico di azione salvifica del Padre, ma nel contempo si riflette nella stessa dinamica familiare, così che la famiglia diviene il riflesso stesso della chiesa nell'ambito domestico (1,22; 3,10.21; 5,23-32).

L'inno, posto in apertura della sezione teologica/cristologica (1,3-3,21), si configura come suo prologo, le cui tematiche, tutte a contenuto soteriologico, saranno riprese nel corso dello scritto e l'autore le contemplerà nel loro attuarsi nei credenti-chiesa, così che potremmo definire la sezione teologica/cristologica come lo sviluppo e l'applicazione storica dell'inno nella comunità credente. La sezione parenetica (4,1-6,17), che segue immediatamente quella teologica/cristologica, diventerà una sezione dipendente da questa, traendone le conseguenze.

Strutturalmente l'inno si suddivide in quattro parti: un'introduzione (v.3) ed altri tre parti disposte a parallelismi concentrici in B). Ogni parte termina con un esplicito riferimento a Gesù Cristo, che funge da parola aggancio per la parte successiva, la quale comincia con un riferimento a lui, così che l'intero inno vede la centralità di Gesù Cristo nella manifestazione e nell'attuazione del progetto salvifico del Padre, che ne è l'autore unico ed esclusivo. Vi è dunque in tutto questo inno una profonda concatenazione di progetto ed azione, che dice il profondo legame di collaborazione divina per la sua realizzazione, che ha come obiettivo finale l'uomo, chiamato ad aderirvi per mezzo della fede in Cristo Gesù.

Si ha pertanto il seguente sviluppo strutturale:

    Prologo all'inno (v.3), che scandisce i movimenti ascendenti e discendenti delle benedizioni, che salendo dalla comunità credente al Padre, scendono dal Padre sulla stessa, creando un virtuoso ciclo vitale di vita divina, in cui i credenti e la chiesa sono inseriti e ne fanno parte.

    A) Il progetto soteriologico, pensato dal Padre ancor prima della creazione del mondo ed attuato per mezzo di Gesù Cristo, vede la ricostituzione dell'umanità quale figlia del Padre, resa perfetta nell'amore e partecipe della santità stessa di Dio, così com'era nei suoi primordi (vv.4-6);


    B) Il progetto soteriologico, attuatosi e manifestatosi in Cristo, viene qui posto centralmente, mettendo in evidenza la centralità della figura di Cristo nella sua realizzazione. Una centralità verso cui converge, da un lato, l'azione del Padre; dall'altro, l'umanità intera, chiamata in Cristo ad aderirvi esistenzialmente per mezzo della fede (vv.7-10).

      A1) Il progetto salvifico pensato dal Padre fin prima della creazione del mondo e manifestatosi ed attuatosi in e per mezzo di Gesù Cristo, trova infine la sua attuazione storica nei credenti-chiesa   (vv.11-14).

Lo schema vede l'iniziale progetto salvifico, concepito dal Padre (A), trovare la sua attuazione storica nella comunità credente (A1). La centralità di questo progetto viene assegnato a Gesù Cristo, che attua e manifesta tale progetto (B). La centralità di Cristo nel progetto salvifico lo costituisce altresì punto di convergenza del Padre verso gli uomini e degli uomini verso il Padre, così che Gesù diviene il sacramento d'incontro tra Dio e gli uomini.

Sarà questo il filo conduttore dell'intera sezione teologica/cristologica, che ha il suo vertice nel cap.2.


Commento ai vv. 3-14

Prologo all'inno (v.3)

Il versetto è scandito in due parti: nella prima Dio è oggetto di benedizione della comunità credente; nella seconda Dio è il soggetto della benedizione che si riversa sulla comunità credente. Un movimento, dunque, ascendente e discendente o forse meglio definirlo pendolare, poiché l'idea che ne nasce è la perpetua benedizione che forma tra i due, comunità credente e Dio Padre, un vitale e continuo flusso di benedizioni, che, come una linfa vitale, passa dalla comunità a Dio e da Dio alla comunità, così che la comunità credente, permeata della vita stessa di Dio, la trasforma in un inno di ringraziamento e di lode a Dio, che si fa, a sua volta, benedizione divina. È lo stesso ciclo vitale che in qualche modo si era stabilito nella prima creazione dell'uomo allorché, alla decretazione divina del “Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gen.1,26a), è seguito l'atto creativo dell'uomo e della donna, immagini di Dio e a Lui somiglianti, sui quali Dio ha posto la sua benedizione, il segno della fecondità divina, rendendoli capaci, come Lui, di generare nuova vita8. Così questo ciclo vitale di benedizioni, che vanno e vengono tra la comunità credente e Dio, dice il flusso della vita divina che scorre nella comunità credente, che viene resa in questo capace, come Dio, di generare un'umanità nuova e rinnovata con la potenza della Parola e dello Spirito Santo, di cui sono pregne, sia la Parola che la comunità credente.

La benedizione, che nasce quale atto di riconoscimento per la molteplice azione salvifica del Padre operata nel suo Figlio, ha per destinatario “Dio e Padre”, una formula che suona come una specie di endiadi: “Dio che è Padre”, specificando qui la funzione di questo Dio, che genera il “Signore nostro Gesù Cristo”. Una sorta di formula di fede molto densa, dove il “Gesù” della storia è riconosciuto qui come il “Cristo”, cioè l'Unto di Dio, il suo Messia, la persona a Lui consacrata e da Lui inviata e in cui il Padre opera. Questo “Gesù Cristo” viene qui definito “Signore”, un titolo che viene attribuito dalla chiesa primitiva al Risorto, riconoscendo in lui la sua signoria universale; ed è “nostro”, nel senso che egli non solo ci appartiene e ci qualifica come fratelli tra di noi in quanto generati in lui da un unico e comune Padre, che egli condivide con noi (Gv 20,17b), ma anche che noi apparteniamo a lui, siamo sua proprietà; proprietà che Ef 2,10a interpreterà come “Siamo, infatti, opera sua, creati in Cristo Gesù”. Una formula che stabilisce nel contempo la relazione tra Dio Padre e Gesù Cristo, divenuto il Signore nostro, quella di Figlio, la cui figliolanza va intesa come generazione diretta e non acquisita come la nostra, e, quindi, questo Figlio è Dio lui stesso alla pari del Padre, mentre noi siamo solo partecipi in Cristo della vita divina e suoi figli nel suo Figlio. Una formula di fede molto densa, ricca di significati che, man mano l'inno soteriologico procede, verranno specificati e messi sempre più in evidenza.

Una benedizione, che è atto di ringraziamento e di lode della comunità credente, la quale, prendendo coscienza in se stessa dell'agire salvifico del Padre per mezzo del Figlio Gesù Cristo, si rivolge riconoscente a Dio in quanto “Padre” non solo del Figlio, che ci fa figli di Dio, “e lo siamo veramente” attesterà 1Gv 3,1a, ma anche di questo progetto salvifico, che si è riversato e attuato in essa per mezzo del suo stesso Figlio. Da qui la seconda parte del v.3: “che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo”, che funge da titolo e introduzione alla successiva pericope circoscritta dai vv.4-6, la quale specificherà il senso di quel “ogni benedizione spirituale” e in che cosa essa consista, dove quel “ogni” mette in evidenza la pienezza della benedizione divina, mentre l'attributo “spirituale” sottolinea l'origine e la natura di questa benedizione, ma nel contempo dice anche quale risposta il Padre si attende dalla sua comunità credente, da Lui generata e continuamente rigenerata per mezzo della potenza della sua Parola, il Cristo suo Figlio, e del suo Spirito Santo (v.13). Una generazione che è avvenuta “nei cieli in Cristo”, dove quel “nei cieli” dice che il Padre l'aveva già pensata ancor prima che fosse creata la terra e con essa l'umanità; non solo, ma questa fu anche attuata “in Cristo”, così che in quel “Cristo” converge la pienezza della benedizione divina, che egli non solo annunciò e manifestò a tutti gli uomini, ma attuò pienamente riversandola con abbondanza sui credenti.

Un progetto soteriologico che nasce ancor prima della creazione del mondo (vv.4-6)

Se il v.3b ha preannunciato in qualche modo il contenuto e il senso di questa benedizione, che ha preso forma “nei cieli in Cristo”, la pericope in esame (vv.4-6) ne precisa il contenuto, qualificandolo come il progetto salvifico del Padre pensato fin dall'eternità. Tre sono i passaggi che questo piano divino prevede per la salvezza dell'umanità, scanditi da ogni singolo versetto:

  1. l'ideazione del progetto salvifico, concepito fin dall'eternità: essere santi e perfetti davanti a lui nell'amore in Cristo (v.4);

  2. le modalità di attuazione del progetto: diventare suoi figli nel Figlio (v.5);

  3. il motivo di questo progetto: per diventare una lode perenne al suo amore per noi (v.6);

Un progetto da cui si evince la centralità di Cristo, quale strumento di attuazione del progetto salvifico del Padre, che ne è l'ideatore e il promotore; e il tutto è incentrato su di noi, perché potessimo essere nuovamente rivestiti della sua gloria e nuovamente ricomposti in Lui (Sal 8,6), di cui è impressa in noi l'impronta della sua divinità e della sua paternità, in quanto fatti a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27). Un progetto, quindi, che consente a Dio di riprendersi e di recuperare in se stesso ciò che gli appartiene fin dall'eternità, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,28c), di modo che niente di ciò che porta la sua impronta vada perduto, poiché questa impronta, che è sua immagine e sua somiglianza in noi, non solo gli appartiene, ma è parte di Sè. Quindi tutto, alla fine, verrà ricomposto in Dio e niente verrà perduto, se non chi vuol essere perduto.

Una salvezza che va compresa alla luce del dramma primordiale dell'umanità, allorché, a motivo del fallito “colpo di stato” operato da Adamo ed Eva nei confronti di Dio (Gen 3,5), vennero cacciati dalla dimensione divina, in cui erano stati collocati da Dio stesso (Gen 2,8)9. Da questo momento parte la storia della salvezza, cioè il tentativo di Dio di recuperare l'uomo alla sua dimensione originale, da cui era drammaticamente fuoriuscito (Gen 3,16-24) e con lui l'intera creazione decaduta (Gen 6,11-13; Rm 8,19-21), così che Dio sia nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,28).

Il v.4 parla di “una scelta” del Padre e, quindi, in quanto tale, presuppone una volontà e, ancor prima, un progetto, che questa “volontà” consolida e traduce in una scelta, che parte ancor “prima della creazione del mondo”, quasi che questa creazione sia in funzione di questo progetto, che vede la centralità di Cristo, quale strumento di rivelazione e di attuazione di questa volontà (1,5b.10; Col 1,16b). Un progetto che ha come scopo principale quello di ricostituire l'umanità nella sua integrità originale: “per essere santi e perfetti davanti a lui ne(ll')amore”, dove “santità e perfezione” devono diventare nuovamente le qualità di quel uomo che era stato originariamente concepito e creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,27). Una “santità ed una perfezione” che riflettono nuovamente Dio nell'uomo e nella creazione così da far esclamare all'agiografo di Gen 1,31a: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a). Una bontà che avvolgeva e permeava un'umanità ed una creazione ancora incandescenti di Dio.

La santità e la perfezione di Dio, che si riflettono nell'uomo, associandolo nuovamente a Lui, trovano la loro attuazione nell'amore, che non dice un sentimento, ma il modo di essere di Dio stesso, cioè la sua totale apertura di Sè verso l'altro, che lo spinge ad una continua generazione della vita, che da Se stesso profluisce verso e nell'uomo, che, a sua volta, diviene generatore di vita come il suo Dio (Gen 1,27-28); la sua totale donazione di Sè all'altro, che trova il suo vertice nell'incarnazione di suo Figlio (Gv 3,16), rendendo l'altro sua immagine e somiglianza; la sua totale accoglienza in Sè dell'altro, rendendolo partecipe della propria vita divina. Viene così, in questo amore, designato non solo il tipo di relazionalità tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e il ciclo vitale che intercorre tra i Tre, ma anche tra questi e la creazione, intesa quale chiamata alla vita dell'essere, in cui Dio manifesta la sua apertura alla vita, la sua donazione di Sè ad essa, in cui egli ha impresso la sua immagine e somiglianza, perché questa venisse accolta totalmente in Se stesso, riconoscendola così di sua appartenenza. Da qui il senso e il perché della storia della salvezza, perché Dio non può lasciar andar perduta quell'umanità e quella creazione, che portano impresse in loro l'impronta di Dio stesso, quel qualcosa che gli appartiene fin dall'eternità e che, in qualche modo, fa parte di Sè. Solo, dunque, nell'amore l'uomo e la creazione possono raggiungere quella santità e quella perfezione, che le rendono nuovamente immagine e somiglianza di Dio, quella di un uomo configurato e riconfigurato a Dio stesso.

Se il v.4 presenta il quadro generale di questo progetto e i suoi intenti, il v.5 specifica in quale modo il Padre intende portare a compimento il suo progetto di salvezza: predestinandoci “a(ll')adozione a figli per se stesso, per mezzo di Gesù Cristo, secondo il desiderio della sua volontà”.

Si parla qui di “predestinazione”, “proor…saj ¹m©j” (proorisas emâs, avendoci predestinati), un participio aoristo, un tempo verbale che parla di un'azione che si è compiuta nel passato in vista di un futuro, con cui si allude al progetto salvifico del Padre. Questa predestinazione non va tuttavia intesa come una prevaricazione dell'uomo, una limitazione della sua libertà, poiché Dio non salva nessuno contro la sua volontà. S. Agostino, nel merito, attestava che “Senza la tua volontà, in te non ci sarà la giustizia di Dio. […] Perciò chi ti ha formato senza di te, non ti renderà giusto senza di te” (Sermone 169, 11.13). La predestinazione di cui qui si parla è un'offerta di salvezza, un invito a ritornare alla casa del Padre, che in questo disegno di salvezza ha predisposto di riconoscerci come suoi figli, adottandoci, cioè rendendoci nuovamente partecipi della sua vita divina e rimodellandoci nuovamente a sua immagine e somiglianza, così da riconoscerci nuovamente figli. E tutto ciò verrà realizzato “per mezzo di Gesù Cristo”. Si noti il doppio nome “Gesù”, cioè il Figlio di Dio, la Parola eterna del Padre incarnata (Gv 1,14a), che è anche “Cristo”, cioè l'Unto, il Consacrato dal Padre, un'unzione ed una consacrazione che dicono come questo Gesù sia stato riservato dal Padre, perché manifestasse agli uomini e attuasse per loro il suo progetto di salvezza, pensato da Lui fin dall'eternità. Gesù Cristo, dunque, è la chiave di volta di questo progetto.

Il progetto pensato dal Padre fin dall'eternità, che contempla la nostra adozione a figli da attuarsi per mezzo del suo Figlio, Gesù Cristo, è finalizzo “e„j aÙtÒn” (eis autón, per se stesso). Quel “e„j” (eis) se da un lato imprime un senso finale al progetto stesso, anticipando in qualche modo il v.6, dall'altro, in quanto particella di moto verso luogo, dice come tale progetto è destinato a ricondurre l'umanità e con questa l'intera creazione, per un principio di solidarietà che lega i due10, a Dio (1Cor 15,28), da cui erano drammaticamente fuoriuscite. E il tutto avviene “secondo il desiderio della sua volontà”. Un progetto, quindi, che non solo si allinea alla sua volontà e la esprime, ma è stato determinato dalla sua volontà. In altri termini, questo progetto è il frutto di una decretazione divina, che si pone in Dio stesso fin dall'eternità e che, in qualche modo, ne fa parte.

Il v.6 si apre con la particella “e„j” (eis), specificando il senso di quel “e„j aÙtÒn” (eis autón, per se stesso) del v.5: “a lode de(lla) gloria della sua grazia, di cui ci ha riempito nel (suo Figlio) diletto”. In altri termini un progetto, che si trasforma in una lode, quindi in un'azione di riconoscimento e di ringraziamento, ma nel contempo di manifestazione della “gloria della sua grazia”, dove la “gloria”, espressione della potenza di Dio, dice la natura di quella “grazia”, che è, a sua volta, espressione della misericordia del Padre, “di cui ci ha riempito nel (suo Figlio) diletto”. In altri termini, questo progetto di salvezza, frutto della volontà misericordiosa del Padre, si è manifestato ed attuato nel suo Figlio, Gesù Cristo, riversandosi con abbondanza sui credenti, frutto, a loro volta di questo progetto salvifico pensato dal Padre fin dall'eternità.

Il progetto soteriologico attuatosi e manifestatosi in Cristo (vv.7-10)

Se la pericope vv.4-6 ha presentato il progetto salvifico a favore dell'umanità, così come pensato dal Padre, questa pericope in esame, circoscritta dai vv.7-10, ne descrive le modalità di attuazione, che vedono la centralità di Cristo.

La realizzazione del progetto salvifico del Padre avviene attraverso due passaggi:

A) la redenzione per mezzo del suo sangue, che ha come effetto la remissione dei peccati (v.7; Lc 1,77) dell'intera umanità, non solo quelli che essa ha già compiuto collettivamente e individualmente in ogni suo membro fino a quel momento, ma anche quelli futuri, la quale cosa ha fatto esclamare a Paolo che “Non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Tutto è coperto dal riscatto pagato da Cristo con il suo sangue sulla croce, che diviene il luogo in cui si compie l'evento redentivo e salvifico, il punto di convergenza e il vertice di tale progetto pensato fin dall'eternità e preparato e significato attraverso immagini che si muovono sullo sfondo biblico e culturale dell'Israele veterotestamentario.

Il concetto di redenzione attraverso lo spargimento di sangue, che la chiesa primitiva, racchiusa ancora nel nucleo dei primissimi discepoli, ha elaborato e ricompreso applicandolo al Gesù crocifisso, ha, infatti, la sua origine in due eventi veterotestamentari: il primo riguarda il rituale dell'espiazione, ricordato in Lv 16,7-10.20-22, dove Aronne, nel giorno dell'espiazione, prendeva due capri, l'uno veniva sacrificato con spargimento di sangue; il secondo veniva caricato di tutti i peccati del popolo attraverso l'imposizione delle mani e lasciato andare nel deserto, quasi che portasse via con sé tutti i peccati del popolo. Pace fatta, quindi, tra Dio e il suo popolo. Immagine questa che verrà ripresa anche da Gv 1,29, che vede proprio in Gesù l'agnello sacrificale, che s'è fatto carico di tutti i peccati del mondo: “Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!”.
La seconda immagine evoca in qualche modo una particolare figura in Israele, che ha origini tribali, quella del “go 'el”, che potremmo tradurre come il “redentore”, e si radicava nella solidarietà familiare dettata dai profondi legami di sangue. Questi aveva il compito di soccorrere e di tutelare i componenti familiari più deboli. Tra i suoi doveri principali c'era la vendetta di sangue, in caso che qualcuno dei suoi familiari fosse stato assassinato; il mantenimento del patrimonio immobiliare della famiglia; assicurare la discendenza al parente morto senza figli e, da ultimo, il riscattare i familiari caduti in uno stato di schiavitù per debiti contratti e insolvibili. In buona sostanza una figura che si fondava sulla solidarietà familiare ed era pronta ad intervenire ed anche a pagare di persona per poter tutelare e salvaguardare la sua gente. Una figura che con l'andar del tempo venne applicata a Dio, quale tutore di Israele, costituito ai piedi del Sinai sua proprietà, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,4-6), dopo averlo liberato dalla schiavitù egiziana. Una liberazione, si badi bene, che è avvenuta attraverso il sangue dell'agnello, che ha salvaguardato gli israeliti dall'angelo sterminatore (Es 12,22-23).

Immagini queste che sono state elaborate e ricomprese dalla chiesa nascente alla luce del Risorto e applicate al Crocifisso, ravvisando nel suo sangue sparso sulla croce l'elemento decisivo per la redenzione e il riscatto dell'intera umanità credente. Pace fatta, dunque, tra Dio e gli uomini, proprio come fu significato in quei due capri, che in qualche modo avevano prefigurato Cristo stesso che si è addossato le nostre colpe e le ha distrutte nel suo sangue (Is 54,1-10). Paolo vedrà in lui lo strumento di espiazione (Rm 3,25), che egli definisce “
ƒlast»rion” (ilasterion, espiatorio), il coperchio dell'arca dell'alleanza sul quale il sommo sacerdote spargeva il sangue dell'agnello sacrificato per il perdono dei peccati del popolo. Immagini che Col 2,17 e similmente Eb 8,5a definiscono come ombre delle cose future e in qualche modo le preannunciavano, per poi ricomprenderle nella nuova realtà, che è Cristo.

In questo contesto sacrificale di spargimento di sangue il Padre ha operato nel sacrificio di suo Figlio “secondo la ricchezza della sua grazia, di cui ha sovrabbondato per
noi, con ogni sapienza e intelligenza”. In altri termini, nella morte di Gesù in croce, preannunciata in qualche modo dai capri espiatori e dall'abbondante quanto inutile spargimento di sangue di animali (Eb 10,4), il Padre ha reso ora efficace, una volta per tutte, con la potenza del suo Spirito, il suo perdono su tutti gli uomini, distruggendo nel Crocifisso il peccato del mondo (Gv 1,29) per mezzo della fede in Cristo (Rm 3,25), così che non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù (Rm 8,1). E ciò è stato possibile perché Cristo era la pienezza di Dio e lo strumento pensato dal Padre fin dall'eternità per riscattare gli uomini dal peccato, distruggendolo sulla croce e consentendo il loro ritorno a Lui per mezzo della fede nel suo Figlio, Gesù, il Cristo. E tutto ciò è stato reso manifesto in lui, così che noi potessimo conoscere la strada (Gv 14,6) e le condizioni per poter accedere nuovamente al Padre, operando in tal modo la nostra scelta esistenziale.

B) Ed è questa la seconda parte del progetto salvifico del Padre indicata dal v.9: “avendoci fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo il suo desiderio, che prestabilì in lui”. L'autore di Efesini definisce il progetto salvifico del Padre il “mistero della sua volontà”, cioè il progetto che era nascosto in Lui fin da prima della creazione del mondo (vv.4-6) ed è divenuto operativo grazie alla sua volontà, che ha determinato l'inizio della storia della salvezza “secondo il suo desiderio”, cioè proprio come Lui lo aveva pensato e sognato da sempre e che “prestabilì in lui”, cioè fu affidato, ancor prima della creazione del mondo, a suo Figlio, che diventerà Gesù e verrà scoperto dal credente come il Cristo del Padre. Quel “prestabilì in lui” dice come il Cristo sia il luogo non solo dell'attuazione del progetto di salvezza, ma anche lo strumento della sua manifestazione, che trova il suo compimento nell'incarnazione e nella predicazione, cioè l'annuncio del lieto evento, quello del ritorno di Dio in mezzo agli uomini, offrendo loro la possibilità di ritornare nuovamente a Lui aderendo esistenzialmente alla sua Parola, divenuta carne (Gv 1,14a).

Che cosa sia il “mistero” che il Padre ha dato corso, determinandolo con la sua volontà, e dandone consistenza storica nel Figlio incarnato, Gesù, il Cristo, già ci è stato detto ai vv.4-6, ma qui al v.10, che richiama molto da vicino Gal 4,4, presenta l'universalità dalle dimensioni cosmiche del suo progetto: “ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle nei cieli e quelle sulla terra in lui”. Una nuova creazione, dunque, che avvenne ancor prima della prima creazione e la cui amministrazione, cioè la sua realizzazione, venne affidata a Cristo nei tempi stabiliti dal Padre, che scandiscono i tempi della salvezza e del suo lento e progressivo svilupparsi, che vedono dapprima l'ideazione di tale progetto racchiuso nel mistero del Padre (vv.4-6); la sua attuazione e rivelazione nel suo Cristo (vv.7-10) ed infine l'adesione dell'umanità a tale progetto per mezzo della fede in Cristo, fattosi Parola e Pane, per rendersi accessibile a tutti lungo il cammino della storia. Un'umanità credente che si è costituita in un'unica assemblea benedicente (v.3a) “a lode de(lla) gloria della sua grazia” (v.6a). Ed è proprio in quest'ultimo passaggio che il progetto salvifico del Padre trova il suo pieno compimento incontrando, qui nella storia, quell'umanità che ancora è disponibile a credere in Lui ed accettare esistenzialmente la sua proposta di salvezza, che la ricondurrà nuovamente in seno a Lui, da cui era drammaticamente fuoriuscita nei suoi primordi.

Il progetto si storicizza nei credenti, che divengono chiesa benedicente (vv.11-14)

Se i vv.4-6 descrivevano il progetto del Padre, pensato ancor prima della creazione del mondo e ancor racchiuso nel suo mistero (v.9a), i vv.11-14, inclusi dai termini “eredi” ed “eredità”, rispettivamente ai vv.11 e 14, ne vedono ora la sua attuazione storica, dopo essere passato attraverso il Cristo (vv.7-10). Versetti che sono una sorta di ripresa e di sintesi della pericope di apertura dell'inno (vv.4-6). Infatti, quel essere stati da Lui prescelti per predestinarci all'adozione a suoi figli a lode della sua grazia (vv.4-6) si riflette ora storicamente nelle sue conseguenze, nell'essere stati designati, in quanto figli nel Figlio, quali eredi della vita stessa di Dio, che l'autore vede qui quale attuazione derivante da una decretazione divina, che lascia trasparire una chiara ed evidente volontà salvifica del Padre. Più volte questo concetto viene ripreso nell'inno, là dove si parla di “scelta” (v.4a), di “predestinazione” (v.5a), di “desiderio della sua volontà” (v.5b), “mistero della sua volontà” (v.9a), “secondo il suo desiderio prestabilito” (v.9b), “designati eredi” (v.11a), “predestinati secondo il desiderio della sua volontà” (v.11b). Dio vuole salvare l'uomo ad ogni costo, perché in lui c'è ancora l'impronta originale della sua immagine e somiglianza; c'è ancora un qualcosa che gli appartiene; un qualcosa di Se stesso che il Padre vuole recuperare e di cui vuole riappropriarsi, così com'era nei primordi della creazione e dell'umanità. Dio non vuole lasciare “pezzi” di Se stesso perduti nel nulla, ma li vuole ricongiungere e ricomporre a Sè.

Nell'ambito di questo progetto, ideato nei cieli e realizzato qui sulla terra, compaiono per la prima volta i destinatari di questo progetto sotto forma di due pronomi apparentemente contrapposti, ma in realtà integrantesi tra loro: “noi” e “voi”. Chi sono questi viene descritto nelle rispettive perifrasi che li accompagnano. Il “noi” sono “i primi che hanno sperato in Cristo”, cioè la chiesa già costituita e consolidata in quei credenti che sono giunti a realizzare in loro stessi il progetto salvifico del Padre “a lode della sua gloria”, attestazione quest'ultima che riprende il v.6a, per dire come quella finalità che si era riproposta il Padre, si ritrova ora attuata in loro (v.12c).

Loro che sono “i primi”. “Primi” rispetto a chi? Rispetto al “voi”, che vengono definiti con una perifrasi, che scandisce il cammino catecumenale e la storia di questi credenti, che da poco tempo hanno iniziato il loro cammino di fede: “voi che avete ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, nel quale anche (voi) che avete creduto siete stati contrassegnati con lo Spirito Santo della promessa”. Il voi, quindi, sono qui identificati come dei catecumeni, i quali, giunti al termine del loro cammino catecumenale, che li ha visti intenti all'ascolto della Parola, alla quale hanno aderito esistenzialmente, sono contrassegnati con il sigillo dello Spirito Santo, cioè il battesimo, che coronava il loro cammino catecumenale e ne decretava la fine.

Uno Spirito Santo che qui viene definito come “caparra”, cioè un anticipo impegnativo, sia per Dio che per i credenti, di quelle realtà e ricchezze spirituali di cui è espressione e depositario, per cui il credente è chiamato a conformare il proprio modo di vivere a queste realtà spirituali, che sono state inserite in lui in virtù del battesimo e vivono in lui, così che la sua vita si trasformi in una liturgia di lode alla sua gloria.

La contemplazione dell'opera salvifica nei neobattezzati (vv.15-23)

Testo a lettura facilitata

La constatazione dell'opera salvifica nei neobattezzati da parte dell'autore … (v.15)

15- Per questo ed avendo udito io la fede (che avete) presso di voi in Gesù Cristo, e l'amore che (avete) verso tutti i santi,

si fa preghiera di ringraziamento e di supplica a Dio (v.16)

16- non cesso di rendere grazie per voi, facendo memoria (di voi) nelle mie preghiere,

affinché si traduca in una piena comprensione di quanto è avvenuto nei neobattezzati (vv.17-19)

17- affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia lo Spirito di sapienza e di rivelazione nella conoscenza di lui,
18- dopo aver illuminato gli occhi del [vostro] cuore, affinché voi sappiate qual'è la speranza della sua chiamata, quale la ricchezza della gloria della sua eredità tra santi,
19- quale la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi che crediamo, secondo l'efficacia del vigore della sua forza,

La contemplazione dell'opera salvifica attuata in Cristo e per mezzo di Cristo (vv.20-23)

20- che operò nel Cristo, risorgendolo dai morti e ponendolo alla sua destra nei cieli
21- al di sopra di ogni potere e autorità e potenza e signoria e di ogni nome che si può nominare non solo in questo secolo, ma anche in quello futuro;
22- e sottomise ai suoi piedi tutte le cose e lo diede, (quale) capo su tutte le cose, alla chiesa,
23- la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che compie tutte le cose in tutti.


Note generali

Dopo aver celebrato con l'inno l'opera salvifica del Padre, pensata fin dall'eternità, realizzata per mezzo di suo Figlio, Gesù Cristo, a beneficio dell'intera umanità credente, che l'autore vede riflessa sia nei credenti già costituitisi in comunità (v.12), sia nei neobattezzati (vv.13-14), investiti e rivestiti della potenza dello Spirito Santo, quale caparra posta a garanzia della gloria futura, ora l'autore conclude questo suo inno celebrativo con una preghiera che è di rendimento di grazie per quanto è avvenuto nei neobattezzati, e di supplica perché la “illuminazione” da loro ricevuta, così era chiamato il battesimo nella chiesa primitiva, si traduca in una maggiore penetrazione di questo mistero salvifico, che si è attuato in loro attraverso la morte-risurrezione e glorificazione di Cristo, che costituisce la comune eredità.

Una preghiera che si sviluppa in quattro momenti e termina accentrando la propria attenzione sulla potenza salvifica, di dimensioni cosmiche, del Padre, operata nel e per mezzo del suo Cristo. Torna quindi la centralità di Cristo in questa opera salvifica, la cui potenza ora si estende lungo la storia attraverso la chiesa, definita pienezza del suo corpo, dove opera questa potenza salvifica:

  1. La constatazione dell'opera salvifica nei neobattezzati da parte dell'autore (v.15),

  2. la quale si fa preghiera di ringraziamento e di supplica a Dio (v.16)

  3. affinché si traduca in una piena comprensione di quanto è avvenuto nei neobattezzati (vv.17-19);

  4. La contemplazione dell'opera salvifica attuata in Cristo e per mezzo di Cristo (vv.20-23)

Commento ai vv.15-23

La constatazione dell'opera salvifica nei neobattezzati da parte dell'autore … (v.15)

Il v.15 funge da introduzione alla preghiera che segue e ne dà le motivazioni: la prima è insita nell'espressione “Di¦ toàto” (Dià tûto, Per questo), che si richiama all'intero inno, che ha contemplato l'opera salvifica del Padre nel suo insieme (vv.3-10) e nello specifico nella comunità credente (vv.11-14); la seconda motivazione è data dalle notizie che questo responsabile di comunità, probabilmente un vescovo, ha sentito circa la fede di questi neobattezzati, ai quali sta indirizzando questo suo scritto, probabilmente una sorta di standard, indirizzato a tutti i neobattezzati in genere per l'occasione, considerato che questi neppure li conosceva, avendo avuto su di loro soltanto delle notizie da terzi, quasi certamente dai responsabili di quella specifica comunità, dove questi si trovavano. Notizie non solo sulla loro fede e, quindi, sul livello di preparazione catechistica e sulla loro dedizione nella comunità e il rispetto delle nuove regole nel loro vivere quotidiano, ma anche circa l'amore che questi, pur non ancora bene integrati nella comunità, di cui ora fanno parte, nutrono verso “tutti i santi”, cioè verso tutti coloro che da tempo fanno parte della comunità credente e ne sono membra vive. Un segno questo non solo di deferenza verso coloro che li hanno preceduti e sono stati già provati nella loro fede, ma anche quel sentirsi in qualche modo partecipi della loro vita, adducendoli in qualche modo a loro esempio.

si fa preghiera di ringraziamento e di supplica a Dio (v.16)

Da questo insieme di motivazioni e in questo contesto neobattesimale l'autore dello scritto sviluppa due sentimenti spirituali dentro di sé: da un lato, un rendimento di grazie al Padre per la sua opera salvifica, che egli vede attuata in questi neobattezzati; dall'altro “facendo memoria” di loro presso il Padre, che li ha generati a nuova vita. Il contesto è fortemente liturgico, determinato dalle due espressioni che lo caratterizzano: il “rendimento di grazie” e il “fare memoria”, che dice ben di più di un semplice ricordarsi di qualcuno nelle proprie preghiere. Si tratta di un ricordarsi di qualcuno nel contesto di un'azione liturgica, attraverso la quale viene presentato solennemente la supplica a favore di questi neobattezzati

affinché si traduca in una piena comprensione di quanto è avvenuto nei neobattezzati (vv.17-19)

Dopo il preambolo dei vv.15-16, si è giunti con questa pericope, circoscritta dai vv. 17-19, ai contenuti di questa preghiera solenne: “affinché [...] vi dia lo Spirito di sapienza e di rivelazione nella conoscenza di lui”. Tre gli elementi di rilievo: a) viene invocata l'azione dello Spirito, che essi di recente hanno ricevuto nel battesimo (v.13c), perché b) questi dia loro la sapienza, cioè quel “sapěre11 che dice il gusto per le cose spirituali, che costituiscono quel mondo divino in cui sono entrati e di cui, ora, fanno parte per mezzo della fede e del battesimo; c) nonché la “rivelazione nella conoscenza”, come dire una rivelazione che si attua nella conoscenza. Un implicito invito, quindi, ad approfondire quel “mistero” che hanno incominciato a conoscere lungo il cammino del catecumenato, poiché è proprio nell'approfondimento di questa conoscenza che si attua la rivelazione di questo mistero (v.9). Un cammino, dunque, che è iniziato, ma che non è finito con il battesimo, ma deve proseguire lungo tutta la vita del credente. Da qui l'esortazione di 5,19, ma in particolare della sinottica Col 3,16, che esorta i credenti affinché “La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali”, poiché è proprio l'impegno del “conoscere”, che diviene il luogo della rivelazione, il luogo e lo strumento attraverso il quale Dio illumina ed opera la sua rivelazione al credente.

Una conoscenza, quindi, che deve proseguire anche “dopo aver illuminato gli occhi del [vostro] cuore”, dove “gli occhi del vostro cuore” alludono alla profondità e all'intimità dello spirito del credente, che illuminato dalla luce della fede, che lo apre a nuove dimensioni e a nuove realtà, riesce a cogliere il senso più vero e profondo della vita in ogni suo aspetto e in ogni sua dimensione, così come quelle delle cose. Ed è questo il frutto del battesimo, che nella chiesa primitiva era definito come l'illuminazione e il battezzato è l'illuminato.

Sapienza, dunque, che dà il gusto delle cose di Dio e che sospinge alla loro conoscenza e al loro approfondimento, dove opera la rivelazione divina. E tutto ciò “affinché voi sappiate qual'è la speranza della sua chiamata, quale la ricchezza della gloria della sua eredità tra santi, quale la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi che crediamo, secondo l'efficacia del vigore della sua forza”.

Ecco, dunque, gli obiettivi che si propone questa conoscenza, che apre alla rivelazione e, quindi, alla comprensione delle cose di Dio e, in particolar modo, al progetto di salvezza, ideato dal Padre prima ancora della creazione del mondo, e nel quale sono stati coinvolti tutti i credenti, compresi questi neobattezzati, dove “la speranza della sua chiamata” dice il contenuto di questa speranza che ha avuto origine in loro dalla loro stessa chiamata. Speranza, che dice le realtà spirituali in cui il credente è stato collocato in virtù della sua fede e del suo battesimo e che in qualche modo vengono indicate nella “ricchezza della sua gloria”, cioè la pienezza della vita stessa di Dio, che costituisce l'eredità dei santi; nonché nella “straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi”, cioè una ricchezza della vita stessa di Dio, che si esprime nei confronti dei credenti, accomunati tutti indistintamente in quel “noi”, attraverso la potenza dello Spirito Santo, che assimila i credenti e battezzati alla Vita divina. Realtà certe, queste, benché non ancora visibili e definitivamente raggiunte, ma che, proprio per questo, si sperano (Rm 8,24). Ed è proprio questa speranza che anima il credente e lo spinge a modificare il suo comportamento presente in prospettiva delle realtà future, ma già presenti in lui e lui in queste, creando in tal modo una forte tensione escatologica, che sottende tutto il suo modo di vivere, poiché, pur vivendo qui e ora, il suo orientamento esistenziale va oltre ed è rivolto alle realtà celesti. Lo ricorderà Col 3,1-3, che designa la vita del credente, ormai avvolto dalle realtà celesti, che lo spingono verso di esse: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio!”. Significativo in tal senso è quanto dice l'ignoto autore della Lettera a Diogneto (II sec.), parlando dei cristiani: “Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo” (Diogneto V,8-9).

La contemplazione dell'opera salvifica attuata in Cristo e per mezzo di Cristo (vv.20-23)

Se la constatazione dell'opera salvifica del Padre, contemplata nell'inno e nella comunità credente, si è tradotta in preghiera di ringraziamento al Padre e di supplica, perché l'opera iniziata dal Padre nei neobattezzati venga portata a termine, traducendosi per loro in un approfondimento della conoscenza e pienezza di rivelazione dell'evento salvifico che si è compiuto in essi, ora l'attenzione si sposta su Cristo, con una sorta di celebrazione liturgica, che mette in luce l'evento Cristo, quale strumento di attuazione e di rivelazione dell'opera salvifica del Padre, rilevandone le modalità di attuazione.

L'azione del Padre che si è compiuta nel Cristo è avvenuta attraverso due movimenti: l'esaltazione di Cristo (vv.20-21), per mezzo della sua risurrezione e la sua conseguente collocazione in una eminente posizione di privilegio presso al Padre, che non ha eguali nella stessa dimensione spirituale in senso generale e dello stesso mondo divino nello specifico. Quindi un'assoluta superiorità. Questo è quanto dice l'espressione “alla sua destra nei cieli”, cioè destra del Padre, della cui gloria Cristo viene investito e rivestito. Una superiorità che viene precisata nel v.21: “al di sopra di ogni potere e autorità e potenza e signoria e di ogni nome che si può nominare non solo in questo secolo, ma anche in quello futuro”, dove i titoli di superiorità non vanno compresi soltanto in termini orizzontali, cioè terreni o umani (“in questo secolo”), ma anche verticali, cioè realtà e dimensioni spirituali (“secolo futuro”). La superiorità e l'esaltazione di Cristo, la sua apoteosi, pertanto, non hanno eguali né in cielo né sulla terra, acquisendo in tal modo una dimensione universale, che già era stata contemplata al v.10b dell'inno soteriologico, con cui si sottolineava la peculiarità cristocentrica del progetto salvifico del Padre.

A questo primo movimento, che si è accentrato sull'esaltazione, ma che tuttavia non esclude, benché non esplicitamente menzionato, quello della passione e morte, che è sempre intrinsecamente congiunto alla risurrezione, formando l'altra faccia della medaglia, e che qui si intuisce dall'espressione “dai morti”, da cui proviene il Cristo, segue ora un secondo movimento, la signoria universale di Cristo (vv.22-23), conseguente alla sua esaltazione divina e che in qualche modo è stata già anticipata dal v.21 e in particolar modo dall'espressione “in questo secolo”: “e sottomise ai suoi piedi tutte le cose e lo diede, (quale) capo su tutte le cose, alla chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che compie tutte le cose in tutti”.

Il v.22 si apre con un “kaˆ” (kaì, e), che nel collegarsi al v.21, descrive le conseguenze storiche di questa esaltazione, che non ha pari neanche in “questo secolo”: la sottomissione ai suoi piedi di tutte le cose12, per indicare la suprema e indiscussa signoria universale di Cristo, che ha acquisito a seguito della sua esaltazione ad opera della sua risurrezione dai morti. Ed è in questa sua nuova condizione esistenziale che il Cristo viene donato dal Padre alla Chiesa. Una donazione che non va intesa come un regalo che si fa ad un terzo, che ne diventa il suo nuovo possessore, poiché in questo caso la Chiesa sarebbe un'entità superiore a Cristo stesso, divenendone il suo nuovo padrone. Ma poiché il Padre “sottomise ai suoi piedi tutte le cose” è da intendersi che anche la Chiesa è sottomessa a lui. Una sottomissione, tuttavia, che va intesa come una presa di pieno possesso di questa Chiesa da parte di Cristo, talmente profondo da permearla con la sua pienezza, che la trasforma nel suo stesso corpo, divenendo in tal modo la Chiesa la nuova dimensione storica di Cristo, che la riempie della sua stessa pienezza, così che non è più lei che opera nel mondo, ma è Cristo stesso che opera in lei (Gal 2,20), divenendo in tal modo strumento, sacramento e luogo di salvezza per l'intera umanità.

Una riflessione che ripercorre le tappe della salvezza dei neobattezzati (2,1-22)

Note generali

Se il cap.1 aveva contemplato nell'inno (1,3-14) e poi celebrato nella preghiera (1,15-23), con rendimento di grazie e facendone memoria, l'opera salvifica del Padre, questo cap.2 ripercorre le tappe della salvezza che si sono storicamente realizzate nei neobattezzati, ai quali è indirizzato questo scritto, partendo dal momento in cui, ancora pagani, dediti alle opere della carne (vv.1-3), sono stati chiamati, per misericordia e per grazia divine, alla salvezza, che è vita nuova in Cristo, con il quale sono stati “convivificati”, “conrisuscitati e “conseduti nei cieli” dal Padre (vv.4-10). E grazie proprio a questa trasformazione spirituale avvenuta in loro, sono diventati eredi dei beni promessi all'antico Israele, poiché in Cristo è stata abolita ogni barriera e ogni ostacolo di incomunicabilità tra il vecchio e il nuovo, così che tutti, giudei e pagani, sono diventati uno in Cristo, un uomo nuovo, una creatura nuova, un popolo nuovo, fondato non più sulle prescrizioni della Legge, che dividono, oberando il credente con pesi insostenibili e insopportabili (Mt 23,4), ma sulla sola fede in Cristo, che avendo attuato in se stesso il progetto salvifico del Padre, ne rende partecipi tutti gli uomini indistintamente, che vi aderiscono per sola fede, così che non si è più estranei e stranieri, cioè giudei e pagani, ma tutti sono divenuti, grazie all'unica fede nell'unico e comune Cristo, concittadini dei santi e familiari di Dio nella chiesa (2,11-22), che non solo è corpo stesso di Cristo, ma altresì nuovo popolo di Dio, che Dio stesso si è scelto ed ha costituito fin dall'eternità (1,4-5) attraverso il sangue di Cristo (1,7; 2,13).

Da questa breve sintesi del cap.2 già se ne può comprendere non solo le finalità, far ripercorre ai neobattezzati le tappe della loro salvezza e in che cosa questa consista, ma anche la macrostruttura di questo capitolo, che propongo, qui di seguito, suddivisa in cinque parti:

  1. La condizione di vita dei credenti quando erano ancora peccatori, prima di conoscere Cristo (vv.1-3);

  2. l'attuale condizione di vita dei credenti, dopo che il Padre ha operato in Cristo la propria azione salvifica su di loro, per misericordia e per grazia (vv.4-7);

  3. una precisazione e un approfondimento su che cosa significa essere salvati gratuitamente per grazia (vv.8-10);

  4. un ulteriore approfondimento su che cosa significa essere salvati con Cristo e come egli operò la nostra salvezza, la nostra comunione e la nostra unificazione (vv.11-18);

  5. le conseguenza di questa azione salvifica del Padre operata nei credenti per mezzo di Cristo (vv.19-22).

Queste cinque parti, su cui si struttura il cap.2, sono raggruppabili in tre parti: la prima, che associa le lett. a) e b), consiste in un raffronto della vita di questi neobattezzati tra il prima e il dopo la conoscenza di Cristo; la seconda parte, che raggruppa le lett. c) e d), forma un approfondimento sul tema della salvezza per grazia e sul come questo è avvenuto; la terza parte, costituita dalla lett. e), rileva le conseguenze individuali e comunitarie dell'opera salvifica, dove Padre accomuna tutti in un'unica famiglia, che ha per fondamento Cristo stesso, dove tutti i credenti costituiscono la nuova dimora di Dio per mezzo della potenza dello Spirito Santo.

Il cap.2, che costituisce il vertice dell'intera sezione teologica/cristologica, si conclude con il cap.3 con una seconda preghiera (3,14-19), posta in parallelo alla prima (1,15-23), che qui celebra l'opera salvifica contemplata nei neobattezzati (cap.2), così che l'intera sezione teologica/cristologica (1,3-3,21) diventa una contemplazione ed una celebrazione dell'opera salvifica del Padre operata in e per mezzo di Cristo, che confluisce in due preghiere (1,15-23; 3,14-19), tra loro parallele, che formano una sorta di celebrazione liturgica che si conclude con una dossologia finale, che si eleva al Padre e a Cristo per ciò che essi hanno compiuto a favore non solo dei neobattezzati, ma dell'intera chiesa (3,20-21).

Uno scritto, quindi, che è rivolto ai neobattezzati, perché prendano coscienza di ciò che è accaduto in loro e della grande misericordia e grazia divine, di cui sono stati fatti oggetto, e che nel contempo sembra volerli coinvolgere in una contemplazione e in una celebrazione, che si muovono su di uno sfondo dal sapore liturgico, del progetto salvifico del Padre attuato in Cristo, azione e rivelazione del Padre, a favore dell'intera umanità credente, di cui essi, ora, fanno parte.

Commento ai vv.1-22


La condizione di vita dei credenti quando erano ancora peccatori, prima di conoscere Cristo (vv.1-3)


Testo

1- Anche voi, che siete morti alle iniquità e ai vostri peccati,
2- nei quali una volta camminaste secondo il tempo di questo mondo, secondo il signore della potenza dell'aria, dello spirito che opera ora nei figli della disobbedienza;
3- tra i quali eravamo anche noi tutti rivolti, un tempo, nei desideri della nostra carne, facendo le volontà della carne e del (nostro) modo di pensare; ed eravamo per natura figli dell'ira, come anche gli altri;


Commento ai vv.1-3

La pericope, vv.1-3, presenta lo stato di vita dei neobattezzati e con loro dei credenti, che già da tempo vivono la loro scelta di fede nella chiesa, prima che di conoscere Cristo e di riorientare la loro vita verso di lui, accomunati in qualche modo nella medesima condizione di vita. Chi sono queste persone e da quale esperienza religiosa provengono? Dai tratti che qui ci vengono indicati (“tempo di questo mondo”, “spirito di figli della disobbedienza”, “desideri della carne”, “figli dell'ira divina”), sono persone che provengono dal mondo pagano, che hanno abbandonato questo loro modo di vivere per camminare in Cristo.

Il v.1 apre il cap.2 con una constatazione: “Anche voi, che siete morti alle iniquità e ai vostri peccati”, dove quel “voi”, a cui si assocerà anche il “noi” del v.3, si riferisce ai neobattezzati, che provengono dal paganesimo, al quale sono morti, non solo nel senso che con questa realtà non hanno più niente a che vedere, ma anche a livello ontologico è avvenuta in loro una radicale trasformazione, una sorta di risurrezione da morte a vita, che li rende del tutto inidonei a continuare a vivere la vita precedente. Essi, infatti, si dirà al v.6, sono “convivificati”, “conrisuscitati” e “conseduti” in Cristo alla destra del Padre. Col 1,13 parla di un avvenuto trasferimento “da” - “a”: “E' lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto”.

Lo stato di vita precedente è sintetizzato nei due termini, che solo apparentemente sono sinonimi, ma in realtà l'uno è generatore dell'altro. Il primo, infatti, “iniquità”, parla di una condizione di vita, di un contesto esistenziale non solo lontano da Dio, ma in opposizione a Lui; mentre il termine “peccati” dice le conseguenze del vivere nell'iniquità: tutta la loro vita, dunque, era una vita di peccato, una vita sbagliata, che generava peccati. Il termine greco per indicare il peccato è qui reso con “¡mart…aij” (amartíais), che significa “errore, sbaglio, fallo, peccato”. Più espressivo è il verbo corrispondente “¡mart£nw” (amartáno), che significa “sbagliare strada; allontanarsi dalla verità, da ciò che è giusto” e, quindi, il peccare parla di un orientamento esistenziale sbagliato e non di una semplice violazione di un qualche comandamento, dettata più dalla fragilità umana che da una vera e propria avversione a Dio. Un simile stato di vita, vissuto nell'iniquità, non può produrre frutti giusti, ma solo “peccati”, cioè azioni e comportamenti sbagliati, che portano alla distruzione della propria vita.

Che cosa sia effettivamente il peccato ci viene illustrato dalla parabola del “Figliol prodigo” (Lc 15,11-32), dove il figlio più giovane, dopo essersi appropriato dei beni del padre, si allontana da lui e, lontano da lui, li sperpera in gozzoviglie e prostitute per ridursi poi a condividere il cibo con i porci. Questo è il peccato: spendere la propria vita lontani da Dio, la quale cosa non può che portarci, alla fine, ad una vita di degrado esistenziale, che priva il peccatore di ogni dignità umana. Solo il ritorno al Padre salverà questo figlio e gli restituirà la sua perduta dignità originaria. Ed è esattamente questo che il Padre ha cercato di ideare per la nostra salvezza: il nostro ritorno a Lui, indicandocene la via del ritorno in Cristo (Gv 14,6), che ricostituisce il credente nella sua primordiale dignità, allorché l'umo era ancora incandescente di Dio (Gen 1,31).

Quanto al v.2, questo riprende il v.1 e ne specifica il senso. Che cosa significano “iniquità” e “peccati”? Sono il camminare, cioè il vivere, secondo le logiche di questo mondo, sottoposto a divinità, gli eoni, che si pensavano poste tra cielo e terra e governassero il corso della vita degli uomini. Potenze celesti e demoni che l'autore vede qui operare “nei figli della disobbedienza”, qualificandoli quali ribelli a Dio. Lo stato di vita di questi neobattezzati, prima di incontrare Cristo, era, quindi, considerato come una vita in rivolta contro Dio. Per questo erano “morti” a Dio e proprio per questo, dopo aver incontrato Cristo ed averlo accolto nella propria vita, essi sono definiti come “conrisuscitati”, “convivificati” e “conseduti”. Una nuova realtà e una nuova dimensione in cui sono stato introdotti e “trasferiti” (Col 1,13).

A questi neocredenti, provenienti dal mondo pagano, si associano anche gli altri credenti, che ormai da tempo professano la loro fede nella chiesa: “anche noi”, dove in quel “noi” va ricompreso anche l'autore di questo scritto; anch'egli proviene dal mondo del paganesimo. Significativo il verbo che delineava il comportamento di questi pagani, ora convertiti, “¢nestr£fhmšn” (anestráfemen), che dice “l'essere esistenzialmente rivolti a qualcosa”, che viene qui precisato in “desideri della carne”, che sostanziavano “le volontà della carne”, le quali determinavano lo stesso modo di essere e di pensare, caratterizzando un orientamento esistenziale rivolto contro Dio. Comportamento che li qualificava come “figli dell'ira per natura”, dove quel “per natura” dice come il loro comportamento intaccasse profondamente il loro modo di vivere a livello ontologico, decretando in tal modo la loro impossibilità di una qualsiasi salvezza. Il linguaggio qui usato dall'autore richiama da vicino la sezione di Rm 1,18-32 e 8,5-10, nonché Gal 3,3 e 5,16-25.

Il v.3 associa a quel “noi” “anche gli altri”, dove, a mio avviso, vanno riconosciuti i giudei, che pur non vivendo come i pagani secondo le logiche della carne, tuttavia vivevano secondo una Legge che, alla pari del mondo pagano, li escludeva dalla salvezza, perché li opponeva a Dio, non riconoscendo nel Cristo il suo Figlio, così che Gv 1,11 dovrà constatare amaramente che il Verbo eterno del Padre “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto”, alla pari del mondo, il quale “fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe” (Gv 1,10b).

L'attuale condizione dei credenti (vv.4-7)

Testo

4- ma Dio, che è ricco di misericordia, per il suo molto amore, con il quale ci ha amati,
5- ed essendo morti alle iniquità, ci ha convivificati con Cristo, siete stati salvati per grazia,
6- e (ci) ha conrisuscitati e (ci) ha conseduti nei cieli in Cristo Gesù,
7- per far conoscere nei secoli che vengono la
sovrabbondante ricchezza della sua grazia, nella bontà verso di noi in Cristo Gesù.

Commento ai vv. 4-7

Allo “status antea” del loro vivere pagano, secondo le logiche della carne, viene ora contrapposto dall'autore lo “status quo” della loro nuova vita in Cristo, di cui qui l'autore illustra ai neobattezzati la genesi della loro salvezza. Da questo accostamento ne nasce un raffronto fortemente contrastante, che meglio mette in rilievo i due diversi contesti esistenziali in cui essi erano prima e sono, invece, ora.

Il contrasto tra il prima e il dopo viene accentuato con quel “Ð de qeÕj” (o de tzeòs, ma Dio), posto all'inizio del v.4 e che imprime all'intera pericope vv.4-7 un forte senso di contrapposizione. In altri termini, al vivere secondo le logiche della carne prima di conoscere il Cristo, si contrappone, ora, la gratuità dell'azione salvifica di Dio nei confronti dei neobattezzati. Ci troviamo di fronte ad una pericope che spiega ad essi la genesi della loro salvezza, richiamandosi in qualche modo al Sal 85,5.15-16.

Dio viene qui presentato come “ricco di misericordia”, quella ricchezza di misericordia che Lc 10,30-35 canterà nella stupenda parabola del Buon Samaritano, in cui non è difficile ravvisare nella sua gestualità quella compassionevole di Dio stesso, fattosi vicino all'uomo nel suo Figlio: “Un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”. Quel “Samaritano in viaggio” allude all'incarnazione del Figlio di Dio, che si fa vicino ad un uomo decaduto e incapace di risollevarsi; lo guarisce dalle sue ferite, lo fascia e si prende cura di lui, affidandolo poi alla locanda, perché continui ad aver verso di lui quella cura che egli ha iniziato; una locanda nella quale non è difficile ravvisare la chiesa stessa, chiamata a proseguire l'azione salvifica iniziatasi con il “Buon Samaritano” e di cui dovrà rendere conto: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”.

Un atto pieno di misericordia, che si fa compassione, una compassione che si fa vicinanza, una vicinanza che si fa solidarietà con l'uomo peccatore ed ha la sua origine nel suo “grande amore con il quale ci ha amati”. La salvezza dei neobattezzati, così come quella di ogni credente, affonda, dunque, le sue radici in un atto di gratuità divina, generatosi dall'amore di Dio per l'umanità, che le chiede soltanto di credere in Lui, di riprendere quella originaria fiducia che la legava a Lui nei suoi primordi. Un amore così esclusivo e intenso che si concretizzerà nel dono del suo stesso Figlio, venuto in mezzo agli uomini non per giudicarli, ma per tendere loro la mano e riportarli in seno al Padre (Gv 3,16-17), Padre suo e Padre anche loro (Gv 20,17b). Ed è questo il senso di quel “essere stati salvati per grazia” con cui si conclude il v.5.

È significativo come l'attestazione “siete stati salvati per grazia” (v.5b) sia interpolato tra il v.5 e il v.6 dove si parla di un unico atto salvifico scandito in tre momenti, quasi a dire come questo atto salvifico non solo dipende dalla grazia, ma come in questo atto salvifico va colta la gratuita iniziativa divina, che si fa azione salvifica di Dio nel Figlio, a cui il credente è intimamente associato, quasi da farne un tutt'uno con lui, così che l'essere ritornato alla vita del Figlio, il suo essere risorto e il suo essere salito al cielo, glorificato alla destra del Padre, diviene per i credenti un essere “convivificati con Cristo, conrisuscitati e conseduti con lui e in lui presso al Padre”, che ci riconosce figli nel Figlio. È così che si compie la salvezza, ricostituendo tutto in Cristo (1,10b) e il Cristo in Dio, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti, così com'era nei primordi della creazione e dell'umanità (1Cor 15,28).

Ma tutto ciò ha come presupposto “l'essere morti all'iniquità” (v.5a), con cui l'autore apriva questo cap.2 e che costituisce il contesto di corruzione e di peccato, che si esprimeva nei desideri della carne, facendo di questa la logica del proprio vivere quotidiano e che qualificava i neobattezzati, prima del loro incontro con Cristo, come figli della disobbedienza e dell'ira divina. Essere, dunque, morti a quel mondo di iniquità allude all'associazione dei neobattezzati alla morte di Cristo, che devono riprodurre nel proprio vivere quotidiano, disconoscendo e respingendo quel mondo da cui essi provenivano. Solo in questo modo essi potranno essere “convivificati, conrisorti e conseduti” con e in Cristo (Rm 6,3-6).

In tal modo i neobattezzati sono chiamati, qui e ora e sempre, ad essere testimoni del capolavoro di grazia, che il Padre ha operato in loro in Cristo e per Cristo, che attesta la gratuità dell'amore di Dio verso l'uomo peccatore, che Paolo evidenzierà in modo magistrale in Rm 5,6.8: “Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. […] Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi

Salvati per grazia, che cosa significa? Un approfondimento necessario (vv.8-10)

Testo

8- Per grazia, infatti, siete salvati per mezzo della fede; e questo non (proviene) da voi, (ma è) dono di Dio;
9- né (viene) dalle opere, affinché qualcuno non si vanti.
10- Siamo, infatti, opera sua, creati in Cristo Gesù, sulle buone opere, che Dio ha preparato, affinché camminassimo in quelle.


Commento ai vv.8-10

Nella precedente pericope (vv.4-7) compare per due volte il termine grazia: la prima volta si sottolinea come la salvezza sia solo grazia (v.5b), cioè un dono che nasce dalla misericordia di Dio; la seconda volta, al v.7b, se ne sottolinea l'abbondanza. Ora, questa pericope in esame, vv.8-10, riprende il tema con la parola aggancio “grazia” cercando di mettere meglio in rilievo l'elemento della gratuità e lo farà attraverso due negazione (vv.8.9), che escludono, e un'affermazione che, invece, attesta (v.10).

La pericope si apre riprendendo per intero il v.5b, lasciando intendere come la questione là annunciata non sia stata ancora esaurita, ma necessita di un'ulteriore approfondimento: “Per grazia, infatti, siete salvati”, precisando subito lo strumento che ha consentito questa salvezza: la fede, cioè dopo aver “ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, nel quale anche (voi) che avete creduto” (1,13). È, dunque, la fede che smuove la grazia, che dà libero accesso alla salvezza. Questa, tuttavia, non dipende dall'uomo, per quanto bravo, intelligente o santo esso sia. L'essere salvati, cioè l'essere resi partecipi della vita stessa di Dio non dipende dall'uomo, ma, proprio perché è grazia, si qualifica soltanto come un dono, cioè un gesto di piena gratuità e liberalità, che è generato dall'amore di Dio, che smuove la sua volontà, la quale determina a nostro favore una sua scelta, che si è attuata in Cristo, a cui si accede per sola fede e non certo per meriti personali, poiché, ricorderà il Gesù lucano, rivolto ai suoi discepoli, “quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10). La salvezza è dono e non dipende dalla nostra bravura né dalla nostra santità, ma dalla gratuita liberalità di Dio.

Se il v.8 tendeva a togliere ogni illusione a chi si sente bravo e santo in seno alla comunità, il v.9 lancia una stoccata al giudaismo e, probabilmente agli stessi giudeocristiani, che non dovevano essere completamente assenti nelle comunità credenti dell'Asia minore: “né (viene) dalle opere, affinché qualcuno non si vanti”. L'allusione è alle “opere della Legge” su cui poggiava l'illusione dei giudeocristiani e contro la quale Paolo non ha usato mezzi termini: “Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge” (Rm 3,28)13. Il riferimento al giudaismo e il suo accostamento con il v.8 al mondo dei pagani non è qui casuale, poiché anticipa in qualche modo la riunificazione delle due realtà in Cristo, tema questo che verrà affrontato subito dopo con la pericope vv.11-18.

Le due negazioni precedenti, vv.8.9, sono servite, da un lato, ad escludere, quanto alla salvezza, qualsiasi merito da parte dell'uomo; dall'altro, qui al v.10, per mettere in rilievo l'unicità di Cristo nell'avercela procurata e come questa si concretizzi nelle opere buone, che il credente deve realizzare in se stesso, quali frutti di questa salvezza che è stata operata in lui.

Se, dunque, la salvezza non dipende in alcun modo dall'uomo, che comunque può constatarla in lui attraverso il suo vivere secondo le logiche del bene e del giusto, cioè dello Spirito, da chi è stata operata, dunque? Sarà il v.10 a dare la risposta, spostando l'attenzione dall'uomo a Cristo. Un versetto che è scandito in due parti: da un lato, presentando l'autore della nostra salvezza Cristo stesso: “Siamo, infatti, opera sua, creati in Cristo Gesù”, lasciando intendere in quel “creati in Cristo Gesù” come il credente sia frutto di una nuova creazione, a cui egli ora appartiene; dall'altro indicando la via della giustizia e del bene, che il credente è chiamato a percorrere per dare un volto concreto a questa salvezza che è stata operata in lui da Cristo.

E che sia Cristo l'autore della nostra salvezza non stupisce, perché già in 1,4 si era detto che il Padre “ci ha scelti in lui prima della creazione del mondo per essere santi e perfetti davanti a lui ne(ll')amore”. L'operazione salvezza in Cristo e per Cristo era già stata, dunque, pensata dal Padre e preannunciata ancor prima della creazione del mondo. Il credente, pertanto, è il frutto di questo progetto divino che ha trovato origine nella mente del Padre, ma che si è attuato e manifestato in Cristo, per cui il credente non solo è opera di Cristo, ma, rivestito di Cristo, deve considerarsi una nuova creazione, nuova creatura, concetto questo che già era apparso in Gal 6,15 e 2Cor5,17.

Ma l'essere nuova creazione in e per Cristo ha delle conseguenze, che sono quelle dell'esserlo veramente nella quotidianità della propria vita, attuando in se stessi quelle “opere buone, che Dio ha preparato”. Quali siano queste opere buone, esse sono indicate nel “vangelo della vostra salvezza” (1,13), che costituisce la via da percorrere perché la salvezza generata da Cristo nel credente, diventi effettiva in lui, producendo un riorientamento esistenziale: dalla carne e le sue logiche a Cristo e alle sue esigenze, per poter accedere a quella salvezza che già vive nel credente, ma che attende di essere attuata nel suo quotidiano vivere concreto. Quindi dal prendere coscienza delle nuove realtà spirituali attuate nel credente da Cristo, deve nascere in lui una nuova morale, cioè un nuovo modo di comportarsi verso Dio, se stesso e gli altri. Da qui l'esigenza dell'autore di questo scritto di far seguire alla sezione teologica/cristologica (1,3-3,21) quella parenetica (4,1-6,17), perché la salvezza operata nel credente da Cristo per mezzo della fede, possa trovare piena manifestazione e attuazione nella quotidianità della sua vita, rifuggendo quei comportamenti che non sono più consoni con il nuovo stato di vita. Siamo, infatti, rigenerati ad una nuova vita e siamo diventati nuove creature ed apparteniamo alla nuova creazione, che si è generata dalla sua morte, in cui è morto il vecchio Adamo, e dalla sua risurrezione in cui si è generata una nuova creazione. A questa il credente appartiene in quanto nuova creatura: “Siamo, infatti, opera sua, creati in Cristo Gesù” (2,10a).

Un ulteriore approfondimento su che cosa significa essere salvati in Cristo e come questi operò la salvezza (vv.11-18)

Testo a lettura facilitata

La contrapposizione tra pagani e giudei (v.11)

11- Pertanto, ricordate(vi) che voi, un tempo, popoli nella carne, detti prepuzio da quella che (è) detta circoncisione ne(lla) carne, fatta da mano (d'uomo),

e la contrapposizione tra pagani e credenti (v.12)

12- poiché, in quel tempo, eravate senza Cristo, privati del diritto di cittadinanza di Israele e estranei ai patti della promessa, non avendo una speranza e senza Dio nel mondo.

La nuova condizione di vita in Cristo (v.13)

13- Ma ora voi in Cristo Gesù che, un tempo, eravate lontani, diveniste vicini nel sangue di Cristo.

Come è avvenuta la pacificazione tra giudei e pagani (vv.14-16)

14- Egli, infatti, è la nostra pace, colui che ha fatto entrambi uno e che ha sciolto il muro di divisione di tramezzo, l'inimicizia, nella sua carne,
15- avendo abrogato la legge delle prescrizioni nei decreti, per edificare in se stesso i due in un uomo nuovo, facendo pace
16- e per riconciliare a Dio l'un l'altro in un corpo per mezzo della croce, uccidendo l'inimicizia in se stesso.

La rivelazione dell'avvenuta riconciliazione di tutti nell'unico e comune Cristo (vv.17-18)

17- E giunto, annunciò lietamente pace a voi, i lontani, e pace ai vicini;
18- poiché per mezzo di lui, gli uni e gli altri, abbiamo accesso, in uno Spirito, al Padre.


Note generali

Con i vv.8.9 l'autore aveva sottolineato come la salvezza fosse un atto di misericordia liberale e gratuito, cioè una grazia, un dono divino che ha interpellato e coinvolto sia il mondo dei pagani (v.8), sia quello dei giudei (v.9), indipendentemente dai meriti di ciascuna di queste due realtà, perché, affermava Paolo in Rm 3,23, a conclusione di un lungo ragionamento (1,18-3,28), “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, poiché “la Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo” (Gal 3,22). Tutti dunque posti in egual modo sullo stesso piano di fronte a Cristo, perché tutti, in egual modo, ricevessero la salvezza attraverso l'unico e comune strumento della fede nell'unico e comune Cristo.

Le precedenti condizioni di vita sia del giudaismo che del paganesimo vengono, quindi, disciolte in Cristo e tutto ciò che impediva di comunicare tra loro viene in lui radicalmente distrutto, così che i due, prima così lontani e tra loro nemici, sono diventati un unico popolo, un'unica realtà in Cristo, una nuova creatura, “Siamo, infatti, opera sua, creati in Cristo Gesù”, così che 2Cor 5,17, parafrasando e sviluppando il pensiero di Is 49,19 e rileggendolo in prospettiva cristologica, spiegherà come “Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove”.

La contrapposizione tra giudei e pagani, che si rifletteva anche all'interno delle comunità credenti, tra giudeocristiani ed etnocristiani, trova in questa pericope la soluzione cristologica, che ho qui scandita in cinque passaggi:

  1. La contrapposizione tra giudei e pagani (v.11);

  2. e la contrapposizione tra pagani e credenti (v.12);

  3. La nuova condizione di vita in Cristo (v.13);

  4. Come è avvenuta la pacificazione tra giudei e pagani (vv.14-16);

  5. La rivelazione dell'avvenuta riconciliazione di tutti nell'unico e comune Cristo (vv.17-18).


Ci troviamo di fronte ad una pericope che sembra voler richiamare gli etnocristiani, sicuramente la maggioranza in queste comunità dell'Asia minore, al rispetto e ad una convivenza civile con i piccoli gruppi di giudeocristiani, probabilmente giudaizzanti, cioè ancora legati alla Legge mosaica e che tendevano a reinterpretare la loro nuova fede in questa prospettiva. Comportamenti questi che probabilmente davano adito agli etnocristiani di sentirsi loro superiori (Rm 14,1-13), forse perché i giudeocristiani erano ancora troppo attenti alla legge della purità, ai cibi, alle festività ebraiche e ad altre ritualità quotidiane del tutto incomprensibili per gli etnocristiani e che guardavano probabilmente con un senso di sufficienza e probabilmente di disprezzo.

Ed è così che l'autore dello scritto cerca di togliere con questa pericope ogni senso di superiorità agli etnocristiani nei confronti dei giudeocristiani, mettendo in rilievo come al tempo in cui essi erano solo pagani non possedevano nessun beneficio spirituale di cui, invece, già godevano presso Dio i giudei, eredi della promessa, vincolati a Dio dall'Alleanza; ma nel contempo essi erano anche privi di ogni speranza e senza Dio. Nessuna superiorità, quindi, nei confronti dei giudeocristiani giudaizzanti, che comunque provenivano da una storia e da una tradizione, che affondavano le loro radici in Dio stesso, considerato padre di Israele (Tb 13,4b; Is 63,16; 64,7), che lo ha generato nel suo amore (Es 7,6-8), definendolo sua proprietà, nazione santa e regno di sacerdoti (Es 19,5-6). Mentre loro, i pagani, da cui provenivano gli etnocristiani, all'epoca del loro paganesimo, erano soltanto “figli della disobbedienza” (v.2c) e dell'ira divina (3,b), che vivevano seguendo le logiche della carne (v.3a). Dove sta, quindi, la loro superiorità?

E comunque sia, ora, sono tutti accomunati e unificati dall'unica fede nell'unico e comune Cristo, che dei due popoli, prima tra loro contrapposti e incomunicanti, ne ha fatti uno soltanto in Cristo.

Commento ai vv.11-18

La contrapposizione tra pagani e giudei …. (v.11)

Il v.11 si richiama alle due categorie di cristiani presenti in tutte le comunità credenti, caratterizzate dalla loro provenienza. I personaggi che qui l'autore chiama in causa non sono i giudeocristiani, ma “voi”, cioè i pagani, definiti, richiamandosi ai vv.2-3, come “popoli nella carne”, cioè che vivevano secondo le logiche della carne e privi, quindi, di ogni moralità, perché privi di Dio, anzi a Lui ribelli, in quanto “figli della disobbedienza” (v.2c) e dell'ira divina (v.3b). L'elemento di separazione e di contrasto tra i due gruppi, giudei e pagani, era la circoncisione. I pagani erano definiti dai giudei circoncisi come “prepuzio”14, cioè coloro che non erano stati circoncisi e, quindi, non facendo parte dei figli di Abramo, non erano eredi della promessa ed erano destinati alla perdizione.

L'importanza della circoncisione, molto diffusa tra i popoli nomadi per una mera questione igienica, era stata caricata di un significato sacro e religioso, a cui Dio aveva legato la sua alleanza e la sua promessa fatta ad Abramo e a tutti i suoi discendenti, caratterizzati tutti dalla circoncisione: il segno sacro imposto nella carne di ogni ebreo, che lo legava a Dio e alla sua promessa e lo qualificava quale appartenente al popolo d'Israele: “Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. Darò a te e alla tua discendenza dopo di te il paese dove sei straniero, tutto il paese di Canaan in possesso perenne; sarò il vostro Dio. Disse Dio ad Abramo: <<Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione. Questa è la mia alleanza che dovete osservare, alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra di voi ogni maschio. Vi lascerete circoncidere la carne del vostro membro e ciò sarà il segno dell'alleanza tra me e voi>>” (Gen 17,7-11).

In questo contesto l'essere chiamati “prepuzio”, cioè non circoncisi, significava essere esclusi dal ciclo della salvezza a cui invece erano legati i circoncisi. Si noti la finezza dell'autore di questo scritto là dove definisce la circoncisione nella carne come “fatta da mano d'uomo”, lasciando intendere come vi possa essere anche un altro tipo di circoncisione, quella del cuore o dello spirito. Una lieve ed implicita polemica di stampo paolino, che lascia intravvedere come il nostro autore fosse ben addentro alle lettere di Paolo e ne conoscesse bene il senso: “Infatti, Giudeo non è chi appare tale all'esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini ma da Dio” (Rm 2,28-29).

. e la contrapposizione tra pagani e credenti (v.12)

Se il v.11 era finalizzato a porre in evidenza la diversità tra etnocristiani e giudeocristiani in senso perdente per gli etnocristiani, il v.12 rileva l'ulteriore inferiorità dei pagani nei confronti non solo dei giudei, poiché non essendo circoncisi non avevano diritto di cittadinanza in Israele e totalmente esclusi dall'alleanza con Dio e dalle promesse, ma altresì esclusi dalle comunità credenti, fondate sulla fede in Cristo: “eravate senza Cristo” e di conseguenza privi di ogni speranza di salvezza e privi di un qualsiasi riferimento divino, se non la propria carne: “non avendo una speranza e senza Dio nel mondo”. In ultima analisi, privi di una qualsiasi identità religiosa e completamente sprovveduti di ogni paternità spirituale e racchiusi nel loro mondo di carne, per questo privi di ogni speranza, che li potesse risollevare da un presente, che li teneva incatenati soltanto alle logiche della carne, le quali toglievano loro ogni senso al proprio esistere.

La nuova condizione di vita in Cristo (v.13)

Una situazione, dunque, difficile e disperata per i pagani, senza prospettive di salvezza e senza futuro, perché senza speranza, racchiusi in un presente che li teneva prigionieri nelle loro logiche terrene e incapaci di comprendere il senso del loro vivere e delle realtà delle cose, poiché il senso delle cose e della proprio vivere li trascende. “Ma ora voi”, con questa contrapposizione radicale alla condizione dei pagani delineata ai vv.11-12, si apre ora il v.13 che apre il mondo pagano, credente “in Cristo Gesù” e proprio perché in lui credente, ad una nuova prospettiva e ad un nuovo orizzonte che dà loro un nuovo senso al loro esistere e alle cose che lo circonda.

Il contrasto tra il prima e il dopo viene qui sottolineato da quel “voi” che assume qui una nuova identità, quella di credenti in Cristo Gesù, così che ciò che essi erano “un tempo”, il prima di conoscere Cristo, viene qui definito con l'aggettivo sostantivato “lontani”, che dice la condizione esistenziale in cui si collocavano sia rispetto ai giudei che ai credenti in Cristo, in ultima analisi rispetto alla salvezza. A questa situazione del “prima” l'autore accosta adesso la condizione di “ora” che sono diventati credenti in Cristo, per grazia e non per merito (vv.8-9), così che anche le loro esistenze si sono riqualificate e vengono qui definite con un altro aggettivo sostantivato, che li riposiziona esattamente all'opposto: “diveniste vicini”, dove quel “diveniste” dice il processo di conversione e di trasformazione che li ha associati a Dio (1,13-14), divenendone suoi familiari e concittadini dei santi (v.19).

Strumento di questo riscatto, che già era stato preannunciato in 1,7, è il sangue di Cristo, il cui valore e il cui significato erano già stati prefigurati nel sangue dell'agnello, la cui funzione non fu solo quella di espiare i peccati del popolo (Lv 16,7-10.20-22), ma divenne, ancor prima, anche uno strumento di identificazione del popolo, che Dio si scelse in quella notte in cui passò l'angelo sterminatore. Un sangue, quindi, che non solo li salvò dallo sterminio, ma li individuò anche come popolo di Dio (Es 12,22-23), che ricevette ai piedi del Sinai una sua nuova identità, legata all'osservanza dell'Alleanza: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6).

Come è avvenuta la pacificazione tra giudei e pagani (vv.14-16)

Se il v.13 attestava come i pagani e giudei si sono avvicinati tra loro attraverso il sangue di Cristo, questa pericope, vv.14-16, ne spiega la dinamica addentrandosi in essa.

Centrale in questo processo di riavvicinamento e di riconciliazione universale è Cristo stesso, definito “nostra pace” al v.14; poi come “colui che fa da paciere” rappacificando in se stesso giudei e pagani (v.15). Una pacificazione, in ultima analisi, dell'intera umanità, considerato che il mondo per il giudaismo era diviso in due parti: i giudei e i pagani. Una pacificazione che è avvenuta creando nell'unico corpo di Cristo, dei due popoli, quello del giudaismo e quello del paganesimo, un unico popolo, caratterizzato dalla comune ed unica fede in Cristo. Una unicità che verrà rimarcata in 4,4-6a, dove si insisterà per ben sette volte sul concetto di “uno” (eŒj, eîs): “Un corpo e uno spirito, come foste anche chiamati in una speranza, (quella) della vostra chiamata; un Signore, una fede, un battesimo, un Dio e Padre di tutti, che (è) sopra tutti” e dove ogni diversità viene appianata.

Questa pacificazione e ricomposizione dell'intera umanità in Cristo, tuttavia, non è fine a se stessa, ma è finalizzata alla riconciliazione con Dio, così che Dio torni ad essere nuovamente tutto in tutti, così come lo fu nei primordi della creazione e dell'umanità (1Cor 15,28), allorché tutto era ancora incandescente di Dio.

Strumento di questa riunificazione è la croce stessa di Cristo, sulla quale egli non portò soltanto i suo corpo, ma con esso e in esso l'intera umanità decaduta (Rm 6,6) e con questa, per un principio di solidarietà che lega entrambe, anche la creazione decaduta con l'uomo15. Gv 12,32 ricorderà questo momento fondamentale della salvezza: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”, dove quel “elevato da terra” (Øywqî, ipsotzô) assume nel linguaggio giovanneo il doppio senso di “elevato sulla croce” (Gv 12,33) e di risurrezione, che “eleva” Gesù dalla terra al Padre, da dove è uscito (Gv 16,28).

I tre versetti in analisi, vv.14-16, sono tra loro concatenati e costituiscono un progressivo sviluppo dell'azione rappacificatrice di Cristo:

  1. il v.14 attesta che Cristo è la nostra pace e ne spiega il motivo: perché in lui è venuta a cadere ogni divisione e ogni inimicizia non solo all'interno dell'umanità, ma, come meglio si vedrà al v.16, anche tra l'umanità e Dio, racchiusa all'interno di una Legge, che continua a generare dottrine e precetti, che anziché avvicinarla a Dio, la isolava e la isola in se stessa (Mt 15,9; Mc 7,7-9);

  2. il v.15 definisce gli elementi di separazione e di inimicizia, che non solo dividevano, ma anche contrapponevano i due popoli: la Legge mosaica con tutte le sue innumerevoli prescrizioni, che ritualizzavano la vita quotidiana dei pii giudei, ma che Mt 23,4a aveva stigmatizzato come pesanti e insostenibili fardelli che venivano legati sulle spalle della gente dagli scribi e farisei, che neppure loro erano in grado di portare. Tutto questo, ora, viene abrogato nella carne di Cristo, il quale è “nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge” (Gal 4,4-5), togliendo in tal modo l'elemento di separazione e di contrapposizione che si frapponeva tra giudei e pagani. Si viene in tal modo a costituire una nuova umanità non più discriminata, che ritroverà in Cristo la sua nuova identità, rappacificata e riunificata per mezzo dell'unica e comune fede nell'unico e comune Cristo;

  3. il v.16 presenta la finalità di questa rappacificazione universale, che in qualche modo era già stata anticipata in 1,10b: riconciliare l'intera umanità, spogliata di ogni sua precedente identità e rigenerata e ricostituita in Cristo, per essere in lui, con lui e per lui riconciliata, e con essa l'intera creazione, con il Padre. Anche qui vengono ripresi i vv.13 e 1,7, sottolineando la centralità della croce quale strumento di distruzione di quanto c'era fino a Cristo, per “ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle nei cieli e quelle sulla terra in lui” (1,10b), costituendo in lui una nuova creazione.

La rivelazione dell'avvenuta riconciliazione di tutti nell'unico e comune Cristo (vv.17-18)

L'evento salvifico della rappacificazione degli uomini tra loro e della loro riconciliazione con Dio ha assunto la sua forma storica in Cristo, divenuto non solo il luogo comune dell'incontro e della riconciliazione dell'intera umanità con Dio, ma anche la rivelazione di questa pace fatta tra gli uomini e Dio e degli uomini tra di loro. Una rivelazione che è avvenuta attraverso un lieto annuncio, cioè attraverso il vangelo, che lieto annuncio è. Non a caso l'autore usa il verbo “eÙhggel…sato” (euenghelísato, annunciò lietamente) da cui deriva poi il sostantivo “eÙaggšlion” (euanghélion, lieto annuncio). Un lieto annuncio che avvenne “dopo essere giunto” (™lqën, eltzón), espressione verbale con cui si allude alla sua incarnazione, che dice il Dio che è tornato in mezzo agli uomini, rendendosi storicamente raggiungibile da loro, facendosi in quella carne corrotta dal peccato solidale con loro, facendo così esperienza della condizione di decadimento umano. Un annuncio rivolto sia ai lontani che ai vicini, cioè sia ai pagani che ai giudei, perché tutti, cioè l'intera umanità, possano nuovamente ritornare al Padre, nuovamente ricomposti e rigenerati dallo e nello Spirito, così com'erano nei loro primordi, così che Dio possa essere nuovamente tutto in tutti e possa nuovamente constatare, come nei primordi della prima creazione, la sua nuova creazione in Cristo: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31) e in tal modo ricondurre tutto e tutti nel settimo giorno della sua eternità divina, da dove era partito il progetto della sua salvezza, allorché Egli, il Padre, nel suo Figlio “ci ha scelti in lui prima della creazione del mondo per essere santi e perfetti davanti a lui ne(ll')amore, avendoci predestinati a(ll')adozione a figli per se stesso, per mezzo di Gesù Cristo, secondo il desiderio della sua volontà, a lode de(lla) gloria della sua grazia, di cui ci ha riempito nel (suo Figlio) diletto”.

Le conseguenza di questa azione salvifica del Padre operata per mezzo di Cristo (vv.19-22).

Testo

19- Pertanto, dunque, non siete più estranei e stranieri, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio,
20- edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo pietra angolare lo stesso Cristo Gesù,
21- in cui ogni costruzione cresce disposta ordinatamente per un tempio santo ne(l) Signore,
22- in cui anche voi foste concostruiti per (diventare) dimora di Dio ne(llo) Spirito.

Commento ai vv.19-22

La divisione dell'umanità, che vedeva contrapposti i giudei ai pagani ed aveva come elemento di separazione la Legge mosaica con tutte le sue prescrizioni e ritualità, è stata disciolta in Cristo attraverso la sua morte, così che ogni parte, liberata dalla sua vecchia identità, giudaica e pagana, viene rigenerata e rinnovata in Cristo per mezzo della potenza del suo Spirito, che genera un nuovo popolo, caratterizzato da una comune identità, quella dell'unica e comune fede nell'unico e comune Cristo, visto come lo strumento rappacificatore dell'umanità e sacramento di riconciliazione e d'incontro tra l'umanità e il Padre. Ed è di questa nuova realtà, che è venuta a costituirsi in Cristo, che parlano questi ultimi quattro versetti del cap.2.

Per la prima volta questa “nuova realtà” generata da Cristo per la potenza della Spirito Santo, assume qui un volto nuovo, quello di una comunità che l'autore vede, da un lato, come costituita non più da membri stranieri ed estranei tra di loro, come erano prima i giudei e i pagani, ma come “concittadini dei santi e familiari di Dio” (v.19). Due definizioni che richiamano in quel “concittadini” il concetto di una nuova città, di una nuova Gerusalemme, che Giovanni contemplerà nella sua Ap 21,2.10, dove ha dimora Dio; sia, in quel “familiari di Dio”, che rimanda al concetto di famiglia in cui Dio è Padre di tutti (Gv 20,17b), realizzando in tal modo quel progetto salvifico, che ci voleva figli nel Figlio (1,5), ma che dice nel contempo come questa nuova umanità sia stata resa partecipe della vita stessa di Dio, possedendone in qualche modo il DNA nel Figlio; dall'altro, questa nuova realtà, viene colta come un “tempio santo” dove dimora perpetua la presenza di Dio in mezzo agli uomini (Gv 14,23; Ap 21,3) e quindi luogo d'incontro tra Dio e gli uomini, luogo di accesso alla sua eternità.

Una comunità, tuttavia, che avendo consistenza storica ha anche una sua struttura organizzativa, che qui viene descritta nella sua schematica essenzialità: apostoli e profeti, due figure che facevano parte dei primissimi ministeri che animavano le prime comunità credenti e che avevano a che vedere con gli aspetti dottrinali e di governo della comunità i primi, e di annuncio e catechesi i secondi e che meglio vedremo nel nostro commento a 4,11; mentre i membri di questa nuova umanità credente sono colti come una realtà nuova, appositamente generata per diventare (v.22), ciascuno in se stesso e con gli altri, la nuova dimora vivente di Dio in mezzo agli uomini, dove opera incessantemente l'azione dello Spirito, che non solo illumina e sostiene questa nuova realtà, ma continuamente la genera e rigenera in Cristo, che è qui visto quaale fondamento unico ed esclusivo di questa nuova umanità, che si raduna e si riconosce in lui e dove quel “crescere disposta ordinatamente”, dice come tutti i suoi membri devono conformarsi alle esigenze di questa Pietra Viva e Vivente, divenendone il riflesso.

Un'immagine, questa del tempio formato dai membri vivi di questa nuova umanità, che ritroviamo sostanzialmente identica in 1Pt 2,4-5: “Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo”.

Viene qui dunque delineata, per la prima volta, il concetto di comunità credente, che assumerà il volto di Chiesa universale. Un concetto di Chiesa, comunque, che era in qualche modo già comparso in 1,22-23 sia pur sotto altra forma, dove si parla di Cristo capo della Chiesa, che è il suo corpo. Un po' alla volta l'autore costruisce con questo scritto l'immagine della Chiesa, la sua identità e le sue finalità, facendone non soltanto una struttura storica, ma svelando in questa la dimensione divina che essa incarna. Una Chiesa che si rifletterà anche nella stessa struttura familiare, che ne è in qualche modo sua immagine.


Dalla contemplazione della salvezza operata nella comunità credente (2,1-22) e nella missione di Paolo (3,2-13) 

alla preghiera di supplica che si trasforma in dossologia (3,1.14-21)



Testo a lettura facilitata (3,1-21)

Un'introduzione sospesa per dare spazio ad un'ulteriore contemplazione (v.1)

1- A motivo di ciò io Paolo, l'incatenato di Cristo [Gesù], per voi genti ….

La contemplazione dell'opera salvifica nella missione di Paolo (vv.2-13)

2- giacché appunto udiste dell'economia della grazia di Dio che mi è stata data per voi,
3- poiché per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero, come scrissi sopra in breve,

4- Per questo, avendo letto, poteste comprendere la mia intelligenza nel mistero di Cristo,
5- che non fu fatto conoscere alle altre generazioni, ai figli degli uomini, come ora fu rivelato ai suoi santi apostoli e ai profeti nello Spirito,
6- che le genti sono coeredi e membra dello stesso corpo e compartecipi della promessa in Cristo Gesù per mezzo del vangelo,
7- di cui fui fatto ministro secondo il dono della grazia di Dio che mi fu data, secondo l'opera della sua potenza.
8- a me, il più piccolo di tutti i santi, mi fu data questa grazia: che sia annunciata alle genti l'imperscrutabile ricchezza di Cristo
9- e illuminare tutti, quale (sia) l'economia del mistero nascosto da secoli in Dio, che creò tutte le cose,
10- affinché sia fatta conoscere ora ai principati e alle potestà nei cieli la multiforme sapienza di Dio per mezzo della chiesa,
11- secondo (la) deliberazione dei secoli, che (il Padre) operò in Cristo Gesù nostro Signore,
12- in cui abbiamo la libertà di esprimerci e l'accesso (a Dio) con fiducia per mezzo della fede in lui.
13- Perciò (vi) chiedo di non trascurar(vi) in mezzo alle mie sofferenze per voi, che è vostra gloria.

La supplica perché l'opera salvifica di Cristo porti frutti nella comunità credente (vv.14-19)

14- A motivo di ciò piego le mie ginocchia davanti al Padre,
15- dal quale ogni stirpe nei cieli e sulla terra riceve nome,
16- affinché vi dia secondo la ricchezza della sua gloria di essere fortificati con vigore per mezzo del suo Spirito nell'uomo interiore,
17- (e di) abitare Cristo per mezzo della fede nei vostri cuori, radicati e fondati ne(ll')amore,
18- affinché possiate comprendere con tutti i santi quale (sia) l'ampiezza e (la) lunghezza e (l')altezza e (la) profondità,
19- e (possiate) conoscere lo straordinario amore della conoscenza di Cristo, affinché siate riempiti di ogni pienezza di Dio.

La contemplazione della salvezza operata da Cristo si fa inno di lode e di ringraziamento (vv.20-21)

20- A colui che sopra tutte le cose può fare in modo più sovrabbondante di quelle cose che chiediamo o pensiamo, secondo la potenza che opera in noi,
21- a Lui la gloria nella chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni del secolo (e) dei secoli, amen.


Note generali

La contemplazione dell'opera salvifica, pensata dal Padre ancor prima della creazione del mondo e compiuta in e per mezzo di Cristo con la potenza dello Spirito Santo è stata oggetto di questa prima parte di questo scritto, che definisco più che sezione dottrinale, non essendoci aspetti dottrinali da considerare se non di riflesso o impliciti, ma l'intento dell'autore non era questo, come sezione teologica/cristologica/pneumatologica. Una contemplazione che si apre con un inno, dove si celebra l'azione salvifica dei Tre a favore della comunità credente (1,3-14) e che si conclude con una preghiera di illuminazione posta sui neobattezzati, perché possano conoscere e contemplare le profondità di questa opera salvifica operata in loro (1,15-23).

La contemplazione dell'opera salvifica celebrata nell'inno, ben lungi dall'essersi esaurita, prosegue con il cap.2, che analizza nel concreto in che cosa questa sia consistita e come questa si sia attuata all'interno dell'umanità, riunificata sotto l'egida dell'unica e comune fede nell'unico e comune Cristo (2,11-18), in cui la comunità credente ha da riconoscersi quale “opera sua” (v.2,10a) e grazie alla quale tutti i credenti, indistintamente, sono divenuti “concittadini dei santi e familiari di Dio” e facenti parte, quali pietre vive di un unico Tempio, che ha la sua pietra angolare in Cristo stesso (2,19-22).

Nell'ambito di questa contemplazione e celebrazione dell'opera soteriologica e prima di concluderla, l'autore riserva un'attenzione particolare alla missione di Paolo (vv.3,2-13), che ha dato forma e sostanza storica a quest'opera, indirizzata in modo particolare ai pagani, da cui provengono questi neobattezzati dell'Asia minore, rilevando come la missione di Paolo facesse parte integrante di questo piano di salvezza universale (3,7).

Soltanto a questo punto, dopo aver contemplato, analizzato e celebrato quest'opera salvifica in ogni suo aspetto, divino, umano e storico, l'autore, parallelamente al cap.1,15-23, chiude questa sua contemplazione con una preghiera (3,14-21), che a differenza della precedente (1,15-23) non è più di richiesta di illuminazione per la comprensione dell'opera salvifica, in cui erano stati coinvolti i neobattezzati, ma di prendere coscienza della grandiosità del progetto salvifico, ideato dal Padre ancor prima della creazione del mondo (1,4a), in cui sono stati coinvolti non solo i neobattezzati, ma ogni credente e l'intera umanità, alla quale è stata data la possibilità di rispondere positivamente alla proposta salvifica del Padre, attuatasi e manifestatasi nel suo Figlio, Gesù, il Cristo, grazie anche alla missione di Paolo, che di questa opera ed operazione di salvezza faceva parte (3,7).

L'intera sezione teologica-cristologica-pneumatologica (1,3-3,19) si chiude con una naturale dossologia (3,20-21), che nasce spontanea dopo un'approfondita contemplazione e comprensione, sotto ogni suo aspetto, dell'opera salvifica del Padre, che diviene una sua glorificazione, così come avvenne per la trilogia Rm 9-11, in cui Paolo va alla ricerca del motivo del fallimento di Israele nell'ambito della storia della salvezza e, compreso che esso era necessario perché la salvezza venisse estesa anche al mondo dei pagani, ma che alla fine dei tempi anche Israele sarebbe stato salvato, esplode in quella lunga dossologia di Rm 33-36, quasi un inno di lode e di ringraziamento per la sapienza del Padre che ha saputo progettare e operare una simile storia di salvezza, dando forse un po' di pace all'animo tormentato di Paolo, che non si dava pace (Rm 9,1-2) al pensiero che il suo popolo, Israele, benché avesse ogni bene spirituale, quali l'Alleanza, la Torah, la Promessa e l'insegnamento dei profeti, non è riuscito a riconoscere in Gesù il Cristo atteso e il Figlio di Dio, mandato dal Padre (Gv 1,11).

La struttura del cap.3 si snoda essenzialmente in quattro parti, che già sono state anticipate nella sezione della “Testo a lettura facilitata”:

  1. Un'introduzione sospesa per dare spazio ad un'ulteriore contemplazione (v.1);

  2. La contemplazione dell'opera salvifica nella missione di Paolo (vv.2-13);

  3. La supplica perché l'opera salvifica di Cristo porti frutti nella comunità credente (vv.14-19);

  4. La contemplazione della salvezza operata da Cristo si fa inno di lode e di ringraziamento (vv.20-21).


Commento ai vv.3,1-21

Un'introduzione sospesa per dare spazio ad un'ulteriore contemplazione (v.1)

Il cap.3 si apre con l'espressione “ToÚtou c£rin” (tútu cárin, a motivo di ciò, a causa di ciò, per questo), dove il “ciò/questo” fa riferimento all'azione salvifica operatasi nell'umanità e che l'autore ha contemplato nel cap.2. È, infatti, da questa contemplazione che sgorga spontanea una preghiera, qui in 3,1, che la introduce, così come in 1,15, dove parimenti viene introdotta una identica preghiera, che fa seguito anche questa alla contemplazione dell'opera salvifica celebrata nell'inno soteriologico (1,3-14) e contemplata nei neobattezzati (1,15-23), con cui si apre questo scritto. Tuttavia, benché i due contesti siano sostanzialmente identici, l'introduzione alla preghiera in 1,15 si apre con un semplice “Di¦ toàto” (Dià tûtu, Per questo, a motivo o a causa di ciò), spiegando il motivo per cui si dà spazio alla preghiera; mentre qui, in 3,1, l'espressione, benché usata nel medesimo contesto e nello stesso senso, cioè spiegare i motivi della preghiera che seguirà in 3,14-19, cambia sostanzialmente: non più “Di¦ toàto”, bensì “ToÚtou c£rin” (tútu cárin, a causa di ciò, a motivo di questo o per questo). Come si può rilevare il significato è identico a “Di¦ toàto”, ma qui compare un nuovo termine “c£rin” (cárin), che posto all'accusativo e fatto seguire da un genitivo assume il significato di causa, ma che significa, nell'uso normale e corrente del termine, anche “grazia”. Ed è proprio per questo suo significato che per l'autore era importante che questo termine comparisse in apertura di questo cap.3, preannunciando in tal modo come la missione di Paolo, che occuperà la pericope immediatamente seguente 3,2-13, vada letta e compresa come un'azione di grazia operata da Dio stesso. Il termine “c£rij” (cáris, grazia) comparirà nella pericope riservata a Paolo per ben tre volte e descrive il senso della missione di Paolo, in cui agisce Dio stesso, la cui opera è significata in “grazia”.

L'autore si presenta qui, per la prima volta, come “l'incatenato di Cristo”16, espressione questa che comparirà molto simile anche in 4,1: “l'incatenato nel Signore”. Come comprendere questa attestazione, considerato che questo scritto non è di Paolo? Perché, poi, l'autore avrebbe dovuto prendere la figura del Paolo prigioniero e incatenato per rappresentarsi? Due le possibili ipotesi: l'autore, alla pari di Paolo, si trova in uno stato di prigionia a motivo della sua fede e della sua attività apostolica, la mia ipotesi, infatti, è che questo autore fosse un vescovo, cioè un responsabile o di comunità o di più comunità nell'Asia minore. Se così fosse, questo spiegherebbe perché in 1,15 l'autore “ha solo sentito” parlare della fede dei neobattezzati, ai quali indirizza il presente scritto, ma non l'ha potuta constatare di persona; la seconda ipotesi, ragionando sulla seconda annotazione, “l'incatenato nel Signore”, espressione quest'ultima che compare soltanto qui in tutte le lettere di Paolo o paoline, l'autore si senta profondamente vincolato al Signore a motivo non solo della sua fede in lui, ma altresì per la sua missione, che come quella di Paolo è interamente dedicata ai pagani. Quindi il senso in questo caso è soltanto metaforico. Tuttavia, un senso non esclude l'altro e, pertanto, possono essere considerati entrambi.

Giunto a tal punto, l'autore, anziché introdurre subito, come in 1,15, la preghiera di invocazione sulla comunità credente, cosa che farà in 3,14-19, posticipandola, si ferma e crea una pausa dove inserisce, quasi per inciso e quasi se ne fosse ricordato all'ultimo istante con quel “incatenato per voi”, la figura di Paolo, presentandola ai neobattezzati, i quali, a quanto sembra, non hanno mai conosciuto Paolo se non per sentito dire (“udiste”), come in una sorta di ricordo ormai lontano nel tempo. Ma diventa, altresì, per l'autore, motivo di un'ulteriore contemplazione dell'opera salvifica del Padre, che di Paolo si è servito per poterne dare sviluppo storico a favore del mondo dei pagani, da cui provengono non solo i neobattezzati, bensì anche le comunità dell'Asia minore, di cui Efeso è la capitale.

La contemplazione dell'opera salvifica nella missione di Paolo (vv.2-13)

Note generali

La pericope in esame è delimitata dall'inclusione data per complementarietà tematica, là dove, al v.1, si parla di Paolo incatenato per “voi genti” e al v.13 si sollecita a non angustiarsi per le sofferenze sopportate per “voi”, sofferenze che, invece, devono costituire motivo di vanto per “voi”. All'interno di questo contesto di sofferenza, causata in Paolo dalla missione per le genti, va colta la dinamica stessa della missione di Paolo, in cui opera la grazia, che meglio viene specificata come il dispiegarsi storico dell'azione salvifica di Dio, che opera in e per mezzo di Paolo a favore di “voi genti”, per le quali Paolo sta spendendo la sua vita, posta a servizio di Dio. Una missione le cui indicibili sofferenze Paolo enumera in 2Cor 11,23-28 e lascia intravvedere in Rm 8,35-36.

Per tre volte, quasi in modo ossessivo, ricorre il termine “grazia”, che, man mano lo scritto procede, assume significati diversi e, via via, sempre più esplicativi, fino ad addentraci nel senso più vero e profondo della missione di Paolo, strettamente legata al progetto salvifico, che era stato preannunciato in 1,4-6, così che:

Centrale in questo triplo passaggio della “grazia” è la figura di Paolo, attorno a cui gira l'intero progetto salvifico del Padre, per quanto esso attiene al suo attuarsi storico, che prevede l'annuncio del Vangelo, la sua accoglienza nel credente, costituito in comunità credenti, che sono la Chiesa, quale elemento di aggregazione dell'intera umanità per ricondurla al Padre, da cui era drammaticamente fuoriuscita nei suoi primordi (Gen 3,15-24).

Commento ai vv.2-13

Il richiamo del “Paolo incatenato per voi” (v.1) spinge l'autore a fare una pausa per spiegare ai neobattezzati, provenienti dal mondo pagano e ai quali è rivolto questo scritto, chi era Paolo, della cui missione “udiste”. L'uso qui di un aoristo assoluto (ºkoÚsate, ecúsate, udiste), corrispondente sostanzialmente al nostro passato remoto, dice un'azione puntuale nel tempo e in esso racchiusa e, quindi, che non può più raggiungere il presente se non sotto forma di ricordo di un passato che non c'è più e che i neobattezzati non hanno mai vissuto. Un elemento in più, questo che dice come questo scritto non sia di Paolo, ma di un autore, probabilmente un vescovo, che vede la sua vita e la sua attività apostolica affini a quelle di Paolo.

Ciò che i neobattezzati “udirono” è l' “economia della grazia di Dio che mi è stata data per voi”. Il termine “o„konom…an” (oikonomían), che letteralmente significa “direzione, amministrazione della casa o degli affari domestici”, ho preferito tradurlo con “economia”, poiché il termine dà il senso di una gestione complessa di più attività coordinate tra loro e finalizzate al raggiungimento di un obiettivo e che ha come oggetto, su cui si sviluppa l'intera economia, il progetto salvifico del Padre, che si pone ancor prima della creazione del mondo e che si è attuato in Cristo (1,4), ma che vede ora in Paolo e nella Chiesa il suo sviluppo storico. La complessa gestione di tale progetto, che qui l'autore definisce come “economia della grazia”, dice come questo si fondi sulla grazia, che è l'azione misericordiosa di Dio a favore dell'uomo decaduto (2,8) e più precisamente, in questo contesto, “per voi”, dove il voi si riferisce ai neobattezzati, provenienti dal mondo pagano.

Il v.3 spiega l'origine del coinvolgimento di Paolo in questa “economia della grazia”: “per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero”. Punto di forza della missione di Paolo è la stessa origine divina della sua missione, che è prevista in questa “economia della grazia” e che Paolo afferma con forza in Gal 1,1: “Paolo apostolo non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti”. Ma non fu soltanto l'apostolato di Paolo di origine divina, ma anche la sua stessa chiamata, che, sulla falsariga dei profeti, egli vede attuata “fin dal seno materno” (Gal 1,15), così come il suo Vangelo non fu appreso dagli uomini, ma da Dio stesso (Gal 1,11-12), che gli ha rivelato il Mistero del suo Figlio (Gal 1,16).

Quel progetto, dunque, che il Padre ha pensato fin dall'eternità e che costituisce il mistero, cioè un progetto che era nascosto nel Padre, ma che è stato attuato e manifestato in Cristo, questo mistero è stato rivelato a Paolo direttamente da Dio. Un mistero di cui Paolo ha già parlato: “come scrissi sopra in breve”. Il riferimento è al cap.2 in generale e in particolare ai vv.2,11-22, che sinteticamente verranno ripresi in 3,6.

Paolo, dunque, si richiama a quanto aveva scritto nel cap.2 circa questo progetto di salvezza, che gli era stato rivelato, e lo presenta ai neobattezzati quale esempio e prova della sua comprensione del mistero (v.4), che egli legge come una rivelazione personale fattagli in esclusiva (v.5), un dono di grazia: “Per questo, avendo letto, poteste comprendere la mia intelligenza nel mistero di Cristo”; un dono di grazia che non venne elargito a nessuno fin a quel momento, ma che è stato riservato soltanto “ai santi apostoli e profeti”. Le figure qui richiamate fanno parte non di ministeri presenti nella comunità credente (4,11), ma ai primi seguaci di Gesù e agli antichi profeti, che in qualche modo lo preannunciarono. Lo si può arguire da quel “santi”, a cui vengono associate le due figure, che in tal modo vengono venerate e considerate facenti parte dell'alea divina. A queste figure Paolo associa se stesso al v.8, minimizzando la sua figura in quanto egli fu un persecutore della chiesa di Dio.

Paolo parla al v.4b della sua intelligenza nella comprensione del “mistero di Cristo”, per il quale rimanda a quanto detto al cap.2, che viene richiamato sinteticamente dal v.6: “che le genti sono coeredi e membra dello stesso corpo e compartecipi della promessa in Cristo Gesù per mezzo del vangelo”. Questo in sintesi il mistero pensato dal Padre e rivelato a Paolo e che qui viene scandito in quattro passaggi:

  1. Le genti sono coeredi”, il riferimento qui è a 2,11-18 dove si attesta come i pagani sono stati resi partecipi della promessa fatta ad Israele, grazie al fatto che Cristo ha annullato nella sua carne crocifissa le prescrizioni della Legge mosaica, raccogliendo giudei e pagani nell'unica e comune fede nell'unico e comune Cristo;

  2. in tal modo essi , i pagani, sono diventati “membra dello stesso corpo”, che è Cristo, ma nel contempo la Chiesa stessa, di cui ora essi fanno parte assieme ai giudeocristiani; Chiesa che in 1,23 è compresa quale corpo di Cristo, di cui essi, pagani e giudei, divenuti credenti, sono membra vive. Il richiamo qui è al v.2,16;

  3. divenuti, pertanto, coeredi assieme ad Israele della promessa e membra vive dello stesso corpo, che è la Chiesa, essa pure corpo di Cristo, sono resi “compartecipi della promessa in Cristo Gesù”, che qui è colto come il vertice e l'attuazione di quella promessa che Dio fece ad Abramo e per la quale Egli stabilì la sua alleanza con lui e la sua discendenza (Gen 15,17,21; 17,4-11); discendenza che Gal 3,16 legge come Cristo, così che Paolo concluderà: “E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa” (Gal 3,29);

  4. e tutto ciò avviene “per mezzo del vangelo”, quale strumento di annuncio e di rivelazione, aderendo esistenzialmente al quale si viene rigenerati ad una nuova vita (1Pt 1,23), quella Terra Promessa ad Abramo e che ha trovato il suo approdo nel Risorto, i cieli nuovi e la terra nuova vaticinati da Isaia (Is 65,17; 66,22) e contemplati da Giovanni nell'Apocalisse (Ap 21,1).

Ed è proprio di questo potente strumento di rivelazione del Mistero di Dio e di rigenerazione a nuova vita, che Paolo diviene ministro, un ministero innervato e sostanziato della stessa potenza di Dio e che Paolo comprende come un dono di grazia, che fa parte di quel progetto salvifico pensato dal Padre prima ancora della creazione del mondo.

I vv.8-12 sono dedicati ad illustrare il senso e il contenuto della missione di Paolo e, quindi, del progetto salvifico ideato dal Padre, che si dispiega storicamente nella missione di Paolo. Il senso è: annunciare “alle genti l'imperscrutabile ricchezza di Cristo e illuminare tutti” (vv.8b-9a). Il contenuto di tale annuncio è il rivelare il mistero, cioè la dinamica del progetto salvifico nascosto in Dio fin dall'eternità, così che sia noto a tutti nei cieli e sulla terra, ovunque, la sapienza di Dio, che ha elaborato un simile piano di salvezza, che ha come obiettivo il ricondurre in Se stesso quell'umanità in cui è impressa la sua immagine e la sua somiglianza e che per questo non può essere lasciata perdere, poiché in essa vi è impresso il riflesso di Dio stesso, in qualche modo una parte di Sè.

Il ministero di Paolo, annunciare alle genti il progetto salvifico di Dio a loro favore, con mossa abile, vien ora riversato dall'autore sulla chiesa, di cui Paolo, non va mai dimenticato, fa parte17, essendo essa stessa con e dopo Paolo strumento di annuncio, di rivelazione e spazio accogliente di salvezza. Paolo e la chiesa, dunque, sono due potenti strumenti facenti parte di questo unico progetto salvifico, che trova la sua attuazione nella stessa decretazione divina: “secondo (la) deliberazione dei secoli, che (il Padre) operò in Cristo Gesù nostro Signore” (v.11). Il riferimento qui è sempre 1,4, dove l'autore presenta il Padre che “ci ha scelti in lui (cioè in Cristo) prima della creazione del mondo”, una scelta che lascia trasparire a monte un progetto, che si attua nella determinazione di quella scelta, che, pur partendo dall'eternità, trova ora in Cristo, in Paolo e nella Chiesa la sua attuazione storica e che nel v.11b torna a vedere la centralità di Cristo, che qui è percepito con le sue credenziali del “Cristo Gesù nostro Signore”, cioè di un Gesù rivestito del messianismo, che lo consacra come l'uomo venuto da Dio e appartenente a Dio, ma che nel contempo è riconosciuto nella risurrezione dalla comunità credente come il “nostro Signore”, la cui signoria supera i ristretti limiti della Chiesa, per estendersi all'intero universo e la cui universalità viene lasciata trasparire in 1,10b, che vede il Padre “ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle nei cieli e quelle sulla terra in lui”. Un Cristo Risorto che diviene spazio di libertà per tutti i credenti, liberati dal peso di una Legge mosaica discriminante, facendo dei due un popolo solo, e che consente il loro libero accesso al Padre; un Cristo che diviene il punto d'incontro e di saldatura tra Dio e gli uomini, a cui si accede con la sola fede.

La contemplazione dell'azione salvifica operante storicamente in Paolo e nella Chiesa si chiude con un sollecito, che Paolo rivolge alla comunità credente, quella di non crucciarsi per le sofferenze che egli patisce per Cristo, ma con lui anche loro, perché queste sono pregne della gloria di Dio, pregne della sua potenza, così che in 2Cor 12,10 egli attesterà paradossalmente “Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte”.


La supplica affinché l'opera salvifica di Cristo porti frutti nella comunità credente (vv.14-19)

Note generali

La pericope vv.14-19 è dedicata alla supplica che l'autore di questo scritto, probabilmente un vescovo, responsabile di una o più comunità che risiedono nell'Asia minore, rivolge a Dio a favore dei neobattezzati, perché, fortificati nella fede in Cristo, possano farne l'esperienza più vera e profonda.

Che si tratti dei neobattezzati, quelli ai quali è rivolto questo scritto, lo si arguisce non solo dall'insieme della supplica, che sembra essere una sorta di viatico bene augurante, che invoca per loro una forte esperienza di Cristo, la quale cosa lascia intendere come i destinatari di questo scritto siano agli inizi della loro avventura spirituale, ma altresì dal v.18 che augura loro di poter “comprendere con tutti i santi”, cioè che anche loro, come tutti i credenti già affermati e consolidati nella loro fede, possano fare esperienza delle profondità del Mistero di Cristo.

La struttura della supplica è scandita in tre parti:

  1. l'introduzione, che spiega il motivo di questa preghiera benedicente e bene augurante posta sui neobattezzati, agganciandosi con quel “A motivo di ciò” a quanto fin qui detto circa il Mistero di salvezza, che li ha visti coinvolti in prima persona (vv.14-15);

  2. segue ora, con due “affinché” (vv.16a.18a), l'oggetto di questa preghiera benedicente, che si sviluppa secondo una sua logica: il primo affinché (v.16a) riguarda la richiesta di fortificazione della loro fede in Cristo, così che li possa portare ad una loro piena maturità spirituale interiore (vv.16-17), presupposto questo perché essi possano attuare l'oggetto della seconda richiesta;

  3. il secondo “affinché” (v.18a) riguarda la loro esperienza di Cristo e del Mistero della loro salvezza (vv.18-19)


Commento ai vv.14-19


L'introduzione della supplica (vv.14-15)

I vv.14-15 costituiscono l'introduzione della supplica, presentando, da un lato, il supplicante (v.14a), che è lo stesso autore di questo scritto, anch'egli un etnocristiano, intuibile non solo dal v.2,3 dove egli si ricomprende tra quelli che erano vissuti secondo le logiche della carne, che lo annoveravano tra i “figli dell'ira”, ma anche da qui, dalla sua postura mentre prega: “piego le mie ginocchia davanti al Padre”, posizione questa caratteristica del mondo pagano; mentre per i giudei la postura nel loro rivolgersi a Dio era diritta in piedi (Lc 18,11a); dall'altro, il destinatario della supplica (vv.14b-15), il Padre, presentato nella sua identità di origine originante di ogni altra creatura nei cieli e sulla terra e, quindi, creatore di ogni essere vivente, sia questi spirituale o carnale, così che quel “ricevere nome” equivale a prendere forma e consistenza e, quindi, vita. Il nome presso gli antichi indicava ed esprimeva l'essenza stessa della persona e delle cose e, quindi, non era un semplice suono vuoto o un concetto di riferimento, ma nel nome vie era racchiusa la persona e la cosa che in quel nome si esprimeva. “Ricevere il nome”, pertanto, significava essere chiamato alla vita ed essere insignito nel nome di una missione; ma nel contempo riconoscere il proprio stato di creatura e di dipendenza della propria vita dal Padre, da cui il credente origina (Gv 1,12-13).

La supplica si apre con “ToÚtou c£rin” (Tútu cárin, A motivo di ciò), riprendendo il v.1, lasciato in sospeso per dar spazio alla contemplazione dell'opera salvifica del Padre operata per mezzo di Paolo e della sua missione (vv.2-13), presentati come facenti parte del progetto salvifico pensato dal Padre prima ancora della creazione del mondo (1,4). Si pone tuttavia una differenza tra il “ToÚtou c£rin” del v.1 e questo secondo “ToÚtou c£rin” del v.14, poiché se il primo faceva riferimento al solo cap.2, dove l'autore contemplava l'opera salvifica operata dal Padre nella comunità credente, questo secondo fa riferimento non solo all'opera salvifica contemplata al cap.2, riprendendo in tal modo il “ToÚtou c£rin” del v.1, ma a questa associa anche l'opera salvifica che il Padre ha operato attraverso la persona di Paolo e della sua missione.

Il primo oggetto della supplica: rendere salda la propria fede in Cristo (vv.16-17)

I vv.16-17 sono introdotti da un “affinché” (†na, ína) che dice la finalità per cui viene fatta questa supplica rivolta a Dio: essere fortificati nell'uomo interiore ed abitare in Cristo per mezzo della fede. L'uomo interiore, di cui qui si parla, è la parte razionale, spirituale dell'uomo, che si contrappone all'uomo esteriore, che è il corpo18. Il rafforzamento dell'interiorità dell'uomo, cioè della sua spiritualità e della sua vita interiore, avviene per mezzo dello Spirito, che il credente ha ricevuto nel battesimo (1,13b) ed è espressione della potenza rigeneratrice di Dio, che qui l'autore definisce come “la ricchezza della sua gloria”, cioè della gloria di Dio, che dice lo stato di vita di Dio stesso e di cui l'uomo era stato rivestito nei primordi dell'umanità (Sal 8,6), ma che il peccato, poi, ha spogliato, così che Rm 3,23 attesta che “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”.

Il secondo dono richiesto dal primo “affinché” è quello di “abitare Cristo” (katoikÁsai tÕn CristÕn, katoikêsaiton Cristón) nel proprio cuore. L'espressione è molto densa: “abitare Cristo” significa fare di Cristo il contesto vitale del proprio vivere credente, così che Cristo diventi la forma mentis del credente; mentre il dimorare in lui per mezzo della fede, che costituisce lo strumento indispensabile per accedervi, richiama qui in qualche modo il cammino catecumenale di 1,13, dove, dopo aver accolto la Parole e aver creduto in essa, i catecumeni hanno potuto accedere alla ricchezza di Dio per mezzo dello Spirito, prendendo dimora in Dio per mezzo d Cristo. Abitare Cristo significa in ultima analisi abitare la pienezza di Dio, che ha fatto di Cristo il cuore del mondo (1,10b). Non si tratta di un abitare fisicamente, ma un dimorarvi “nel proprio cuore”, che dice la centralità dell'uomo interiore rivestito e permeato di Cristo. L'avvento di Cristo ha cambiato radicalmente il proprio modo di relazionarsi a Dio, passando da un culto esteriore ad uno interiore. Il senso di questo profondo cambiamento e di questa inversione di marcia verrà esposta da Gv 4,21.23 allorché la Samaritana chiese a Gesù quale fosse il tempio giusto dove pregare, se quello in Gerusalemme o il loro, quello sul monte Garizim: “Gesù le dice: "Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. […] Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori”. Il culto, dunque viene interiorizzato e il vero Tempio in cui tale culto viene celebrato è il cure stesso dell'uomo.

Questo denso contesto spirituale in cui vive il credente e che esprime il senso della sua salvezza ha il suo impianto nell'amore, che è il modo di vivere e di relazionarsi di Dio non solo con se stesso, ma anche con i credenti in Cristo, creando in tal modo una comunione di vita con loro. Da qui il sollecito di essere “radicati e fondati ne(ll')amore”, poiché Dio è amore. E la “conditio sine qua non perché la salvezza del credente si realizzi pienamente in lui è che la sua fede venga vissuta nell'amore, che delinea non tanto un sentimento, ma un atteggiamento interiore, che caratterizza il vivere di Dio, ma che deve riflettersi e regolare anche la dinamica del vivere di ogni credente e del suo relazionarsi con gli altri. L'amore di Dio, come quello del credente in cui si riflette Dio, dice la totale apertura di Se stesso all'altro, la totale donazione di Sè all'altro, la totale accoglienza dell'altro in Se stesso. Per cui il credere non è un semplice atto intellettuale, ma è un'adesione esistenziale a Dio, che si esprime nell'amore. Non a caso i due più grandi comandamenti che riassumono tutta la Legge e i Profeti (Mt 22,37-40; Mc 12,29-31) è l'amare Dio con tutto se stessi (Dt 6,5) e l'amare il prossimo come se stessi (Lv 19,18b). Un amore che vede nell'amore del prossimo l'esprimersi dell'amore per Dio: “Se uno dicesse: <<Io amo Dio>>, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20).

Il secondo oggetto della supplica: fare una profonda esperienza di Cristo e in lui di Dio (vv.18-19)

La seconda richiesta della supplica è introdotta anche questa da un secondo “affinché” (†na, ína), che dice la seconda finalità che i neobattezzati sono chiamati, in virtù della loro fede e del loro battesimo, a conseguire: l'esperienza di Cristo. Un secondo passo che si rende necessario dopo aver consolidato in se stessi la propria fede, per accedere ad una piena maturità cristiana. Non è sufficiente credere in qualcosa, ma è necessario che questo qualcosa venga incarnato nella propria vita, così da farne l'esperienza e la persona credente nella sua interezza, sia come uomo interiore che esteriore, venga conformata anche esistenzialmente a Cristo. E il passaggio dal credere allo sperimentare è dato dalla conoscenza, che apre alla comprensione della vastità della sapienza di Dio e Col 3,16 ne traccerà il percorso spirituale: “La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali”. Si parte, quindi, dalla Parola di Cristo, sulla quale va impiantata non solo la vita dell'intera comunità credente, ma anche quella di ogni suo singolo membro. È la Parola che apre il credente al Mistero di Dio e gli fa comprendere le realtà spirituali in cui egli è immerso e di cui è permeato. L'ammaestrarsi e l'ammonirsi reciprocamente, poi, avviene a seguito della Parola, che necessita di approfondimento e di confronto costanti all'interno della comunità, così poi da trasformarsi in una liturgia di lode e di ringraziamento, che segna il raggiungimento della piena maturità in Cristo e in Dio della comunità credente e dei suoi singoli membri. Tutto, dunque, punta alla crescita spirituale, che dice piena maturità in Cristo. Ed è ciò che già in qualche modo aveva anticipato 2,21-22: “in cui ogni costruzione cresce disposta ordinatamente per un tempio santo ne(l) Signore, in cui anche voi foste concostruiti per (diventare) dimora di Dio ne(llo) Spirito”.

Alla base di tutto, dunque, ci sta la Parola di Cristo senza la quale la comunità credente non è più tale e ogni suo culto si ridurrebbe ad una mera ritualità incomprensibile e tediosa. L'esperienza di Cristo, tuttavia, è un'esperienza comunitaria, che funge da garanzia all'esperienza stessa, per evitarne deviazioni personali (Eb 13,8-9a; 2Pt 1,20-21; 3,15-16). Si tratta, infatti, di una comprensione del Mistero “con tutti i santi”, che dice non solo il livello di comprensione, che deve essere quello comune a tutta la comunità credente, ma anche di condivisione di questa conoscenza del Mistero di Cristo e della salvezza, che qui l'autore esprime con un linguaggio sapienziale, che richiama da vicino quello di Gb 11,7-9: “quale (sia) l'ampiezza e (la) lunghezza e (l')altezza e (la) profondità”, che esprime l'infinita quanto l'insondabile Sapienza di Dio e del suo Mistero. Da qui la necessità che questa avvenga “con tutti i santi”, cioè con tutti i membri che compongono la comunità credente, che diviene in qualche modo l'erede e la depositaria di questa Sapienza divina, che ha la sua fonte primaria ed unica nella Parola di Cristo.

La finalità di questa esperienza di Cristo, che si raggiunge attraverso la conoscenza e l'esperienza della sua Parola, è sperimentare l'amore di Dio nel suo Cristo. L'autore dice “lo straordinario amore della conoscenza di Cristo” sottolineando non tanto l'amore per Cristo, quanto l'amore per la conoscenza di Cristo, come dire che i neobattezzati insieme a tutti i santi devono coltivare in loro la passione per la Parola di Cristo, poiché in essa abita la pienezza di Dio ed è rivelatrice del suo Mistero di amore, che si fa salvezza per il credente.

La contemplazione della salvezza operata da Cristo si fa inno di lode e di ringraziamento (vv.20-21)

L'azione salvifica pensata dal Padre, attuata e manifestata da Cristo per mezzo della potenza dello Spirito Santo, che l'autore di questo scritto contempla, dapprima, nell'inno di apertura (1,3-14), poi nei neobattezzati (1,14-2,3) e nella comunità credente (2,4-22) ed infine nella persona stessa di Paolo e della sua missione (3,2-13), che egli comprende come facenti parte del progetto salvifico, pensato dal Padre fin dall'eternità, si conclude ora con una dossologia (vv20-21), un breve inno di lode e di ringraziamento per quest'opera salvifica, che trova la sua sorgente primaria nel Padre. Una dossologia che va pensata non solo come conclusione di questa sezione teologica-cristologica-pneumatologica (1,3-3,19), ma, ponendosi in parallelo all'inno iniziale di apertura di questa sezione, in qualche modo si aggancia a questo, formando una sorta di inclusione per complementarietà tematica, trasformando l'intera sezione in una contemplazione che celebra l'opera salvifica del Padre e che l'autore rimira in Paolo e nella sua missione, nei neobattezzati e nelle stesse comunità credenti, quali manifestazioni storiche di questo progetto, nato ancor prima della creazione del mondo (1,4a).

Il v.20 si apre con un indirizzo preciso, rivolto alla fonte prima di questo progetto salvifico, il Padre, che viene qui colto nella sua supremazia assoluta sull'intera creazione, con una visione che richiama da vicino il preambolo della prima creazione, allorché “lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque”, simbolo del caos primordiale e quando ancora “la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso” (Gen 1,2). Un Padre, quindi, origine originante, in grado di soddisfare con sovrabbondanza ogni nostra richiesta, anche al di là della nostra capacità di comprensione delle cose, che, per quanto grande, è pur sempre limitata. La sua azione di salvezza, pertanto, va ben oltre al nostro desiderio, grazie alla potenza che opera in noi, cioè l'azione dello Spirito Santo, che è la potenza attuatrice del progetto di salvezza, la sua anima, che le infonde dinamismo e ne suggerisce la comprensione, poiché questo Spirito Santo sonda le profondità del Mistero di Dio ed è in grado di rivelarcele nella loro pienezza, secondo la promessa: “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Gv 16,13). La pienezza della rivelazione attuatasi in Cristo non è nel nostro oggi pienamente comprensibile, poiché “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso” (Gv 16,12). Servono, quindi, i tempi supplementari, quelli che vanno da Cristo all'Escaton finale, in un continuo cammino di approfondimento, che è l'espandersi della Rivelazione stessa, la cui pienezza si avrà soltanto nell'eternità di Dio, allorché Dio sarà nuovamente Tutto in tutti (1Cor 15,28).

Dopo la perifrasi del v.20, che descriveva la figura del Padre in relazione ai credenti, subissati di doni spirituali, al di là ogni loro desiderio e di ogni loro comprensione, il v.21 vede la comunità dei credenti e con essa Cristo stesso elevare a Lui la gloria. Una glorificazione che si attua per la chiesa nel saper accogliere l'opera di salvezza, lasciandosi plasmare da essa e conformando la propria esistenza al progetto salvifico del Padre: “In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli” (Gv 15,8); mentre la glorificazione del Padre ad opera di Cristo consiste nell'aver egli attuato e manifestato all'umanità tale progetto: “Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare” (Gv 17,4). Ma nel contempo anche Cristo è glorificato in un ciclo vitale di gloria e glorificazione, che caratterizza i rapporti tra il Padre e il Figlio e che fanno parte della loro dinamica vitale: "[…] Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito” (Gv 13,31-32).

Sezione parenetica

(4,1-6,17)



Note generali

Parimenti alla sezione parenetica della Lettera ai Romani, che si apre con un “Parakalî oân Øm©j” (Parakalô ûn imâs, Pertanto vi esorto) (Rm 12,1a), dando il tono all'intera sezione, dove il verbo si ripeterà altre due volte in 15,30 e 16,17, così anche questa sezione della Lettera agli Efesini si apre in modo sostanzialmente identico, ma qui l'esortazione comparirà una volta soltanto, all'inizio della sezione stessa (4,1), ma sarà il tono dell'intera sezione a determinarne la natura parenetica. Per ben sei volte comparirà il verbo “peripate‹n” (peripateîn, camminare)19, parallelamente a 2,2.10, dove il senso non cambia. Il “camminare” è metafora del “vivere” e del “comportarsi nel proprio modo di vivere”, la quale cosa ha a che vedere, a sua volta, con il comportamento morale della persona. Un simile modo di esprimersi compare spesso nell'A.T. dove per descrivere il comportamento in conformità o meno alla volontà di Dio, l'agiografo usa l'espressione come “camminare con Dio o davanti a Dio o nei suoi decreti o leggi”20.

Diversamente dalla Lettera ai Romani, che nella sezione parenetica passa in rassegna diversi settori del vivere dei credenti, quali la vita di comunità (12,1-21), i rapporti con l'autorità e quelli sociali (13,1-14), sottolineando il rispetto di chi è debole nella fede (14,1-15,7), qui l'autore di questo scritto punta molto sull'unità della comunità credente e sul proprio modo di vivere, introducendo un nuovo metodo educativo: far comprendere ai credenti le nuove realtà spirituali che stanno alla base di un radicale cambiamento e riorientamento esistenziali, per cui si rende necessario un nuovo modo di vivere e di sentire se stessi e gli altri, così come anche il modo di relazionarsi con se stessi, gli altri e le cose deve cambiare completamente. Non imposizioni, dunque; non solleciti a fare o non fare, benché questi non manchino, ma mettere in evidenza il nuovo contesto spirituale in cui il credente viene a trovarsi e di conseguenza la necessità per lui di adeguarsi alle esigenze delle nuove realtà spirituali che vivono in lui, così che anche gli imperativi morali vanno colti all'interno di questo contesto.

La sezione parenetica potremmo dividerla in tre parti:

  1. la prima riguarda l'unità della chiesa (vv.2-6), a cui tutti sono chiamati a concorrere per favorirne la crescita in Cristo, in conformità ai doni ricevuti (vv.7-16). Di conseguenza si rende necessaria una disamina del proprio comportamento (vv.20-25), che viene contrapposto a quello dei pagani, così da metterne in rilievo la notevole differenza (vv.17-19). Un contrasto finalizzato a far prendere coscienza al credente del suo nuovo stato di vita rispetto a quello precedente. La conseguenza di ciò viene esemplificato in una serie di comportamenti che devono essere dismessi, per assumerne di nuovi (vv.26-32). L'elenco probabilmente fa riferimento alle debolezze più diffuse dei membri delle comunità credenti e intende qui stigmatizzarle, proponendo, per contro, altri stili di vita.

  2. La seconda parte (5,1-20), richiamandosi al v.4,32, introduce il tema dell'amore, che ha il suo parametro di raffronto in Dio stesso, il quale ha donato se stesso nel Cristo. Un amore che non si limita agli aspetti relazionali, ma anche vitali, come la propria sessualità, dalla quale si sprigionano forze che possono esprimersi negativamente e in modo deleterio per se stessi e per gli altri, ma anche in modo costruttivo ed edificante. Lo lascia intendere chiaramente la pericope vv.3-7, mentre la pericope vv.8-20 produce le argomentazioni necessarie a sostenere la condanna di comportamenti sessuali esecrabili a tutto favore di quelli nuovi, illuminati dalla luce di Cristo.

  3. La terza parte (5,21-6,9), conseguente alle prime due, consiste in un'analisi dei rapporti familiari, che devono essere riconsiderati alla luce delle nuove realtà, dove questi devono svilupparsi in una reciproca sottomissione: la moglie al marito e questi alla moglie, così come i figli devono obbedire ai genitori, che non li devono esasperare, senza, però, rinunciare al loro ruolo educativo. Su questa linea genitori-figli deve svilupparsi anche il rapporto padrone-servi, richiamando ciascuno alle proprie responsabilità richieste dal loro ruolo.

La sezione parenetica si chiude con la metafora della vita cristiana, colta come una militanza e un combattimento, richiamandosi all'armatura del soldato (vv.6,10-17). La quale cosa lascia intravvedere le difficoltà della chiesa primitiva e dei suoi membri, chiamati a vivere e a testimoniare la nuova fede in un contesto ostile, che gli stessi vangeli lasciano, qua e là, intravvedere21.

Commento ai vv.4,1-6,17

Favorire l'unità e la crescita in Cristo, ciascuno secondo le proprie capacità (4,1-16)


Testo a lettura facilitata

Un'esortazione a conservare l'unità nella comunità credente (vv.1-3)

1- Vi esorto, pertanto, io, l'incatenato nel Signore, a camminare in modo degno della vocazione, con la quale foste chiamati,
2- con ogni umiltà e mitezza, con pazienza, sopportando gli uni gli altri ne(ll')amore,
3- preoccupandovi di custodire l'unità dello spirito nel vincolo della pace;

Il motivo dell'unità e su che cosa essa fonda (vv.4-6)

4- Un corpo e uno spirito, come foste anche chiamati in una speranza, (quella) della vostra chiamata;
5- un Signore, una fede, un battesimo,
6- un Dio e Padre di tutti, che (è) sopra tutti e (opera) per mezzo di tutti e (è) in tutti.

Ognuno contribuisca secondo la grazia ricevuta (vv.7-10)

7- Ad ognuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo.
8- Per questo dice: “Salendo in alto fece prigioniera (la) prigionia, diede doni agli uomini”.
9- Ma che cos'è “salì” se non anche che “discese” nelle [parti] inferiori della terra?
10- Colui che è disceso è lo stesso che anche è salito al di sopra dei cieli, affinché riempisse tutte le cose.

I ministeri finalizzati alla crescita e al consolidamento del corpo di Cristo ... (vv.11-12)

11- Ed egli diede gli apostoli, i profeti , gli evangelisti, i pastori e maestri,
12- per la perfezione dei santi per l'esecuzione del ministero, per l'edificazione del corpo di Cristo,

crescendo nella fede e nella conoscenza di Cristo per giungere alla maturità cristiana (vv.13-14)

13- finché tutti perveniamo all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, in un uomo perfetto, nella misura dell'età della pienezza di Cristo,
14- affinché non siamo bambini, fluttuanti e che sono portati in giro con ogni vento di dottrina, con (l')inganno degli uomini, con l'astuzia per l'insidia dell'errore;

Come accrescere la maturità cristiana (vv.15-16)

15- ma affermando la verità ne(ll') amore, faremo crescere tutte le cose verso di lui, che è il capo, Cristo,
16- dal quale ogni corpo disposto ordinatamente e unito per mezzo di ogni giuntura della collaborazione, secondo l'opera di ciascuna parte, favorisce la crescita del corpo, per la sua edificazione nell'amore
.

Commento ai vv. 4,1-16

L'intero cap.4 è incentrato sull'unità della chiesa, che ha come punti di forza, da un lato, la coscienza che ognuno deve contribuire, in base alle sue capacità, a edificare il corpo di Cristo, facendo crescere il proprio uomo interiore fino a raggiungere la piena maturità in Cristo (vv.7-16); dall'altro, prendere coscienza del cambiamento spirituale, morale ed esistenziale tra il prima, quando si viveva da pagani, ed ora, che, invece, si è stati chiamati in Cristo a nuova vita (vv.17-25). Fa seguito, quindi, una esemplificazione di comportamenti tra loro contrapposti, per mettere in evidenza il cambiamento tra il prima e il dopo Cristo (vv.26-32).

Un'esortazione a conservare l'unità nella comunità credente (vv.1-3)

La sezione parenetica comincia con l'espressione “Parakalî oân Øm©j” (Parakalô ûn imâs, Vi esorto pertanto), che le dà il tono esortativo, ma nel contempo, quel “oân” (ûn, pertanto) funge da aggancio alla precedente sezione teologica-cristologica-pneumatica (1,3-3,21), così che questa parenetica diviene consequenziale a quella e ne dipende. Quel “oân” (ûn, pertanto) potremmo, quindi, tradurlo anche con “in conseguenza” a quanto fin qui detto nella precedente sezione. Una sezione che, come s'è visto, è una contemplazione dell'opera salvifica pensata dal Padre fin dall'eternità, attuata e manifestata da Cristo con la potenza dello Spirito Santo sull'intera comunità credente e su ogni suo singolo membro, che è “opera sua” (2,10). Ed è a motivo di questo che i credenti devono ripensare al proprio modo di vivere non solo in relazione a se stessi, ma anche agli altri membri credenti, colti quali unica comunità credente, che è la Chiesa, corpo di Cristo (1,23). Su questo presupposto si impianta l'intera sezione parenetica, che lascia trasparire, quasi in filigrana, una particolare preoccupazione sulla tenuta della comunità, che probabilmente soffriva di divisioni o di contrasti interni, mentre i suoi membri risentivano ancora di comportamenti, linguaggi e modi di relazionarsi tra loro che sono propri del mondo pagano, da cui essi provenivano dopo aver incontrato Cristo.

A rafforzare l'esortazione, caricandola dell'autorità che gli viene dal suo stato di “prigioniero”, l'autore si presenta ai membri della comunità credente con un titolo di forza, che compare qui per la seconda volta: “io, l'incatenato nel Signore”, simile a quello precedente: “io Paolo, l'incatenato di Cristo [Gesù], per voi genti” (3,1). Benché il termine “incatenato” sia identico, tuttavia esso assume sfumature diverse: nel primo caso (3,1) il titolo è attribuito a Paolo, dove il genitivo “di Cristo” assume un doppio significato: causale, cioè “a motivo di Cristo”, e di proprietà, nel senso di “appartenenza a Cristo”. Ma si è visto anche come probabilmente l'autore, nel Paolo incatenato di Cristo e per Cristo, veda se stesso, probabilmente anche lui, come Paolo, incatenato a motivo della sua fede (v. pag.38). Ma qui, ora, cambia il senso, poiché l'autore si vede come “l'incatenato nel Signore”, cioè come l'obbligato dalla sua fede e dal ruolo che egli ricopre, probabilmente quello di vescovo, a dover dare le istruzioni per condurre una vita “degna della vocazione con la quale foste chiamati” (v.1), parlando quindi da una posizione di autorità. Egli, dunque, sta parlando con l'autorità stessa del Signore, in cui e da cui si trova vincolato. Cambia il titolo: non più “Cristo”, ma “Signore” con chiaro riferimento al Cristo postpasquale, colto nella sua signoria universale. Egli, dunque, parla con l'autorità del Risorto, che in qualche modo prosegue il suo insegnamento in lui, quale responsabile delle comunità credenti, così come, ora, nella chiesa.

Il primo sollecito è quello di “camminare in modo degno della vocazione, con la quale foste chiamati”. L'appello, dunque, è quello di rifarsi alla “vocazione”, prendendone coscienza; a quella chiamata originale con cui “foste chiamati”. Il verbo qui è posto al passivo teologico, lasciando intendere come la chiamata sia venuta da Dio stesso e della quale l'autore aveva già accennato in 2,13, dove si parlava dell'annuncio del Vangelo, che essi avevano accolto nella propria vita. L'esortazione consiste nel “camminare in modo degno”, cioè il vivere degnamente la propria scelta di vita in risposta alla chiamata, conformandosi alla “parola della verità, il vangelo della vostra salvezza”. Si tratta, quindi, di un richiamo alle origini della propria fede, rispolverandone le motivazioni. Situazione questa che lascia intravvedere in qualche modo come i membri di questa comunità siano entrati in crisi ed abbiano difficoltà di convivenza. Una situazione simile era avvenuta per il profeta Elia, che perseguitato dalla regina Gezabele, che lo cercava per ucciderlo, si era rifugiato sconsolato nel deserto, dove un angelo lo riforcillò con un pane ed un'acqua misteriosi, indicandogli la strada del monte Oreb, là dove ebbe origine la fede dei Padri e di Israele e là dove egli reincontrò il suo Dio. Il ritorno, dunque, alle proprie origini per riscoprire le motivazioni della propria fede, rinvigorendola e rassodando la propria scelta originaria, probabilmente ormai perduta o indebolita.

Che cosa significhi “in modo degno” viene specificato al v.2, dove si parla di umiltà, mitezza, pazienza, sopportandosi vicendevolmente. Qualità queste che devono costituire il fondamento dei rapporti intracomunitari, dove vive e convive una pluralità di persone provenienti da diverse estrazioni sociali e culturali, che influenzano e determinano la sensibilità di ogni membro che forma la comunità credente. Sono proprio queste diversità che possono collidere tra loro, creando divisioni e minando l'unità, la quale forma l'obiettivo primario di questa ampia sezione parenetica.

L'atteggiamento che viene sollecitato ai credenti nei confronti della loro comunità è quello di “preoccuparsi di custodire”, cioè di dedicare una particolare assidua attenzione, quasi ossessiva, nel custodire, cioè nel sentirsi responsabili, ognuno per il ruolo che ricopre nella comunità (v.7), della sua unità, che deve esprimersi nell' “unità dello spirito nel vincolo della pace”. In altri termini, deve esserci all'interno della comunità una comunione di spiriti e di intenti, amalgamati e fondati nella pace, che è il dono che il Risorto ha fatto ai suoi (Gv 14,27a; 20,19.21.26; Lc 24,36). Una pace che significa riconciliazione tra Dio e gli uomini in Cristo, che deve necessariamente riflettersi nei rapporti tra gli uomini e ancor prima tra i membri della comunità credente, che ha quale fondamento il perdono e l'accoglienza. Perdonare, accogliere e riconciliarsi perché per primi siamo stati perdonati, accolti e riconciliati.

Il motivo dell'unità e su che cosa essa fonda (vv.4-6)

Al sollecito, che si richiama alle originarie motivazioni spirituali della propria fede, l'autore aggiunge, ora, un'altra motivazione di ordine dottrinale e che forma la parte dottrinale della fede, che si è chiamati a riscoprire: “Un corpo e uno spirito, come foste anche chiamati in una speranza, (quella) della vostra chiamata; un Signore, una fede, un battesimo, un Dio e Padre di tutti, che (è) sopra tutti e (opera) per mezzo di tutti e (è) in tutti”, dove in modo ossessivo si ripete per ben sette volte il numero cardinale “uno”, usato in tutte le sue forme di maschile, femminile e neutro (eŒj, m…a, ›n, eîs, mía, én), per affermare in modo categorico l'unità della chiesa e di ogni suo singolo membro, che si caratterizza proprio per questa unità, che il vivere comune trasforma in comunione di vita.

La breve pericope (vv.4-6) prospetta un cammino spirituale dottrinalmente fondato, che vede la comunità credente come un unico corpo animato da un unico e comune spirito, che vive nel contesto di una speranza (v.4), fondata storicamente su di un'unica fede nel Risorto, in cui vive il credente fin d'ora grazie al battesimo che lo ha cristificato, plasmandolo e permeandolo in Cristo della vita stessa di Dio (v.5). Un cammino che conduce o, per meglio dire, riconduce il credente in seno al Padre, dal quale era drammaticamente fuoriuscito nei primordi dell'umanità (v.6).

Il v.4 si richiama all'unità della chiesa, colta come un unico corpo animato da un unico spirito, che evoca in qualche modo l'irenica descrizione delle prime comunità credenti, che Luca ha dipinto in modo magistrale in At 2,41-48 e 4,32. Una comunità, dunque, solida e compatta come lo è un unico corpo animato da un unico spirito, che si muove all'interno di un comune contesto vitale, quello dell'unica speranza, che sostanzia la fede e che era stata prospettata già fin dalla prima chiamata alla fede con la verità del Vangelo (1,13-14) e che offriva a chiunque fosse stato disponibile la salvezza per mezzo della sola fede in Cristo Gesù, divenuto e creduto Signore, in cui il Padre ha ricapitolato l'intera creazione (1,10), prospettando per tutti e per tutto una salvezza universale, riconducendo, per mezzo dell'unica e comune fede nell'unico e comune Cristo, in seno al Padre l'intera umanità e con essa, per un principio di solidarietà, l'intera creazione, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti, così com'era nei primordi della creazione (1Cor 15,28).

Una comunità credente così compattata e omologata trova la sua espressione storico-spirituale nell'unico Signore, cioè il Cristo Gesù risorto, in cui con l'attributo di “Signore” la comunità credente ne riconosceva la signoria universale, che dice il ricostituirsi del potere di Dio in mezzo agli uomini, offrendo a tutti la possibilità di ritornare in seno al Padre per mezzo dell'unica fede, che porta il credente ad essere così cristificato nell'unico battesimo, con il quale gli viene offerta caparra, cioè un'anticipazione di quelle realtà future, nelle quali il credente già vive, anche se non ancora in modo pieno e definitivo, ma tali da poterlo interpellare fin d'ora, spingendo a conformare su di esse la sua vita vissuta non più secondo le logiche della carne, ma dello Spirito. Logiche che sono quelle di Dio e non più quelle dettate dalla carne dell'uomo vecchio (1,13-14).

Significativo questo cammino dottrinale dei vv.4-6 che si conclude con l'attestazione di “un Dio e Padre di tutti, che (è) sopra tutti e (opera) per mezzo di tutti e (è) in tutti”. È questa la meta finale per cui è venuto Gesù, il Cristo e il Signore, per ricondurre tutti i credenti in quel Dio che si è rivelato Padre non solo di Gesù, ma in lui anche di tutti noi (Gv 20,17b), secondo il suo progetto pensato fin dall'eternità “allorché ci ha scelti in lui prima della creazione del mondo per essere santi e perfetti davanti a lui ne(ll')amore, avendoci predestinati a(ll')adozione a figli per se stesso, per mezzo di Gesù Cristo, secondo il desiderio della sua volontà, a lode de(lla) gloria della sua grazia, di cui ci ha riempito nel (suo Figlio) diletto” (1,4-6).

Un Dio che è definito “Padre di tutti e che è sopra tutti”, riconoscendoci in tal modo come generati da Lui nel Figlio, figli nel Figlio, in cui ci ha scelti fin dall'eternità (1,4a). Una paternità che non è soltanto di tutti, ma si pone al di sopra di tutti, esprimendone l'insindacabilità e l'universalità. Una paternità che ha il suo marchio indelebile in quella decretazione divina originaria, allorché Dio disse: “Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gen 1,26a.27).

La riflessione dottrinale si conclude esaltando l'universalità di questa paternità, che opera in tutti e per mezzo di tutti, rilevando come Dio attua il suo progetto di salvezza in ogni singolo uomo, che diviene in tal modo egli stesso strumento di salvezza per il suo simile e attuatore del progetto salvifico del Padre, che ha il suo fulcro storico nella Chiesa, quale depositaria della salvezza. Ed è questa la premessa che introduce la sezione, circoscritta dai vv.7-16, che rileva come ogni membro della comunità credente è chiamato a creare e a consolidare questo corpo, che è la Chiesa, perfezionando se stesso in Cristo.


Una pausa per riflettere sul dinamismo dell'unità della chiesa nella crescita dei suoi membri (vv.7-16)


Note generali

L'esortazione all'unità della chiesa, che spronava i credenti alla riscoperta delle motivazioni, che li spinsero ad accogliere la parola di verità del Vangelo, che ha generato in loro la fede, la quale ha per fondamento dottrinale la comune e unica Verità dell'unico corpo, unico spirito, unico Signore, unica fede, unico battesimo e unico Dio, Padre di tutti, non è sufficiente, secondo l'autore di questo scritto, per sviluppare la piena maturità dei credenti. Serve una nuova considerazione sugli eventi salvifici, che hanno operato sulla comunità credente e su ogni suo membro. È necessario riflettere sulla dinamica che genera l'unità della chiesa, mettendo in rilievo come questa si costruisca grazie all'apporto di tutti, favorendo la crescita spirituale di ogni suo membro, non dimenticando mai che essa è dono del Risorto, che ha liberato dalla schiavitù del peccato ogni credente, perché questi possa liberamente crescere nella conoscenza e nell'esperienza di Cristo, giungendo alla propria piena maturità spirituale in lui, favorendo in tal modo la crescita del corpo di Cristo, che è la chiesa.

Quindi, l'autore non si limita ad esortare (vv.1-6), ma cerca anche di motivare l'esortazione istruendo i credenti sulle dinamiche che costruiscono l'unità della chiesa e del loro ruolo e della loro responsabile in questo (vv.7-16).

La sezione qui in esame (vv.7-16), similmente alla sezione 3,2-13 dove l'autore contemplava l'opera salvifica del Padre nella missione di Paolo, costituisce una sorta di inciso nell'ambito di una riflessione, che viene sospesa in 4,6 per essere ripresa in 4,17, ed è delimitata dall'inclusione data per complementarietà tematica. Al v.7, infatti si dice che “Ad ognuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo”, mentre al v.16b si conclude dicendo “per favorire la crescita del corpo, per la sua edificazione nell'amore”. I doni ricevuti, pertanto, sono finalizzati a favorire la crescita della chiesa, che si edifica nell'amore. Il contenuto di tale sezione, pertanto, va compreso nel senso dettato dall'inclusione.

Di seguito propongo la struttura di questa sezione, che ricalca quella della sezione del “Testo a lettura facilitata” e aiuta a comprenderne il senso:

  1. Ognuno contribuisca secondo la grazia ricevuta (vv.7-10);

  2. I ministeri finalizzati alla crescita e al consolidamento del corpo di Cristo ... (vv.11-12);

  3. crescendo nella fede e nella conoscenza di Cristo per giungere alla maturità cristiana (vv.13-14);

  4. Come accrescere la maturità cristiana (vv.15-16).


Commento ai vv.7-16


Ognuno contribuisca secondo la grazia ricevuta (vv.7-10)

La pericope vv.7-10 si apre con l'attestazione che “Ad ognuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo”, dove quel “noi” fa riferimento non tanto ai neobattezzati, ai quali questo scritto è indirizzato, quanto a tutti i credenti, membri della chiesa, poiché l'esortazione all'unità della chiesa non può essere rivolta ai soli neobattezzati, ma a tutti i credenti in quanto costituenti la chiesa, tra i quali si include anche l'autore stesso. Tutti, infatti, hanno ricevuto la “grazia”, che qui non va intesa, alla luce dei vv.11-12, in senso teologico di misericordia divina finalizzata alla salvezza, ma di carisma, di attitudine, di capacità personali, la cui origine è cristologica: “secondo la misura del dono di Cristo”. L'espressione lascia intendere che diversi sono i carismi e diverse le misure, di cui ciascun membro è fornito, e tutti vanno considerati dei doni speciali e specifici, destinati a far crescere e a consolidare il corpo di Cristo, che è la chiesa (1Cor 12,1-14). Nessuno, dunque, può esimersi da questo gravame, che pesa con responsabilità morale, spirituale e sociale su ogni membro.

E che questi carismi siano un dono divino che non va sciupato, ma proficuamente utilizzato per la crescita della Chiesa, consolidandola nell'unità di tutti i suoi membri, viene ora provato scritturisticamente dal v.8 e dalla sua esegesi (vv.9-10).

Il v.8, che riporta la citazione del Sal 68,19 opportunamente modificato dall'autore per adattarlo ai suoi intenti parenetici, viene applicato a Cristo, così come la sua esegesi: “Salendo in alto fece prigioniera (la) prigionia, diede doni agli uomini”. Il soggetto di quel “salire” è il Gesù risorto, che nell'atto della sua risurrezione entra, ipso facto, nella gloria del Padre. La risurrezione è già di per se stessa un'ascensione nella gloria del Padre, benché la Chiesa, seguendo Lc 24,51 e At 1,9-11, abbia preferito distinguere la risurrezione dall'ascensione del Risorto al cielo, ma in realtà è un unico e identico atto.

La salita del Risorto al cielo, cioè la sua glorificazione, che lo ricolloca in seno al Padre, da dov'era uscito per entrare nel mondo e da cui poi è uscito attraverso la sua morte per rientrare glorificato al Padre con la sua risurrezione, creando un movimento pendolare che racchiude l'intera missione di Gesù e che Giovanni descrive in 16,28, ha come finalità primaria quella del fare “prigioniera (la) prigionia” (Æcmalèteusen a„cmalws…an, ecmalóteusen aicmalosían) dove il sostantivo “aicmalosían” significa letteralmente “prigionia di guerra, prigionia, cattività” e in senso traslato anche “moltitudine di prigionieri”. Ho, tuttavia, preferito mantenere il senso stretto di “prigionia, cattività”, che esprime lo stato e la condizione dell'umanità prigioniera del peccato. E quindi, quel “fare prigioniera la prigionia”, significa che Cristo, morto-risorto, ha cancellato definitivamente la condizione dell'uomo decaduto e privato della gloria di Dio (Rm 3,23). Da qui quel “diede doni agli uomini”, cioè restituì la loro dignità primordiale, allorché lo fece “poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato” (Sal 8,6), benché qui l'autore in quel “diede doni agli uomini” intenda doni di grazia, carismi che lo rendono idoneo a collaborare al progetto di salvezza pensato dal Padre e che preciserà nella pericope vv.11-16. In altri termini, il Risorto continua la sua opera salvifica tra gli uomini attraverso i credenti, forniti, ciascuno secondo il proprio ruolo, di doni di grazia “per la perfezione dei santi per l'esecuzione del ministero, per l'edificazione del corpo di Cristo” (v.12).

I vv.9-10 fungono da esegesi circa quel “salire”, che lascia supporre che prima ci sia stato un “discendere”, così che da quel discendere riparte il risalire. “Scendere e salire” alludono rispettivamente ai movimenti della passione-morte di Gesù e della sua risurrezione, ma non escluderei in quel discendere, anche il discendere sulla terra, la sua incarnazione, fino all'atto finale della sua morte di croce, per poi risalire al Padre da cui era uscito (Fil 2,6-11; Gv 16,28). Ma il suo discendere e il suo salire dice anche un abbraccio onnicomprensivo, tale da “riempire tutte le cose” (1,10), permeandole e compenetrandole della sua presenza, evidenziando in tal modo l'universalità sia dei suoi doni, offerti a chiunque creda in lui, sia della sua azione salvifica, espressa in quel discendere e salire, ma nel contempo indicando alla Chiesa, che ne continua l'opera, la strada da percorre: “avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8). Un'azione missionaria universale, dunque, che Mt 28,18-20 lascia intravvedere in chiusura del suo vangelo, per dire come la fine del Gesù storico non dice fine della sua azione salvifica, che invece continua tra gli uomini nella sua Chiesa, la quale cosa verrà anche confermata da Luca, che dà continuità al suo vangelo con gli Atti degli Apostoli (At 1,1-2): “E Gesù, avvicinatosi, disse loro: <<Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo>>”. Un'azione missionaria universale, dunque, pensata dal Padre fin dall'eternità, intrapresa dal Gesù della storia e continuata, quale Risorto, nella sua Chiesa, perché “Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,25-28).

I ministeri finalizzati alla crescita e al consolidamento del corpo di Cristo ... (vv.11-12)

All'interno di questo progetto universale di salvezza, che è la Chiesa, in cui si esprime l'opera salvifica del Padre, si rende necessaria la sua crescita e il suo consolidamento nell'unità, poiché soltanto in tal modo essa potrà esprimere pienamente la sua forza e rendersi credibile nella sua testimonianza. Per questo il Gesù giovanneo invocherà il Padre: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. […] Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv 17, 20-21.23).

Ed è in questa prospettiva di crescita nell'unità, che l'autore enumera al v.11 i doni di grazia, enunciati al v.7, elencando i diversi ministeri, che sorgono all'interno delle comunità credenti e finalizzati al perfezionamento della Chiesa e della crescita spirituale, morale ed umana dei suoi membri fino al raggiungimento della loro maturità in Cristo: “Ed egli diede gli apostoli, i profeti, gli evangelisti, i pastori e maestri”. I diversi ministeri sono dunque considerati dall'autore come il dono che il Risorto ha lasciato alla sua Chiesa perché continuasse la sua missione. Sono ministeri che certamente erano presenti all'interno delle comunità credenti, visto che l'autore li cita, ma il cui senso non è molto chiaro. Probabilmente sono ministeri che hanno a che vedere con l'annuncio della Parola del Vangelo e la sua amministrazione all'interno della Chiesa. Apostoli e pastori possiamo considerarli come un binomio unico, nel senso che i secondi sono coloro ai quali era demandata, da parte dei primi, la cura dei membri della comunità credente; mentre gli apostoli erano gli inviati da parte delle comunità ad annunciare e a fondare altre comunità credenti, nascenti e costituentisi attorno all'annuncio e dei quali questi apostoli erano responsabili. Figure che in qualche modo erano considerate caricate di autorità e si muovevano sulla falsariga di Paolo. Quanto ai profeti, questi, vanno associati ai maestri e in stretta collaborazione tra loro, poiché se i profeti erano quelli capaci di leggere, comprendere ed annunciare la Parola in seno alla comunità, interpretandola, tuttavia si rendeva necessario che il seme da loro sparso attecchisse e venisse coltivato nei cuori dei credenti e, in particolar modo, dei catecumeni. Compito questo affidato ai maestri, che potremmo considerarli dei catechisti. Rimane la figura degli evangelisti, di difficile interpretazione. Tuttavia, considerato il loro titolo di “evangelisti”, questi dovevano aver a che fare con i vangeli, il cui annuncio e spiegazione era affidato ad altri ministeri. È da pensare, quindi, che il loro ruolo sia stato quello di di trascrivere i vangeli per la loro diffusione all'interno delle comunità credenti. A loro, probabilmente, venivano affidate anche le lettere di Paolo, da trascrivere e diffondere, così come il presente scritto. Potremmo, quindi, considerarli come degli amanuensi, dei “copisti”. Ministero questo che non va sottostimato, ma era di fondamentale importanza per la diffusione della Parola scritta, che doveva essere il punto di rifermento concreto per tutte le comunità e i loro membri.

Un appunto va fatto in merito a queste figure di “evangelisti” dediti alla copiatura dei vangeli per la loro diffusione. Se questo ministero esisteva significa che anche i vangeli già c'erano e, quindi, questa figura deve essersi affermata come ministero probabilmente nei primi anni del II sec., la quale cosa fa pensare come questa “Lettera agli Efesini” sia databile primi anni del II sec.

La creazione di questi ministeri all'interno delle comunità credenti dà l'idea di come le chiese carismatiche, come quella giovannea, fossero ormai finite da tempo, per dare spazio a quelle istituzionalizzate, la cui finalità viene specificata in modo dettagliato dal v.12. Finalità che vengono definite con due preposizioni: con un “prÕj” (pròs) che riguarda la prima finalità, cioè la “perfezione dei santi”, che più che finalità dice “a favore” della “perfezione dei santi”; la seconda preposizione, che si ripete due volte per indicare una doppia finalità, è “e„j” (eis, per) che riguarda, la prima, “l'esecuzione del ministero”, cioè la preparazione adeguata a svolgere un determinato ministero all'interno della comunità, che si riferisce non a qualche persona all'interno della comunità, come quelle citate al v.11, ma a tutti i suoi membri. Tutti, infatti, sono considerati “ministri”, chiamati a compiere, tutti indistintamente, un ministero, cioè un preciso compito sacro, che viene specificato nella terza parte del v.12: “per l'edificazione del corpo di Cristo”, che costituisce la seconda finalità.

I ministeri istituzionalizzati, citati al v.11, hanno come primo compito quello della “perfezione dei santi”. Come dice il termine stesso “perfezione”, dal latino “perficere”, significa “portare a compimento” l'opera iniziata nel catecumenato con l'annuncio accolto del Vangelo, cioè portare a maturità spirituale in Cristo tutti i membri della chiesa, rendendoli coscienti e sensibili alle realtà spirituali che si sono installate in loro per mezzo della fede e del battesimo e in cui essi vivono. Soltanto in questi termini, cioè se si è coscienti di ciò che è avvenuto in se stessi, si giungerà a comportarsi di conseguenza, evitando tutti quei comportamenti che in qualche modo possono urtare con il nuovo stato di vita di “santi”, cioè persone che, in virtù della loro fede e del battesimo e per l'azione dello Spirito sono state ricollocate in Dio e ne condividono la Vita, già fin d'ora, benché non ancora in modo pieno e definitivo.

Questa coscientizzazione delle nuove realtà, di cui i credenti sono permeati, costituisce il preambolo per poter realizzare la prima finalità: “l'esecuzione del ministero”, cioè la capacità di operare in modo adeguato, nella coscienza di compiere un'azione sacra, che si muove sullo sfondo di un'azione cultuale e liturgica. L'opera, o per meglio dire, il ministero che tutti indistintamente sono chiamati a compiere è “l'edificazione del corpo di Cristo”. Significativo come questo obiettivo finale sia stato posto al termine di un percorso di maturazione spirituale di ogni singolo credente.

Che cosa significhi operare per la “edificazione del corpo di Cristo”, che è la Chiesa (1,23), verrà ora esposto di seguito ai vv.13-16 sotto due forme: negativa la prima (vv.13-14), positiva la seconda (vv.15-16)

crescendo nella fede e nella conoscenza di Cristo per giungere alla maturità cristiana (vv.13-14)

I vv.13-14 hanno una notevole rilevanza storica, perché lasciano trasparire il pericolo di divisioni all'interno delle comunità credenti, causate da una distorta conoscenza del Figlio di Dio. Lo lascia intendere in particolar modo il v.14 dove si parla di una scadente maturità spirituale e culturale dei credenti, metaforizzata nella figura dei “bambini”, creduloni e sempre pronti a lasciarsi abbindolare da uomini astuti e senza scrupoli, che seminano insidiose “dottrine varie e peregrine” (Eb 13,9a). Da qui la necessità di giungere rapidamente ad una solida maturità spirituale e culturale in Cristo e su Cristo, che si fa esperienza di Cristo e raggiunge in duplice modo: “pervenendo all'unità della fede” e all'unità “della conoscenza del Figlio di Dio”. In altri termini, fondando la propria fede su quei principi che l'autore ha enumerato ai vv.4-6 con quel ossessivo ripetersi del numero cardinale “uno” per ben sette volte. All'unità della fede va necessariamente e primariamente associata l'unità della conoscenza del Figlio di Dio, evitando di dare ascolto ad “ogni vento di dottrina”, elaborata da uomini astuti e ingannatori, che amano più se stessi che la Verità di Cristo e il rispetto dei credenti.

È, dunque, necessario approfondire la propria fede, che si nutre della conoscenza di Cristo, quale Figlio di Dio. Solo in tal modo si può giungere ad una piena maturità di credenti in Cristo; solo in tal modo si preserva l'unità del corpo di Cristo, che è la Chiesa. In altri termini: contrapporre la conoscenza di Cristo, di cui si nutre la fede, all'ignoranza di Cristo, che mortifica la fede fino a spegnerla.

Come accrescere la maturità cristiana (vv.15-16)

La pericope vv.15-16 è inclusa dalla parola “amore”, che compare all'inizio del v.15 e alla fine del v.16, dando così il tono all'intera pericope, che si muove sullo sfondo dell'amore. Tutto deve avvenire all'interno dell'amore. Nessuna affermazione della Verità, nessuna crescita del corpo, nessuna sua edificazione se tutto ciò non si muove all'interno di un contesto di amore.

Il v.15a propone in modo sintetico la formula per combattere l'errore senza creare divisioni interne alla comunità credente: “affermare la verità nell'amore”. La Verità, quella enunciata dogmaticamente ai vv.4-6; la Verità di quel Vangelo, che fu annunciato e fu accolto fin dagli inizi del cammino della propria fede (1,13). Una Verità che, però, non va mai sbattuta in faccia a chi devia da essa, contrapponendosi a chi sbaglia o crede di essere nel giusto e segue, a motivo della debolezza della propria fede e della propria pochezza circa la conoscenza di Cristo, “ogni vento di dottrina” (v.14). La Verità non è uno strumento di offesa, ma di illuminazione, di liberazione e di salvezza, che non va imposta, ma proposta nell'amore, che è rispetto di colui al quale la si annuncia, cercando di ricondurlo sulla retta via, poiché solo se non ci si sente offesi ed aggrediti ci si rende anche disponibili ad aprirsi e a rivedere le proprie posizioni. E ciò sull'esempio di Cristo, che ha fatto splendere la sua Verità nell'estremo gesto di amore sulla croce: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,16-17). La fede, infatti, non è la conclusione di un bel ragionamento o dell'imposizione di un potere, ma è dono offerto a tutti dal Padre nel Figlio, che opera con la potenza del suo Spirito, poiché Dio è Amore (1Gv 4,8.16) e in quanto tale Dio si propone nel rispetto di ogni singola persona, nel rispetto della sua maturazione e della sua storia, ma non s'impone mai, ma rimane sempre in attesa, come il padre del figliol prodigo (Lc 15,20), della conversione per la quale non manca mai l'apporto della sua luce e della forza del suo Spirito.

Su questo parametro divino il credente è chiamato ad affermare la Verità nell'amore. E la prima affermazione della Verità, quella del Vangelo, è il conformarsi esistenzialmente ad essa, testimoniandola nell'amore, proprio perché Dio, Verità di Amore, si propone, ma non s'impone. Così che il credente, vivendo la comunità nelle sue complesse relazioni interpersonali, per mezzo di un amore conformato alla Verità, è in grado di trasformarla, lentamente e gradualmente, poiché in lui opera la Verità, che si è fatta amore. Rm 12,1-2 attesterà proprio questa azione sacerdotale di trasformazione e di consacrazione di tutte le cose a Dio, quale proprio atto di culto operato nella propria vita e con la propria vita, invitando i credenti a trasformare la propria mentalità, riparametrandola e sintonizzandola su quella di Cristo, verso cui tutto deve convergere, così come nel disegno del Padre, che vede “ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle nei cieli e quelle sulla terra in lui” (1,10), perché “quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28).

Il v.16 si sofferma sulle dinamiche della comunità credente conformata alla Verità testimoniata nell'amore. Si parla di un corpo, la comunità credente, che proprio perché illuminato dalla Verità di Cristo vissuta nell'amore, è disposto ordinatamente, senza rivalità o prevaricazioni, ma che si muove nel rispetto dei singoli ruoli, che formano la sua struttura e consentono i diversi dinamismi della comunità, come un corpo vivente sano, dove ciascuno membro ed ogni su articolazione fanno la loro parte, perché questo corpo funzioni bene, favorendone in tal modo una buona crescita. Corpo che è la Chiesa stessa, di cui ogni credente è membro e responsabile nel proprio ruolo assegnatogli dalla grazia di Dio; poiché questo corpo è quello di Cristo stesso, che continua la sua missione di salvezza in mezzo agli uomini nella Chiesa e in ciascun suo membro vive ed opera per la salvezza di ogni uomo, così che tale corpo diventi ancora una volta la mano tesa di Dio verso gli uomini, così che per tutti la Chiesa diventi un luogo di accoglienza e di amore.


Due diversi modi di vivere la propria vocazione (vv.17-25)


Testo a lettura facilitata

Una vita secondo i vecchi schemi (vv.17-19)

17- Dico, pertanto, e attesto nel Signore questo che nessuno di voi cammini, così come le genti camminano n(ella) vanità della loro mente,
18- i quali sono oscurati nella loro mente, estranei alla vita di Dio per ignoranza, che è in loro a motivo dell'accecamento del loro cuore,
19- costoro, divenuti insensibili, consegnarono loro stessi all'impudicizia per mezzo dell'opera di ogni depravazione n(ella) cupidigia.

La necessità di rinnovare la propria mente (vv.20-25)

20- Ma voi non così avete conosciuto il Cristo,
21- se dunque lo avete ascoltato e in lui foste istruiti, com'è la verità in Gesù,
22- (dovete) deporre, quanto alla condotta precedente, l'uomo vecchio corrotto secondo i desideri dell'inganno,
23- ma (dovete) rinnovarvi nello spirito della vostra mente,
24- e rivestirvi dell'uomo nuovo, che è stato creato secondo Dio n(ella) giustizia e santità della verità.
25- Per questo, deposta la menzogna, parlate (la) verità, ciascuno con il suo prossimo, poiché siamo membra gli uni degli altri.

Una esemplificazione di due diversi modi di vivere (vv.26-32)

26- Adiratevi e non peccate; il sole non tramonti su[lla] vostra ira,
27- non date spazio al diavolo.
28- Chi ruba, non rubi più, ma piuttosto si affatichi facendo il bene con le [proprie] mani, affinché abbia a fare parte con chi ha bisogno.
29- ogni parola cattiva non esca più dalla vostra bocca, ma se (esce, esca) qualche (parola) buona per l'edificazione del (comune) vantaggio, affinché dia grazia a coloro che ascoltano.
30- E non rattristate lo Spirito Santo di Dio nel quale foste segnati per il giorno della redenzione.
31- Togliete di mezzo a voi ogni amarezza e sdegno e ira e clamore e blasfemia con ogni cattiveria.
32- [Ma] siate buoni gli uni verso gli altri, misericordiosi, donando(vi) reciprocamente come anche Dio vi ha donato (se stesso) in Cristo.


Note generali

Dopo l'inciso della sezione vv.7-16, l'autore, con il v.17, riprende l'esortazione iniziata con il v.1, dove i neobattezzati erano sollecitati a camminare in modo degno della vocazione ricevuta: “nessuno di voi cammini, così come le genti camminano n(ella) vanità della loro mente”, che si contrappone al “camminare in modo degno della vocazione, con la quale foste chiamati”.

Ora, con questa sezione sezione (vv.17-32) l'autore approfondisce il nuovo modo di vivere a cui i neobattezzati sono stati chiamati. Lo fa raffrontando tra loro due diversi modi di vivere, quello del mondo pagano (vv.17-19), dal quale essi provengono, e quello, invece, che hanno conosciuto dopo aver incontrato Cristo (vv.20-25), accogliendo in loro l'annuncio della Verità del Vangelo (1,13-14). Una contrapposizione che viene rafforzata da una esemplificazione dei due diversi ed opposti modi di vivere (vv.26-32), creata a regola d'arte, perché da essa ne esca un contrasto che meglio metta in rilievo le profonde diversità dei due modi di vivere, così da evitare le prime e camminare con speditezza nelle seconde.

Un metodo, questo della contrapposizione, che l'autore aveva già utilizzato in 2,1-7, dove 2,1-3, che descriveva il modo di vivere pagano in cui i neobattezzati si trovavano prima dell'incontro con Cristo, veniva contrapposto alle nuove realtà a cui essi erano stati chiamati in Cristo (2,4-7).

Già da questi brevi cenni si intuisce come la struttura di questa seconda parte del cap.4 (vv.17-32) viene scandita in tre parti, che propongo di seguito:

  1. Una vita secondo i vecchi schemi (vv.17-19);

  2. La necessità di rinnovare la propria mente in Cristo (vv.20-25);

  3. Una esemplificazione di due diversi e contrapposti modi di vivere (vv.26-32).

Commento ai vv. 17-32


Una vita secondo i vecchi schemi (vv.17-19)

Dopo l'esortazione dei vv-1-6, fatta seguire da un inciso (vv.7-16), che illustrava le motivazioni su cui fondava l'esortazione, ora l'autore riprende il tutto imprimendo all'esortazione iniziale e a quanto ora seguirà (vv.17b-32) una valenza giuridica, con una sorta di attestazione giurata: “Dico, pertanto, e attesto nel Signore”, dove con quel “pertanto” si aggancia a quanto detto prima e ne trae in qualche modo le conclusioni; mentre quel “dico”, rafforzato da “attesto”, rileva come quanto verrà detto di seguito sia un'attestazione, la cui importanza viene sottolineata da quel “nel Signore”. Tutto ciò che segue, pertanto, assumerà i toni solenni di un'attestazione giurata davanti a Dio ed avrà un notevole peso sia spirituale che morale sui neobattezzati, che dovranno a tal punto rispondere davanti a Dio del loro comportamento.

Il v.17b, riprendendo il “camminare in modo degno” del v.1, ma qui al negativo, sollecita a non vivere più alla maniera dei pagani, così come essi, i neobattezzati, vivevano prima dell'incontro con Cristo. Un modo di vivere che viene definito con l'espressione “vanità della loro mente”, cioè una mente priva di ogni regola e di ogni remora morale. E in che cosa consista questa “vacuità morale” viene precisata dai vv.18-19, che richiamano molto da vicino Rm 1,18-32, dove Paolo descrive il colpevole modo di vivere del mondo pagano, che qui viene sintetizzato analizzandone le cause: le loro menti e i loro cuori non sono illuminati dalla luce di Dio, che si è rivelata in Cristo. Per questo essi operano secondo le logiche della carne e delle tenebre, non rendendosi conto del male che vive e opera nelle loro vite, rendendoli insensibili a Dio e alle sue esigenze. E la prova di ciò è il loro modo modo di vivere depravato: “consegnarono loro stessi all'impudicizia per mezzo dell'opera di ogni depravazione n(ella) cupidigia”. Significativo è quel “consegnarono loro stessi”, che dice, da un lato, la loro responsabilità morale del loro modo di vivere, che già li condanna fin d'ora; dall'altro, come le loro vite siano in balia delle loro depravazioni, che inevitabilmente incideranno distruttivamente sulle loro vite, poiché il male porta con sé, fin da subito, la sua ricompensa, così del resto come il bene.

La necessità di rinnovare la propria mente (vv.20-25)


Note generali

Questa pericope costituisce l'altra faccia della medaglia; una faccia che si contrappone alla prima (vv.17-19), dove veniva descritta la vacuità di una vita corrotta e dedita all'impudicizia, sensibile alle pretese dalla carne, ma insensibile a Dio, così che dal confronto contrastante tra il prima e il dopo Cristo venga rilevata la novità di una vita che si stacca dalla precedente, stagliandosi nettamente su di essa.

La pericope, molto accurata, si suddivide strutturalmente in tre parti:

  1. un'introduzione, che si richiama all'esperienza di Cristo e al cammino catecumenale che hanno portato loro, i neobattezzati, a conoscere Cristo e le esigenze di una vita completamente rinnovata in lui (vv.20-21);

  2. i vv.22-23 costituiscono il cuore della pericope, perché sollecita un radicale cambiamento di mentalità, che abbia quali conseguenze la spogliazione dell'uomo vecchio, per dare spazio a quello nuovo;

  3. il v.25 altro non è che la parte conclusiva di questa pericope ed è la sintesi dei vv.22-24, che vede contrapposto la vita prima dell'incontro con Cristo, definita come “menzogna”, a quella presente, del dopo Cristo, concepita come vita nella Verità, che ha come meta ultima la comunione di vita di tutti i membri della comunità credente.

Commento ai vv.20-25

Il v.20 si apre con una particella avversativa “ma voi” (Øme‹j de, imeîs de), che dà il senso di contrapposizione all'intera pericope, che dal quel “ma” dipende ed è condizionata; mentre quel “non così” fa riferimento alla vita dissoluta descritta nella pericope precedente (vv.17-19), nel senso che i neobattezzati non hanno conosciuto Cristo, cioè incontrato e sperimentato, in quel contesto di dissolutezza e depravazione, poiché Cristo è tutt'altro da quelle cose lì. Altri, dunque, sono i contesti che i neobattezzati devono frequentare per continuare a conoscere Cristo, cioè farne l'esperienza e approfondirla. Ed è a tal punto che l'autore si richiama con l'espressione “lo avete ascoltato e in lui foste istruiti” del v.21 a 1,13 dove si allude, così come qua, al cammino catecumenale, il luogo dove essi, invece, hanno potuto incontrare, sperimentare e approfondire la conoscenza di Cristo con le loro vite e la sua Verità, che è il Vangelo stesso. Anche quest'ultimo richiamo alla verità in Cristo si aggancia a 1,13, là dove si parla della parola della verità, “il vangelo della vostra salvezza”.

L'esperienza di Cristo, pertanto, è avvenuta in un contesto di santità e di sacralità qual era il cammino catecumenale, ben diverso dal contesto del mondo pagano, soggiogato al dominio della carne, che lo ha reso cieco alla luce di Dio, rivelatasi in Cristo e insensibile a Dio. Ma l'allusione al cammino catecumenale è motivo di richiamo di quell'esperienza, che in genere durava circa tre anni e che stravolgeva completamente la vita dei candidati al battesimo, che dovevano modificare radicalmente il proprio modo di vivere e, ancor prima, quello di pensare22. Centrale e fondamentale, in tale contesto di cambiamento e di rigenerazione spirituale ed esistenziale, risulterà ad essere il v.23, che funge da motore di cambiamento con l'esortare a rinnovarsi “nello spirito della vostra mente”.

Ai versetti introduttivi, vv.20-21, seguono, ora, posti centralmente alla pericope vv.20-25 in esame, costituendone il cuore, i vv.22-24, che, in modo accurato, sono stati costruiti a parallelismi concentrici in B), dove in A) si sollecita a deporre l'uomo vecchio (v.22) e in A1) si esorta a rivestirsi dell'uomo nuovo (v.24), mentre il v.23, posto centralmente tra A e A1), costituisce il punto di convergenza B) degli altri due ed è, secondo le logiche della retorica ebraica, il punto più importante, poiché la spogliazione dell'uomo vecchio e il rivestirsi d quello nuovo parte tutto dal un rinnovamento della propria mente e del proprio spirito, illuminati dalla Verità del Vangelo..

Ci troviamo di fronte ad una pericope che richiama da vicino Rm 12,2 e 6,6 dove si parla, rispettivamente, della necessità di rinnovarsi nella propria mente e di uomo vecchio, che è stato crocifisso con Cristo “perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato”. Concetto che ritroviamo in egual modo, benché sotto forma di “lievito vecchio”, anche in 1Cor 5,7.8. Lettere queste da cui l'autore di questo scritto deve aver attinto, così come l'autore della Lettera ai Colossesi, lettera gemella di questa agli Efesini, quasi sinottica, dove ritroviamo l'esortazione a non mentirsi gli uni agli altri, perché ci si è spogliati dell'uomo vecchio e delle sue azioni (Col 3,9). E similmente compare nelle stesse lettere, per contrapposizione al tema dell' “uomo vecchio”, quello dell'uomo nuovo o di vita nuova o pasta nuova23.

Sempre secondo lo schema del raffronto della vita precedente con quella attuale, per farne risaltare le contrastanti e contrapposte differenze e quindi la necessità di un radicale cambiamento, anche in questa breve pericope l'autore apre con l'esortazione del v.22 a “deporre, quanto alla condotta precedente, l'uomo vecchio corrotto secondo i desideri dell'inganno”. L'esortazione qui è imperativa, perché lascia sottintendere il “dovete deporre”. Il verbo qui è posto all'infinito e quindi esprime un senso assoluto: ¢poqšsqai, (apotzéstai, deporre). Non si è più, pertanto, nel campo di una mera esortazione paternalistica, ma di una imposizione spirituale e, di conseguenza, morale. L'essere stati fatti oggetto di attenzione salvifica da parte di Dio nel suo Cristo e con la potenza dello Spirito ancor prima della creazione del mondo (1,4), così come l'essere stati dichiarati “opera sua” (2,10a), cioè di Cristo, comporta necessariamente per il credente un radicale cambio di passo a livello esistenziale, cioè che appaia concretamente dal proprio modo di vivere e dalle proprie scelte imposte dalla quotidianità del proprio vivere. Il richiamo qui riguarda, infatti, “alla condotta precedente, l'uomo vecchio corrotto secondo i desideri dell'inganno”. Una condotta, quindi, che è generata dall'uomo vecchio, corrotto dal peccato e che si muove secondo gli ingannevoli desideri della carne, di cui la sua vita e le sue scelte quotidiane sono permeate, per ignoranza, che rende cechi e insensibili a Dio, ed oscura le menti, così da non comprendere più il senso del bene e del male, scambiando l'uno per l'altro, perché si è privi del senso di Dio.

La contrapposizione al v.22 è il v.24, dove il sollecito è esattamente contrario al v.22: “rivestirvi dell'uomo nuovo, che è stato creato secondo Dio n(ella) giustizia e santità della verità”. Se l'uomo vecchio è generato da una carne decaduta (Rm 3,23), così che esso si muove secondo tali logiche, che lo rendono insensibile a Dio e al suo mondo di valori, per contro, l'uomo nuovo è, invece, generato da Dio e si muove secondo le logiche dello Spirito (Rm 8,14; Gv 3,5-7). Infatti “A quanti l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). In realtà si tratta di una nuova creazione, allusa in quei cieli nuovi e terra nuova sognati da Is 65,17 e 66,22 e contemplati da Giovanni in Ap 21,1 e dove Dio annuncia la nuova creazione. “E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>” (Ap 21,5a; Is 43,19a).

Una nuova creazione operata “secondo Dio n(ella) giustizia e santità della verità”, dove “giustizia e santità della verità” dicono gli attributi di Dio stesso e ne esprimono le sue logiche. Si tratta, dunque, di una nuova creazione in cui vengono ricollocati soltanto gli uomini nuovi, cioè uomini che, spogliatisi della vecchia condotta, che si muove secondo le logiche della carne corrotta dal peccato, hanno assunto come criterio guida della propria vita quelle di Dio, conformando ad esse la propria mente e il proprio cuore, così da farne una propria forma mentis.

Il passaggio dal v.22 al v.24 è intervallato dal v.23, posto centralmente tra i due e funge da motore di trasformazione: “ma (dovete) rinnovarvi nello spirito della vostra mente”, che richiama da vicino Rm 12,2. Secondo l'antropologia paolina l'uomo è composto da spirito-anima-corpo (1Ts 5,23), dove l'anima è il punto di giuntura tra le due realtà, spirito e corpo, che per loro natura sono antitetiche e, pertanto, inconciliabili. Ma l'incontro tra le due realtà e la loro conciliazione è resa possibile dall'anima, che è il “luogo” non solo del loro incontro, ma dà a loro anche la possibilità di relazionarsi e di dialogare tra loro e di autoinfluenzarsi, così che il corpo è assoggettato dalle azioni dello spirito, così come quest'ultimo a quelle del corpo. Lo “spirito della mente” dice la mutazione che avviene nello spirito dell'uomo, che si esprime “nella mente”, concepita come lo strumento di espressione dello spirito e ne rivela le profondità e le mutazioni e gli orientamenti spirituali, che attraverso la psiche, cioè l'anima, si concretizzano poi, per mezzo della volontà, nella concretezza del vivere quotidiano dell'uomo, così da caratterizzarlo nel suo modo di vivere, esprimendo in esso il suo orientamento esistenziale, che è conseguenza e conseguente ai moti dello spirito. È, dunque, lo “spirito”, che si esprime attraverso la mente, la quale formula pensieri e sentimenti, che determina l'orientamento esistenziale dell'uomo, rivelando la profondità e la verità della sua trasformazione interiore. Da qui la necessità di rinnovarsi nello “spirito” perché la mente produca nuovi modi di pensare e di sentire, così che questi si trasformino in nuovi modi di vivere, delineando nell'uomo che ha incontrato e accolto Cristo, un nuovo stile di vita, che testimonia la sua profonda conversione, che si esprime in un nuovo riorientamento esistenziale: dalle logiche della carne a quelle dello Spirito, che rende sensibile e disponibile il credente alle esigenze di Dio, che si traducono in un nuovo modo di vivere, poiché ciò che Dio desidera è che l'uomo sia pienamente uomo ed esprima nel suo vivere quotidiano pienamente la sua umanità, profondamente segnata e caratterizzata da quell'impronta divina che lo ha reso immagine e somiglianza di Dio e, in quanto tale, gli appartiene.

Dopo le premesse dei vv.17-24, l'autore trae le sue conclusioni con il v.25, ritornando sul tema che particolarmente gli sta a cuore: l'unità della comunità credente, che già aveva menzionato al v.3 e che si esprime dinamicamente e si sostiene attraverso la qualità dei rapporti dei singoli membri tra loro. Da qui il sollecito a “deporre la menzogna” e il “parlare la verità”. La menzogna dice il mostrare ciò che non si è. E ciò che il credente non è più quanto è stato detto ai vv.17-19 e, ancor prima, in 2,1-3, dove viene illustrato il modo di vivere dei pagani, le cui menti sono oscurate dall'ignoranza di Dio, che li rendono ciechi e a Lui insensibili, così che questo modo di vivere diviene distruttivo per la comunità credente, qualora i suoi membri non si rinnovino nello spirito e nella mente, aprendosi alle esigenze di Dio, che trovano la loro piena attuazione nel vicendevole amore e nel reciproco rispetto, poiché non si può pensare di amare Dio, che non si vede, se non si ama il prossimo che si vede (1Gv 4,20b), così che l'amore di Dio passa necessariamente attraverso l'amore del prossimo, in cui Cristo è sacramentato (Mt 25,40.45).

Ma il conformarsi alle esigenze di Dio non è un dato acquisito una volta per sempre, ma richiede un costante atteggiamento di conversione, così da farne un proprio stile di vita, sollecitato dall'esortazione di Lv 19,2: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo”, riecheggiata in qualche modo in Mt 5,48: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. Esortazioni che lasciano intendere quale sia la distanza che separa l'uomo, sia pur esso credente, da Dio. Un cammino di conversione costante, che è un cammino di perfezione, che si concluderà nell'eternità stessa di Dio.

In questo contesto, pertanto, il linguaggio della menzogna deve essere deposto per assumere quello della verità, cioè il linguaggio del vangelo, che i neobattezzati hanno appreso nel loro recente cammino catecumenale (1,13) e che si esprime nell'amore vicendevole, poiché proprio attraverso questo verranno caratterizzati e verranno riconosciuti come veri discepoli di Cristo (Gv 13,35). In che cosa consista concretamente questo linguaggio della verità, con cui l'autore sollecita i neobattezzati e con loro tutti i membri della comunità credente, già lo aveva in qualche modo preannunciato ai vv.2-3: è il sapersi relazionare gli uni con gli altri “con ogni umiltà e mitezza, con pazienza, sopportando gli uni gli altri ne(ll')amore, preoccupandovi di custodire l'unità dello spirito nel vincolo della pace”.

Una esemplificazione di due diversi modi di vivere (vv.26-32)

Già l'autore aveva sollecitato i neobattezzati “a camminare in modo degno della vocazione” ricevuta (v.1b) e con i vv.17-25 a non camminare come camminano i pagani nella vacuità della loro mente, ma di conformarsi a Cristo, lasciandosi illuminare dalla luce della sua Verità, che splende nel suo Vangelo. Che cosa tutto ciò significhi concretamente viene ora esemplificato dalla pericope vv.26-32, che si muove sempre secondo le logiche della contrapposizione di comportamenti, per mettere maggiormente in evidenza ciò che è giusto.

È da pensare che l'esemplificazione attinga in qualche modo ai punti deboli delle comunità, che rischiavano di portarle alla deriva, esponendole ad un drammatico naufragio. Si parla, infatti, di ira, di rubare, di linguaggio lascivo od offensivo o polemico, di stati d'animo continuamente agitati, che predispongono alla cattiveria e a comportamenti che possono rasentare anche la grave offesa a Dio nel prossimo. Una situazione, quella della comunità di Efeso, ma forse è bene dire delle comunità dell'Asia minore, di cui Efeso era la capitale e, forse per questo, meglio ne rispecchiava i vizi e le virtù, che lascia trasparire la situazione delle prime comunità credenti, che pur avendo abbracciato Cristo nella fede, lasciavano alquanto a desiderare nel loro modo di vivere, che risentiva del mondo pagano nel cui contesto sociale erano inserite e dal quale i loro membri provenivano.

L'elenco dei comportamenti da evitare e quelli invece da adottare si apre con un richiamo scritturistico (Sal 4,5) riadattato dall'autore al contesto: “Adiratevi e non peccate”. Di certo non è un invito a dar sfogo alla propria ira purché non si pecchi, poiché l'ira già di per se stessa dice uno stato d'animo alterato, che toglie lucidità alla propria mente e libera i propri freni inibitori, predisponendo l'iroso ad un comportamento aggressivo e offensivo se non, peggio, distruttivo, nei confronti dell'altro e, quindi, è già di per se stesso una forma di peccato, poiché crea il contesto e l'occasione di peccato, tant'è che al v.31 si esorta ad evitare “sdegno e ira e clamore”. Probabilmente il senso è di porre attenzione a non trascendere nel caso ci si adiri e, comunque, l'ira non deva mai andare oltre certi limiti, ma deve scemare nel giorno stesso in cui è sorta, cioè deve avere uno decorso rapido, così da non eccedere, evitando in tal modo di dare spazio al diavolo, cioè creando con la propria ira il contesto opportuno per il diavolo, che come dice il termine stesso, “diabÒlJ” (diabólo), è colui che calunnia, che maledice, ingiuria e denigra in modo mordace, diffamatore ed è avversario, per sua natura, dell'uomo, perché ancor prima lo è di Dio, che cerca di colpire nell'uomo, sua immagine e somiglianza.

L'attenzione all'ira, quale stato d'animo alterato in cui gli efesini sembrano eccellere, viene approfondita, nei suoi effetti più sgradevoli e pericolosi, ai vv.29-31, dove si parla di parole cattive che escono dalla bocca dell'iroso e che sono frutto dello sdegno, dell'ira e che provocano clamori, blasfemie, cioè parole e comportamenti ingiuriosi rivolti ai “santi”, cioè ai credenti, e di conseguenza a Dio, degenerando in ogni sorta di comportamenti cattivi, che rattristano lo Spirito Santo con cui i credenti sono stati segnati nel battesimo e che porta con sé la promessa di vita eterna. L'ira, dunque, con tutte le sue manifestazioni deplorevoli, è fonte di divisioni e contrasti interni alla comunità credente ed è di per se stessa distruttiva. Non va mai dimenticato, infatti, come l'intera sezione parenetica (4,1-6,17) è finalizzata ad esorcizzare le divisioni interne dettate da stati d'animo alterati. Da qui l'elencazione di comportamenti costruttivi “per l'edificazione del comune vantaggio” e l'assunzione di comportamenti dettati da uno stato d'animo buono e misericordioso “con ogni umiltà e mitezza, con pazienza, sopportando gli uni gli altri ne(ll')amore” (v.2), come buono e misericordioso lo è stato Dio in Cristo nei confronti degli efesini, invitandoli a donarsi reciprocamente, cioè rendersi disponibili all'altro, anche se ha sbagliato, così come anche Dio si è donato a loro in Cristo.

Ma perché gli efesini erano così irosi? Il motivo viene detto al v.28a: “Chi ruba, non rubi più”. E che sia questo il motivo lo lascia intendere l'esortazione stessa a “non rubare”, l'unica, collocata all'interno di un contesto di stati d'animo alterati, che abbia un lineamento concreto e si riferisca ad un particolare contesto sociale, formato da persone probabilmente sfaccendate (v.28b), che per campare rubacchiavano qua e là, senza remore morali. Perché si era formato un simile contesto sociale negativo all'interno di comunità credenti? Un contesto che probabilmente non era costituito solo da qualche ladruncolo, ma doveva essere un fenomeno abbastanza diffuso, se l'autore dello scritto si è sentito in dovere di intervenire così pesantemente, per evitare conflitti interni alla comunità.

La risposa ci viene suggerita da 2Ts 3,10-13, lettera che si colloca anche questa sul finire del I sec. d.C.: “E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene”. Perché questo intervento da parte di Paolo o, comunque, di qualche autore di scuola paolina? Il motivo è semplice. Nel I sec. si era diffusa la convinzione di un imminente ritorno del Signore, che avrebbe posto fine a questo ordine terreno di cose e con esso alla storia stessa dell'uomo e instaurato il suo regno. Anche Paolo era convinto in tal senso e lo lascia trasparire in 1Cor 7, 29-31: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!”.

Ebbene, in questo contesto di fine imminente, che senso aveva impegnarsi nelle cose di questo mondo? Che senso aveva darsi da fare se da un momento all'altro tutto poteva finire? Si cerchi, dunque, di campare alla meno peggio in attesa della fine, magari rubacchiando qua e là o approfittando della generosità dell'altro o cose simili. Da qui il severo monito del v.28: “Chi ruba, non rubi più, ma piuttosto si affatichi facendo il bene con le [proprie] mani, affinché abbia a fare parte con chi ha bisogno”. Esortazione che in qualche modo riecheggia quella della 2Ts 3,10-13.

Una vita nuova nella luce di Cristo (5,1-6,17)

Note generali

Sulla falsariga del cap. 4 e con gli stessi toni esortativi continua la parenesi, ma dando attenzione qui non più all'unità della comunità credente, alla quale l'autore ha dedicato l'intero capitolo precedente, ma al modo di condurre la propria vita personale, adottando linguaggi e modi di comportarsi illuminati dalla luce di Cristo (5,1-20), relazionandosi agli altri con ogni umiltà, nel rispetto dei singoli ruoli che ognuno ricopre all'interno delle relazioni familiari (5,21-6,9), considerando la vita credente come una sorta di militanza e di combattimento (6,10-17) in mezzo ad un mondo che vive in “tempi malvagi” (5,16), esortazione questa in cui riecheggia in qualche modo quella di Paolo ai Filippesi: “siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo” (Fil 2,15).

Il parametro di raffronto del proprio modo di comportarsi è Dio stesso. Da qui l'esortazione a “camminare nell'amore (5,2a), “come figli della luce” (5,8b) e secondo i dettami della sapienza illuminata da Cristo (5,15).

Similmente a 4,26-31, dove l'autore riprendeva gli stati d'animo irosi e le parole cattive, anche qui vengono ripresi i linguaggi e i comportamenti disdicevoli e vergognosi (5,3-7.18a), che dovevano essere diffusi all'interno delle comunità credenti e che risentivano dell'ambiente pagano in mezzo al quale esse vivevano la loro quotidianità e dal quale provenivano. Anche qui l'autore gioca su continui contrasti di tenebra e luce, di chiaro-scuri creando in tal modo dei netti stacchi tra ciò che era la loro vita prima dell'incontro con Cristo e ciò che, invece, è adesso, illuminata dalla luce e dalla sapienza cristiana, tra due mondi non solo contrapposti, ma inconciliabili tra loro.

Vi sono tra i tre capitoli, che formano la sezione parenetica (4,1-6,24), degli agganci che li legano l'uno all'altro, dando una forte continuità tematica, che pur con sfaccettature diverse, si muove tutta su di un unico sfondo, quello della vita nuova in Cristo. Così che il cap.4 è legato al cap.5 dal v.32 con cui si invitano i credenti ad essere buoni e misericordiosi donandosi reciprocamente gli uni agli altri come Dio ha dato se stesso in Cristo, anticipando così il tema dell'amore di Dio, che viene preso a parametro di raffronto su cui modellare le proprie vite. Tema quest'ultimo con cui si apre il cap.5, esortando ad essere “pertanto imitatori di Dio come figli amati”, camminando nell'amore (5,1-2). E così similmente il cap.6 dà continuità tematica al cap.5 presentando i nuovi rapporti familiari, regolati tutti sull'amore reciproco e nel rispetto dei singoli ruoli che li regolano.

Quanto alla struttura di questa seconda parte (5,1-6,17) della sezione parenetica, propongo la seguente:

  1. Introduzione tematica alla seconda parte della sezione parenetica (5,1-2);

  2. denuncia di comportamenti disdicevoli, inaccettabili nella nuova vita in Cristo (5,3-7);

  3. le motivazioni sulle quali si basa un radicale cambiamento di vita (5,8-14);

  4. esortazione a vigilare sul proprio comportamento (5,15-20);

  5. le nuove relazioni intrafamiliari (5,21-33)


Commento a 5,1-6,17

Introduzione tematica alla seconda parte della sezione parenetica (5,1-2)

Testo

1- Siate pertanto imitatori di Dio come figli amati
2- e camminate nell'amore, come anche Cristo amò noi e donò se stesso per noi (quale) oblazione e sacrificio a Dio in soave odore.


Commento al vv.1-2

Il cap.4 si chiudeva con il v.32, che sollecitava i neobattezzati e i credenti in genere ad essere buoni e misericordiosi gli uni verso gli altri, donandosi reciprocamente come anche Dio si è donato a loro in Cristo. Un incitamento questo che funge da preambolo a 5,1, che ne trae le conclusioni: “Siate pertanto imitatori di Dio come figli amati". L'imitazione di Dio va operata sul “suo donarsi agli uomini in Cristo”. Cristo, pertanto, diviene il luogo in cui il Padre dona se stesso agli uomini, nel senso che egli tende nuovamente la sua mano all'uomo per trarlo nuovamente a Sè, per poter condividere nuovamente la sua vita con lui, così com'era nei primordi dell'umanità, allorché Dio nel creare l'uomo insufflò in lui il suo Spirito di vita (Gen 2,7), rivestendolo della sua stessa vita, facendolo a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27). E il Sal 8,6-7 così lo celebrerà: “l'hai fatto poco meno degli angeli,di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi”. Un dono di sé che Gv 3,16 così ricorda: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”. Un dono, quindi, a cui si accede per mezzo della sola fede, che per Giovanni è il credere con la vita, conformandola alle esigenze di Dio.

Ma se Cristo è il luogo in cui il Padre dona se stesso agli uomini, egli è anche il luogo in cui essi non solo si incontrano con il Padre, ma tutti i credenti si incontrano, e in comunione a Cristo e in Cristo e al Padre, sono anch'essi in comunione tra di loro. Un passaggio questo che 1Gv 1,3 evidenzierà: “quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”. Si tratta, dunque, di una comunione di amore, che si caratterizza per la donazione reciproca, che è compenetrazione di vite permeate tutte dalla Vita di Amore del Padre. Da qui l'esortazione: “e camminate nell'amore, come anche Cristo amò noi e donò se stesso per noi (quale) oblazione e sacrificio a Dio in soave odore”, dove quel “kaˆ” (kaì, e), posto a inizio del v.2, lo collega al v.1 e ne trae la conclusione: “camminate nell'amore”, cioè vivete nell'amore, caratterizzato dal dono di sé agli altri. Ed è qui che compare, dopo Dio (4,32b-5,1), un altro parametro di raffronto, che rivela in se stesso in quale modo questo amore del Padre si è manifestato e si è storicamente attuato: “come anche Cristo amò noi e donò se stesso per noi (quale) oblazione e sacrificio a Dio in soave odore”. Il riferimento qui è alla morte di Gesù in croce, che viene letta dall'autore come un dono di amore di sé, che non si limitò ad un semplice gesto di amore, ma un amore che fu totale (Gv 15.13), trasformando tutto se stesso quale offerta sacrificale a Dio gradita (Eb 7,27; 9,28a).

L'autore con i vv.4,32-5,2 sta perfezionando la sua esortazione riguardante non solo le relazioni intracomunitarie, che già ha trattato nel cap.4, ma anche quelle intrafamiliari, che tratterà a breve in 5,21-6,9. Tutte le relazioni dei credenti, pertanto, sia quelle intracomunitarie che intrafamiliari devono reggersi sull'amore, colto come atto donativo di se stessi agli altri, quale sacrificio di soave odore, gradito a Dio, diventando in tal modo una sorta di atto di culto, che trasforma la vita, sia comunitaria che familiare, in una liturgia di lode e di ringraziamento a Dio, come lo fu quella di Cristo, che sulla croce ha dato tutto se stesso per noi. Così che, come Cristo, ogni credente, rivestito di Cristo nella fede e nel battesimo, diviene sacerdote e vittima di se stesso per il bene degli altri.

Un richiamo questo in cui riecheggia in qualche modo Rm 12,1, che mettendo in evidenza la sacerdotalità propria di ogni credente, lo esorta, quale azione cultuale, a trasformare la propria vita e con essa, per un principio di solidarietà24, l'intera realtà creata in un'offerta sacrificale a Dio gradito: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. Un culto che trova il suo perfezionamento nel rinnovamento della propria mente per comprendere quale sia la volontà di Dio.

Denuncia di comportamenti disdicevoli, inaccettabili nella nuova vita in Cristo (5,3-7)

Testo

3- Fornicazione e ogni impudicizia o cupidigia non si nominino neppure tra voi, come si conviene ai santi,
4- e (così) sconcezze e il parlare da stolti o scurrilità, le quali cose non elevano, ma piuttosto rendimento di grazie.
5- Sappiate, infatti, questo, (come persone) che comprendono, che ogni fornicatore o impudico o avaro, ciò è da idolatri, non ha eredità nel regno di Cristo e di Dio.
6- Nessuno vi inganni con vuote parole; per queste cose viene l'ira di Dio sui figli della disobbedienza.
7- Pertanto non siate loro compartecipi.

Note generali

Dopo l'intermezzo dei vv.4,32-5,2, con i quali si sollecitava i neobattezzati ad avere quale parametro di raffronto del proprio vivere credente lo stesso modo di relazionarsi di Dio con gli uomini, improntato ad un amore totalmente oblativo, che trova il suo vertice storico nel suo Figlio crocifisso (Gv 3,16), intermezzo questo posto centralmente alla sezione parenetica (4,1-6,17), quasi a dire che tutto deve girare attorno all'amore oblativo e convergere in esso, l'autore riprende ora, parallelamente alla pericope 4,26-31, l'elenco dei comportamenti disdicevoli da evitare all'interno della comunità credente. Ma mentre con il primo elenco di 4,26-31 si denunciava il rischio di contrasti e di divisioni interne alla comunità causati dall'ira, con questo secondo elenco (5,3-7) si condannano comportamenti e linguaggi che ledono gravemente la dignità della santità di cui è rivestito il credente, il quale nulla ha più a che vedere con il suo passato di pagano.

La pericope è costruita a parallelismi concentrici in C) (v.5), dove viene pronunciata con toni sentenziali il giudizio divino di condanna per chi si comporta in modo lascivo ed orienta il proprio vivere all'accaparramento delle cose e dei beni materiali in genere, le quali cose vengono ritenute una forma di idolatria. Considerata l'importanza dei temi trattati, l'autore dedica una particolare attenzione e cura a questa pericope, che denuncia altri comportamenti deplorevoli, che dovevano essere piuttosto diffusi all'interno delle comunità credenti dell'Asia minore, se l'autore si vede costretto, ancora una volta, ad intervenire pesantemente.

La struttura della pericope in esame, pertanto, si sviluppa nel seguente modo:

A) Condanna di comportamenti impudichi e bramosi di cose materiali (v,3);
B) a cui si aggiungono scurrilità e modi stolti di parlare, tutti linguaggi immorali (v.4);

C) il giudizio divino di condanna posto su tali comportamenti (v.5);

B1) messa in guardia dal lasciarsi trascinare in comportamenti simili (v.6);
A1) sollecito a prendere le distanze da comportamenti simili (v.7).

In A), infatti, si esorta a togliere di mezzo, condannandoli, comportamenti impudichi e tendenti all'avarizia (v.3), mentre in A1) si sollecita a prenderne le distanze (v.7); in B) si denunciano linguaggi scurrili e modi stolti di parlare (v.4), mentre B1) si mette mette in guardia il credente a non lasciarsi trascinare in simili linguaggi licenziosi e vergognosi (v.6). Centralmente, in C), l'elemento considerato più importante dalla retorica ebraica, viene posto il v.5 in cui l'autore formula il giudizio divino di condanna su simili comportamenti.


Commento ai vv. 3-7

Come la pericope 4,26-31, anche questa elencazione di comportamenti biasimevoli (vv.3-7), che suonano come una stonatura all'interno di un contesto di Santità, cioè di Vita divina, di cui i credenti fanno parte e condividono con Dio in virtù della loro fede e del battesimo, dipende dall'esortazione principale con cui si era aperta questa sezione parenetica, che sollecitava “a camminare in modo degno della vocazione, con la quale foste chiamati” (4,1). Una vocazione che è per sua natura una chiamata alla santità, cioè una chiamata a partecipare alla vita divina in Cristo. E in tal senso Paolo si rivolgerà ai credenti della comunità di Roma con l'appellativo di “santi per vocazione”, in cui riecheggia in qualche modo Lv 19,2: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo”.

Ed è in tale contesto di sacralità e di santità che l'autore stigmatizza comportamenti inaccettabili e incompatibili con il nuovo status di vita, che dovevano in qualche modo serpeggiare all'interno delle comunità credenti dell'Asia minore, ma è da pensare anche presso altre comunità variamente sparse nell'Impero Romano, poiché tutte erano collocate all'interno di una società prevalentemente pagana, da cui gli etnocristiani provenivano e risentivano ancora l'influsso molto forte di un modo di vivere amorale: fornicazione, cioè la frequentazione delle prostitute; l'impudicizia, nel senso dell'uso smodato e improprio della propria corporeità e sessualità, nonché la cupidigia, cioè il desiderio smodato per le cose materiali e il loro accaparramento, riponendo in esse la propria fiducia.

A questi comportamenti biasimevoli e vergognosi (v.12-13), vengono associate anche le sconcezze e le scurrilità nel modo di esprimersi e di parlare, che denunciano tutta la vacuità spirituale e interiore di chi le compie. Comportamenti e linguaggi, dunque, sono qui presi di mira dall'autore, che li definisce come una forma di idolatria (e„dwlol£trhj, eidololátres, v.5). L'idolatria è infatti il culto degli idoli, e il culto presuppone sempre un orientamento esistenziale verso gli idoli, il quale viene celebrato in qualche modo nella propria vita; una vita che è condizionata e caratterizzata dall'oggetto del proprio culto, la quale cosa dice come questa vita sia permeata, compenetrata e dominata da tali oggetti di culto. Definendo, pertanto, tali comportamenti disdicevoli e vergognosi una “forma di idolatria”, l'autore lascia trasparire quanto questi comportamenti fossero radicati nel modo di vivere dei nuovi credenti; comportamenti che, proprio perché vergognosi e indicibili, costituivano una stonatura con la nuova vita in Cristo e che proprio questo li mette in luce: “Tutte le cose che sono biasimevoli sono manifestate dalla luce” (v.13), cioè la luce di Cristo, con la quale sono stati illuminati i credenti (v.14), mette allo scoperto, in quanto tali, queste cose deplorevoli e indegne per i santi. Osservazioni queste che l'autore aveva già rilevato e in qualche modo anticipato in 4,17-20.

Su questi comportamenti inconciliabili con la novità di vita in Cristo, l'autore pone il suo anatema con il v.5, che è di per se stesso un giudizio di condanna: “Sappiate, infatti, questo, (come persone) che comprendono, che ogni fornicatore o impudico o avaro, ciò è da idolatri, non ha eredità nel regno di Cristo e di Dio”. In altri termini, chi continua comportarsi così anche dopo aver conosciuto la luce di Cristo, decade dalla salvezza operata in lui da Cristo e, in qualche modo viene rigettato, cioè scomunicato dal contesto della comunità dei “santi”.

L'anatema del v.5 viene rinforzato e aggravato con il v.6b: “per queste cose viene l'ira di Dio sui figli della disobbedienza”, locuzione quest'ultima che l'autore aveva già menzionato in 2,2.3, dove i pagani venivano definiti “figli della disobbedienza” e “figli dell'ira”. Espressioni queste che richiamano da vicino Rm 1,18.

All'anatema del v.5, rafforzato dal v.6b, fanno da contraltare i persistenti richiami, che fungono quasi da sua eco, qua e là sparsi in tutta la pericope: “non si nominino neppure tra voi” (v.3); “Nessuno vi inganni con vuote parole” (v.6a); “Pertanto non siate loro compartecipi” (v.7). A queste esortazioni al negativo, si affianca, per contro, quella al positivo: “ma piuttosto rendimento di grazie” (v.4b).

Le motivazioni sulle quali si fonda un radicale cambiamento di vita (5,8-14);

Testo

8- Infatti, un tempo, eravate tenebra, ma ora (siete) luce n(el) Signore; camminate come figli della luce.
9- Il frutto della luce, infatti, (è) in ogni bontà e giustizia e verità.
10- Approvando ciò che è gradito al Signore;
11- e non abbiate niente in comune con le opere infruttuose della tenebra, ma piuttosto biasimate(le) anche.
12- Infatti, le cose che sono fatte di nascosto da loro, è vergognoso anche parlar(ne).
13- Tutte le cose che sono biasimevoli sono manifestate dalla luce,
14- infatti tutto ciò che è manifestato è luce. Per questo dice: “Sveglia(ti), (tu) che dormi, e alzati dai morti, e Cristo ti illuminerà”.


Note generali

Dopo aver stigmatizzato comportamenti disdicevoli e incompatibili con lo status di vita nuova in Cristo; e dopo aver imposto su di loro il suo anatema (v.5), l'autore non si limita a condannare tali comportamenti, che probabilmente erano radicati in questi etnocristiani, sia a causa della loro provenienza sia a motivo del loro permanere all'interno di una società pagana, ma fornisce anche le motivazioni per cui si rende necessaria una radicale svolta nella propria vita senza mai più indulgere in simili nefandezze, praticate da uomini “oscurati nella loro mente, estranei alla vita di Dio per ignoranza, che è in loro a motivo dell'accecamento del loro cuore, costoro, divenuti insensibili, consegnarono loro stessi all'impudicizia per mezzo dell'opera di ogni depravazione n(ella) cupidigia” (4,18-19). Un valido metodo educativo, che si preoccupa non solo di condannare, ma anche di motivare, perché la condanna non sia solo subita ma anche capita. Sarà compito di questa pericope fornirne le motivazioni.

La pericope è circoscritta da un'inclusione data per complementarietà tematica, fornendo in tal modo la chiave di lettura dell'intera pericope, che si muove sulla contrapposizione della vita prima di conoscere Cristo e quella successiva, dopo averlo conosciuto. Infatti al v.8 si esortano i neobattezzati, quali figli della luce, a camminare nella luce; mentre al v.14, ricordando ai neobattezzati le loro origini battesimali, che li hanno generati nella luce, li si esorta a destarsi dal sonno della morte, in cui erano prima immersi, per lasciarsi inondare dalla luce di Cristo.

La contrapposizione, anche qui, è tra il prima e il dopo Cristo, tra le tenebre e la luce. Uno scritto che sembra muoversi su di un continuo raffronto tra il prima e il dopo, perché da questo contrasto emerga sempre più viva la novità di vita con la quale i neobattezzati sono stati rivestiti e da qui la necessità di commisurare il proprio modo di vivere, di pensare e di relazionarsi con se stessi e gli altri in modo adeguato e conforme alla nuova vita e alle nuove realtà spirituali in cui sono immersi e di cui sono permeati.

Da quanto fin qui detto già si intuisce come la struttura di questa pericope sia scandita in due parti, anche queste tra loro contrapposte: la prima, vv.8-10, riguarda la vita nuova caratterizzata dalla luce di Cristo, che deve sempre illuminare la vita del credente. Luce che illumina e scopre ciò che è turpe e vergognoso così da evitarlo. Cose queste che, a motivo della loro natura, amano, invece, il nascondimento e le tenebre. La seconda parte, vv.11-13, riguarda, invece, il modo di vivere tenebroso, quello che teme e rifugge la luce. Un tema quest'ultimo che verrà ripreso anche da Gv 20-21: “Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce, perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”.

Ogni parte viene introdotta da un'esortazione, che poi viene ripresa e sviluppata dai versetti successivi, così che il v.8b introduce il tema della luce, che verrà ripreso e approfondito dai vv.9-10; mentre il v.11 denuncia le opere delle tenebre e verrà ripreso dai vv.12-13.

Il v.14, invece, chiude la pericope, con una sorta di elogio alla luce, che si richiama a quella battesimale, dove i neobattezzati, detti “illuminati”, sono stati rivestiti di Cristo come di un abito nuovo (Gal 3,27; Rm 13,14), divenendo nuove creature (2Cor 5,17).

Commento ai vv. 8-14

Il v.8 introduce il tema di questa pericope, scandendola in due parti, contrapponendo tra loro i due tempi in cui hanno vissuto i neobattezzati: quello delle tenebre, prima di conoscere Cristo (v.8a), e quello della luce, dopo aver conosciuto Cristo (v.8b), che diviene la discriminante tra il prima e il dopo.

Significativo è il modo con cui i neobattezzati si collocavano nei due tempi: dapprima “erano tenebra”, non “figli delle tenebre” che vivevano nelle tenebre, ma loro stessi erano “tenebra”, per evidenziare il loro stato di vita nonché la loro stessa natura. Il verbo “essere” che accompagna il sostantivo “tenebra”, infatti, rileva come questa tenebra si ponesse a livello ontologico e, quindi, facente parte della loro stessa natura, che non poteva altro che generare tenebrosità e cose vergognose, che rifuggono la Luce e la Verità e le hanno in odio.

Al “eravate tenebra” viene ora contrapposto, parallelamente, lo stato di vita presente: “siete luce nel Signore”. Anche qui compare il verbo “essere” che accompagna il sostantivo “luce” per indicare come vi sia stato un cambio di posizione esistenziale ed ontologico e, quindi, ora, per natura sono luce e, quindi, devono generare nella quotidianità del loro vivere opere degne della luce. Una luce la cui origine è indicate “nel Signore”, titolo quest'ultimo che, nella chiesa primitiva, veniva assegnato al Risorto, riconoscendo in lui la signoria universale, che illumina il mondo. Ma nel contempo dice anche come questo loro “essere luce”, cioè portatori di Verità divina, non dipende da loro, ma da Dio stesso, che nel suo Cristo ha manifestato la sua Luce (Gv 8,12). Essi, infatti, sono definiti “figli della luce” e, in quanto figli, “generati” alla luce dalla Luce, richiamandosi in tal modo al battesimo, il luogo della generazione alla vita divina e alla Luce. Per questo i battezzati erano chiamati anche “illuminati” (Eb 6,4;10,32).

Che cosa significhi essere “figli della luce nel Signore” viene, ora, precisato dai vv. 9-10, che tracciano i luoghi e le molteplici sfaccettature della “Luce”, poiché essa è anche “in ogni bontà e giustizia e verità” (v.9). Quindi tutto ciò che è buono, giusto e vero, attributi questi che appartengono alla natura stessa di Dio, sono i frutti della Luce, poiché “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1Gv 1,5). Epiteti questi che si contrappongono alle “cose che sono fatte di nascosto da loro, è vergognoso anche parlar(ne). Tutte le cose che sono biasimevoli sono manifestate dalla luce” (vv.12-13), poiché la Luce mette in evidenza la vera natura delle cose.

L'altro aspetto generato dalla Luce è “l'approvare ciò che è gradito al Signore” (v.10). In altri termini è il conformarsi alle esigenze di Dio, facendo della sua volontà la propria forma mentis, in cui riecheggia in qualche modo Rm 12,2: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. Poiché “ciò che è gradito al Signore” è che l'uomo si salvi (Gv 3,17; 1Tm 2,4), cioè ritorni a Lui e riprenda a condividere la sua Vita, così com'era nei primordi dell'umanità, allorché, dopo averlo creato a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27), lo aveva collocato nel giardino in Eden (Gen 2,8), dove egli era chiamato a collaborare con Dio, facendo fruttare la sua creazione, che gli era stata data perché se ne servisse (Gen 2,15, 3,23; Sal 8,6-7).

Al “camminate come figli della luce” del v.8b si contrappone l'altro sollecito del v.11, posto al negativo: “non abbiate niente in comune con le opere infruttuose della tenebra, ma piuttosto biasimate(le) anche” e che già erano state menzionate e condannate nel secondo elenco, quello dei comportamenti e dei linguaggi biasimevoli (vv.3-7). Il motivo di questo biasimo è specificato nei vv.12-13: sono tutte cose che non amano la luce, perché di queste cose ci si vergogna e si tende a tenerle nascoste, perché la pubblica morale, sia pur essa pagana, le ritiene indecenti. In tal senso ricorderà Rm 13,13a: “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno”, facendo seguire una serie di comportamenti disdicevoli anche per il mondo dei pagani: “non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie” (Rm 13,13b).

La natura di queste cose vergognose è stata resa evidente dal manifestarsi della Luce e sulle quali l'autore aveva già posto il suo anatema: “Sappiate, infatti, questo, (come persone) che comprendono, che ogni fornicatore o impudico o avaro, ciò è da idolatri, non ha eredità nel regno di Cristo e di Dio” (v.5). La Luce, quindi, nel suo manifestarsi non solo le ha smascherate, ma le ha anche condannate, perché queste cose non appartengono al mondo di Dio, ma all'uomo decaduto dalla vita divina; a quel uomo che da carne spiritualizzata, in cui fu insufflato l'alito divino (Gen 2,7), che lo aveva reso sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27), è rimasto soltanto carne despiritualizzata, privata, cioè, della vita divina e, pertanto, soggetta alla sofferenza, al dolore, al decadimento e alla morte (Gen 3,16-24). E tutto ciò che l'uomo genererà in questo stato di decadenza ha a che fare con la morte e non con la Vita. Questo lo ha reso manifesto la Luce di Dio, manifestatasi nel suo Cristo.

Il v.14 chiude questa pericope celebrando la Luce, della quale sono stati illuminati i neobattezzati, attestando che “tutto ciò che è manifestato è luce”, contrapponendosi alle cose che, invece, “sono fatte di nascosto da loro” e delle quali “è vergognoso anche parlar(ne)” (v.12). In altri termini, tutto ciò che la pubblica morale e la pubblica decenza ritiene accettabile e tale che si può compiere anche in pieno giorno25, tutto ciò è frutto della Luce.

Il richiamo alla Luce battesimale viene fatto con un frammento di inno, tratto probabilmente dalla liturgia battesimale dell'epoca: “Sveglia(ti), (tu) che dormi, e alzati dai morti, e Cristo ti illuminerà”. La citazione è preceduta da un'introduzione, che sembrerebbe rimandare alla Scrittura: “diÕ lšgei” (diò léghei, “per questo dice”, sottinteso, la Scrittura), ma in realtà non vi è nessun passo biblico che si avvicini alla citazione, se non vaghi riferimenti ad Is 26,19; 51,17; 52,1 e 60,1, ma che nulla hanno a che vedere, a mio avviso, con la citazione riportata dall'autore, tant'è che lo stesso Nestle-Aland26, a latere, pone l'interrogativo “Unde?”, cioè “da dove” è stata presa la citazione? Il riferimento, quindi, non sono le Scritture bensì un qualche inno liturgico, mutuato dalla liturgia battesimale e certamente molto noto, se era sufficiente quel “diÕ lšgei” per indirizzare il lettore alla fonte. I due verbi che lo compongono, “Egeire” (Egheire, Svegliati) e “¢n£sta” (anásta, alzati) sono due verbi tecnici con i quali la chiesa primitiva faceva riferimento alla risurrezione di Cristo. Questi due verbi, unitamente al terzo verbo “™pifaÚsei” (epifaúsei, illuminerà) sembrano richiamarsi espressamente al battesimo, considerato il luogo non solo della risurrezione con Cristo, il passaggio da morte a vita, ma anche quello dell'illuminazione, così che i battezzati, come già si è detto sopra, erano chiamati anche gli “illuminati” (Eb 10,32; 6,4).

Il senso della citazione sembra avere un duplice significato: se rivolto a dei battezzati, che già da tempo avevano ricevuto il battesimo, ma che la quotidianità della vita aveva fatto dimenticare, allora questa citazione, richiamandoli al loro battesimo, serviva a risvegliarli dal sonno in cui erano caduti, come accadde alle dieci vergini della parabola matteana (Mt 25,1-13). Se invece era rivolto ai neobattezzati, allora il senso poteva essere quello di risvegliarsi dal sonno del paganesimo e dell'ignoranza di Dio, per risorgere dai morti con Cristo, dove quei “morti” vanno intesi metaforicamente, quali erano considerati i pagani o i non credenti. Soltanto a queste condizioni, svegliarsi dal sonno e staccarsi dal modo di vivere pagano, si poteva accedere alla Luce di Cristo.

Esortazione a vigilare sul proprio comportamento (5,15-20);

Testo

15- Guardate, pertanto, con diligenza in quale modo camminate, non come stolti, ma come sapienti,
16- riscattando il tempo, perché i giorni sono malvagi.

17- Per questo non siate stolti, ma comprendete quale sia la volontà del Signore;
18- e non ubriacatevi con vino, in cui c'è dissolutezza, ma riempitevi con (lo) Spirito.

19- conversando tra voi [con] salmi e inni e canti spirituali, cantando e suonando (nei) vostri cuori al Signore,
20- rendendo grazie sempre per tutto nel nome del Signore nostro Gesù Cristo a Dio e Padre.


Note generali

Dopo aver stigmatizzato comportamenti e linguaggi disdicevoli e vergognosi (vv.3-7) incompatibili con il nuovo status di vita in Cristo, ponendo su di essi il suo anatema (v.5); dopo aver motivato la condanna, ricordando ai neobattezzati che non sono più tenebra, ma luce(vv.8-14), ora l'autore ne trae le conseguenze esortandoli alla vigilanza in tempi che egli definisce “malvagi”; tempi che devono essere controbattuti dal loro comportamento irreprensibile. Un'esortazione che richiama da vicino Fil 2,15-16a: “siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita”.

Anche questa pericope, similmente a quella vv.3-7, è particolarmente curata nella sua struttura, disposta a parallelismi concentrici in C) (vv.17-18), lasciando intenderne la sua importanza.

Per cui si avrà:

A) Esortazione a comportarsi con diligenza come persone sapienti (v.15);
B) riscattando e valorizzando i propri giorni in tempi che sono malvagi (v.16);

C) un richiamo alla sapienza cristiana che consiste, da un lato, nel comprendere la volontà del Signore; dall'altro, abbandonare l'ubriachezza che viene dal vino per inebriarsi dello Spirito Santo (vv.17-18);

B1) attendere alle cose spirituali e gioire di queste (v.19);
A1) elevando rendimenti di grazie al Signore per tutto (v.20).

Così che se A) dice di comportarsi con diligenza come persone sapienti, A1) dice in quale modo: elevando rendimenti di grazie al Signore; se B) sollecita a valorizzare in tempi malvagi il proprio tempo, B1) dice come fare: attendendo alle cose spirituali, gioendo per queste. C) è la parte centrale, la più importante secondo le logiche della retorica, poiché qui, contrapponendo opposti comportamenti, vengono evidenziate le due cose più importanti nella vita di un credente: comprendere quale sia la volontà di Dio nella propria vita e lasciare che lo Spirito Santo, che conosce le profondità segrete di Dio, permei tutta la nostra vita, conformandola a Lui.

Commento ai vv. 15-20

Il v.15 apre questa pericope con un'esortazione alla vigilanza: “Blšpete oân” (Blépete ûn, Guardate, pertanto), dove quel “pertanto” si aggancia a quanto fin qui detto in 5,3-14 e ne trae le conclusioni. La conclusione è quella di porre attenzione al proprio modo di comportarsi, al linguaggio che si usa, in ultima analisi, a come si sta conducendo la propria vita, comportandosi non come “stolti”, nella vacuità della vita del mondo pagano (4,17-19), da dove questi neobattezzati provengono e dove, per necessità contingente, si ritrovano a vivere, ma “come sapienti”, cioè secondo la sapienza cristiana, illuminata dal Risorto. Ed è proprio in questo modo di vivere sapientemente che essi daranno un nuovo senso non solo alla propria vita, ma anche al malvagio contesto sociale in cui essi vivono e dove, secondo Fil 2,15b, devono splendere come astri in mezzo ad una generazione perversa e degenere, prospettandole un nuovo e diverso modo di vivere, aprendola a nuovi orizzonti di vita. Una vigilanza, quindi, che oltre proteggere se stessi si trasformi anche in una testimonianza di vita nuova illuminata dal Risorto, che consente di leggere e comprendere la storia non più dalla prospettiva dell'uomo decaduto, ma da quella di Dio, che opera nei credenti e per loro mezzo sull'intera umanità.

Da qui un ulteriore richiamo a non vivere da “stolti”, alla maniera dei pagani, ubriacandosi di vino, dando in tal modo sfogo alla propria istintualità e ad ogni bassezza e volgarità, ma vivendo da sapienti, alla costante ricerca della volontà di Dio nella propria vita, attendendo a quelle attività spirituali che aprono la propria vita all'azione dello Spirito. Quali siano queste attività spirituali, che favoriscono una vita nello Spirito, vengono elencate ai vv.19-20: “conversando tra voi [con] salmi e inni e canti spirituali, cantando e suonando (nei) vostri cuori al Signore, rendendo grazie sempre per tutto nel nome del Signore nostro Gesù Cristo a Dio e Padre”. Azioni queste che tendono a trasformare la propria vita in una liturgia di lode e di ringraziamento a Dio, dove viene celebrato il culto della propria vita a Dio gradito (Rm 12,1-2).


Le nuove relazioni intrafamiliari (5,21-6,9)

Testo a lettura facilitata

Introduzione tematica (v.21)

21- Sottomettendovi gli uni agli altri n(el) timore di Cristo:

La moglie nei confronti del marito (vv.22-24)

22- le mogli ai loro mariti, come al Signore,
23- poiché l'uomo è il capo della moglie, come anche Cristo (è) il capo della chiesa, egli (, che è il) salvatore del (suo) corpo.
24- Ma come la chiesa è soggetta a Cristo, così anche le mogli ai mariti in tutto.

Il marito nei confronti della moglie (vv.25-28)

25- Mariti amate le mogli, come Cristo amò la chiesa e diede se stesso per lei,
26- per santificarla, purificando(la) con il lavacro dell'acqua n(ella) parola,
27- affinché egli presentasse a se stesso, gloriosa, la chiesa, non avendo macchia o ruga o qualcosa di simile, ma affinché fosse santa e perfetta.
28- Così [anche] i mariti devono amare le loro mogli come i loro corpi. Colui che ama sua moglie ama se stesso.

La dinamica dell'amore coniugale sul modello di quello tra Cristo e la Chiesa (vv.29-33)

29- Nessuno mai ha odiato la sua carne, ma la nutre e (la) riscalda, come anche Cristo la chiesa,
30- poiché siamo membra del suo corpo.
31- Per questo l'uomo lascerà [il] padre e [la] madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una carne.
32- Questo mistero è grande. Io (lo) dico per Cristo e per la chiesa.
33- Nondimeno anche voi, uno per uno, ciascuno ami sua moglie come se stesso; la moglie, invece, tema il marito.

Cap. 6

Rapporti tra figli e genitori (vv.1-4)

1- Figli, obbedite ai vostri genitori [n(el) Signore], poiché questo è giusto.
2- Onora tuo padre e la madre, è questo il primo comandamento con una promessa:
3- affinché tu abbia felicità e sia longevo sulla terra.
4- E (voi), padri, non irritate i vostri figli, ma allevateli n(ell')educazione e con (l')ammonizione del Signore.

I rapporti tra servi e padroni (vv.5-9)

5- (Voi) servi, siate sottomessi ai padroni secondo la carne con timore e tremore n(ella) semplicità del vostro cuore, come a Cristo,
6- non servendo (bene) solo sotto gli occhi [del padrone] come chi vuol piacere agli uomini, ma come servi di Cristo che fanno la volontà di Dio di (buon) animo,
7- servendo con amore, come al Signore e non agli uomini,
8- sapendo che ciascuno, qualora faccia qualcosa di buono, questo riceverà dal Signore, sia schiavo sia libero.
9- E (voi) padroni, fate le stesse cose verso di loro, lasciando perdere la minaccia, sapendo che nei cieli vi è il Signore e di loro e di voi e presso di lui non vi è parzialità.


Note generali

La sezione 5,21-6,9 presenta dei nuovi schemi comportamentali nei rapporti intrafamiliari, prendendo in esame la famiglia tipo di quel tempo, dove il nucleo familiare era composto da marito-moglie, figli-genitori e, là dove c'erano, servi-padroni. Rapporti, che seppur fondati sulla natura stessa delle cose, tuttavia vengono riletti e ricompresi alla luce di due nuovi eventi, che incidono profondamente nella vita dei singoli credenti e tali da non poter essere ignorati: Cristo e la Chiesa, i cui rapporti fungono da modello e da parametro di raffronto per i rapporti intrafamiliari dei credenti, così che il riprodurre tali rapporti in seno alla propria famiglia fa sì che questa diventi a sua volta una sorta di fedele riproduzione di tali rapporti e, in quanto famiglia, una piccola chiesa, divenendo un luogo sacro e consacrato da un amore credente, dove quotidianamente si celebra una complessa e talvolta difficile liturgia di rapporti e dove ogni singolo membro diviene sacerdote officiante di tali rapporti, rendendo in essa presente Cristo stesso, che funge da polo catalizzatore e santificatore della famiglia stessa e di ogni suo membro, nella quale in qualche modo si riflette non soltanto il rapporto Cristo-Chiesa, ma anche Cristo-Padre-Spirito Santo, facendo della famiglia anche un riflesso vivente e dinamico dell'amore trinitario, che si muove sullo schema comportamentale di un amore reciprocamente oblativo, quale totale apertura di se stesso all'altro, totale donazione di sé all'altro, totale accoglienza dell'altro in se stesso. Un amore simile, benché vissuto nella contingenza della fragilità umana, diviene di per se stesso capace di superare qualsiasi ostacolo, poiché non si fonda più su dei sentimenti o dei risentimenti, ma sullo stesso schema comportamentale di Dio, in cui Dio riproduce in qualche modo se stesso. Una famiglia, dunque, fatta ad immagine e somiglianza di Dio, in quanto Padre, Figlio e Spirito Santo.

L'ampia sezione dedicata alla famiglia testimonia il particolare interesse che la chiesa nascente ebbe fin da subito nei confronti della famiglia, quale luogo di amore accogliente la vita e formante la vita di nuovi credenti e, da un punto vista sociale, quale lievito per la fermentazione di una nuova vita possibile all'interno dei rapporti sociali, vissuti nel rispetto dell'altro e al servizio dell'altro, all'interno di un amore accogliente e dedito all'affermazione dell'altro, in cui ogni componente la famiglia trova la propria personale realizzazione. Non dunque l'Io che si afferma e vive a spese dell'altro, ma un Io che si afferma e si realizza nella donazione di sé, finalizzata all'affermazione dell'altro.

La struttura di questa sezione è scandita in sei parti tematiche, che prendono in esame i singoli rapporti intrafamiliari, sviluppandone una sorta di cristologia ecclesiologica.

Pertanto si avrà il seguente schema:

  1. Introduzione tematica (v.21);

  2. La moglie nei confronti del marito (vv.22-24);

  3. Il marito nei confronti della moglie (vv.25-28);

  4. La dinamica dell'amore coniugale sul modello di quello tra Cristo e la Chiesa (vv.29-33);

  5. Rapporti tra figli e genitori (vv.6,1-4);

  6. I rapporti tra servi e padroni (vv.6,5-9)

Ogni figura, poi, che compone il nucleo familiare, viene presa in esame inquadrandola all'interno di una breve pericope, come qui sopra specificato, secondo il seguente schema, che si ripete in ogni figura considerata: il primo versetto consiste in una esortazione imperativa, l'ultimo versetto costituisce il parametro di raffronto tra la figura familiare e Cristo e/o la Chiesa, su cui la figura familiare deve riparametrare il proprio modo di relazionarsi alla controparte; i versetti di mezzo costituiscono, invece, l'approfondimento e nel contempo la motivazione cristologica ed ecclesiologica, che giustifica il parallelo tra la figura familiare e Cristo e la sua Chiesa.

Commento ai vv.5,21-6,9

Introduzione tematica (v.21)

Il v.21 funge da titolo tematico e introduttivo all'intera sezione dedicata ai rapporti intrafamiliari ed esordisce con un'esortazione che può lasciare perplesso il lettore contemporaneo: “sottomettetevi gli uni agli altri”. Detto così, quel “sottomettersi” sembra suonare come una stonatura all'interno della famiglia e dà l'idea di un rapporto di forza tra i suoi membri. Ma almeno due elementi fanno pensare che quel “sottomettersi” abbia un senso ben diverso da quello che potrebbe apparire nell'immediato. La sottomissione innanzitutto non è rivolta nei confronti dell'altro, ma di se stessi verso l'altro e ciò, deve avvenire nel timore di Cristo. Il contesto, quindi, non è di violenza sull'altro, ma di un atteggiamento di umiltà servizievole nei confronti dell'altro, che ha come ambito l'attenzione a non offendere Cristo nell'altro. Un comportamento questo in cui riecheggia l'esortazione introduttiva alla sezione parenetica (4,1-6,17), che definisce il senso di questo “sottomettersi”: “Vi esorto, pertanto, io, l'incatenato nel Signore, a camminare in modo degno della vocazione, con la quale foste chiamati, con ogni umiltà e mitezza, con pazienza, sopportando gli uni gli altri ne(ll')amore, preoccupandovi di custodire l'unità dello spirito nel vincolo della pace”. Un'esortazione questa che riecheggia in qualche modo anche in Fil 2,3: “Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ognuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso”. Esortazione a cui si associa anche Rm 12,16: “Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi”; mentre 1Cor 12,13 invita ad aspirare ai carismi più grandi e tra questi Paolo indicherà quale sia la via migliore, quella della carità, che celebrerà nello stupendo inno alla carità (1Cor 13,1-13). E così similmente Gal 5,13b: “ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri

La sottomissione, dunque, ha come finalità primaria il creare in se stessi un atteggiamento di apertura accogliente nei confronti dell'altro, rendendosi disponibili al suo servizio, avendo quale intento primario la sua affermazione. Solo in tal modo si possono evitare scontri, rivalità, rivalse, rancori e simili comportamenti aggressivi e distruttivi i rapporti familiari e sociali, alimentando odii personali. L'intento di questa “sottomissione”, che altro non è che il rendersi attenti e disponibili agli altri, è quello di conservare l'unità della famiglia nel vincolo della pace di Cristo, che qui l'autore legge come “timore di Cristo”, che lascia in qualche modo intravvedere un possibile giudizio incombente, qualora questo Cristo venga offeso nell'altro. Il sostantivo greco, che qui ho tradotto con “timore”, è “fÒbJ” (fóbo), che significa anche “paura”, la quale lascia intravvedere quella del giudizio divino.

Una simile “sottomissione” all'altro, pertanto, non è umiliante né tantomeno opprimente, ma realizzante la persona del credente, che vede nell'altro non un suo padrone schiavizzante, ma Cristo stesso, che egli è chiamato, per propria vocazione, a servire, nella coscienza che proprio in questo atteggiamento di servizio, che punta all'affermazione e al bene dell'altro, il credente realizza e afferma se stesso non solo come persona, ma anche come credente, poiché “qualunque cosa avete fatto all'altro l'avete fatta a me” (Mt 25,40.45). Sottomettersi all'altro, pertanto, è sottomettersi a Cristo. Servire l'altro è servire Cristo. Un servizio che nella chiesa era diventato un ministero, quello della diaconia.

La moglie nei confronti del marito (vv.22-24)

La prima figura del nucleo familiare presa in esame, probabilmente perché la più fragile ed esposta, sia familiarmente che socialmente, è la “moglie”, che viene esortata ad essere sottomessa al marito. Certamente un'affermazione che suona come una sgradevole stonatura, inaccettabile ai nostri giorni, dove si afferma imperativamente la parità di diritti tra i coniugi. Ed è giusto che così sia, perché ogni persona porta con sé dei diritti che sono inviolabili e inalienabili; diritti che le creano e le salvaguardano quello spazio necessario per potersi esprimersi, crescere e vivere. Ma se si è giunti ad affermare la parità di diritti tra i coniugi è perché questa parità è stata e tende ad essere sistematicamente violata e se lo è, è perché è venuta meno prima la corretta percezione dell'altro e del proprio ruolo all'interno della famiglia, per cui si è reso necessario imporre per via legale ciò che dovrebbe essere connaturato nella persona: il rispetto dell'altro e del proprio ruolo affermativo dell'altro. Qualcosa, dunque, è venuto meno nei rapporti con l'altro e nella sua percezione. Ed è proprio questo qualcosa che l'autore cerca qui di risvegliare nel credente, dandogli una nuova visione dell'altro e del suo rapporto con questo, che si inserisce in un contesto di vita nuova: la moglie deve vedere nel marito non un suo capo dominatore e violentatore, ma come il Signore. Una visione sacrale, dunque, che apre ad una nuova comprensione nel rapporto che la moglie deve avere con suo marito, il cui ruolo all'interno della famiglia è quello di essere il “capo”, cioè il punto di riferimento e di guida della famiglia. Ma è a questo punto che cambiano i parametri di raffronto: il primato del marito all'interno della famiglia ha il suo parametro di raffronto con Cristo, che è il capo della chiesa, la quale è il suo corpo e per la quale egli ha dato tutto se stesso. Il primato del marito, quindi, assume un significato completamente diverso se visto nella prospettiva del rapporto Cristo-Chiesa, così che il marito deve considerare la moglie come il suo corpo, quindi una imprescindibile parte vitale di se stesso, verso la quale deve riservare ogni attenzione e cura, circondandolo di attenzioni e di amore. Solo così egli affermerà se stesso e svolgerà appieno il proprio ruolo di capo, che si pone non sopra alla moglie, ma a servizio della moglie, perché in questo essa possa affermarsi in quanto donna e moglie, cioè quale parte integrante e imprescindibile del marito (Gen 2,23-24), dal quale non deve temere nulla, poiché egli le ha consacrato la sua vita, perché lei vivesse in pienezza, come Cristo per la sua Chiesa.

Il marito nei confronti della moglie (vv.25-28)

La seconda figura presa in esame, per necessaria complementarietà di rapporto, è il marito, che qui viene esortato ad amare la propria moglie. La modalità del suo amore va ben al di là di un semplice sentimento umano, per quanto intenso e onesto possa essere. Esso trova il suo parametro di raffronto in Cristo stesso, che “amò la chiesa e diede se stesso per lei”. Un amore, quindi, totalmente oblativo fino al sacrificio, perché la moglie possa esprimersi e crescere nel perfezionamento della sua persona fisica, spirituale e morale: “affinché fosse santa e perfetta”. Un marito, che, alla pari di Cristo nei confronti della sua Chiesa, si pone a totale servizio della moglie. La sottomissione, quindi, della moglie al marito non è una sua schiavizzazione, ma posta in questo contesto, essa diviene l'oggetto privilegiato di un servizio di amore, la cui finalità è esattamente contraria alla sua sottomissione, è quella del suo riscatto e della sua affermazione come persona.

Da qui l'esigenza di amare la propria moglie come se si amasse il proprio corpo, così che amare la moglie significa amare se stessi (v.28). Considerazione questa offerta dal v.28, che funge da versetto di transizione, perché nel concludere la pericope vv.25-28, traghetta il lettore alla pericope successiva (vv.29-33), che conclude la riflessione sull'intima connessione che unisce, plasma e santifica un rapporto a due, facendo dei due una cosa sola carne

La dinamica dell'amore coniugale sul modello di quello tra Cristo e la Chiesa (vv.29-33)

Note generali

Tematicamente introdotta dal v.28 questa pericope entra nel vivo della questione ed analizza il motivo per cui il rapporto tra marito e moglie debba riparametrarsi sullo stesso rapporto che intercorre tra la Cristo e la sua Chiesa, definita al v.23c, come in precedenza al v.1,23, quale suo corpo, di cui fanno parte anche marito e moglie, quali membra vive di questo corpo.

La pericope in esame si snoda strutturalmente a parallelismi concentrici in C) (v.31), dove l'autore, citando Gen 2,24, dà motivazione scritturistica della profonda unità e comunione tra i due coniugi, che riflette in essa la profonda unità e comunione Cristo-Chiesa.

Per cui si ha in:

A) l'attestazione che ognuno ha una particolare attenzione al proprio corpo, così come Cristo ha cura e attenzione per la sua Chiesa (v.29);
B)
viene motivata la cura e l'attenzione che ognuno deve avere per la propria moglie, perché entrambi, marito e moglie, sono membra dell'unico corpo, che è la Chiesa, a sua volta, corpo di Cristo (v.30);

    C) prova scritturistica della profonda unità e comunione che salda il marito a sua moglie, così da farne una sola carne (v.31);

    B1) il riflettersi del rapporto Cristo-Chiesa nel rapporto marito-moglie rientra nel Mistero stesso di Dio (v.32);
    A1) il v.33 conclude sia la pericope vv.29-33 che la sezione riguardante i rapporti moglie-marito (vv.22-33), dandone una sorta di sentenza finale.

La struttura a parallelismi concentrici è giustificata dal fatto che in A) si constata come nessuno ha in odio la propria carne, ma ne ha cura, così che in A1) si esorta ad amare la propria moglie e la moglie ad affidarsi al marito; in B) si attesta che tutti si è membra dello stesso corpo, cioè quello di Cristo-Chiesa, attestazione questa che in B1) viene definita un grande Mistero, con riguardo al rapporto Cristo-Chiesa, di cui, a loro volta, marito-moglie sono membra e, quindi, partecipi di questo grande Mistero, che in essi si riflette. In C), che costituisce la parte centrale della pericope così strutturata, e, quindi, quella più importante, viene ripresa la citazione di Gen 2,24, che fonda scritturisticamente la profonda unità e comunione tra marito-moglie e tali da farne un unico corpo, così come la Chiesa, intimamente unita al suo Cristo, ne costituisce il suo stesso corpo.

Commento ai vv.29-33

Il v.29 riprende l'affermazione del v.28, che attestava come il marito deve amare la moglie come fosse il suo corpo. Un'attestazione questa che in qualche modo anticipa la sua prova scritturistica del v.31, che riporta Gen 2,24: l'uomo “si unirà a sua moglie, e i due saranno una care sola”. Proprio sull'unicità e unità comunionale del corpo di marito-moglie il v.29 sviluppa un piccolo ragionamento: se il marito è chiamato ad amare sua moglie come fosse il proprio corpo, allora è da chiedersi chi mai ha odiato o disprezzato il proprio corpo o lo ha trascurato si da averne anche dei danni fisici? La domanda è retorica, poiché la risposta è chiaramente: “nessuno“. Nessuno, infatti, ha mai odiato la “propria carne”, ma la nutre e la riscalda. L'autore qui fa un passaggio significativo: dalla moglie, che va considerata “come” il proprio corpo, alla moglie che va considera, non più “come” propria carne, ma ritenuta “propria carne”. Un passaggio importante, che lentamente conduce il lettore sia ad introdursi nel Mistero divino del rapporto Cristo-Chiesa, sia alla comprensione del v.31, dove scritturisticamente si attesta come il marito, unendosi a sua moglie forma con lei un solo corpo. E segno di questa fusione di corporeità, così da formarne una nuova, sono proprio i figli.

Questa unicità dei due corpi, prima ancora di giungere all'attestazione scritturistica del v.31, trova il suo fondamento in quell'altra corporeità mistica comunionale, che unisce la Chiesa a Cristo, così da farne un'unica corporeità, di cui il marito e la moglie sono “membra del suo corpo”. A chi si riferisce quel “suo”? “Suo” di chi? Considerato che al v.29b si parla di Cristo e della Chiesa? Di chi sono membra vive il marito e la moglie? Di Cristo, in quanto battezzati o della Chiesa in quanto credenti, che vivono in comunione con tutti i credenti? In realtà non vi è distinzione tra l'essere membra vive di Cristo e/o della Chiesa, poiché le due realtà, Cristo-Chiesa, formano un'unica realtà, un unico corpo (1,23). L'unità comunionale del marito con la moglie, pertanto, trova il suo fondamento, in quanto membra vive appartenenti all'unico corpo, che è Cristo-Chiesa, proprio in questa unità che è comunione di vita tra Cristo e la Chiesa, così che nel loro rapporto e nella loro fusione di corpi si riflette quello di Cristo con la Chiesa. E in qualche modo lo incarnano. E “questo mistero è grande” attesterà il v.32. Il mistero di cui si parla qui è in riferimento al rapporto Cristo-Chiesa: “Io (lo) dico per Cristo e per la chiesa”. E proprio perché è un “Mistero”, questo va a toccare l'intimità stessa di Dio, che è stata rivelata nel suo progetto salvifico, manifestatosi nel suo Cristo. Un Mistero, va aggiunto, che a tal punto non riguarda più soltanto Cristo e la Chiesa, ma anche il rapporto marito e moglie, in cui questo Mistero si riflette e in qualche modo s'incarna, facendo della famiglia una piccola chiesa domestica27, cellula dello stesso corpo di Cristo, in cui Cristo stesso vive.

Su tutta questa riflessione, che l'autore sintetizza nei vv.28-30.32, viene ora posta la prova scritturistica del v.31, tratto da Gen 2,24, che diviene fondamento non solo con riguardo al marito e alla moglie, ma anche con riguardo a Cristo e la Chiesa. L'espressione “Questo mistero è grande” (v.32a), infatti, posta nell'immediata seguito del v.31, lascia intendere che il mistero di cui si parla è quello del v.31, che qui viene riferito al Cristo e alla Chiesa (v.32b), benché originariamente riferito all'uomo e alla donna, che si uniscono tra loro divenendo una nuova realtà: “i due saranno una carne”.

Dopo la lunga e complessa riflessione sui rapporti tra marito e moglie, in cui si riflettono quelli tra Cristo e la Chiesa, facendo dei due, marito e moglie, un'unica e nuova realtà, l'autore trae le sue conclusioni, ora non solo sollecitate, ma anche provate, con l'esortazione finale del v.33: “Nondimeno anche voi, uno per uno, ciascuno ami sua moglie come se stesso; la moglie, invece, tema il marito”. Come dire: di conseguenza il marito è chiamato ad amare la propria moglie, così come la moglie è chiamata a “temere” il marito. Espressione quest'ultima con cui l'autore si richiama al v.21 dove si parla del “sottomettersi vicendevolmente nel timore di Cristo”, che dice “nel rispetto di Cristo”, che presuppone la coscienza che nell'altro viva Cristo. Il temere il marito, pertanto, non va inteso in senso di averne paura, la quale cosa sfalserebbe i rapporti fin qui esortati, ma di amarlo e rispettarlo nel suo ruolo di capofamiglia, poiché in lui la moglie, come la Chiesa, deve vedere Cristo, che la ama e ha dato tutto se stesso per lei.

Rapporti tra figli e genitori (vv.6,1-4)

Proseguono le esortazione per altri membri della famiglia, in primis, i figli. La pericope si apre con un'esortazione imperativa: “Figli, obbedite ai vostri genitori [n(el) Signore]” (v.6,1a), che ha come sua contropartita ineludibile, posta in chiusura della pericope, il richiamo ai genitori (v.6,4), come dire che non può esserci la prima se non c'è anche la seconda, solo così si crea l'equilibrio nei rapporti familiari. Mentre di mezzo ai 2 versetti se ne collocano altri due (6,2-3), mutuati da Es 20,12, che forniscono le motivazioni scritturisticamente fondate sull'esortazione posta in 6,1a.

All'esortazione di “obbedire” ai propri genitori segue una motivazione generica, che in realtà non dice nulla in se stessa e che non prova nulla, ma che di fatto si rifà alla logica e al diritto naturale delle cose e alla tradizione: “poiché questo è giusto”. Un'attestazione che viene, però, subito rafforzata dalla prova scritturistica, così che quel “è giusto” assume anche aspetti religiosi, legandolo alla stessa volontà di Dio, che ricompensa chi “onora i genitori”, poiché in essi si ravvisa l'autorità stessa di Dio, che si esprime attraverso l'autorità parentale, ma anche sociale, secondo Rm 13,1-2a: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio”. Un concetto sacrale dell'autorità, che accompagnerà gli uomini lungo molti secoli e che verrà violato soltanto nel XIX sec., quello dei lumi della ragione, in nome dell'affermazione dell'uomo su Dio, disconoscendo nell'uomo ogni sacralità sia nell'uomo che nelle sue istituzioni, che lo governano.

Parallelamente alla moglie che deve essere sottomessa al marito nel Signore (vv.5,22.33b), anche i figli, dunque, devono essere sottomessi al padre, che, tuttavia, trova l'esercizio della sua autorità paterna nel buon senso delle cose. Questa non deve essere usata per umiliare ed irritare i figli, mettendo le basi a possibili ribellioni od umiliazioni, ma questi vanno “allevati nell'educazione”, cioè devono essere fatti crescere cercando di “e ducere”, cioè cavar fuori da loro il meglio di loro stessi, fornendo loro i mezzi necessari per la loro affermazione come persone, rese capaci di operare proficuamente in seno alla società e per il suo bene, formando, quindi ottimi cittadini e, a loro volta, altrettanto ottimi padri e madri dei loro futuri figli. Educarli ed ammonirli se necessario, dove l'ammonizione fa parte dell'educazione. Educazione ed ammonizione che devono comunque muoversi “nel Signore”, dove quel “nel” dice il contesto sacro in cui queste devono muoversi per il cedente. Tutto, dunque, deve avvenire nel rispetto di Dio, che si riflette in ogni uomo e in ogni singolo componente della famiglia, quale sua immagine e somiglianza. La sottomissione, pertanto, deve trovare come sua contropartita un amore accogliente lungimirante, che punta all'affermazione delle persone e mai alla loro umiliazione o, peggio, al loro annichilimento.

Si noti come tutte queste complesse relazioni familiari non sono mai antropocentriche, ma teocentriche. Un teocentrismo che non è mai oppressivo, ma punta all'esaltazione dell'uomo e al suo perfezionamento, perché quell'immagine e somiglianza di Dio lo renda sempre più simile al Padre, da cui è uscito e a cui è chiamato a ritornare.

I rapporti tra servi e padroni (vv.6,5-9)

Anche in quest'ultimo spaccato della vita familiare, che vede padroni e servi a confronto, l'autore riesce a trovare un equilibrio nei loro rapporti inquadrandoli sempre nel nuovo contesto di nuove relazioni, che si era venuto a creare con l'evento Cristo, la quale cosa lascia ben comprendere come il cristianesimo incidesse profondamente nella vita di ogni singola persona e nelle sue relazioni con gli altri, comprese quelle tra servi e padroni. Non si tratta di una rivoluzione sociale, che spinge i servi o gli schiavi a ribellarsi ai padroni sfruttatori, ma, insinuandosi nel sistema sociale dell'epoca, aiuta le parti a riconsiderare e a ricomprendere le loro relazione alla luce dell'evento Cristo.

Anche questa pericope, come per le altre (moglie-marito; figli-padri) si apre con un'esortazione per una determinata categoria di persone (v.6,5) e si chiude con la contraesortazione riguardante l'altra categoria di persone, con cui la prima ha a che fare (v.6,9); di mezzo vengono poste le motivazioni a supporto e a giustificazione dell'esortazione (vv.6,6-8).

Anche qui l'autore apre con la parte socialmente più esposta, moglie e figli prima, servi o schiavi ora. A loro spetta la prima esortazione, che li sollecita a vedere nei padroni non dei vessatori e sfruttatori, ma Cristo stesso, dedicandosi, pertanto, a loro con quel “timore e tremore”, che essi, i servi, devono riservare a Cristo, venendo in tal modo a crearsi un contesto di sacralità, in cui questi rapporti vengono ricompresi e vissuti “n(ella) semplicità del vostro cuore”. Che cosa significhi quest'ultima espressione viene ora precisata dai vv.6,6-8. Semplicità significa non tenere interiormente e nei fatti un doppio comportamento: solerte alla presenza dei padroni, menefreghista in loro assenza (v.6,6). Serve un'onestà comportamentale, che si radica ancor prima nel cuore e nella mente rinnovati nella luce di Cristo, mettendo il proprio impegno e la propria sollecitudine come se si dovesse servire a Cristo e non a degli uomini (v.6,7), nella coscienza che il proprio operato sarà sottoposto al giudizio divino e ciò indipendentemente dalla posizione che si occupa. Tutti sono indistintamente sottoposti al giudizio di Dio.

Compresi i padroni, ai quali è riservata l'esortazione conclusiva (v.6,9), che va a completare quella iniziale riservata ai servi. È interessante rilevare come l'esortazione riservata ai padroni apra con “fate le stesse cose verso di loro”. E ciò che i servi erano chiamati a fare in apertura di esortazione era quello di “essere sottomessi ai padroni”. Di certo non si tratta qui di invertire i ruoli, ma di rivedere i loro rapporti nei confronti dei loro servi, trattandoli come esseri umani, evitando minacce o castighi, poiché anche su di loro, i padroni, incombe un giudizio divino, che li giudicherà proprio in funzione del loro operato, la quale cosa già era stata paventata in chiusura del v.6,8: “sia schiavo sia libero”.

La vita dei credenti come militanza in Cristo (vv.10-17)

Testo a lettura facilitata

Introduzione (v.10)

10- Per il resto, fortificatevi n(el) Signore e nel vigore della sua potenza.

Motivazione di questa esortazione (vv.11-13)

11- Rivestite l'armatura di Dio per poter erigervi contro le insidie del diavolo;
12- poiché non abbiamo da lottare contro il sangue e la carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i padroni del mondo di questa tenebra, contro le realtà spirituali della malvagità (che sono) nei cieli.
13- Per questo prendete l'armatura di Dio, affinché possiate opporvi nel giorno malvagio e rimanere saldi, dopo aver portato termine tutte le cose.

Le modalità del vivere credente (vv.14-17)

14- Pertanto, cinti i vostri fianchi nella verità e indossata la corazza della giustizia
15- e calzati i piedi n(ella) preparazione del vangelo della pace,
16- in tutte le circostanze prendendo lo scudo della fede, con il quale possiate spegnere tutti i dardi infuocati del maligno;
17- e ricevete l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio.


Note generali

La pericope in analisi (vv.10-17) conclude la seconda parte di questo scritto, quella parenetica (4,1-6,17), iniziatasi con un vibrante sollecito: “Vi esorto, pertanto” (4,1), dove quel “pertanto”, agganciandosi alla contemplazione dell'opera di salvezza che Dio ha operato nel suo Cristo a favore dei credenti (1,1-3,21), traeva le conclusioni a carico dei credenti stessi, che a questa opera salvifica dovevano rispondere con un adeguato modo di vivere, portando a frutto il dono ricevuto, conformando la propria vita alla Verità del Vangelo.

L'esortazione riguardava specifici problemi che affliggevano la comunità credente di Efeso (4,1-6,9), che qui l'autore mette in evidenza, come quello dell'unità della comunità messa in pericolo da tensioni interne, da arrivismi personali o diatribe tra gruppi creatisi all'interno della stessa comunità, o da questioni dottrinali. Da qui il richiamo all'unità di 4,2-6, fondato teologicamente e dottrinalmente; l'accentrare l'attenzione sul come ognuno, secondo i propri doni, è chiamato, collaborando con gli altri credenti, a contribuire a questa unità e alla crescita dell'intera comunità, tenendo ferma la Verità della fede, affermandola con l'amore (vv. 7-16). Quindi via ogni comportamento che in qualche modo ricalchi la vita vacua propria dei pagani, comportandosi, invece, in modo degno della vocazione a cui sono stati chiamati, rinnovandosi nello spirito, secondo la Verità che essi hanno conosciuto in Cristo. (vv.4,1.20-32). Pertanto, devono cessare i contrasti, le ire, i dissapori personali, le ruberie o comportamenti che danneggiano in qualche modo gli altri e con questo l'intera comunità credente, rinnovandosi, invece, nel linguaggio secondo le esigenze dello Spirito, cessando con le scurrilità e le volgarità e le offese, ponendo come parametro di raffronto Dio, che di Se stesso ha fatto dono in Cristo (4,32-5,1-2). Da tutto ciò discende la necessità di rinnovare la propria mente e il proprio comportamento, bandendo dalla propria vita fornicazioni, scurrilità, impudicizie, cupidigie, cose che non appartengono più a chi ha abbracciato Cristo, ma sono proprie del mondo delle tenebre, da cui questi credenti provenivano prima di conoscere Cristo (5,3-20). Essi, ora, appartengono al mondo della luce e non più a quello delle tenebre, conseguentemente devono comportarsi come figli della luce. Da qui l'esigenza di esaminare se stessi e raddrizzare il proprio modo di vivere secondo la Verità del Vangelo.

Ma non solo il proprio modo di vivere va sottoposto a critica, ma anche le relazioni intrafamiliari devono cambiare radicalmente. Nessuno deve sentirsi padrone degli altri o dominare sugli altri, ma ognuno deve interpretare il proprio ruolo come servizio nei confronti degli altri, sotteso dall'amore (5,21-6,9), che ha come parametro di raffronto Dio stesso che “vi ha donato (se stesso) in Cristo” (4,32) .

La parte parenetica, come s'è visto, consiste in una sorta di carrellata di tutte le manchevolezze di questa comunità efesina, che vengono qui stigmatizzate e accompagnate da vibranti solleciti per un radicale cambiamento di vita, per conformarsi al dono della salvezza manifestatosi in Cristo e al quale gli efesini avevano inizialmente aderito.

Dopo questa ampia e mirata parenesi, ora l'autore conclude la sua lettere indicando a grandi linee gli strumenti essenziali di cui i credenti devono rivestirsi per resistere agli assalti del maligno (vv.10-17), evitando in tal modo di ricadere nella precedente vita tenebrosa. Il richiamo è all'armatura propria di ogni soldato. Si parla, infatti, di fianchi cinti, di corazza, di calzari, di scudo, di elmo, di dardi e di spada per indicare come la vita credente non sia una passeggiata, ma una continua lotta e una continua battaglia contro le tenebre. Una percezione questa che riscontriamo in vario modo in diverse le lettere neotestamentarie28, a testimonianza delle difficoltà, da un lato, di conformare la propria vita alle esigenze della nuova fede; dall'altro, le difficoltà di conciliare la propria fede con il modo di vivere del mondo pagano, da cui i neocredenti provenivano e in mezzo al quale vivevano e convivevano. Lc 12,51-53 metterà in evidenza proprio questa difficoltà del vivere credente: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera”.

La struttura di questa pericope può essere scandita in tre parti:

  1. Introduzione (v.10);

  2. Motivazione di questa esortazione conclusiva (vv.11-13);

  3. Le modalità del vivere credente (vv.14-17)

Commento ai vv.10-17

Introduzione (v.10);

Il v.10 è di transizione, perché chiudendo la parte parenetica mirata (4,1-6-9) traghetta il lettore alla parte conclusiva di questa ampia sezione parenetica (vv.10-17), dove l'autore detta le linee generali del vivere credente ossia in quale modo il credente deve affrontare le avversità spirituali in senso generale. La differente tematica segna il passaggio tra la prima parte parenetica e questa seconda parte conclusiva.

Il v.10 si apre con l'espressione avverbiale “Toà loipoà” (Tû loipû, Per il resto), che segna il passaggio da una tipologia di specifiche esortazioni, riguardanti il comportamento proprio degli efesini, ad un'altra, dove le esortazioni sono più generiche: “fortificatevi n(el) Signore e nel vigore della sua potenza”. In altri termini, l'esortazione riguarda l'essere sempre radicati nel Signore, rimanendo fedeli alla Verità del Vangelo, trovando in lui la propria forza da contrapporre alle sfide del mondo e il senso della propria fede e della propria esistenza, rivestendosi in tal modo della sua potenza, cioè la potenza della Verità del Vangelo, in cui riecheggia Rm 1,16: “Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco”.

Quale sia la motivazione di questa esortazione sarà compito dei vv.11-13 presentarla, mentre la pericope vv.14-17 avrà il compito di specificare le modalità con cui si adempie questa fedeltà al Vangelo, mentre il linguaggio militare lascia intravvedere come questa fedeltà a Cristo e alla sua Parola comporta una lotta continua tra il credente e il mondo, tra le tenebre, da cui i neocredenti provengono, e la Luce di cui essi, ora, sono figli. La fede, infatti, non è mai uno stato di vita acquisito una volta per sempre, ma va continuamente alimentata con la Verità che promana dal Vangelo, a cui il credente è chiamato a conformare la quotidianità della sua esistenza.

Motivazione di questa esortazione (vv.11-13)

La pericope vv.11-13 è circoscritta da un'inclusione data dall'espressione “armatura di Dio” in vv.11.13, che dà il tono all'intera pericope, introducendo il lettore in un contesto di battaglia e di lotta personale contro le realtà spirituali avverse, che si storicizzano nella quotidianità della vita sotto forma di situazioni e contesti che stridono con le esigenze della propria fede.

L'immagine della “armatura di Dio”, armatura con la quale si intende l'insieme delle armi in dotazione al soldato, atte alla difesa e all'offesa, viene mutuata in parte da Is 59,16-18 e in particolare da Sap 5,17-23, che dipingono una sorta di Dio guerriero, schierato con i giusti contro i suoi nemici e a cui sembra ispirarsi la successiva pericope vv.14-17.

Il v.11 riprende in qualche modo quel “fortificatevi n(el) Signore e nel vigore della sua potenza” del v.10, precisando che cosa significhi rivestirsi dell'armatura di Dio; mentre in che cosa essa consista, sarà compito dei vv.14-17 a precisarlo, delineando così le modalità del vivere credente. Qui, ai vv.11-13, l'autore si limita a evidenziare la motivazione circa la necessità di rivestirsi di questa “armatura di Dio” e la preannuncia sintetizzandola nelle “insidie del diavolo”. È lui il nemico principale del credente, che nella quotidianità del suo vivere lo mette continuamente alla prova, cercando di farlo cadere; è lui il nemico contro cui si è costretti ad innescare una lotta continua nella quotidianità del proprio vivere, così come ricorda 1Pt 5,8-9a: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede”, quella fede che viene qui metaforizzata con l'immagine di uno scudo, che mette al riparo dai “dardi infuocati del maligno” (v.16).

Da qui la necessità di rivestirsi della “armatura di Dio”. Si tratta, ovviamente, di un'armatura spirituale, perché, viene precisato al v.12, la lotta non è “contro il sangue e la carne”, cioè contro esseri umani o comunque pericoli materiali, ma contro realtà spirituali, che qui l'autore elenca: “contro i Principati e le Potestà, contro i padroni del mondo di questa tenebra, contro le realtà spirituali della malvagità (che sono) nei cieli”, realtà queste che già aveva anticipato in 3,10. Sono pertanto realtà spirituali “malvagie” che, precisa l'autore, “sono nei cieli”. Il cielo o i cieli nel linguaggio biblico sono la sede di Dio per eccellenza, dove Egli regna sovrano e incontrastato, perché, dunque, viene precisato che queste forze malvagie si trovano nei cieli, cioè nella casa stessa di Dio? L'espressione “nei cieli” va intesa non nel senso di una coabitazione di Dio con le forze del male e che gli sono avverse, ma va intesa come una semplice sottolineatura di “realtà spirituali” e non forze “umane”, poiché risiedono in una diversa dimensione da quella propria dell'uomo che è quella spazio-temporale. Si tratta, dunque, di una semplice rimarcatura, che va tutta a beneficio della necessità del rivestirsi della “armatura di Dio”, un'armatura di natura squisitamente spirituale, poiché il nemico, con cui combattere ha natura spirituale come quella di Dio. La necessità, quindi, è quella di rafforzarsi spiritualmente per poter controbattere agli assalti di queste potenze spirituali maligne “nel giorno malvagio e rimanere saldi, dopo aver portato termine tutte le cose” (v.13). Il “giorno malvagio” non indica un giorno particolare, ma il momento della prova. Tuttavia l'espressione che segue, “e rimanere saldi, dopo aver portato termine tutte le cose”, lascia intravvedere come questo “giorno malvagio” sia anche il tempo in cui il credente è chiamato a vivere ed è sollecitato a rimanere saldo nella fede, così da portare a compimento i suoi impegni battesimali fino al termine della sua vita.

Le modalità del vivere credente (vv.14-17)

Il v.10 sollecitava a fortificarsi nel Signore, rivestendosi così della sua potenza; i vv.11-13 spiegavano il perché di tale necessità, poiché il credente ha a che fare con le potenze del Male, che sono potenze spirituali. Da qui la necessità di equipaggiarsi adeguatamente per affrontarle nella battaglia spirituale. Quali, pertanto, sono le armi che il credente deve indossare per controbatterle opportunamente?

Ed è a tal punto, vv.14-17, che l'autore sviluppa un parallelismo tra l'armatura del soldato, che ben tutti conoscono, e quella di Dio, decisamente meno nota, ma che l'autore cerca di rendere più facilmente raggiungibile ai credenti attraverso un aggancio metaforico con quella del soldato. Un aggancio che non è preso a caso, ma ha un suo riferimento specifico per ogni arma, offensiva e difensiva del soldato. Così che i “fianchi cinti”, che indicano l'essere pronti all'azione, è associato alla “verità”,cioè alla fondamentale formazione cristiana del credente, che lo apre alla conoscenza delle esigenze del Vangelo, a cui è chiamato, per propria natura, a conformare scientemente e coscientemente la propria vita. Senza questa formazione fondamentale e senza questa coscienza del proprio essere credente non è possibile intraprendere qualsiasi azione di difesa o di attacco.

La prima arma è la corazza, un'arma di difesa, che salvaguarda le parti vitali del corpo più vulnerabili dai colpi del nemico, alla quale viene associata la “giustizia”, che va intesa nel senso etimologico del termine: “in iure stare”, cioè “rimanere fermi nel diritto” in ciò che è giusto e, quindi, essa esprime la fedeltà alla propria scelta originale, che ha portato il credente ad accogliere in se stesso la Verità del Vangelo, aprendolo così al dono dello Spirito Santo nel battesimo (1,13-14), che ha fatto di lui un uomo nuovo sia individualmente che socialmente (2,15; 4,23-24).

Un altro elemento dell'armatura del soldato sono i calzari ai piedi, che se da un lato proteggono i piedi, dall'altro facilitano le marce lungo le strade imperiali, dove gli eserciti si spostavano rapidamente da una parte all'altra dell'Impero romano per far fronte al nemico. A questa protezione viene associata la “preparazione del vangelo della pace”. Il termine greco “˜toimas…v” (étoimisia) non significa propagazione o annuncio, suggerito più dai “calzari ai piedi” che dal significato vero e proprio del termine greco, ma significa letteralmente preparazione, prontezza, diligenza nel vangelo della pace. Quindi il mettere ai propri piedi questi calzari della preparazione, della prontezza e della diligenza significa il camminare, cioè il vivere, di cui il “camminare” è metafora, secondo il Vangelo della pace. Pace che è riconciliazione non solo tra Dio e gli uomini, ma anche degli uomini tra loro; è l'essere imitatori di Dio, che ha dato tutto se stesso nel Figlio suo (4,32b-5,1), “sottomettendosi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (5,21). Forse un implicito richiamo alla conservazione dell'unità della comunità credente, camminando “[...] in modo degno della vocazione, con la quale foste chiamati, con ogni umiltà e mitezza, con pazienza, sopportando gli uni gli altri ne(ll')amore” (4,1-2) e a non adirarsi dando spazio al diavolo (4,26-27).

Un'altra arma difensiva è lo scudo, che il soldato deve sempre portare con sé quando è in assetto di combattimento, poiché gli servirà per parare i colpi di spada, di lancia e soprattutto i dardi infuocati lanciati dal nemico, che piovono dall'alto e gli potrebbero essere fatali. Lo scudo, dunque, è un'arma difensiva, ma essa è affidata all'abilità del soldato e alla sua destrezza e alla sua perizia. A questa arma difensiva è associata la fede, il cui livello di profondità e di efficacia è affidato al singolo credente, al suo livello di maturità spirituale, alle sue convinzioni personali, alla sua adesione e conformazione esistenziali alla Verità del Vangelo, che ha saputo operare in lui, in base alla disponibilità di accoglienza di ogni singolo credente. La fede, dunque, sembra essere l'arma fondamentale e vincente, da impugnare in ogni circostanza: “in tutte le circostanze prendendo lo scudo della fede”. Su questa linea si trova la stessa esortazione sopracitata di 1Pt 5,8-9a: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede”.

Il v.17 riporta altri due armamenti del soldato: uno difensivo, l'elmo; l'altro offensivo, la spada. Tra tutti gli strumenti difensivi l'elmo ricopre una funzione protettiva importante, poiché ripara la parte più vitale e più importante del corpo, la testa, che è la parte identificativa dell'uomo; una parte che lo personalizza e lo rende unico ed esclusivo. A quest'arma difensiva viene associata la salvezza ed è ciò che va salvaguardato sopra ogni cosa e verso la quale tutto il resto deve convergere. L'importanza di questa salvezza è evidenziata dai primi tre capitoli di questa stessa Lettera, dedicata agli efesini e che costituiscono un inno e una contemplazione dell'azione soteriologica del Padre. Essa, dunque, non va dispersa, ma salvaguardata ad ogni costo. Da qui, quasi come un elmo protettivo, ne discende la parte parenetica.

L'ultima arma, che completa l'armatura del soldato, è la spada, l'unica veramente offensiva, l'unica in grado di far fronte al nemico e colpirlo letalmente, l'unica che qualifica per davvero il soldato nel suo ruolo di combattente. A questa viene associata la Parola di Dio. Un'associazione a cui l'autore è stato sospinto dalla tradizione biblica veterotestamentaria ripresa, poi, anche da quella neotestamentaria, dove la Parola di Dio è metaforizzata dall'immagine della spada per indicarne la potenza e la penetrabilità, quasi un guizzo che investe la persona e ne lascia in profondità il segno della sua presenza. Significativo è quanto attesta Is 55,10-11 circa l'efficacia della Parola di Dio: “Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata”. Un concetto questo che in qualche modo verrà ripreso da Eb 4,12, che vede nella Parola non più un oggetto di offesa, ma un Essere Vivente, che opera in chi l'accoglie (1Ts 2,13): “Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore”.

Ultime raccomandazioni conclusive e saluti (vv.18-24)

Testo a lettura facilitata

Un appello ad una preghiera costante (v.18)

18- Pregando con ogni preghiera e supplica in ogni tempo nello Spirito e vigilando per questo con ogni costanza e con supplica per tutti i santi,

Un ricordo anche per Paolo e la sua missione (vv.19-20)

19- e anche per me, affinché mi sia data una parola in apertura della mia bocca, con libertà di parola (possa far) conoscere il mistero del vangelo,
20- per il quale sono ambasciatore in catene, affinché in lui possa parlare con piena libertà, come bisogna che io parli.

Notizie su Paolo per incoraggiare gli Efesini (vv.21-22)

21- Affinché sappiate anche voi circa me, che cosa faccio, tutte le cose vi spiegherà Tichico, fratello diletto e fedele ministro nel Signore,
22- che vi ho mandato proprio per questo, affinché conosciate le cose che ci riguardano e incoraggi i vostri cuori.

I saluti (vv.23-24)

23- Pace ai fratelli e amore con fede da Dio Padre e (dal) Signore nostro Gesù Cristo.
24- La grazia (sia) con tutti coloro che amano il Signore nostro Gesù Cristo con integrità.


Note generali

Dopo l'ultima esortazione a fortificarsi con l'armatura di Dio “per poter erigervi contro le insidie del diavolo” (vv.10-11), l'autore aggiunge ora un'ultima nota a completamento della sua ampia sezione parenetica, quella della preghiera. Una preghiera che va estesa a tutti i santi “e anche per me” (v.19a), chiederà Paolo, associandosi a loro, quale “ambasciatore di Cristo in catene” (vv.20; 3,1), ma non tanto per se stesso quanto per la missione a cui è chiamato e che aveva già ampiamente descritto in 3,1-13: annunciare con franchezza la Verità del Vangelo.

E perché questa preghiera per Paolo, che qui come in 3,1-13, sembra essere un personaggio sconosciuto agli Efesini o quanto meno ai catecumeni, a cui è rivolto questo scritto, invia loro Tichico perché li aggiorni sullo stato delle cose e della sua attività missionaria, così che l'oggetto delle loro preghiere abbia contorni storici concreti e certi sulla base della testimonianza di Tichico (vv.21-22).

Il tutto si chiude con dei saluti generici e impersonali a differenza di molte altre lettere paoline o di scuola paolina, che nei saluti includono numerosi personaggi, che in qualche modo hanno collaborato con Paolo o sono venuti a sua conoscenza supportandolo nella sua missione (vv.23-24).

Commento ai vv.18-24

Un appello ad una preghiera costante (v.18)

È alquanto significativo come la parte conclusiva della sezione parenetica e di questo stesso scritto, indirizzato ai catecumeni, si chiuda con un ultimo appello alla preghiera, che per sua natura mette in comunione la comunità nonché ogni singolo credente con Dio stesso, facendo dei tre una cosa sola (Gv 17,21; 1Gv 1,3).

Un tema, questo della preghiera, che l'autore già aveva in qualche modo affrontato in 5,19-20 dove si invitavano i catecumeni a conversare tra loro “[con] salmi e inni e canti spirituali, cantando e suonando (nei) vostri cuori al Signore, rendendo grazie sempre per tutto nel nome del Signore nostro Gesù Cristo a Dio e Padre”. Ma se con 5,19-20 l'autore evidenziava come dovesse essere vissuto il tempo della comunità credente e quindi la sua qualità, riempendolo di cose spirituali, creando in tal modo un clima di intensa spiritualità, che non solo l'associava alla vita di Dio, rendendolo presente in mezzo ad essa, ma evitava anche di dissacrarlo con ubriacature di “vino, in cui c'è dissolutezza, ma riempitevi con (lo) Spirito” (5,19), ora con 6,18, riprendendo in qualche modo 5,19-20, evidenzia come deve essere questa preghiera: “Pregando con ogni preghiera e supplica in ogni tempo nello Spirito e vigilando per questo con ogni costanza e con supplica per tutti i santi”. Una preghiera, quindi, che deve avvenire “con ogni preghiera e supplica”, cioè deve avvenire con ogni forma e con ogni modalità a seconda che suggerisca in quel momento lo Spirito, in cui avviene questa preghiera. Una preghiera che deve essere continuativa e costante, poiché essa deve avvenire “in ogni tempo”; una preghiera che ha a che fare, quindi, con la vita, che, proprio per questo, deve essere trasformata in preghiera, in una sorta di celebrazione liturgica di lode e di ringraziamento a Dio, che la trasforma in un unico atto consacratorio e consacrante. Paolo lo ricorderà in 1Cor 10,31: ”Sia dunque che mangiate sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”; e similmente in Rm 14,6-8 esorterà: “Chi si preoccupa del giorno, se ne preoccupa per il Signore; chi mangia, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; anche chi non mangia, se ne astiene per il Signore e rende grazie a Dio. Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore”. Una preghiera, quindi, che diviene globale e totalmente inclusiva; una preghiera che è sacerdotale, come ricorda Rm 12,1: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. Preghiera che diviene vita celebrante, offerente, sacrificale e consacrante. Una preghiera, esorta con una certa preoccupazione, che va spesa favore di tutti i santi, affinché venga custodita “l'unità dello spirito nel vincolo della pace” (4,3).

Un ricordo anche per Paolo e la sua missione (vv.19-20)

In questo contesto di preghiera onnicomprensiva, richiamandosi a 3,1-13, compare nuovamente la figura di Paolo, che vuole associarsi ai santi della comunità efesina. Ma riprendendo le considerazioni fatte in 3,1-13 non va escluso che questo Paolo in realtà sia l'autore stesso di questo scritto, che, parimenti a Paolo, si trova ora incatenato per Cristo. Tuttavia la sua preoccupazione non è per la sua personale posizione di “ambasciatore in catene”, ma per la sua missione, racchiusa e significata in quel “ambasciatore”, affinché sappia sempre annunciare con franchezza e “piena libertà” il “mistero del vangelo”. Espressioni e modi di fraseggiare che si discostano dal linguaggio paolino. Vediamo, infatti, in questo modo di esprimersi una certa preoccupazione per la propria missione, un certo timore di non saper essere all'altezza della situazione; un timore di poter anche venir meno al proprio impegno missionario. Timori che esulano completamente dal modo di essere di Paolo, un fanatico di Cristo, per il quale non si è sottratto a sofferenze continue e tali da mettere continuamente in discussione la sua stessa vita (2Cor 11,23-28; Rm 8,35-39).

Notizie su Paolo per incoraggiare gli Efesini (vv.21-22)

Per dare un contesto storico concreto alla figura di Paolo, viene qui introdotto un altro personaggio, un fedele compagno di viaggio di Paolo e suo stretto collaboratore, che figura essere il latore del presente scritto: Tichico. Un nome, questo, che compare cinque volte nel N.T. in vari contesti narrativi (At 20,4; Ef 6,21; Col 4,7; 2Tm 4,12; Tt 3,12). Qui, al v.21, dove compare nuovamente, sembra essere stato mutuato in modo sostanzialmente identico da Col 4,7, la quale cosa fa pensare come l'introduzione di questo personaggio in questo contesto di chiusura di “Lettera” sia fittizio, così come lo è la figura di Paolo, qui citata, dietro la quale si nasconde, probabilmente, il vero autore di questo scritto, probabilmente un vescovo, responsabile delle chiese dell'Asia minore, che fanno a capo ad Efeso.

I saluti (vv.23-24)

Lo scritto si chiude con dei saluti che l'autore mette in campo per dare forma di lettera a questo suo scritto, diretto ai catecumeni dell'Asia minore, di cui Efeso è capitale. Saluti che lasciano perplessi per il loro modo insolito di esprimersi, perché non sembrano rivolgersi alla comunità di Efeso, ma in modo generico “ai fratelli” e, unica espressione che si riscontra in questa “Lettera”, “La grazia (sia) con tutti coloro che amano il Signore nostro Gesù Cristo con integrità”. In tutte le lettere paoline o di scuola paolina i saluti seguono un modo di esprimersi comune e sostanzialmente identico, come, ad esempio, “La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con voi” (Rm 16,20b) e similmente in 1Cor 16,23, 2Cor 13,13, in Gal 6,18 e così per le restanti lettere, dove i saluti sono rivolti “a voi”, cioè alla comunità a cui la lettera è indirizzata, mentre qui il saluto di grazia non è rivolto alla comunità di Efeso, ma a “tutti coloro che amano il Signore nostro Gesù Cristo con integrità”, la quale cosa stupisce, perché uno scritto che si qualifica come lettera rivolta alla comunità credente di Efeso dovrebbe augurare la grazia all'intera comunità credente, mentre qui sembra creare una sorta di discriminazione all'interno della comunità, tra coloro che amano e non amano “il Signore Gesù Cristo con integrità”. Tuttavia un saluto simile potrebbe essere giustificato se questa “lettera” non sia una lettera, ma uno scritto che l'autore affida ai catecumeni, augurando ad essi, sotto forma di benedizione, che la “grazia” accompagni sempre coloro che con “integrità” di fede e di vita amano il Signore, indicando in tal modo a questi catecumeni il cammino da percorrere.

Significativa è l'espressione con cui si aprono i saluti: “Pace ai fratelli”, con cui si allude alla riconciliazione tra Dio e gli uomini per mezzo di Cristo e in Cristo e, quindi, al tema soteriologico che ha sostanziato i primi tre capitoli, rendendo, poi, obbligatoria la conseguente sezione parenetica (4,1-6,17), che esorta i catecumeni e i credenti in genere a conformare la propria vita all'azione salvifica che il Padre ha operato in loro. A questa opera salvifica che proviene dal Padre in Cristo deve corrispondere lo stesso amore che Dio ha riversato sui credenti nei confronti dei fratelli, che deve poggiare sul basamento della fede e da questa deve essere sostanziato. Un saluto augurale che si richiama in qualche modo a 4,32-5,1, dove si esorta ad amare gli altri con lo stesso amore misericordioso con cui Dio ha donato se stesso in Cristo, divenendo Dio stesso parametro di raffronto e di imitazione per ogni credente. Un saluto che sembra nel contempo sollecitare all'unità della comunità, superando le divisioni e le discordie intestine nel “vincolo della pace” (4,3)

Il secondo passaggio, dettato dal v.24, è l'augurio che “La grazia (sia) con tutti coloro che amano il Signore nostro Gesù Cristo con integrità”. Pace e grazia, un binomio che ricorre spesso in tutte le lettere neotestamentarie, dove la prima, “pace”, è presupposto per la seconda, “grazia”, quale dono di vita divina che fluisce da Dio verso coloro che lo amano ed amano, conformandosi così a Lui che si è fatto tutto a tutti nel suo Figlio, dopo che il Padre ha ristabilito la sua comunione di vita con tutti coloro che lo hanno accolto nel suo Cristo.






NOTE

1Gustav Adolf Deissmann fu un teologo protestante tedesco, conosciuto per i suoi studi sulla lingua greca usata negli scritti neotestamentari, che la classificò come koinè, cioè la lingua greca che si andò affermando nel mondo ellenistico, dopo le grandi conquiste di Alessandro Magno (333-323 a.C.).

2Cfr. Ef 1,22; 3,10.21; 5,23.24.25.27.29.32

3La stessa identica espressione compare nel prescritto della Lettera a Tito (1,4)

4Il termine “Cristo” è la traduzione greca del termine ebraico “Mashiah” che significa “Unto”. Un attributo questo che viene riferito ai re, ai sacerdoti e ai profeti, tre categorie di persone che il credente riconosce nel Risorto e di cui è personalmente rivestito nel battesimo.

5Cfr. Rm 1,7; 1Cor 6,1.2; 7,14; 2Cor 1,1; 8,4; 9,1.12; 13,12; Ef 1,1.15.18; 2,19; 3,8.18; 5,3; 6,18; Fil 1,1; 4,21.22; Col 1,2.4.12.22.26; 3,12; 2Ts 1,10; 1Tm 5,10; Fm 1,5

6Cfr. Eb 3,1; 6,10; 13,24

7Cfr. Lv 11,44; 19,2; 20,7

8Il termine “benedizione” ha il suo corrispondente ebraico in berakah, che, a sua volta, deriva da “berek”, che significa “ginocchia”, un eufemismo che allude agli organi genitali, preposti alla generazione della vita.

9Circa la creazione dell'uomo, la sua collocazione nella dimensione divina e il dramma della sua caduta, espressa con un linguaggio mitologico, cfr. le pagg. 9-15 del mio studio, al seguente indirizzo: https://digilander.libero.it/longi48/Per%20un%20cammino%20cristiano.pdf

10Cfr. Gen Gen 6,11-13; Rm 8,19-21

11Il verbo latino, infinito presente da “săpio”, significa “gustare; sentire il sapore di” e, in senso figurato, anche “avere intelligenza, comprensione”, nel nostro caso, delle cose riguardanti lo Spirito e il mondo di Dio, evidenziando così come questi neobattezzati sono entrati a far parte di una nuova dimensione esistenziale, apparentemente umana, in realtà, divina.

12Cfr. anche 1Cor 15,25-28

13Sullo stesso tenore cfr anche Rm 3,20; Gal 2,16; 3,2.5.10

14Il prepuzio è la pelle che avvolge il glande, la parte terminale del pene maschile.

15Cfr. Gen 6,7.11-13; Rm 8,19-23

16Similmente compare anche in 2Tm 1,8 e in Fm vv.1.9

17Dopo la sua conversione (35 d.C. circa) e prima di iniziare i suoi viaggi apostolici (45-57 d.C.), Paolo per circa dieci anni ha appreso e maturato la sua fede in Cristo presso le comunità credenti, che ruotavano attorno alle aree di Gerusalemme, Damasco ed Antiochia. Tracce di questa sua permanenza presso le chiese locali si trovano in 1Cor 11,23 e 15,3.

18Paolo parlerà dell'uomo come “spirito, anima e corpo”, che riflette l'antropologia ebraica e degli antichi in genere, dove lo spirito e il corpo, due elementi contrapposti e incomunicabili nell'uomo, trovano la loro ricomposizione nell'anima, che è il luogo di saldatura tra il corpo e lo spirito, quella che potremmo chiamare la parte propriamente psichica, dove lo spirito si esprime in emozioni e sentimenti ed agisce nel corpo. La morte porta allo scioglimento dell'anima e quindi la fine dell'uomo nel suo insieme.

19Cfr. Ef 4,1.17a.17b; 5,2.8.15

20A solo titolo esemplificativo cfr. Gen 5,2.24; 6,9; 17,1; 48,15; Es 16,4; Gs 22,5; Gdc 2,22; 1Re 3,6.14; Sir 49,9; Is 2,3.5; Bar 1,18; 3,13; Ez 18,9.17; 20,13.19.

21Cfr. Mc 13,9.11-13; Mt 10,34-36; Lc 12,51-53; Gv 9,22; 12,42; 16,2

22Sulla questione cfr. LA TRADIZIONE APOSTOLICA di Ippolito alla voce “I catecumeni”, dove vengono elencate le numerose attività incompatibili con il nuovo stato di vita e che il candidato al battesimo doveva lasciare, pena la sua inammissibilità.

23Cfr. Rm 6,4; 7,6; 1Cor,5,7; Col 3,10

24Cfr. Gen 6,5-7.11-13; Rm 8,19-23

25Purtroppo questa mia attestazione non può più essere valida ai giorni nostri, poiché si è talmente decaduti che non si riesce più distinguere il bene dal male, ritenendo male ciò che è bene e viceversa. Oggi la Luce è spenta in mezzo agli uomini e non illumina più le coscienze. Ed anche il Faro, che dovrebbe illuminare per sua missione, è spento.

26Cfr. Nestle-Aland, Novum Testamentum Graece et Latine, 27^ edizione 1993 – Ef 5,14

27Cfr. Costituzione dogmatica Lumen Gentium § 11 secondo capoverso.

28 Cfr. Rm 7, 23; 13, 12; 1Cor 9, 24-27; 2Cor 6, 7; 10,3-4; 1Tm 1, 18-19; 6, 12; 2Tm 2, 3-5; 4, 7-8: Fm 1, 2; Gc 1, 12; 1Pt 2, 11.