IL VANGELO SECONDO MARCO


Gesù non solo Cristo sofferente,
ma anche Figlio di Dio sofferente.
Inintelligenza e incredulità persistenti.
Serve una pausa di riflessione
1


Cap. 9, 1- 50


Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi




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Note generali

Dopo la seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci, avvenuta nel territorio della Decapoli, che porta a compimento la missione di Gesù presso il mondo pagano, Marco inaugura una seconda grande area narrativa (8,10-10,52), che funge da transizione verso la terza area narrativa (11,1-16,8) e propedeutica a questa, quella dell'attività giudaica, che si concluderà con la passione, morte e risurrezione di Gesù. In questa seconda area narrativa viene rivelata l'identità di Gesù quale Messia sofferente (8,29b-31) e quale Figlio di Dio sofferente (9,7.30-32). In entrambi i casi la rivelazione della duplice identità di Gesù, sottesa dalla sofferenza e dalla morte, è accompagnata da reazioni di incredulità e di inintelligenza da parte dei Dodici (8,32; 9,19.32) così che si rende necessaria da parte di Gesù una pausa di riflessione, che puntualizza, da un lato, i criteri della sequela (8,34-38); dall'altro, la necessità della fede, quale presupposto per comprendere come la missione di Gesù ha da compiersi nella sofferenza e nella morte (9,14-29). Ma nel contempo serve modificare in modo radicale il proprio atteggiamento interiore, il proprio modo di pensare per comprendere il senso vero e profondo della missione di Gesù (9,33-10,52), quale attuazione del disegno salvifico del Padre. Una comprensione questa che necessita di porsi dalla prospettiva di Dio e non da quella degli uomini (8,33b; 9,32).

Il cap.9, pertanto, riproduce sostanzialmente nel suo schema narrativo il cap.8,27-38. Per cui in 8,27-38 si ha: a) rivelazione dell'identità di Gesù quale Messia sofferente (8,27-31); b) rifiuto da parte di Pietro di tale prospettiva e rimprovero di Gesù (8,32-33); c) pausa di riflessione in cui Gesù puntualizza i criteri della sequela (8,34-38).

Similmente il cap.9 si apre con a) la rivelazione di Gesù quale Figlio di Dio (9,2-10) sofferente (9,31-32); b) fatto seguire dalla necessità imprescindibile della fede, metaforizzata dall'esorcismo contro il demone dell'incredulità (9,14-29); c) il tutto si conclude con una lunga catechesi di riflessione, che si estenderà a tutto il cap.10, finalizzata alla conversione della propria mentalità, perché lentamente questa si ponga dalla prospettiva di Dio (9,33-50). Soltanto dopo questo lungo cammino di preparazione, che si concluderà significativamente con l'ultima guarigione, quella del cieco di Gerico (10,46-52), ultima tappa prima di iniziare il cammino verso Gerusalemme e da qui verso il Golgota.

La struttura narrativa del capitolo 9 è scandita in cinque parti:


Commento ai vv. 2-50


La trasfigurazione: Gesù rivelato Figlio di Dio (vv.2-8)


Testo a lettura facilitata

Preambolo introduttivo (v.2a)

2a- E dopo sei giorni, Gesù prende Pietro, Giacomo e Giovanni e li porta su di un alto monte, in disparte, soli.

L'evento della trasfigurazione (vv.2b-3)

2b- E fu trasfigurato davanti a loro.
3- E le sue vesti divennero splendenti, molto bianche, quali un lavandaio sulla terra non può rendere così bianche..

Dinamica interna all'evento e il suo senso (vv.4-7)

4- E apparve a loro Elia con Mosè e insieme stavano parlando con Gesù.
5- E Pietro, rispondendo, dice a Gesù: <<Rabbi, è bello che noi siamo qui; e facciamo tre tende, una a te e una a Mosè e una ad Elia>>.
6- Non sapeva, infatti, che cosa rispondere, erano, infatti, spaventati.
7- E ci fu una nube che li adombrò, e vi fu una voce dalla nube: <<Questi è il mio figlio, l'amato, ascoltatelo>>.

Conclusione (v.8)

8- E subito, guardandosi attorno, non videro più nessuno, ma solo Gesù con loro.


Note generali

Prima di introdurci al commento del racconto della Trasfigurazione, va premesso che Il cap.9 si apre in modo inconsueto con il v.1 che, senza alcuna contestualizzazione, come invece si aprono tutti i capitoli del racconto marciano, riporta un'attestazione di Gesù: “E diceva loro”. Un'espressione questa che caratterizza le interpolazioni che l'autore stesso, nelle revisioni del suo vangelo, adotta per introdurre qualche versetto o qualche breve pericope. Il v.9,1, pertanto, va considerato un'aggiunta successiva di Marco ed assume un significato ambivalente. Qualora questo, come ritengono gli studiosi, si riferisca alla pericope conclusiva del precedente cap 8,34-38, esso va ad accentuare il carattere escatologico dell'intera pericope. Il v. 9,1, in questo caso, ha il compito di creare un contesto di imminenza escatologica, prospettando una sorta di escatologia presenziale o compiuta entro cui si sta attuando il giudizio di Dio (8,38), sospingendo in tal modo il credente a rivedere rapidamente le motivazioni della sua sequela, conformandole alle esigenze di Gesù e non alle proprie, poiché incombe su di lui il giudizio divino. Da qui il richiamo al compiersi del Regno di Dio nel tempo presente, richiamato con il riferimento a “quelli che stanno qui”.

Qualora, invece, il v.9,1 venga riferito al racconto della Trasfigurazione, esso crea un contesto escatologico ed apocalittico, rafforzato dalla pericope vv.11-13, entro cui va letto e compreso il racconto stesso. Esso, inoltre, funge da transizione al racconto della Trasfigurazione, dove l'espressione “alcuni di quelli che stanno qui” allude a Pietro, Giacomo e Giovanni (9,2), che vedranno il manifestarsi della gloria di Dio in Gesù prima della loro morte. Una trasfigurazione con cui viene preannunciata in qualche modo anche la gloria della risurrezione, quale compimento definitivo della salvezza e manifestazione dell'affermarsi della potenza di Dio in Gesù (Rm 1,4).

Dopo la rivelazione di Gesù quale Cristo sofferente (8,29.31), il racconto della Trasfigurazione presenta ora l'altra faccia dell'identità di Gesù: egli è anche il “Figlio di Dio” (v.7b), anch'esso sofferente (v.31). Gesù, dunque, Cristo e Figlio di Dio. Una doppia identità e una doppia titolatura che già era stata preannunciata da 1,1 con cui Marco apriva il suo vangelo: un lieto annuncio finalizzato e incentrato sulla figura, sull'identità e sulla natura di Gesù. Una ricerca e una scoperta che il racconto marciano s'incarica di trovare e di illustrare ai suoi lettori e alle comunità credenti. Ma ciò che qui Marco aggiunge a questa doppia identità di Gesù è la sofferenza e la morte, benché esse non si chiudano in loro stesse, ma si aprano alla risurrezione, la cui via obbligata è comunque la croce.

Il tema di un Messia e di un Figlio di Dio crocifisso doveva costituire, sia presso i primi discepoli di Gesù che presso le primissime comunità credenti, oltre che un trauma esistenziale anche un serio problema a cui dover dare una risposta per poter continuare a credere. Già Lc 24,21 evidenzia nel racconto dei due discepoli di Emmaus la loro grande delusione, che li stava allontanando da Gerusalemme, il luogo che suggellava il definitivo fallimento di quel Gesù, in cui essi avevano riposte le loro speranze: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute”. Ma non è da meno la comunità giovannea, che apre il racconto della risurrezione con una significativa nota temporale: “Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio” (Gv 20,1a). Un recarsi a quella tomba “quand'era ancora buio”, che dice l'oscurità in cui si mossero i primi discepoli dopo la morte di Gesù, alla ricerca di una luce che desse ancora un significato e un senso alla loro loro sequela e al loro aver scommesso le proprie vite su questo Gesù, creduto Messia e Figlio di Dio, ma sconfitto sulla croce. L'alternativa era il fallimento. Ci vorrà ancora del tempo e molta riflessione e una ricomprensione delle Scritture (Gv 20,10) per poter giungere alla fondamentale conclusione che egli, Gesù, è risorto. Paolo, scrivendo alla sua comunità di Corinto, creerà una sua teologia e una sua cristologia proprio attorno alla croce, rendendola non un segno della vergogna e della sconfitta, ma un segno della sapienza e della potenza divina, che in essa distrugge quella umana e con essa tutte le sue pretese (1Cor 1,18-25). La croce, dunque, quale identità del credente.

Il racconto, carico di simbolismi, sembra essere stato costruito da Marco sullo sfondo biblico di Es 24,15-18: “Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La Gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte2. Il racconto, pertanto, va compreso, a mio avviso, come un'invenzione di Marco, seguito poi da Matteo e Luca, proprio per l'accentuato simbolismo e i richiami scritturistici che lo percorrono. Marco doveva dare corpo alla sua logica cristologica, annunciata in 1,1, e qui lo fa accostando l'attestazione di Gesù quale Cristo, da parte di Pietro; e di Figlio di Dio da parte del Padre. L'una va a completare l'altra e l'aggancio, come vedremo nel commento, è proprio la nota temporale con cui si apre il racconto della Trasfigurazione: “E dopo sei giorni”.

Il racconto è scarno ed essenziale e cristologicamente e teologicamente poco elaborato, rispetto ai racconti di Mt 17,1-8 e quello ancor più elaborato di Lc 9,28-36. Questo di Marco, pertanto, va considerato come il racconto primitivo, sul quale hanno preso lo spunto gli altri due.

La struttura che propongo è scandita in quattro parti e segue quella della sezione del “Testo a lettura facilitata”. Per cui si avrà:

Commento ai vv.2-8

Il v.2a crea il contesto entro cui viene collocata la trasfigurazione. Il racconto si apre con una significativa nota temporale che ha una duplice funzione: quella di collegare la trasfigurazione con l'attestazione di Pietro, che riconosce in Gesù il Cristo (8,29b); e quella di completare l'identità di Gesù, quale Figlio di Dio: “E dopo sei giorni”. I sei giorni trascorsi fanno riferimento alla scoperta di Gesù quale Cristo da parte di Pietro (8,29), a cui è seguito il primo annuncio della passione (8,31) e la catechesi sulla sequela (8,33-9,1), che terminava con il v.9,1. Un versetto, quest'ultimo, di transizione, da quel episodio a questo e che, unitamente alla nota temporale con cui si apre questo racconto, crea un forte e inscindibile legame tra i due racconti, così che questo, la trasfigurazione, va ad integrare e a completare quello. La trasfigurazione, infatti, avviene “dopo sei giorni” da quel evento e quindi nel settimo giorno. Il sette nel linguaggio biblico indica completamento, perfezionamento3 e ha in qualche modo la sua radice nel racconto della creazione, allorché “Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro” (Gen 2,2), così che la trasfigurazione porta a compimento quella dell'identità messianica di Gesù, rivelando come essa sia associata ad un'altra, quella divina. È significativo come gli autori della duplice attestazione siano diversi, perché diversa è la natura dell'identità di Gesù. La scoperta di Gesù quale Cristo porta, infatti, a compimento le attese umane ed è quindi Pietro che la intuisce; mentre l'altro aspetto dell'identità di Gesù non era raggiungibile dall'uomo ed era del tutto inatteso, per cui con la trasfigurazione di Gesù non si ha una scoperta, ma una rivelazione, che ha la sua origine in Dio stesso: Gesù è anche Figlio di Dio, non in senso metaforico, ma reale, in quanto in lui c'è, per così dire, il DNA di Dio stesso.

Con questo racconto della trasfigurazione, pertanto, Marco porta a compimento il suo lieto annuncio di Gesù quale Cristo e Figlio di Dio, fatto in apertura del suo vangelo (1,1).

I testimoni di questo evento rivelativo sono tre discepoli che hanno avuto nella vita di Gesù un particolare rilievo: Pietro, Giacomo, Giovanni. Tre nomi che sono associati a Gesù fin dagli inizi della sua missione. Essi furono i primi scelti del gruppo apostolico (1,16-20); sono sempre loro, assieme a Pietro e a Gesù che, usciti dalla sinagoga, entrano nella casa di Pietro (1,29); sono Pietro, Giacomo e Giovanni i tre che sono nominati tra i primi del gruppo dei Dodici (3,16-17), occupando, quindi, nell'elencazione dei Dodici una posizione di riguardo; sono sempre loro ai quali Gesù permette di entrare nel segreto della stanza della figlia di Giairo, dove egli, Gesù, si rivela quale risurrezione e vita, quale salvatore, capace di fa passare da morte a vita (5,17); sono sempre loro che chiedono a Gesù di rivelare i segni che porteranno alla distruzione del Tempio di Gerusalemme (13,3); ed infine sono sempre loro tre, gli intimi di Gesù, che Gesù, nell'orto del Getsemani, porta con sé, perché assistano all'inizio della sua passione e della sua sofferenza di morte, rivelando loro: “L'anima mia è triste fino alla morte; rimanete qui e vegliate” (14,33-34).

Una particolare attenzione di Gesù verso di loro, evidenziata dai Sinottici probabilmente per giustificare la posizione di rilievo di Pietro, Giacomo e Giovanni all'interno della comunità credente di Gerusalemme, la prima chiesa, culla del cristianesimo e madre delle altre comunità credenti e che Paolo in Gal 2,9 definisce come le colonne: “e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi”. Una rilevanza che qui viene sottolineata dall'espressione “in disparte, soli”, che suona come una sorta di predilezione e di elezione nei confronti di questi tre all'interno del gruppo dei Dodici.

Sono questi ad essere portati da Gesù “su di un alto monte”. L'annotazione geografica così vaga per un luogo in cui è avvenuto un evento importante, lascia intendere come questo monte abbia connotazioni più teologiche che geografiche, benché la tradizione del III sec. d.C. lo individui nel monte Tabor, una collina di 588 mt. Il “monte alto” nella mentalità degli antichi era la sede della divinità, il luogo della dimora divina. Ed è qui, in questo luogo teologico, nella dimora di Dio, che Gesù lascia trasparire la sua divinità.

I vv.2b-3 raccontano in che cosa sia consistita la trasfigurazione. Il v.2b l'annuncia: “E fu trasfigurato davanti a loro”. Il verbo “metemorfèqh” (metemorfótze, fu trasformato) è posto al passivo teologico o divino, che nel linguaggio dei vangeli rimanda l'azione a Dio stesso. Ciò che avviene in Gesù, quindi, è opera di Dio stesso; lì opera il Padre che sta rivelando la vera natura di Gesù, preannunciando in qualche modo ciò che accadrà nella risurrezione, in cui “riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,3-4). Quel “davanti a loro” dice che i tre sono stati costituiti testimoni dell'identità divina di Gesù, che meglio apparirà a tutti i credenti nella risurrezione, che dovrà passare attraverso la croce. Si crea in tal modo una stretta correlazione tra la scelta che Gesù opera qui nel rivelare la sua gloriosa identità a Pietro, Giacomo e Giovanni e quella che opererà nell'orto del Getsemani (14,33-34).

Quanto al v.3, questo descrive la dinamica della trasfigurazione: “le sue vesti divennero splendenti, molto bianche, quali un lavandaio sulla terra non può rendere così bianche”. Il termine “veste” o “abito, vestito” nel linguaggio biblico indica la natura e la condizione esistenziale della persona che quell'abito o veste indossa4. Quindi le variazioni di tono che Marco qui descrive riguardano non tanto il look di Gesù, quanto la sua persona e la sua stessa natura. Due gli elementi che vengono messi in rilievo: lo splendore e la bianchezza, che però, quest'ultima, nulla ha a che vedere con il bianco umano. L'autore, infatti, si affretta a precisare che un simile bianco non era fattibile e raggiungibile da nessun lavandaio qui sulla terra. Si tratta, quindi, di un bianco, il cui biancore esprime dimensioni extraterrestri, metafisiche. Il bianco, infatti, presso gli antichi e similmente presso Israele era associato alla divinità, probabilmente perché esprime l'incontaminazione e quindi la purezza nella sua quintessenza5. Mentre lo splendore nel linguaggio biblico indica la dimensione stessa di Dio, il suo modo di essere ed esprime la sua onnipotenza e la sua sovrana regalità6.

I vv.4-7 presentano la dinamica interna alla trasfigurazione, cioè cosa è successo in questo contesto. Due gli elementi di rilievo, finalizzati a identificare e qualificare la persona di Gesù: l'apparizione di Elia e Mosè insieme a Gesù (v.4) e la voce che esce dalla nube e che definisce Gesù quale “suo figlio amato” (v.7). Vi è poi un terzo elemento, l'intervento estemporaneo di Pietro che mette in rilievo la sua persistente inintelligenza e con lui quella di Giacomo e Giovanni (vv.5-6).

Il v.4 si apre precisando come questa apparizione non è fine a se stessa, ma si tratta di una rivelazione destinata ai tre discepoli: “E apparve a loro”. Il verbo qui è “êfqh(óftze), un aoristo indicativo passivo e letteralmente significa “fu fatto vedere a loro”. Un passivo teologico o divino, che nel linguaggio dei vangeli rimanda l'azione del verbo a Dio stesso. Un verbo che compare in questa forma 18 volte in tutto il N.T. ed è sempre inserito in contesti di visioni ed apparizioni di origine divina. Diventa, quindi, in tal senso un verbo tecnico la cui presenza indica al lettore che qui ci si trova di fronte ad una visione, un'apparizione o una rivelazione. Ha sempre a che fare con l'aprirsi del mondo divino a quello umano. Pertanto qui ci si trova nel bel mezzo di una manifestazione e di una rivelazione, che provengono da Dio stesso e destinate ai tre discepoli.

Ciò che appare ai tre sono due personaggi veterotestamentari molto noti e che vengono citati non in ordine storico, ma d'importanza: Elia e Mosè, contrariamente a Mt 17,3 e Lc 9,30 che, invece, li citano in ordine storico. Questi due personaggi fanno parte della rivelazione rivolta a Pietro, Giacomo e Giovanni e quindi essi hanno a che vedere con l'identità di Gesù. Essi, infatti, sono rivolti verso di lui e stanno parlando con lui. Non si dice che Gesù parla con loro, ma loro con Gesù. Vi è quindi una convergenza dei due verso Gesù, quasi che Gesù divenisse il polo catalizzatore di questi due personaggi veterotestamentari, che lo hanno preceduto e in qualche modo prefigurato. Mt 17,5 esprimerà bene questo concetto: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento”. Gesù, dunque, è colui che porta a compimento quanto preannunciato nelle Scritture e nello specifico a dare compimento a quanto Elia e Mosè hanno rappresentato per Israele.

Elia fu il profeta vissuto ai tempi di Achab, re d'Israele (875-853 a.C.). Quest'ultimo, dopo aver sposato Gezabele, principessa fenicia, introdusse in Israele il culto del Dio Baal; nominò 450 sacerdoti addetti a tale culto e 400 profeti di Asera, sterminando, invece, i sacerdoti e i profeti di Jhwh (1Re 16,30-33; 18,4.13). Elia, per contro, sfidando i sacerdoti di Baal e i profeti di Asera, su chi fosse il vero Dio in Israele, li sterminò e riportò il vero culto di Jhwh in Israele (1Re 18,36-39). Elia, dunque, fu il profeta che ristabilì e riaffermò il vero culto di Jhwh in mezzo ad Israele. Il suo stesso nome attesta questo suo ruolo: Elia, infatti, significa “Dio è Dio” o “Dio è il mio Dio”.

Mosè, invece, fu il profeta designato da Dio per liberare il suo popolo Israele dalla schiavitù d'Egitto. Egli in nome e per conto di Jhwh lo traghettò versò la Terra Promessa (Es 3,4-10), assegnando a quel popolo di schiavi una nuova identità e una nuova dignità (Es 19,5-6).

La convergenza dei due profeti verso Gesù definiscono una doppia qualità dell'identità e della missione di Gesù: egli, alla pari di Elia, è colui che è venuto a ristabilire e a rinnovare il culto di Jhwh in mezzo al suo popolo (Gv 4,21-24), simboleggiato in qualche modo nella cacciata dei venditori dal Tempio (11,15-17). Un culto sfarzoso, ma privo di frutti, metaforizzato nel racconto del fico dalle foglie lussureggianti, ma privo di frutti (11,12-14); racconto quest'ultimo significativamente posto a ridosso della cacciata dei venditori dal Tempio. In questo viene ravvisato in qualche modo l'attesa azione del Cristo. Israele, infatti, aspettava un Messia che, tra gli altri compiti attesi, aveva anche quello di rinnovare il culto a Dio.

Marco, tuttavia, rileva in Gesù un altro aspetto della sua identità: egli, similmente a Mosè, è venuto a liberare il suo popolo da un culto ormai asfittico e da un'identità ormai perduta, traghettandolo verso un nuovo culto spirituale, riaprendogli il cammino verso un'altra Terra Promessa, di cui quella promessa ai Padri era solo figura. Egli pone fine al culto dei sacrifici e del Tempio (11,15-17; 15,37-39), e inaugura i tempi dello Spirito (1,7-10), quelli escatologici, preannunciati dai profeti (Gl 3,1-2), assegnando al suo nuovo popolo, che non conosce più gli stretti confini della Palestina (At 10,34-35), una nuova identità, quella di figli di Dio, (1Gv 3,1a) che vivono e si muovono secondo i dettami e le logiche dello Spirito (Rm 8, 1-8.14-16), che è Vita e Potenza stessa di Dio, creatrice e rinnovatrice.

I vv.5-6 sono collocati significativamente tra i vv.4.7, che sono i due poli rivelativi della complessa identità di Gesù, nonché il senso stesso dell'evento della trasfigurazione. Essi, i vv.5-6, costituiscono la risposta di Pietro alla visione rivelatrice a loro indirizzata e rivelano lo stato d'animo e il livello di intelligenza spirituale che Pietro e con lui gli altri due hanno avuto dell'evento della trasfigurazione.

La prima parte della risposta di Pietro lascia tralucere il senso di beatitudine che questa visione paradisiaca e celestiale deve aver prodotto nei loro animi. Essi, quindi, hanno colto l'estasi sublime di tale visione, ma il seguito della risposta lascia intravvedere che essi non hanno colto per niente il senso di tale visione rivelatrice: “facciamo tre tende, una a te e una a Mosè e una ad Elia”. Con questa espressione l'autore ha voluto soltanto evidenziare ancora una volta, in linea con 8,32 e 9,32, tutta l'inintelligenza di Pietro e con lui di Giacomo e Giovanni. Pietro, in buona sostanza, con la proposta del fare tre tende, intendeva cristallizzare questo stato di beatitudine, di cui stava beneficiando. In altri termini non ne ha capito il senso. Egli voleva trattenere per sé soltanto ciò che sarebbe avvenuto dopo il Getsemani e la croce (v.9b), implicitamente rifiutandoli. È significativo, infatti, il commento dell'evangelista al v.6: “Non sapeva, infatti, che cosa rispondere, erano, infatti, spaventati”. È la stessa identica espressione che ritroviamo in 14,40, dove sempre i tre, Pietro, Giovanni e Giacomo, nell'orto del Getsemani, a fronte del dramma che sta per iniziare, preferiscono addormentarsi, piuttosto che vegliare con Gesù: “E di nuovo venuto, li trovò addormentati; erano infatti i loro occhi appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli”. Marco, quindi, nel riprendere 14,40 e collocandolo nel contesto della trasfigurazione ha inteso collegare in qualche modo i due momenti tra di loro, sottolineando la persistente inintelligenza dei tre di fronte al dramma del Golgota, nonché il suo rifiuto.

A giustificazione della loro incapacità di rispondere adeguatamente alla visione rivelatrice, viene portata l'agitazione in cui si trovava il loro stato d'animo: “erano, infatti, spaventati”. Ora, se da un lato lo spavento per questa visione beatifica rientra nelle logiche dei racconti di teofania, dall'altro lascia intravvedere il timore e il rifiuto di ciò che questo comporta e che già era stato preannunciato in 8,31 e che verrà poi ripreso qui in 9,31: l'ombra della croce quale conditio sine qua non per accedere alla glorificazione e al compimento della missione salvifica assegnata a Gesù. E il collegamento di 9,6 con 14,40 lo sta a dimostrare.

Il v.7 riporta il secondo momento della rivelazione dell'identità di Gesù, il cui contesto è teofanico ed ha per sfondo biblico Es 24,15-16 e va a completare l'identità di Gesù, già scoperto da Pietro quale Cristo (8,29). La scena qui riprodotta riprende in buona sostanza quella di 1,11, dove, dopo il battesimo di Gesù si aprirono i cieli, qui sostituiti dalla nube, e ne uscì una voce che indicava Gesù quale suo figlio: <<Tu sei il mio figlio amato, in te mi compiacqui>>. Qui in 9,7 la formula di presentazione di Gesù cambia notevolmente rispetto a quella del battesimo: “Questi è il mio figlio, l'amato, ascoltatelo”. In quella battesimale vi è una sorta di investitura di Gesù, riconosciuto dal Padre quale suo figlio amato, in cui egli si riconosceva. Gesù, dunque, riflesso del Padre e sua rivelazione (Gv 10,30; 14,9-11). Una formula indovinata in quanto posta in apertura della missione di Gesù e diviene una sorta di consacrazione. Ma qui le cose cambiano completamente, benché in apparenza le due formule si assomiglino molto e siano sostanzialmente quasi identiche. La voce qui non è rivolta a Gesù come nel battesimo, ma a Pietro, Giacomo e Giovanni e qui Gesù diventa l'oggetto sul quale la voce indirizza la loro attenzione: “Questi è” e ne presenta la carta d'identità: “il mio figlio, l'amato”. La Voce definisce Gesù quale suo Figlio e, quindi, appartenente alla Voce e da questa generato e in quanto Voce ha generato la Parola, in cui riecheggia il suono del Padre, ed è da questa sostanziata. Gesù, dunque, Parola della Voce che proviene dal Cielo, cioè da Dio stesso. Egli è definito “l'amato”. Più che un sentimento viene qui definito un rapporto, una relazione esistenziale, uno stato di Vita che lega i Due e che fa si che l'attenzione della Voce divina si riversi e si ritrovi nell'amato. Da qui l'esortazione imperativa: “ascoltatelo”. Una sorta di ingiunzione rivolta ai tre discepoli e finalizzata a farli desistere dalla loro resistenza di fronte agli annunci della passione e di aprirsi, pertanto, al disegno del Padre che si sta compiendo e manifestando in Gesù. Con quel “ascoltatelo”, pertanto, il Padre sottoscrive gli annunci di Gesù, rivelato quale Figlio di Dio, in quanto generato dall'Amore del Padre e che fa si che egli sia “l'Amato”.

Un “ascoltatelo” che ha per sfondo biblico Dt 18,15, dove Mosè sta parlando ad Israele, prospettandogli l'avvento di un profeta escatologico, che, pari a lui, gli parlerà in nome e per conto di Dio: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto

Il v.8 chiude lo splendore della scena della trasfigurazione e riporta il quartetto alla realtà quotidiana. Le luci della ribalta si sono spente e i quattro si ritrovano nel grigiore della quotidianità. Ma l'esperienza di Dio, che li ha avvolti nella nube, ha fatto loro capire che Gesù è ben più di un semplice Cristo e va ben più in là delle attese giudaiche: egli è il Figlio di Dio e in quanto tale egli stesso Dio. Sono annotazioni queste che troveranno il loro compimento nella risurrezione, una realtà che non è facile da capire (v.10), ma va matura interiormente alla luce di questa esperienza del divino (v.9). Ciò che resta ora di tanto splendore è il “Gesù con loro”, ma che ora sanno che egli porta in sé un segreto che va ben più in là del messianismo e affonda la sua verità nel Mistero della stessa divinità.

Un intermezzo di riflessione e approfondimento (vv.9-13)

Testo a lettura facilitata

Un silenzio di riflessione e di attesa (vv.9-10)

9- E discendendo quelli dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno quelle cose che videro, se non quando il Figlio dell'uomo sarà risorto dai morti.
10- E tennero la parola presso di loro, discutendo (tra loro) che cosa sia il risorgere dai morti.

Un approfondimento degli eventi (vv.11-13)

11- E lo interrogavano dicendo: <<Perché dicono gli scribi che prima deve venire Elia?>>.
12- Egli dice loro: <<Elia venendo prima, ristabilisce tutte le cose; e come mai è scritto sul Figlio dell'uomo che soffra molto e sia disprezzato?
13- Ma vi dico che anche Elia venne e fecero a lui quanto vollero, come è scritto su di lui>>


Note generali

L'intenso racconto della trasfigurazione viene fatto seguire, ora, dalla pericope vv.9-13, che funge da cassa di risonanza dell'evento teofanico. Viene qui approfondita, da un lato, la figliolanza divina di Gesù legata alla risurrezione (vv.9-10; Rm 1,4); dall'altro, la relazione che intercorre tra Gesù e la figura escatologica di Elia (vv.11-13).

Si tratta di una pericope che riflette in qualche modo le questioni dottrinali sorte all'interno delle comunità credenti, in particolar modo quelle miste, composte da giudeocristiani ed etnocristiani. Siamo, quindi all'interno di una catechesi di riflessione e di approfondimento dei temi affrontati nel racconto della trasfigurazione, costruito da Marco, probabilmente quale preambolo chiarificatore a questo dibattito intracomunitario.

L'intera pericope va attribuita a Marco e presenta nella seconda parte (vv.11-13) dei problemi di composizione, che affronteremo al momento del commento, in particolar modo il v.12, la cui formulazione risulta oscura; e similmente dicasi del v.13.

Commento ai vv. 9-13

La prima parte della pericope (9-10) conclude il racconto della trasfigurazione e funge da transizione al racconto successivo, quello dell'esorcismo, l'ultimo del vangelo marciano (v.14-29). Essa, per contrapposizione di movimenti uguali contrari, forma in qualche modo da inclusione con il v.2, dove Gesù, invece, sale con i tre discepoli sul monte.

La discesa dal monte, che dice il ritorno alla quotidianità e la ripresa dell'attività missionaria di Gesù con i suoi dopo l'esperienza teofanica, diviene nell'ambito della narrazione il contesto in cui si colloca l'intera pericope (vv.9-13), ma nel contempo l'occasione per creare uno stretto collegamento tra la trasfigurazione e la risurrezione. Un evento ancora lontano e, comunque, non chiaramente percepibile nella sua realtà più vera e profonda dai discepoli, che su di essa mostrano ancora una volta tutta la loro inintelligenza (v.10b). Del resto la risurrezione prospettata da Gesù e quella, invece, pensata dagli scribi e farisei e dalla gente comune erano due realtà diametralmente opposte. Per il mondo giudaico la risurrezione era soltanto un ritorno da uno stato di morte alla vita precedente (12,23). Quindi si dovrebbe parlare, più che di risurrezione, di risuscitazione o riviviscenza, come nel caso della figlia di Giairo (5,22-24.35-43) o quella di Lazzaro (Gv 11,1-45). Ma la risurrezione prospettata da Gesù consisteva in una trasformazione della corporeità carnale in una corporeità spirituale, simboleggiata dal biancore delle vesti, e che per sua natura partecipava al mondo dello spirito (12,25; 1Cor 15,35-45). Per contro, i sadducei, la classe nobile del sacerdozio, che si ritenevano discendenti da Sadoq, primo sommo sacerdote del Tempio costruito da Salomone (970-933), non credevano nella risurrezione, perché, a differenza di scribi e farisei, essi credevano solo nella Torah scritta, dove non si parla mai di risurrezione, rifiutando essi la Torah orale, tenuta, invece in grande considerazione dal resto del giudaismo.

Dopo questa esperienza del divino in Gesù (vv.3.7) e del senso della sua missione, in qualche modo preannunciata da Mosè ed Elia (v.4), Gesù impone il silenzio su questa rivelazione, definendone quale limite massimo quello della sua risurrezione dai morti. Silenzio che i tre rispettarono (v.10a). Il silenzio qui imposto da Gesù ai tre non ha nulla a che vedere con quello che gli esegeti chiamano il segreto messianico, cioè l'imposizione a diavoli, indemoniati e guariti7 di tacere sulla sua identità di messia e di Figlio di Dio. Segreto che, a mio avviso, è soltanto un escamotage letterario di Marco per meglio accentrare l'attenzione del suo lettore sulla divinità e sulla messianicità di Gesù, considerato che Gesù interveniva sempre dopo che la sua identità era stata svelata o puntualmente veniva disatteso l'ordine di tacere. Qui, tuttavia, il silenzio che Gesù impone a Pietro, Giacomo e Giovanni, non va fatto rientrare in questa categoria, ma va considerato soltanto come una pausa di silenzio e di riflessione e di maturazione interiore dell'esperienza vissuta e preparatoria alla risurrezione. Un evento questo che coglierà comunque del tutto impreparati i discepoli che sul Risorto nutriranno molti dubbi e incertezze8. Sarà soltanto Gv 20,1-10 che saprà dare una reale risposta all'evento della risurrezione9.

Sempre nel contesto della discesa dal monte (v.9a), i discepoli aprono ora una questione su di una credenza molto diffusa nel giudaismo, sottolineata da quel “deve venire”, ricollegando in tal modo il ritorno di Elia alle Scritture o ad un piano divino (vv.11-13): l'Elia escatologico; il profeta che sarebbe ritornato alla fine dei tempi per preparare la venuta del Messia. Una credenza che ha la sua radice in Ml 3,23-24.

C'era da aspettarselo il richiamo ad Elia, considerato che nel racconto della trasfigurazione Elia viene citato per primo rispetto a Mosè, rivelando così l'interesse di Marco per questa figura escatologica di profeta, che egli in qualche modo associa a Gesù per ben due volte in 6,15 e in 8,2810, divenendone in qualche modo figura. Elia fece scendere un fuoco dal cielo che distrusse ogni altro culto per ristabilire il vero culto a Jhwh (2 Re 1, 9-14), così Gesù fa scendere dal cielo il fuoco dello Spirito (Lc 3,16; 12,49; At 2,3), inaugurando il vero culto gradito a Dio (Gv 4,20-24); e come Elia invoca dal cielo un fuoco che dimostri la grandezza del vero Dio (2 Re 1, 9-14), così anche i discepoli Giacomo e Giovanni vogliono invocare dal cielo un fuoco che incenerisca i Samaritani che hanno rifiutato Gesù (Lc 9,54-55); ma Gesù, il nuovo Elia, farà scendere un altro fuoco dal cielo, quello dello Spirito, perché rinnovi i cuori e li apra a Dio (Gv 15,26; 16,13). E come Elia nel deserto, perseguitato dalla regina Gezabele che lo vuole uccidere, viene confortato da un angelo, che lo consola e lo sostiene nel suo cammino verso il monte Oreb (1Re 19,1-8), così Gesù nel deserto dell'orto del Getsemani, abbandonato dai suoi è perseguitato per essere ucciso, viene consolato da un angelo che lo sostiene nel suo cammino verso io Golgota (Lc 22,43). E come Elia venne rapito su di un carro fiammeggiante (2Re 2,11), creando attorno a sé un'attesa per il suo ritorno, durante il quale avrebbe restaurato tutte le cose (Ml 3,23-24; Mc 9,12a), così per il Risorto, salito in cielo nel fulgore della sua risurrezione (Rm 1,4), si è venuta a creare attorno a lui un'attesa da parte di tutti i credenti nel suo ritorno restauratore di tutte le cose nella loro primordiale incandescenza divina (Gen 1,31), così che Dio fosse nuovamente tutto in tutti11. Dall'accenno di questi brevi tratti che caratterizzano Elia e Gesù, viene a crearsi un forte parallelismo tra i due, che va tenuto presente per comprendere i vv.12-13.

La risposta di Gesù alla questione posta dai discepoli (v.11) viene data ai vv.12-13. Versetti che creano qualche difficoltà, in particolar modo il v.12 formato da due parti difficilmente collegabili tra loro: da un lato, v.12a, si attesta che “Elia venendo prima, ristabilisce tutte le cose” ed è ciò che lo stesso Ml 3,23-24 sostanzialmente dice, benché, come vedremo, ben diverse siano le prospettive; dall'altro (v.12b), il Gesù marciano se ne esce con un'attestazione che lascia perplesso il lettore, poiché questa seconda parte del v.12 non lega in alcun modo con la prima. Tra le due parti sembra esserci di mezzo una cesura o, in altri termini manca un parte del testo, quella centrale, che regoli in modo logico il passaggio dalla prima alla seconda parte del v.12. Così come si presenta il v.12 appare come composto da due diverse parti giustapposte tra loro, ma tra loro non collegate. Il pezzo mancante, quello centrale, probabilmente è stato tolto da qualche amanuense, perché poteva creare qualche imbarazzo od essere mal compreso dalla componente giudeocristiana delle prime comunità credenti, ancora legata al giudaismo e alla Legge mosaica. Che cosa, dunque, poteva esserci scritto di così imbarazzante e tale da essere depennato? Per poterlo comprendere è necessario fare un salto in avanti, alla scena descritta dai vv. 15,34-36, dove Gesù grida “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che i presenti interpretano come un'invocazione ad Elia. Ma non si tratta di un loro errore di comprensione, in quanto che essi ben comprendevano l'aramaico e non potevano fraintendere quanto Gesù aveva gridato; né è pensabile che, lì per lì, si siano inventati una battuta per fare del sarcasmo su Gesù. Va tenuto presente, infatti, che qui, come del resto in tutti quattro i vangeli, chi muove le fila non sono i personaggi del racconto, ma è l'autore. È da chiedersi, pertanto, a quale scopo Marco avrebbe messo in campo Elia per prendersi gioco di Gesù? O che senso avrebbe avuto quel richiamo ad Elia e al suo soccorso perché liberasse Gesù: “Lasciate, vediamo se viene Elia a farlo scendere”?. Perché Marco ha voluto giocare su di un fraintendimento? Ed è proprio qui il punto. Tirando in campo Elia quale salvatore del Gesù crocifisso e sofferente (15,36b), Marco probabilmente si richiamava a 9,12, che originariamente doveva suonare pressapoco così: “Egli dice loro: <<Elia venendo prima, ristabilisce tutte le cose [e poi verrà a liberare il Cristo dalla sofferenza e dalla morte, manifestandolo a tutti gli uomini] e come mai [allora] è scritto sul Figlio dell'uomo che soffra molto e sia disprezzato?”. Il senso doveva essere che la liberazione del Cristo non dipendeva da Elia, ma da un progetto salvifico superiore. In alcun modo, infatti, la liberazione e l'affermazione del Messia doveva dipendere da Elia, poiché se così fosse stato la salvezza sarebbe dipesa da Elia e il Cristo subordinato ad esso. Una simile posizione avrebbe di certo gratificato i giudeocristiani, legati ancora a Mosè, ma avrebbe tolto a Gesù tutta la novità del suo messaggio. Da qui la necessità, da parte di qualche amanuense che ne aveva colto il pericolo, di depennare la parte centrale del v.12, alla quale, invece, Marco rimanda con quel gioco di parole tra “Eloì” ed “Elia,” evidenziando, ai piedi della croce, come in realtà Elia non sia venuto a soccorre il Cristo, per il quale sarebbe dovuto ritornare, ma tutto in realtà si è compiuto secondo un progetto divino ben superiore ad Elia stesso, mentre la liberazione del Cristo è stata demandata direttamente al Padre per mezzo della potenza dello Spirito Santo (Rm 1,4). Per cui la credenza che Elia sarebbe venuto a soccorre il Cristo sofferente e morente veniva in tal modo destituita di ogni credibilità. Ma un amanuense, non cogliendo il legame di 9,12 con 15,36 ha pensato bene di porvi rimedio subito, creando un versetto sincopato e di difficile decifrazione.

Ciò premesso, per poter comprendere il v.12 è necessario rifarsi a Ml 3,22-23 della LXX che dice: “Ed ecco io vi mando Elia il Tesbita prima che venga il grande giorno del Signore e si manifesti, egli ristabilirà il cuore del padre verso il figlio e il cuore dell'uomo verso il suo prossimo, affinché non venga e colpisca tutta quanta la terra12.

Va tenuto presente, poi, che nel comporre il v.12 Marco non ha copiato Ml 3,22-23, ma si è ispirato ad esso adattandolo alla propria teologia e cristologia, per cui va compreso attentamente il senso che l'autore ha voluto imprimere alla sua interpretazione di Ml 3,22-23: “Elia venendo prima ristabilisce tutte le cose [e poi verrà a liberare il Cristo dalla sofferenza e dalla morte, manifestandolo a tutti gli uomini] e come mai [allora] è scritto sul Figlio dell'uomo che soffra molto e sia disprezzato?”

Come, dunque, Marco ha elaborato Ml 3,22-23? Il v.12a riepiloga e sintetizza Ml 3,23, ma dà a quest'ultimo un respiro universale, anzi cosmico, sostituendo l'espressione “il cuore del padre verso il figlio e il cuore dell'uomo verso il suo prossimo, affinché non venga e colpisca tutta quanta la terra” con il sostantivo neutro “p£nta” (pánta, tutte le cose). Il verbo, poi, “¢pokaqsthmi” (apokatzístemi, restaurare, ristabilire, rimettere allo stato originale) posto al futuro in Ml 3,23 (¢pokatast»sei, apokatastésai), quindi una restaurazione che è prospettata, ma non ancora attuata, viene invece posto da Marco al presente indicativo (¢pokaqist£nei, apokatzistánei), indicando questa restaurazione come in fase di attuazione. La profezia, quindi, di Ml 3,23 non solo viene universalizzata da Marco, ma anche data come in fase di realizzazione. C'è quindi in Marco 9,12a un'attualizzazione di Ml 3,23. Un particolare questo che va tenuto presente, per comprendere di quale Elia qui Marco stia parlando.

Quanto a Ml 3,22 Marco ne cambia la prospettiva. I discepoli al v.11 chiedono a Gesù perché gli scribi dicono che Elia deve venire prima. Prima di che cosa? “prima che venga il grande giorno del Signore e si manifesti” (Ml 3,22). Queste erano le attese del giudaismo. Ma qui Marco costruisce una frase che è ambivalente e che gira tutta attorno al quel “prima”: “Elia venendo prima”, cioè prima dell'avvento del giorno del Signore e della sua manifestazione; ma quel “prima”, non essendoci in greco alcuna punteggiatura che ne delimiti il senso, può essere associato anche al verbo “ristabilisce”, aprendo così una nuova e inattesa prospettiva, che originariamente era legata alla frase centrale, che collegava il v.12a con il 12b e poi soppressa: “[ e poi verrà a liberare il Cristo dalla sofferenza e dalla morte, manifestandolo a tutti gli uomini]”. Quindi, Elia venendo prima dell'avvento del giorno dl Signore e della sua manifestazione, prima ristabilisce tutte le cose [e poi verrà a liberare il Cristo dalla sofferenza e dalla morte, manifestandolo a tutti gli uomini]. Marco qui stabilisce delle priorità nella dinamica della salvezza escatologica inaugurata dall'avvento dell'Elia restauratore di tutte le cose e poi verrà a liberare il Cristo dalla sofferenza e dalla morte, manifestandolo a tutti gli uomini, dove il “manifestarsi” del Signore nel suo grande giorno (Ml 3,22) viene qui associato da Marco alla liberazione del Cristo dalla sofferenza e dalla morte, alle quali segue la sua manifestazione piena all'intera umanità. E quest'ultima universalizzazione concorda con il ristabilire “tutte le cose” di cui si è detto prima.

Marco, dunque, lega alla venuta di Elia una restaurazione di tutte le cose, preparando in tal modo l'avvento del giorno del Signore e il suo manifestarsi, che indica nella manifestazione del Cristo, liberato dalla sofferenza e dalla morte, a tutti gli uomini. Questo è per Marco il giorno del Signore, in cui egli manifesterà a tutte le genti il suo Cristo liberato dai vincoli della morte. Non è, dunque, difficile comprendere come qui Marco stia parlando della risurrezione di Gesù, assegnando ad essa una valenza escatologica e universale, legandola alla restaurazione di tutte le cose, riconciliando gli uomini con Dio e gli uomini tra loro (Ml 3,23). Una visione comprensibile se si pensa che queste precisazioni avvengono nel contesto narrativo della Trasfigurazione, che da tale dissertazione viene illuminata nel suo senso più vero e profondo.

Ma in tutto questo vi è un'incongruenza che il v.12b mette in evidenza, contrapponendosi al v.12a: “e come mai [allora] è scritto sul Figlio dell'uomo che soffra molto e sia disprezzato?”. In altri termini, Marco qui contesta il ruolo di Elia quale restauratore di tutte le cose e quale soccorritore e liberatore del Cristo, manifestandolo poi nella sua pienezza di vita. Infatti le Scritture attestano che il Figlio dell'uomo non verrà in alcun modo salvaguardato dalla sofferenza e dal disprezzo degli uomini (Is 53,3) e l'evangelista lo evidenzierà in 15,36b dove si dice: “Aspettate, vediamo se viene Elia a toglierlo dalla croce”. Ma Elia non è venuto a salvare il Cristo, non lo ha liberato dalle catene della morte manifestandolo a tutte le genti. Allora come si spiega tale credenza dell'Elia restauratore di tutte le cose e liberatore del Cristo? Poiché era ciò che il giudaismo e con esso i giudeocristiani delle prime comunità credevano. Allora è il caso di rivedere tali credenze. Una stoccata che Marco dà al giudaismo, prospettandogli un diverso personaggio.

Una nota va riservata su quel Figlio dell'uomo sofferente e disprezzato secondo quanto è scritto. In realtà non vi è nessuna Scrittura che attesti di un Figlio dell'uomo sofferente e disprezzato. Perché, dunque, Marco, uno scriba bene addentro alle Scritture attesta una simile cosa? Probabilmente il motivo è duplice. Chiamando in campo l'autorità delle Scritture egli intendeva, da un lato, dare forza alla sua affermazione (v.12b), che si contrapponeva alle credenze del giudaismo, che cioè Elia sarebbe intervenuto per liberare il Cristo dalla sofferenza e dalla morte; dall'altro, probabilmente Marco stava pensando al quarto canto del Servo di Jhwh (Is 52,13-53,12), ma qui non si parla di Figlio dell'uomo, ma solo di Servo di Jhwh. Ma è proprio questa seconda titolatura che Marco quasi certamente intendeva associare a quella dell'escatologico “Figlio dell'uomo”, che nella sua morte-risurrezione svolge la funzione di Servo di Jhwh, poiché il suo patire e il suo morire e il suo risorgere sono di fatto un servizio di redenzione reso all'intera umanità.

Al tal punto è da chiedersi: chi è per Marco questo Elia, considerato che quello creduto dal giudaismo ha di fatto fallito? Di quale Elia si parla qui? La figura di Elia è stata idealizzata dal giudaismo, assegnandole compiti e poteri, che di fatto la trascendevano. È significativo, infatti, come la storicizzazione che Ml 3,22 fa di Elia, definendolo “il Tesbita”, venga da Marco indicato semplicemente come “Elia” e, quindi, un personaggio de-storicizzato, che simboleggia, come del resto lo stesso nome “Elia”13 lascia intravvedere, “la potenza di Dio”, che si manifesterà nel suo giorno, in cui verrà rivelato il Cristo, liberato dai vincoli della morte ed affermato davanti a tutti nella sua pienezza di Vita e in cui tutte le cose sono state restaurate e, quindi, riconciliate nuovamente in Dio (Ef 1,10; 1Cor 15,27a.28), come era nei primordi della creazione e dell'umanità (Gen 1,31). Ed è questo il giorno ricordato dal Sal 117,22-25, il giorno della manifestazione del Cristo reietto, disprezzato e liberato dai vincoli della morte: “La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d'angolo; ecco l'opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi. Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso. Dona, Signore, la tua salvezza, dona, Signore, la vittoria”; mentre 1Cor 1,24 attesta “ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio”. Gesù, dunque, il crocifisso-risorto (16,6) diviene manifestazione della potenza di Dio, che in lui opera, restaurando e riconciliando in lui tutte le cose (Ef 1,10). Mentre il giorno della sua manifestazione, annunciato a tutte le genti, diviene il giorno del Signore, in cui si è manifestata nella pienezza la sua venuta e il suo ritorno in mezzo agli uomini, per illuminarli della sua luce e riconciliarli con Dio, “grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace” (Lc 1,78-79). Il vero Elia, quindi, per Marco è il Gesù morto-risorto, in cui opera la potenza liberatrice e restauratrice di Dio. È lui il luogo storico in cui Dio si è dimostrato Dio, cioè l'Elia. Il luogo della potenza di Dio che ha dato vita al suo Cristo e in lui ha restaurato e riconciliato in sé tutte le cose nel giorno del Signore. Un giorno in cui egli si è manifestato a tutti gli uomini e con il quale tutti gli uomini sono chiamati a raffrontarsi e a dare la loro risposta esistenziale. Per questo tale giorno del Signore diviene anche il tempo del giudizio escatologico.

Dopo questa rivisitazione e ricomprensione del v.12 in chiave cristologica, va ricompreso di conseguenza anche il v.13, che è stato interpretato come riferito a Giovanni Battista, l'Elia che è venuto e, anticipando la venuta e la missione di Gesù, è stato come lui perseguitato e ucciso. Se questa interpretazione in linea generale non va esclusa, tuttavia, il v.13 posto in questo contesto sembra suggerire una diversa comprensione di questo Elia. Innanzitutto, va posto sotto attenzione l'inizio del v.13: “Ma vi dico che anche”. Quindi quanto segue si tratta di un'aggiunta messa sulle labbra di Gesù probabilmente dallo stesso amanuense che ha depennato la parte centrale del v.12. Il v.12, infatti, è completo in se stesso e non abbisogna di aggiunte, terminando con un retorico punto interrogativo, che mette in discussione la credenza del giudaismo su Elia. Il v.13, invece, va ricompreso come un diretto commento dell'autore sul v.12, che negava la venuta dell'Elia liberatore così come creduto dal giudaismo, spostando, invece, l'attenzione sulla venuta di un altro Elia, la cui identità è in qualche modo richiamata dal ripetersi dell'espressione “è scritto” riferita “sul Figlio dell'uomo” (v.12b) e “su di lui” (v.13), lasciando intravvedere che si tratta sempre dello stesso soggetto: lui, il Figlio dell'uomo, cioè Gesù nelle sue vesti escatologiche di Servo sofferente di Jhwh.

Il v.13, quindi, doveva essere originariamente: “Ma […] Elia venne e fecero a lui quanto vollero, come è scritto su di lui”. Questo era, a mio avviso, l'originale commento di Marco al v.12 con cui intendeva dire che, si, Elia è venuto, come dite voi, ma non quello che attendavate voi, ma un altro Elia che perseguitarono e uccisero, “come è scritto su di lui”. Questo Elia, pertanto, del v.13 non può essere inteso come Giovanni Battista, poiché non vi è alcun riferimento scritturistico sulla persecuzione e morte del Battista, ma solo su Gesù. Quindi, quel Elia di cui parla il v.13, posto a commento del v.12, inerisce alla persona e all'identità di Gesù. Del resto, è lo stesso Battista che, interpellato sulla sua identità, attesta solennemente davanti alle autorità giudaiche che egli non è l'Elia atteso e, quindi, è necessario attenderne un altro, quello che viene dopo di lui (Gv 1,26-27): “allora gli chiesero: <<Che cosa dunque? Sei Elia?>>. Rispose: <<Non lo sono>>. <<Sei tu il profeta?>>. Rispose: <<No>>. Lo interrogarono e gli dissero: <<Perché dunque battezzi se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?>>. (Gv 1,21.25).

L'esorcismo contro il demone dell'incredulità (vv.14-29)

Testo a lettura facilitata

Preambolo introduttivo al racconto dell'esorcismo (vv.14-16)

14- E venuti verso i discepoli, videro attorno a loro molta folla e degli scribi che discutevano con loro.
15- E subito tutta la folla, avendolo visto, furono presi da stupore e correndo (verso di lui) lo salutavano.
16- E li interrogò: <<Che cosa discutete con loro?>>.

Lo sdegno di Gesù per l'incredulità della gente e dei suoi (vv.17-19)

17- Gli rispose uno dalla folla: <<Maestro, ho portato mio figlio da te, avendo uno spirito muto;
18- e quando lo afferra lo percuote, schiuma e stride i denti ed è reso secco; e dissi ai tuoi discepoli affinché lo scacciassero, e non furono capaci>>.
19- E rispondendo dice loro: <<O generazione incredula, fino a quando sarò presso di voi? Fino a quando vi sopporterò? Portatelo da me>>.

Tutto è possibile per chi crede (vv.20-24)

20- E lo portarono da lui. E vedendolo lo spirito subito lo contorse convulsamente, e caduto per terra si rotolava schiumando.
21- E interrogò suo padre: <<Quanto tempo è che questo gli accade?>>. Quello disse: <<Dalla fanciullezza;
22- e spesso lo gettò anche nel fuoco e nell'acqua per farlo perire; ma se puoi qualcosa, aiutaci, muovendoti a compassione di noi>>.
23- E Gesù gli disse: <<Se puoi questo? Tutto è possibile a chi crede>>.
24- Subito, gridando, il padre del bambino diceva: <<Credo; soccorri la mia incredulità>>.

Gesù libera l'uomo dallo spirito muto e sordo (vv.25-27)

25- E vedendo Gesù che accorreva folla, rimproverò lo spirito impuro, dicendogli: <<Spirito muto e sordo, ti ordino, esci da lui e non entrare più in lui>>.
26- E gridando e malmenandolo molto, uscì; e divenne come morto, così che molti dicevano che è morto.
27- Ma Gesù, presa la sua mano, lo sollevò, e (quello) si alzò.

Una questione interna alla chiesa (vv.28-29)

28- Ed entrato egli in casa, i suoi discepoli, in disparte, lo interrogavano: <<Perché noi non abbiamo potuto cacciarlo?>>.
29- E disse loro: <<Questa specie in nessun modo può uscire se non con la preghiera>>.

Note generali

Il racconto di questo esorcismo, l'ultimo dei quattro racconti di esorcismo del vangelo di Marco14, presenta non pochi problemi nella sua costruzione, nella sua dinamica narrativa, nonché delle incongruenze tematiche.

Quanto alle incongruenze tematiche va detto che l'autore sottolinea con insistenza il tema della fede, attorno alla quale gira l'intero racconto dell'esorcismo (vv.19-24), ma poi, inopinatamente termina il racconto sottolineando, invece, la necessità della preghiera (vv.28-29). Forse perché una fede non alimentata dalla preghiera, poteva sembrare incompleta. La fede, infatti, se autentica, sfocia naturalmente nella preghiera, che non va intesa come una recita di formule o una richiesta di grazie per soddisfare i propri bisogni, ma come un orientamento esistenziale verso Dio e tale da trasformare l'intera vita in una liturgia di lode e di ringraziamento a Dio. Una simile forma di preghiera abbisogna della fede per sussistere, ma nel contempo alimenta e sostanzia la fede. O forse, più semplicemente, perché Marco voleva sottolineare come nella chiesa primitiva un'efficace azione esorcistica doveva essere accompagnata da una preghiera intensa, intesa qui come invocazione dell'intervento di Dio nella liberazione dell'uomo dal potere di satana. La fede, infatti, quale atteggiamento di abbandono a Dio nell'ambito dell'esorcismo è molto importante, ma non va dimenticato che la liberazione dal Male non la opera l'uomo, ma Dio. Da qui la necessità della preghiera, perché “Questa specie in nessun modo può uscire se non con la preghiera

Quanto alla dinamica narrativa, questa va di pari passo con la costruzione del racconto. Marco doveva avere sottomano un racconto di un esorcismo, che faceva parte di un racconto più ampio, dove probabilmente, a quanto si intuisce dai vv.14b16-17, discepoli e scribi stavano dibattendo tra loro sull'efficacia degli esorcismi praticati dagli esorcisti giudei e quelli invece praticati da Gesù e da loro e, quindi, sul potere di cacciare i demoni, che ognuno rivendicava per sé. Un simile dibattito già lo si è visto in 3,22-30 e lo si vedrà qui in 9,38-39. Marco, tuttavia, per creare un'introduzione al racconto dell'esorcismo ha voluto conservare i vv.14b.16, creando in tal modo una doppia incongruenza, poiché lasciando il v.14b non si comprende né il senso né la funzione di questo dibattere tra discepoli e scribi in riferimento all'esorcismo, risultando, pertanto, completamente fuori luogo. Quanto poi al v.16, questo rimane senza risposta. Gesù, infatti, si rivolge ai discepoli che stavano discutendo con gli scribi e chiede loro il tema del dibattimento: “Che cosa discutete con loro?”. La risposta, invece, arriva, non dai discepoli, ma, in modo incongruente, dal padre dell'indemoniato, con il v.17, che presenta a Gesù il suo problema: un figlio indemoniato che i suoi discepoli non sono riusciti a guarire.

Un'ulteriore incongruenza, poi, si rileva nell'intervento del padre dell'indemoniato che viene posto al v.17, ma che, invece, doveva essere collocato subito dopo l'introduzione del v.14a. Soltanto in tal modo avrebbe quadrato con il v.25. Infatti, il v.15 parla di una folla che corre verso Gesù e il v.25 dice “E vedendo Gesù che accorreva folla, rimproverò lo spirito impuro, dicendogli: <<Spirito muto e sordo, ti ordino, esci da lui e non entrare più in lui>>”. Quindi il v.25 lega con il v.15, ma il v.25 lascia intendere anche che il padre dell'indemoniato, all'accorrere della folla, doveva aver già supplicato Gesù di liberare suo figlio, poiché Gesù, vedendo arrivare la folla, compie l'esorcismo prima che questa arrivi a lui, contrariamente a quanto, invece, avviene ai vv.14-17.

Un'ulteriore problema nasce sulla natura stessa dell'esorcismo. Il padre dell'indemoniato parla di “uno spirito muto” che possiede suo figlio (v.17) e Gesù si rivolge a questo spirito definendolo “muto e sordo” (v.25b). Ma la parte centrale del racconto (vv.18-24), tuttavia, più che di uno spirito “muto e sordo” parla di un indemoniato, il cui comportamento richiama da vicino quello caratteristico degli indemoniati (1,26) e nel contempo sembra descrivere più che un'azione demoniaca una crisi epilettica. Comunque il tutto ben lontano dalla guarigione di un semplice sordomuto. È quindi da pensare che il corpo centrale del racconto dell'esorcismo (vv.18-24), considerata la vivacità e il dinamismo impetuoso del racconto stesso, caratteristica questa di Marco, sia, più che un ritaglio da un secondo racconto di esorcismo, di esclusiva redazione marciana, il cui intento era quello di sottolineare l'importanza della fede.

Il racconto originario di questo esorcismo, pertanto, doveva essere composto dai vv.14-17.18b e 25-29. Infatti gli elementi contenuti nella pericope vv.14-17.18b si ritrovano parimenti in 25-29: la folla accorre a Gesù (v.15) e Gesù vede accorre la folla verso di sé (v.25a); il padre, nel presentare il figlio a Gesù, dice che è afflitto da “uno spirito muto” (v.17) e Gesù si rivolge allo spirito chiamandolo “sordo e muto” (v.25b); il padre denuncia l'incapacità dei discepoli di guarire suo figlio (v.18b) e Gesù rileva il motivo di tale fallimento (vv.28-29). Quindi la pericope 14-17.18b si aggancia e si completa bene con la pericope 25-29. Il v.18a, invece, concorda bene con il corpo centrale del racconto (vv.18a.19-24) e, quindi, come questo, è di redazione marciana. Quanto ai vv.28-29, che degli esegeti ritengono essere stati aggiunti tardivamente, a mio avviso, invece, questi fanno parte del corpus narrativo originario, poiché essi costituiscono la risposta all'incapacità dei discepoli di guarire questo indemoniato (v.18b). L'intero racconto, infatti, verte sul fallimento di un esorcismo, presentandone le cause: la carenza di preghiera.

Un racconto, questo di Marco, che risulta alquanto manipolato per le numerose tensioni interne, causate probabilmente dallo stesso Marco, che ha voluto adattarlo alle proprie esigenze teologiche e cristologiche e vivacizzarlo narrativamente, secondo il suo stile, rispetto al racconto originario, che doveva essere quello di Mt 17,14-21, per la sua semplicità e coerenza narrativa, che dà nel suo insieme un senso di scorrevolezza.

A tal punto è da chiedersi perché Marco ha notevolmente ampliato il racconto di un esorcismo su di uno spirito sordo e muto coniugandolo con la necessità della fede. In altri termini, cosa centra la sordità e la mutezza con la fede? La fede dice l'esatto opposto dell'incredulità, che qui è metaforizzata da Marco con il demone sordo e muto, cioè l'incapacità di saper ascoltare e accogliere in se stessi la Parola (la sordità), per poi proclamarla nella propria vita (la mutezza). La quale cosa già si era verificata nella guarigione di un sordomuto nel territorio della Decapoli (7,31-37), dove Gesù rende capaci di ascolto accogliente della Parola e della sua testimonianza anche il mondo dei pagani. Ma qui il senso cambia completamente: anche qui c'è un sordo e muto, ma questi non è un uomo, bensì uno spirito impuro (v.25). Cambia pertanto il senso della guarigione: il cacciare, infatti, da questo figlio lo spirito impuro sordo e muto dice che qui Gesù libera l'uomo dal demone dell'incredulità, predisponendo i suoi ad accoglierlo, quale Cristo sofferente, ucciso e risorto. Non a caso, infatti, seguirà immediatamente dopo il secondo annuncio della passione (vv.30-31), che si conclude nuovamente con l'inintelligenza dei suoi (v.32). Forse anche per questo il racconto dell'esorcismo dello spirito sordo e muto si conclude con la necessità della preghiera, perché “Questa specie in nessun modo può uscire se non con la preghiera” (v.29).

Commento ai vv. 14-29

Con la logica narrativa che lo contraddistingue, Marco dà continuità al racconto della Trasfigurazione e della discesa dal monte e il relativo dibattito su Elia con la pericope vv.14-16, che funge da transizione tra quelle scene e l'incontro con i discepoli rimasti ai piedi del monte. Questi, circondati dalla folla, stavano discutendo con gli scribi. È interessante questa nota narrativa, di per se stessa non significativa e comunque non inerente al racconto dell'esorcismo. Che cosa stessero dibattendo dei dottori, esperti della Legge, con dei discepoli provenienti dal mondo dei pescatori e comunque culturalmente poco elevati, ci verrà in qualche modo suggerito dalla risposta che il padre del posseduto darà a Gesù (v.17). Ma forse Marco ha voluto riprodurre qui una scena in prospettiva ecclesiologica postpasquale: lo scontro tra Gesù e le autorità giudaiche, che lo ha portato a continue persecuzioni fino alla morte di croce, prosegue ora con i suoi discepoli, in un continuo confronto e scontro che prelude, anche per loro, a persecuzioni anche violente15, richiamando in qualche modo quel destino di passione e morte del loro Maestro, che trova tutta la resistenza da parte dei discepoli, ma che in qualche modo Gesù aveva loro preannunciato (8,32-35).

Una nota va riservata alla folla che vediamo qui descritta in un duplice atteggiamento: raccolta, dapprima, attorno al dibattito tra gli scribi e i discepoli, rimasti ai piedi del monte; poi, alla comparsa di Gesù, probabilmente del tutto inattesa, considerato lo stupore che essa ha provocato, corrono verso di lui. Gesù, quindi, al di là delle disquisizioni tra le diverse controparti è e resta sempre il punto di riferimento sicuro. Un sollecito che verrà anche da Eb13,8-9a: “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! Non lasciatevi sviare da dottrine varie e peregrine”.

La pericope introduttiva termina con il v.16, con cui Gesù chiede ai suoi l'argomento del dibattito con gli scribi. Una domanda che resta senza risposta da parte dei discepoli, ai quali era rivolta, ma che narrativamente serve all'autore per introdurre nel vivo il racconto dell'indemoniato, posseduto da uno spirito sordo e muto, facendo intervenire il primo attore: il padre del figlio posseduto, il quale, sia pur implicitamente, dà comunque una risposta alla domanda di Gesù. Si tratta di “uno dalla folla”. Si faccia attenzione, la risposta non viene data dai discepoli, ma da uno che emerge dalla folla e che va verso Gesù portandogli suo figlio. Questo uscire dall'anonimato della folla verso Gesù dice il primo cammino di fede, che poi porta alla sequela. Si vedrà, infatti, come questo padre crescerà sempre più nel suo rapporto di fede con Gesù, dapprima invocando la sua misericordia: “se puoi qualcosa, aiutaci, muovendoti a compassione di noi” (v.22b), per poi esplodere in una aperta confessione di fede: “Credo; soccorri la mia incredulità” (v.24b), che costituisce il vertice dell'intero racconto, in cui il tema è proprio quello della fede e dell'incredulità, che funge da chiave di lettura dell'intero racconto.

La risposta che il padre dell'indemoniato dà a Gesù (vv.17-18) costituisce di fatto il tema del dibattito tra gli scribi e i discepoli: “Maestro, ho portato mio figlio da te, avendo uno spirito muto; […] e dissi ai tuoi discepoli affinché lo scacciassero, e non furono capaci” (vv.17.18b). C'è, dunque, un esorcismo da compiere, ma andato a vuoto. I discepoli, quindi, hanno fallito e con loro anche Gesù. Era questa la logica che legava il maestro ai propri discepoli e lo rendeva loro responsabile. Lo si è visto anche nel dibattito sul digiuno (2,18) e sul mancato rispetto del sabato da parte dei discepoli (2,23-24). Le mancanze e i fallimenti dei discepoli sono addebitati al maestro e a lui si chiede conto. È quindi probabile che qui il dibattimento tra scribi e discepoli riguardasse la capacità esorcistica non tanto loro, quanto del loro maestro, che vedevano in qualche modo in concorrenza con gli esorcisti dei giudei16. Vi era, quindi, probabilmente, una sorta di dibattito sull'efficacia del potere esorcistico di Gesù e dei suoi e sulla territorialità di questi esorcismi, tra gli esorcisti giudei e quelli di di Gesù. Lo si è visto in 3,22-26 dove Gesù è accusato di operare esorcismi in nome di Beelzebul, mentre al v.38 i discepoli protestano per l'invasione di campo di un esorcista giudeo, che operava in nome di Gesù. Testimonianza in tal senso ci viene anche da At 19,13.

Il v.18a, inserito tra il v.17, che presenta il padre dell'indemoniato e il v.18b, che attesta il fallimento dell'esorcismo da parte dei discepoli, descrive il potere dello spirito muto sul figlio, molto impressionante, ma che nel contempo serve a Marco per dimostrare, da un lato, tutta la possanza di tale spirito; dall'altro prepara lo scontro con Gesù, che riuscirà a sconfiggere tale spirito (v.25-26a), esaltando implicitamente la superiore forza spirituale e il superiore potere di Gesù sul mondo degli inferi. In tal modo Gesù pone fine ad un dibattito, che nasce proprio dall'incredulità degli scribi, i quali probabilmente rinfacciano il fallimento dell'esorcismo ai discepoli di Gesù e, quindi, implicitamente a Gesù stesso; ma nel contempo viene sopravanzata la pochezza dei discepoli dal potere e dall'autorità e autorevolezza di Gesù. Da qui lo sdegno di Gesù, che servirà a Marco per sviluppare il tema dell'incredulità e della fede: “O generazione incredula, fino a quando sarò presso di voi? Fino a quando vi sopporterò? Portatelo da me”. La generazione incredula va qui riferita in senso generale al contesto giudaico, che ha rifiutato Gesù, e agli stessi discepoli, che in più occasioni hanno dimostrato tutta la lor inintelligenza su Gesù e in particolare sul suo essere Cristo sofferente (8,32-33; 9,32).

Il tono del v.19, che introduce il tema dell'incredulità e del suo contrapposto, la fede, è quello caratteristico dei profeti, che deplorano le infedeltà del popolo (Ger 2,31; 7,29), e richiama da vicino Dt 32,5.20, dove Jhwh si lamenta del suo popolo, definendolo generazione tortuosa e perversa, perfida, di figli infedeli.

Il v.19 è comune a tutti tre i sinottici e quindi appartiene al racconto originale, quello che, a mio avviso, è stato riportato da Mt 17,14-21. Marco approfitterà di questo accenno all'incredulità per sviluppare il tema della fede, arricchendo e vivacizzando il racconto con dialoghi e con immagini impressionanti e presentando la triste e drammatica storia del posseduto, tale fin dalla sua fanciullezza e che lo spirito impuro cercava di uccidere, richiamando in tal modo Gv 8,44b, dove il Gesù giovanneo definirà il diavolo come omicida fin da principio.

L'autore riprende, pertanto, il v.18a e su questa falsa riga costruisce la pericope 20-22a, dando così un quadro completo dell'indemoniato, fornendo al suo lettore anche qualche nota biografica riguardante il posseduto e il dramma di suo padre. Questa personalizzazione dei personaggi serve a Marco per coinvolgere sempre più il lettore in questo dramma perché proprio ora, in tale contesto così caratterizzato, inserirà il serrato e toccante dialogo di fede tra Gesù e il padre (vv.22b-24), che diviene una sorta di parametro di riferimento per la comunità credente sul come ottenere ed accrescere la propria fede: invocare la misericordia e la compassione di Gesù perché soccorra la fragilità della propria fede (v.22b), la quale rende onnipotente il credente contro le forze del Male (v.23). Una richiesta che culmina nel v.24 dove si sente l'invocazione della comunità credente, la cui forza è racchiusa tutta in quel “subito gridando” del padre, pieno di angoscia e di speranza, dove l'invocazione, introdotta da quel “diceva” posto all'imperfetto indicativo, tempo verbale durativo, dice il persistere di tale invocazione, forse non tanto a parole, quanto come un'eco spirituale, che pervade l'intera vita del padre e, nel padre e come il padre, quella di ogni credente.

La pericope vv.25-27 riporta l'esorcismo e i suoi effetti sullo spirito impuro e sul figlio posseduto. Il racconto è molto accurato e caricato di simbolismi, che hanno attinenza con la morte e la risurrezione non di un bambino o di un ragazzo o di un giovane, ma del “figlio”, che in tutto il racconto è sempre posto in relazione con il padre; un figlio che è posseduto da uno spirito e come morto viene rigenerato a nuova vita. Una scena questa che è posta a ridosso del secondo annuncio della passione, morte e risurrezione, dove Gesù, ripieno dello Spirito Santo (1,10b) vivificante (Rm 1,4), si definisce “Figlio dell'uomo”. Viene in tal modo a crearsi una sorta di parallelismo tra l'esorcismo, che lascia intravedere come in filigrana i drammatici e nel contempo gloriosi destini di Gesù, e il secondo annuncio della passione, morte e risurrezione, che segue subito il racconto dell'esorcismo.

L'intero esorcismo, poi, è posto all'interno di un contesto di fede, dove non c'è spazio per l'incredulità (vv.19-24), perché avvenga la liberazione del figlio e la sua rigenerazione a vita nuova (vv.25-27), così come deve essere accolto in un contesto di fede l'annuncio del Cristo sofferente, morto e risorto, che avverrà subito dopo il racconto dell'esorcismo.

Il v.25 si apre riprendendo il v.15, dove la folla stava accorrendo verso Gesù, così che “vedendo Gesù che accorreva folla” si affretta a compiere l'esorcismo prima che questa si ammassi attorno a lui, evitando in tal modo ogni spettacolarizzazione. Questa riservatezza, più che segretezza, riflette in qualche modo il racconto della risuscitazione della figlia di Giairo, dove Gesù cacciati tutti fuori, entra nel segreto della stanza solo con pochi intimi, quelli che gli hanno creduto contro ogni speranza, dove si rivelerà quale Signore della vita, capace di trasfondere la vita in quelli che credono, lasciando intravedere in qualche modo la sua risurrezione. Una riservatezza che qui include soltanto il padre del posseduto, l'unico che attesta davanti a Gesù la sua fede e lo invoca perché ne soccorra la fragilità. È questo, dunque, il contesto giusto, quello della fede, perché Gesù possa operare la rigenerazione del figlio ad una vita nuova.

Molto accurata è la descrizione dell'azione esorcistica di Gesù rispetto agli altri tre esorcismi, dove essa è appena percettibile (1,25; 5,8; 7,29). E l'accuratezza dice l'importanza di questo esorcismo, poiché qui non si tratta soltanto di liberare un povero disgraziato dal potere di satana, ma di cacciare, una volta per sempre, il demone dell'incredulità, che rende l'uomo incapace di cogliere il Mistero di Dio in Gesù (sordità) e di testimoniarlo con la propria vita (mutezza): “Spirito muto e sordo, ti ordino, esci da lui e non entrare più in lui”. Significativo è come Gesù chiami lo spirito impuro per gli effetti che egli produce in chi possiede: “Spirito muto e sordo”, cioè “Spirito dell'incredulità”. Significativa è la perentorietà del comando “ti ordino” che punta a liberare definitivamente il credente da ogni dubbio e incertezza su Gesù, ricostituendo in lui l'indispensabile fede per poter comprendere e penetrare il Mistero di Dio che opera in Gesù, altrimenti non comprensibile, soprattutto ora, che il Golgota si sta stagliando nettamente sullo sfondo (10,1.32; 11,1).

L'effetto dell'esorcismo è immediato: “E gridando e malmenandolo molto, uscì”. Ma ciò che colpisce nei vv.26-27 sono tre elementi che richiamano da vicino il secondo annuncio della passione, morte e risurrezione di Gesù: “malmenandolo” (passione); “divenne come morto, così che molti dicevano che è morto” (morte); “Ma Gesù, presa la sua mano, lo sollevò, e (quello) si alzò”. (risurrezione). Il gesto qui richiama da vicino 5,41-42, dove Gesù presa la mano della fanciulla, la risvegliò dal suo torpore di morte e quella si alzò. In entrambi i racconti compaiono due verbi significativi “geƒrw” (egheíro, risvegliare, destare) e “¢nsthmi” (anístemi, levarsi, sollevarsi), che presso le prime comunità credenti rientravano nel linguaggio tecnico con cui si indicava la risurrezione di Gesù. E in entrambi i racconti Gesù si mostra il Signore della vita, che non solo libera l'uomo dal potere di satana, ma gli infonde la sua stessa vita divina, così che da morto che era, l'uomo torna a vivere

Con i vv.28-29 c'è un cambio di scena: dal trambusto della folla e dell'esorcismo si passa ora alla quiete della casa, dove c'è Gesù con i suoi discepoli. L'immagine è simbolica ed allude, nel linguaggio degli evangelisti e in particolare in Marco, alla chiesa, quale istituzione. Il contesto, quindi, qui è ecclesiologico e riprende in qualche modo 4,10.34, uno schema di pensiero, quello della separazione dagli altri, che ritroviamo spesso nel vangelo marciano.

Ora, la questione posta al v.18b, l'incapacità dei discepoli di operare l'esorcismo, trova qui la sua risposta: “Questa specie in nessun modo può uscire se non con la preghiera”. È strana questa conclusione, perché Gesù, di fatto, per cacciare questo tipo di spirito impuro, sordo e muto, non ha recitato nessuna preghiera. Ma è proprio qui, sul senso della preghiera che si gioca tutto, poiché se la fede apre a Dio (vv.23-24), la preghiera mette in comunicazione con Dio. Una preghiera che non va intesa come una recita di formule sacre, ma come un atteggiamento interiore di comunicazione con Dio e che si fa comunione con lui; un orientamento esistenziale verso Dio e di comunione con lui, così che tutta la nostra vita diviene nel suo svolgersi quotidiano una liturgia di lode e di ringraziamento a Dio, in cui il celebrante e offerente è lo stesso credente. In tal senso Paolo, scrivendo alla comunità di Roma, la sollecita: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12.1). “Offrire”, “Sacrificio”, “Culto”, tutti termini questi che delineano la sacerdotalità propria di ogni credente, ma nel contempo circoscrivono il vivere di ogni credente come una perenne celebrazione cultuale a Dio, santificante e santificatrice e, per questo, anche salvifica.

Mt 17,21 aggiunge, quale rafforzativo della preghiera, anche il digiuno, che va inteso più che in senso fisico, dell'astenersi dal cibo, come uno sciogliersi interiormente dall'attaccamento alle cose (Is 58,1-14), liberando così il proprio spirito verso quel Dio, che S. Francesco definiva “mio Tutto”. E il Gesù matteano sottolineerà come la capacità del vedere e del comprendere Dio sia riservata ai puri di cuore, a quelli, cioè, che, pur servendosi delle cose di questo mondo, non le hanno rinchiuse nel proprio cuore, poiché i loro interessi sono rivolti a Dio e al suo mondo fatto di Spirito e Verità: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8), perché “Il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17). Pertanto “Quelli che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello Spirito” (Rm 8,5).


Sviluppare un giusto atteggiamento interiore per
poter comprendere e accettare il Cristo sofferente (vv.30-50)


Testo a lettura facilitata

Secondo annuncio della passione e persistente inintelligenza (vv.30-32)

30- Ed usciti di là, andavano per la Galilea, e non voleva che qualcuno (lo) sapesse;
31- insegnava, infatti, ai suoi discepoli e diceva loro che il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani degli uomini, e lo uccideranno, e ucciso(lo), dopo tre giorni risorgerà>>.
32- Ma quelli non capivano il discorso e temevano di interrogarlo.

Atteggiamento di servizio finalizzato all'accoglienza (vv.33-37)

33- E andarono a Cafarnao. Ed essendo nella casa, li interrogava: <<Di che cosa discutevate sulla strada?>>.
34- Ma quelli tacevano; infatti, l'un l'altro avevano discusso sulla strada chi (fosse) più grande.
35- E sedutosi, chiamò i Dodici e dice loro: <<Se qualcuno vuole essere primo, sarà ultimo di tutti e di tutti servitore>>.
36- E preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e abbracciatolo, disse loro:
37- <<Chi avrà accolto uno di tali bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me non accoglie me, ma colui che mi ha mandato>>.

Deporre ogni spirito di rivalità aprendosi all'accoglienza (vv.38-40)

38- Gli dice Giovanni: <<Maestro, abbiamo visto un tale che scaccia (i) demoni nel tuo nome, e lo impedivamo, poiché non ci seguiva>>.
39- Disse Gesù: <<Non impeditelo. Non vi è nessuno, infatti, che faccia un miracolo nel mio nome e possa subito parlare male di me;
40- chi, infatti, non è contro di noi, è per noi.

La carità in nome di Gesù è ricompensata (v.41)

41- Chi, infatti, vi avrà dato da bere una tazza di acqua nel mio nome, perché siete di Cristo, in verità vi dico che non perderà la sua ricompensa.

Estirpare radicalmente da se stessi ogni causa di male (vv.42-49)

42- E chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono [in me], è più che buona cosa per lui se si cingesse attorno al suo collo una macina da mulino e si gettasse nel mare.
43- E qualora la tua mano ti scandalizzasse, tagliala; è buona cosa che tu entri storpio nella vita che, avendo le due mani, andare nella geenna, nel fuoco inestinguibile.
[44- Dove il loro verme non muore, e il fuoco non si spegne]17
45- E qualora il tuo piede ti scandalizzasse, taglialo; è buona cosa che tu entri nella vita zoppo che, avendo i due piedi, sia gettato nella geenna.
[46]
47- E qualora il tuo occhio ti scandalizzasse, cavalo; è buona cosa che tu entri nel Regno di Dio con un occhio solo che, avendo due occhi, sia gettato nella geenna,
48- dove il loro verme non muore, e il fuoco non si spegne18.
49- Ognuno infatti sarà salato con il fuoco.

Guardarsi dal perdere la ricchezza spirituale acquisita (v.50)

50- Il sale è buono; ma se il sale diventa non salato, con che cosa lo condirete? in voi stessi avete sale e state in pace gli uni gli altri>>.


Note generali

Dopo l'esorcismo compiuto da Gesù contro il demone dell'incredulità (vv.14-29), Marco inserisce qui il secondo annuncio della passione, che segna una svolta nella didattica e nella pedagogia di Gesù nei confronti dei suoi discepoli, che abbraccerà l'intera sezione 9,30-10,45, la quale culminerà nella guarigione del cieco di Gerico (10,46-52), entrando, poi, nel vivo dell'attività giudaica (11,1-13,37), che si concluderà, a sua volta, con la passione, morte e risurrezione (14,1-16,8), così lungamente annunciate (8,31; 9,31; 10,33-34) e alle quali Gesù ha pazientemente preparato i suoi recalcitranti e persistentemente inintelligenti discepoli (8,33-38; 9,33-10,45).

Con la liberazione dal demone dell'incredulità, Gesù non ha reso automaticamente credenti i suoi, ma li ha solo resi disponibili ad accogliere la sua parola in un percorso di formazione spirituale che li rendesse idonei a comprendere e ad accettare i destini di sofferenza e di morte del Cristo. Un percorso di formazione resosi necessario dal fatto che, dopo il secondo annuncio, i discepoli ancora non riescono a capire quello che Gesù sta dicendo, ma nel contempo prendono coscienza della loro inintelligenza e si vergognano di chiedere spiegazioni (v.32). Quindi, dopo l'esorcismo contro il demone dell'incredulità, si verifica un fatto completamente nuovo, evidenziato dal v.32: i discepoli non sono più recalcitranti, né più si scandalizzano come subito dopo il primo annuncio (8,32), così che Gesù era dovuto intervenire in modo duro e deciso contro i suoi, prospettando loro una sequela all'ombra della croce e minacciandoli di disconoscerli davanti al Padre suo (8,33-38). Qui i discepoli semplicemente non comprendono il discorso di Gesù, ma, forse edotti da quanto era successo subito dopo il primo annuncio, “temevano di interrogarlo” (v.32b).

Proprio a motivo di questa loro inintelligenza, ma questa volta non più rafforzata né favorita dal rifiuto, Gesù intraprende un cammino di formazione spirituale dei suoi, il cui intento è quello di creare in loro un contesto spirituale atto ad accogliere e comprendere il senso dei suoi annunci, che si attueranno a breve in Gerusalemme, verso la quale sono incamminati (10,32).

I contenuti di questa formazione sono raccolti all'interno della sezione didattica e pedagogica delimitata dai vv. 9,30-10,45, al termine della quale Marco presenterà la guarigione del cieco di Gerico (10,46-52), metafora dell'intelligenza spirituale, che finalmente i discepoli hanno acquisito, così che, significativamente questi ciechi, ora vedenti, come quel cieco guarito, seguono ora Gesù sulla via (10,52b), quella che porta a Gerusalemme e da lì al Golgota.

Le tematiche qui trattate in questa ampia sezione sono esposte narrativamente attraverso una raccolta di vari detti, sentenze inquadrate e diverse unità narrative tra loro giustapposte senza apparente collegamento tra loro. Tuttavia queste girano tutte attorno ad un unico fulcro che è quello degli annunci e vanno comprese come preparatorie agli eventi annunciati da Gesù, circa la sua passione, morte e risurrezione. In altri termini, ogni unità narrativa o raccolta di versetti è finalizzata a creare degli atteggiamenti spirituali idonei per poter accogliere e fare propri gli eventi annunciati e, quindi, in qualche modo essere partecipi al destino di morte e risurrezione di Gesù. Gesù, quindi, attraverso questo percorso formativo punta a creare la giusta mentalità e il giusto atteggiamento interiore per poter accostarsi al Mistero della sua passione, morte e risurrezione.

Il percorso formativo spirituale, qui elaborato da Marco dopo il secondo annuncio, si accentra su 5 temi, che formano nel contempo la struttura stessa di questa ultima parte del cap.9 e che potremmo dividere in due parti tra loro contrapposte: la prima positiva, che comprende i vv.33-41, indica la via maestra risolutiva delle questioni interne alla chiesa e si conclude significativamente con il tema della carità operata in nome di Gesù; la seconda parte (vv.42-50), che potremmo definire negativa, sottolinea la determinazione radicale ed estrema con cui affrontare il male che si radica dentro se stessi e nella stessa comunità credente:

Se elaboriamo nel loro insieme queste tematiche ne uscirà un potente messaggio di rinnovamento spirituale interiore, che in qualche modo illustra che cosa significa rifiutare se stesso, prendere la propria croce e seguire Gesù: dopo avere deposto ogni comportamento di rivalità e di intolleranza, è necessario assumere un atteggiamento di servizio accogliente verso l'altro, nella coscienza che accogliere l'altro è accogliere Gesù e con lui il Padre che lo ha inviato; pertanto ogni atto di carità operato nel nome di Gesù sarà ricompensato. La contropartita di questo rinnovamento spirituale di amore servizievole e accogliente è l'incompatibilità con il proprio mondo vecchio fatto di egocentrismi ed egoismi, rifiuti e ghettizzazioni, che va sradicato in modo deciso, senza se e senza ma. Gesù qui lentamente sta creando una nuova forma mentis nei discepoli, che li renderà capaci non solo di accettare lo scandalo della croce, ma di porsi essi stessi alla sequela del Gesù crocifisso con tutto ciò che una tale sequela comporta.


Commento ai vv.30-50

Questa ampia sezione didattica si apre significativamente con una nota geografica: “andavano per la Galilea”. La nota geografica precedente a questa è quella di Cesarea di Filippo (8,27), nei cui pressi Pietro indicò Gesù quale “Cristo”, cioè l'atteso Messia. Su tale scoperta Gesù impose il silenzio (8,30). Questi due elementi vanno tenuti presenti per comprendere il senso di questo v.30.

Cesarea di Filippo, dunque, è il luogo in cui Gesù rivela la sua identità di Messia (8,29), che verrà completata, sei giorni dopo, quindi nel settimo giorno, il giorno del compimento della rivelazione identitaria di Gesù, con quella di Figlio di Dio (v.7), sulla quale impone nuovamente il silenzio (v.9). Entrambe le rivelazioni sono accompagnate dal tema della sofferenza e della morte (8,31; 9,12b), che forma il contesto entro il quale queste vanno lette e comprese. In tale contesto della duplice identità di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio (1,1), legata alla sofferenza e alla morte, va attentamente considerata la geografia marciana, che scandisce un cammino che da Cesarea di Filippo (8,27) termina nel Tempio di Gerusalemme (11,11), durante il quale avvengono ben tre annunci della passione, mentre il nome di Gerusalemme, il luogo dove si compiranno gli annunci, continuerà ad essere ripetuto insistentemente, scandendo l'intero cammino.

Gesù, pertanto, parte da Cesarea di Filippo (8,7) e, rientrando in Galilea (9,30), va a Cafarnao (9,33), dove, secondo Mt 4,13, egli abitava, dopo aver lasciata Nazareth. Da qui ripartirà, con direzione Gerusalemme, andando “verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1), passando quindi attraverso la Decapoli e la Perea, evitando così la Samaria, dove, secondo Lc 9,52-53, Gesù fu impedito dai Samaritani di passare da loro perché era diretto a Gerusalemme. E qui Marco ricorda che “erano sulla strada, mentre salivano a Gerusalemme” (10,32) e Gesù lo conferma: “ecco, saliamo a Gerusalemme” (10,33). Ed entrando nella Giudea, giungono a Gerico (10,46), la porta d'entrata per Gerusalemme, dove un cieco, metafora della cecità spirituale dei Dodici, viene guarito da Gesù, così che ora egli lo seguirà sulla strada per Gerusalemme (10,52b), che è quella del Golgota. Ed ecco, dopo una lunga salita “si avvicinano a Gerusalemme, a Betfage e a Betania, presso il monte degli Ulivi” (11,1), per poi entrare finalmente a Gerusalemme, dove il lungo viaggio terminerà nel Tempio, il cuore pulsante di Gerusalemme e casa del Padre (11,17).

Ora, come la duplice identità di Gesù, Cristo e Figlio di Dio, strettamente legata alla sua passione e morte, che soltanto la risurrezione renderà palese, deve rimanere sotto copertura e, quindi, avvolta nel silenzio, finché Gesù non sia risorto dai morti (v.9), così anche il significato più vero e profondo del cammino che egli sta compiendo verso Gerusalemme, conformemente alla volontà del Padre (8,31), doveva essere per il momento oscurato alla gente, poiché soltanto la risurrezione getterà la sua luce sulla passione e morte di Gesù, svelandone il senso e rivelando la vera natura di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio, evitando in tal modo fraintendimenti sugli eventi che si compiranno in Gerusalemme. Da qui quel “e non voleva che qualcuno (lo) sapesse” (v.30b). Ciò, quindi, che Gesù “non voleva” era che il senso di quel suo viaggio verso Gerusalemme fosse svelato ora. E che così sia lo lascia intravvedere quel “g¦r” (gàr, infatti) posto all'inizio del v.31, che in qualche modo spiega il perché di tale silenzio imposto sul senso di quel viaggio verso Gerusalemme.

Il v.9,31 è strettamente legato a 8,31, dove si dice che Gesù “incominciò ad insegnare”. Là, dunque, ha incominciato ad insegnare; qui, invece, si dice che “insegnava … e diceva”. Ci troviamo di fronte ad un imperfetto indicativo, un tempo verbale durativo, per cui si può tradurre “continuava ad insegnare”. Quindi il v.9,31 dà qui continuità a quel insegnamento iniziato con 8,31-38, e lo fa attraverso la parola (“diceva”), una parola che diviene, pertanto, rivelatrice con il suo dire. Tuttavia, qui al v.9,31, non ci troviamo di fronte ad una ripetizione del primo annuncio, dove con quel “bisogna” da cui dipende interamente, svela come la passione, morte e risurrezione siano l'attuazione di un disegno del Padre, poiché qui compaiono altri due elementi completamente nuovi, che danno una nuova prospettiva alla passione, morte e risurrezione di Gesù: “il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani degli uomini”. Il verbo “è consegnato” in greco è espresso con un verbo medio-passivo “parad…dotai” (paradídotai), che significa “è consegnato”, ma anche “si consegna”, lasciando intravvedere una duplice azione: passiva e attiva nel contempo. In quanto “passiva”, nel linguaggio dei vangeli, l'azione del verbo è rimandata a Dio stesso e questo lo si è visto nel primo annuncio con quel “bisogna”, dove i destini di Gesù fanno parte di un disegno salvifico di Dio, a cui Gesù si conforma. In quanto “attiva” o meglio “riflessiva”, essa sottolinea come questo consegnarsi dipende da una libera decisione di Gesù, che non si contrappone al disegno del Padre, in quanto egli ne è attuazione e rivelazione. Quindi Gesù non subisce la passione e la morte, ma si consegna ad esse in attuazione del piano salvifico del Padre (“bisogna” 8,31). È significativo quanto il Gesù matteano dice a Pietro, che era intervenuto con la spada contro il servo del sommo sacerdote: “Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?” (Mt 26,53-54). E similmente in Gv 18,4-6, dove Gesù identificandosi a quanti erano venuti ad arrestarlo nell'orto degli Ulivi, si presentò loro dicendo “Sono io”; ma non appena si rivelò, questi indietreggiarono tutti e caddero a terra. L'intento di Giovanni, qui, era quello di mostrare l'onnipotenza e la divinità di di Gesù, che con quel “Sono io” richiama l' “Io sono” con cui Jhwh si rivelò a Mosè (3,14). Anche in questo caso il Gesù giovanneo si consegna liberamente ai suoi aguzzini, avendo dimostrato loro la sua irresistibile onnipotenza.

Un secondo nuovo elemento emerge qui in 9,31 rispetto al primo annuncio (8,31): Gesù si consegna non più “agli anziani e ai sommi sacerdoti e agli scribi”, ma “nelle mani degli uomini”, dando così una valenza universale al suo patire, morire e risorgere. Tutti, quindi, l'intera umanità, sono coinvolti nella sua passione, morte e risurrezione, così che il consegnarsi di Gesù nella mani degli uomini non dice soltanto la sua libera scelta, ma anche come il suo liberamente consegnarsi nelle mani degli uomini diventi un dono di amore di se stesso per tutti gli uomini, la quale cosa richiama da vicino Gv 3,16, dove si attesta che “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”.

Il v.32 conclude questo secondo annuncio con l'immancabile nota sulla inintelligenza dei Dodici: “Ma quelli non capivano il discorso e temevano di interrogarlo”. Il verbo all'imperfetto indicativo, tempo durativo, dice la persistenza di questa inintelligenza. Tuttavia, rispetto alla reazione di ribellione di Pietro al primo annuncio (8,32b), compare qui una novità: non vi è più nessuna rivolta e nessun rifiuto, nessuno scandalizzarsi su quanto Gesù ha detto circa i suoi destini di sofferenza e di morte, ma soltanto una scorata nota dell'evangelista, che commenta come i discepoli ancora non capivano nulla di quanto Gesù stava dicendo. Ma nel contempo essi non vogliono approfondire la questione, forse per la strigliata che Gesù dette loro dopo il primo annuncio, ma, forse, anche per la paura che Gesù confermasse i loro timori.

La nota di inintelligenza dei Dodici al secondo annuncio della passione, viene fatta seguire qui da una esemplificazione di tale pochezza spirituale, che acceca i discepoli, impedendo loro di cogliere il senso dell'annuncio e del cammino verso Gerusalemme. Un accostamento delle due pericopi, vv.30-32 e vv.33-37, tale da far rilevare il contrasto tra il dono totale che Gesù fa di se stesso a tutti gli uomini e, invece, la ricerca dell'affermazione di se stessi sugli altri.

Il v.33 si apre con una nota geografica, che scandisce questo cammino verso Gerusalemme, che, partito da Cesarea di Filippi, sta lentamente scendendo verso il sud, attraverso la Galilea (v.30a) per giungere ora a Cafarnao (v.33a), per poi ripartire, sempre verso sud, in direzione della Giudea (v.10,1), per poi, attraverso Gerico (10,46), raggiungere Gerusalemme (11,1).

La piccola comitiva di Gesù con i Dodici giunge a Cafarnao, dove, secondo Mt 4,13, Gesù aveva stabilito la sua dimora. E il proseguo del v.33 sembra confermarlo: “Ed essendo nella casa, li interrogava”. Tuttavia, il termine “casa”, preceduto qui dall'articolo determinativo “nella”, indica non una casa qualsiasi, ma una casa particolare e ben nota a Marco: la chiesa, di cui la casa, nel linguaggio degli evangelisti e in particolare di Marco, è metafora. Quanto segue, pertanto, ha a che vedere con la comunità credente ed è una riflessione di natura ecclesiologica, forse per stigmatizzare i comportamenti di rivalità e di prevaricazione, che si stavano verificando all'interno delle comunità credenti. Una testimonianza in tal senso ci viene da Rm 12,16: “Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi”. Paolo caldeggia qui un atteggiamento di umiltà nei confronti della comunità, tale che predisponga il credente al servizio degli altri; così come in Fil 2,3 esorta ad atteggiamenti di umiltà per evitare discordie e rivalità, che sono foriere di divisioni: “Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ognuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso”. Il pericolo, dunque, c'era all'interno della chiesa nascente ed era potenzialmente distruttivo.

Gesù chiede, dunque, ai suoi di che cosa stessero discutendo “sulla strada”. La strada di cui qui si parla è quella che da Cesarea di Filippo, attraverso la Galilea, è giunta a Cafarnao. Ma è sempre quella stessa strada sulla quale Gesù ha già fatto due annunci della sua passione e morte; quella stessa strada che, poi, riprenderà verso Gerusalemme e sulla quale vi sarà il terzo annuncio (10,33-34). Ebbene su questa strada che sta portando Gesù verso il dono totale di se stesso per gli uomini i discepoli, probabilmente sentendosi gli eredi spirituali e morali di Gesù e forse a seguito dei suoi persistenti annunci di morte, forse avevano discusso chi avrebbe sostituito Gesù dopo la sua dipartita. Chi fosse, dunque, il più grande e tale da potersi mettere al posto di Gesù. La conferma di una simile rivalità intraecclesiale la si avrà, parallelamente a questa e come questa posta subito dopo il terzo annuncio (10,33-34), nell'episodio dei due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, che cercano di accaparrarsi, con il favore di Gesù stesso e tra lo sdegno degli altri, i posti più ambiti all'interno del gruppo dei Dodici (10,35-41); e come qui Marco farà seguire anche là un breve discorso sul servizio agli altri, ponendo come parametro di raffronto Gesù stesso, che si fa servo di tutti fino al dono totale della sua vita (10,42-45).

La risposta di Gesù suona come un detto sentenziale e formula la regola d'oro per il tempo postpasquale: “Se qualcuno vuole essere primo, sarà ultimo di tutti e di tutti servitore”. In altri termini, che verranno ripresi e meglio dettagliati in 10,42-45, i primi posti sono in funzione degli altri e non di se stessi e chi li occupa deve porsi nel giusto atteggiamento di servizio a favore dell'intera comunità credente, poiché chi occupa posti autorevoli, per la sua posizione, è chiamato far crescere i credenti e non dominarli (1Pt 5, 1-3). Questo è il vero senso di autorità, dedicarsi al bene degli altri e a farli crescere spiritualmente, confermandoli nel loro cammino verso Dio. Un'autorità che è servizio speso per il bene dell'altro. Un detto, quindi, che rovescia completamente il modo di ragionare degli uomini, dove i primi posti sono in funzione di se stessi, considerando gli altri propri sudditi e al proprio servizio. Già un simile modo di pensare era stato stigmatizzato da Gesù subito dopo il primo annuncio, allorché Pietro aveva duramente redarguito Gesù per la sua insana prospettiva di morte: “Vai dietro di me, satana, poiché tu non pensi le cose di Dio ma quelle degli uomini” (8,33b). E quanto siano lontani i pensieri e i disegni degli uomini da quelli d Dio lo ricorda Is 55,8-9: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”. Da qui l'appello di Dio al suo popolo: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2b). Un appello, quindi, ad una continua conversione, quale stile di vita, per poter allineare i propri pensieri e le proprie prospettive di vita a quelle di Dio; per poter affinare la propria sensibilità alle esigenze di Dio (Rm 12,2).

Al detto sentenziale, Marco ora fa seguire una scena estemporanea, che funge da sfondo scenografico al detto stesso, creando il contesto in cui questo detto deve essere compreso e con quale animo deve essere accolto: “E preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e abbracciatolo, disse loro”. Ho definito il v.36 come una scena estemporanea, poiché non va dimenticato che qui Gesù si trova a Cafarnao e all'interno della casa, che dobbiamo pensare come loro, la sede del loro quartier generale (Mt 4,13). Che ci faceva, dunque, un bambino lì tra di loro? Una questione questa che a Marco non interessa, ma ciò che a lui importa è l'accostamento delle due scene, tale da consentire alla prima (vv.33-35) di essere ricompresa alla luce della seconda (vv.36-37).

Gesù, pertanto, pone in mezzo a loro un bambino e poi lo abbraccia. Il porlo “in mezzo a loro” significa porlo alla loro attenzione, ma nel contempo che quel bambino deve diventare il parametro di raffronto sul quale misurare il loro modo di ragionare; quanto all'abbracciarlo questo esprime non solo la predilezione di Gesù nei confronti di questa categoria di persone, ma altresì che in essi egli si identifica e si fa un tutt'uno con loro al punto tale che “Chi avrà accolto uno di tali bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Questo secondo detto sentenziale viene accostato al primo e ne fornisce la chiave di lettura. L'accogliere il bambino significa farne proprio il suo modo di essere, fatto di semplicità, spontaneità, privo di una mentalità doppiogiochista e al di fuori degli intrallazzi di palazzo, ma nella sua povertà e purezza di spirito si rende disponibile a tutti, perché di tutti egli ha bisogno e proprio per questa sua fragilità egli è tra gli ultimi nella scala sociale di quel tempo. Accogliere questo bambino significa, quindi, accogliere la linea di pensiero e di comportamento dello stesso Gesù, che riflette in sé quella del Padre. Il porsi, pertanto, al servizio degli altri va compreso e attuato all'interno di questo contesto di animo sincero e privo di secondi fini (Rm 12,6-10). Totale, quindi, donazione di se stessi a favore degli altri.

La pericope vv.38-40, letterariamente è una sentenza inquadrata, ed è agganciata alla precedente (vv.33-37) dall'espressione “nel mio nome” con cui termina il v.37 e che viene ripresa dai vv.38.39, dandone una sorta di continuità letteraria, ma nel contempo anche tematica. La pericope è scandita in tre parti: il v.38 crea il contesto storico in cui s'inquadra la questione; il v.39 costituisce la regola d'oro da seguire per affrontare e risolvere il problema; ed infine, il v.40, che chiude il breve racconto, presenta il detto sentenziale, i cui ritmi proverbiali servono a sintetizzare e facilmente memorizzare la linea guida dettata dal v.39.

La questione a cui fa riferimento e che affronta questa pericope è una situazione che si era venuta a creare nel periodo postpasquale: vi erano dei giudei, che pur non essendo discepoli di Gesù, operavano degli esorcismi nel suo nome (At 19,13-14). Questo aveva provocato la reazione del gruppo dei Dodici, che si ritenevano gli esclusivi detentori di tale potere (3,15b; 6,7), in quanto seguaci di Gesù, e, quindi, gli unici autorizzati ad operare nel suo nome. Accadeva spesso, infatti, che i guaritori o gli esorcisti di professione si appropriassero di un nome prestigioso e potente per operare le loro guarigioni e i loro esorcismi.

Si è detto come questa pericope dia continuità non solo letteraria, ma anche tematica a quella precedente (vv.33-37). Nella pericope precedente, infatti, Marco affrontava una questione interna alla chiesa, la rivalità tra i vari membri per emergere in seno alla comunità, occupando posizioni di prestigio, escludendo gli altri. La questione qui era “chi è il più grande”. Ora con questa seconda pericope, parallelamente alla prima, l'evangelista affronta lo spirito di campanilismo, quello del gruppo che tende a chiudersi e a rigettare chiunque altro che non vi appartenga o comunque non venga in qualche modo omologato dal gruppo. Questo esclusivismo escludente è contrario alle logiche del nuovo mondo, che si muove sotto l'azione dello Spirito (1,8), il quale, al di là dei connotati storici e dei fregi di appartenenza, abbraccia chiunque creda in Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio: “Dio, infatti, non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34-35). E la conseguenza di questa affermazione verrà subito dopo testimoniata da Pietro stesso, allorché vede che anche sui pagani scende, in modo autonomo e senza preavviso, lo Spirito Santo: “E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare lingue e glorificare Dio” (At 10,45-46). Lo Spirito Santo, infatti, come il vento che spira, si muove ovunque e nessuno se ne può impossessare e decidere a chi esso appartenga o a chi darlo o meno: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8). Lo stesso Paolo, infatti, attesta: “Ebbene, io vi dichiaro: come nessuno che parli sotto l'azione dello Spirito di Dio può dire "Gesù è anatema", così nessuno può dire "Gesù è Signore" se non sotto l'azione dello Spirito Santo”. Da qui la conclusione sentenziale di questa breve pericope: “chi, infatti, non è contro di noi, è per noi”.

Una situazione e una soluzione questa che richiamano da vicino Nm 11,26-29, dove due membri del popolo d'Israele, Eldad e Medad, investiti dallo Spirito di Jhwh cominciarono a profetare in mezzo al popolo. La cosa venne denunciata a Mosè, poiché al solo Mosè era riservata la profezia, cioè il parlare nel nome e per conto di Dio. La risposta di Mosè fu illuminante: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!” (Nm 11,29). Una posizione questa che verrà ripresa da Gl 3,1-2 nella visione messianica degli ultimi tempi, allorché lo Spirito sarebbe stato ampiamente effuso su tutti: “[...] io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito”. Profezia che si attua in Gesù, sul quale è sceso lo Spirito Santo e che battezzerà nello Spirito ogni credente (Mc 1,8.10), che è chiamato a vivere secondo le logiche dello Spirito, in quanto costituito figlio di Dio nello Spirito (Rm 8,14).

Questa prima parte dell'insegnamento di Gesù ai Dodici (vv.33-41) si conclude significativamente con il tema della carità operata in nome di Gesù. Il v.41, infatti, con quel suo “g¦r” (gàr, infatti) esplicativo, si aggancia alla sentenza finale del v.40 e in qualche modo le imprime una sorta di approfondimento e di generalizzazione: non solo, quindi, è per noi chi non è contro di noi, ma anche chi compie il semplice gesto di offrire un bicchiere d'acqua a chi appartiene a Cristo, questo suo gesto di carità, cioè questo gesto di amore divino che passa attraverso chiunque lo compia nel nome di Gesù, avrà la sua ricompensa divina.

Proprio per la natura di tale atto di carità dai connotati umano-divini, il v.41 assume qui un tono di solennità con quel “in verità vi dico” e, quindi, possiede in se stesso una promessa, che porta impresso il sigillo di Dio. Il v.41 esemplifica quale gesto di carità compiuto in nome di Gesù quello di un bicchiere d'acqua offerto ai discepoli, in quanto appartenenti a Gesù. Un gesto, quindi, molto semplice e umano, ma in quanto fatto in nome di Gesù acquista una valenza salvifica rilevante, ma che nel contempo lo supera ampiamente, riferendosi in realtà a tutto ciò che si opera in nome di Gesù, esorcismi e guarigioni comprese. Ma poiché qui si parla di “carità operata in nome di Gesù”, viene indicata ai Dodici anche la via maestra per risolvere tutte le questioni intra ed extracomunitarie.

Da un punto di vista letterario, il v.41 può esser considerato di transizione, perché nel concludere la pericope vv.38-40 e in senso più ampio la sezione vv.33-40, introduce anche una serie di sentenze che riguardano il comportamento intracomunitario dei credenti.

vv.42-49: Continua ora la catechesi finalizzata a creare una nuova mentalità nei Dodici, rendendola più idonea ad accettare i destini di sofferenza e di morte di Gesù, a cui i discepoli sono assimilati per la loro scelta di sequela (8,34).

Dopo aver stabilito che la grandezza a cui si deve aspirare all'interno della comunità è quella del servizio agli altri (vv.33-37); e dopo aver esortato alla tolleranza e all'accoglienza di coloro che, pur non appartenendo al gruppo, tuttavia operano in nome di Gesù (vv.38-40), avendo come fondamento la carità, che è l'amore praticato nel nome di Gesù (v.41), ora Marco completa l'insegnamento del suo Gesù attraverso una raccolta tematica di sentenze che delineano, da un lato, il comportamento intracomunitario, che ogni credente deve tenere nei confronti degli altri (v.42); dall'altro, la determinazione radicale verso se stessi nello stroncare qualsiasi comportamento che impedisca a se stessi e agli altri di raggiungere Gesù nella pienezza di fede (vv.43-48). L'intera pericope si chiude con la sentenza del v.49, che allude alla dura prova che sarà riservata a ciascuno e che porta inclusa in se stessa un giudizio, che discriminerà il credente in base alla risposta che egli avrà saputo dare a tale prova.

Dopo aver fatto appello a gesti di carità, dettati dall'amore di Dio e operati nel nome di Gesù a beneficio di quanti appartengono a Cristo e proprio perché a lui appartengono, con il v.42 Marco mette in guardia “chiunque”. Quindi il monito ha una valenza universale e supera gli stretti limiti della comunità credente; chiunque avrà scandalizzato. Il termine “scandalo” così come il verbo da questo derivante, indica un ostacolo, un'insidia per far cadere qualcuno, ma anche più semplicemente “molestare, infastidire” qualcuno. Il termine ha la sua origine nel termine “skand£lh” (scandále), che indica il legno della trappola alla quale si attacca l'esca. Si tratta, dunque, di un insidia mortale. Oggetto dell'attenzione di Gesù sono i “piccoli”, che non vanno qui intesi come i “bambini”, richiamati ai vv.36-37 o quelli successivamente citati in 10,13-15, tutti comunque sotto la predilezione di Gesù e con lui del Padre. Qui i “piccoli” sono i credenti in Gesù (“credono [in me]”), ma la cui fede è fragile. Sono, quindi, i piccoli nella fede e proprio per questo essi vanno rispettati e circondati di cure e di attenzioni particolari, perché sono i più esposti e, quindi, quelli ai quali Dio tiene in particolar modo.

Un problema questo che doveva esserci nelle comunità credenti se anche 1Cor 8,1-14; 10,24-33 e Rm 14,1-15,1 dedicano loro un'attenzione particolare. La questione affrontata da Paolo riguardava, da un lato, il mangiare le carni di animali sacrificati agli idoli, che non esistendo, ma essendo solo frutto dell'immaginazione dell'uomo (1Cor 8,4), non avrebbero dovuto creare problemi, ma così non era per alcuni; dall'altro, molti, i giudeocristiani, erano legati ancora alla legge mosaica e per questo ancora molto attenti a distinguere i cibi puri da quelli impuri, la quale cosa non costituiva alcun problema per gli etnocristiani. Ma per quelli deboli nella fede tutto questo costituiva un problema, a cui Paolo dedica in più occasioni la sua attenzione: “Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. Uno crede di poter mangiare di tutto, l'altro invece, che è debole, mangia solo legumi. Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi non mangia, non giudichi male chi mangia, perché Dio lo ha accolto. […] Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello. Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è immondo in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come immondo, per lui è immondo. Ora se per il tuo cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Guardati perciò dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto! […] Perciò è bene non mangiare carne, né bere vino, né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi. […] Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l'infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi” (Rm 14,1-3.13-15.21.15,1).

Da qui la radicalità della sentenza del v.42b: “è più che buona cosa per lui se si cingesse attorno al suo collo una macina da mulino e si gettasse nel mare”. L'immagine qui riportata si richiama ad una pratica di esecuzione capitale in uso presso i Romani e che i greci chiamavano katapontismÒj (katapontismós), cioè l'annegamento di un condannato gettato nel mare con una pietra al collo19. Un'esecuzione molto temuta dagli ebrei, perché considerata infamante in quanto che li privava della sepoltura. Di certo, qui, Gesù non intendeva spingere al suicidio, ma usa questa immagine per emettere su questi scandalizzatori di piccoli un giudizio molto duro20.

Con la pericope vv.43-49 si passa dallo scandalo speso a danno degli altri (v.42) a quello rivolto a se stessi, cioè a quella messa in atto di comportamenti e mentalità tali che impediscono di aprirci a Dio e al suo mondo e di vedere le cose dalla sua prospettiva. Vengono qui riportati tre detti sentenziali sostanzialmente identici tra loro, l'unica variante è la diversa parte del corpo che viene stigmatizzata da ognuno di essi: la mano (v.43), il piede (v.45), l'occhio (v.47). Sono queste le tre parti più importanti del corpo nel suo dinamico esprimersi e relazionarsi con la realtà e con gli altri e sono rappresentative dell'intera espressività corporea dell'uomo e, secondo la mentalità giudaica, esse possono incentivare la concupiscenza e spingere l'uomo al male. Da qui la durezza di queste tre sentenze, che vanno lette e comprese in senso metaforico: “tagliala; è buona cosa che tu entri storpio nella vita che, avendo le due mani, andare nella geenna21, nel fuoco inestinguibile”. Ma il messaggio che da queste viene trasmesso al suo lettore è inequivocabile: quello di una necessaria risolutezza e determinazione nei confronti di tutto ciò che può impedirci di approcciarsi al bene o che da questo ci fa deviare.

Questi tre detti sentenziali, tuttavia, vanno letti e ricompresi nel contesto in cui Marco li ha inseriti, quello dell'annuncio della passione, morte e risurrezione (v.31), verso il quale i discepoli sono così recalcitranti e poco disponibili a pensare ad un Messia perseguitato, sofferente e votato alla morte (v.32). Un problema questo che non doveva essere soltanto dei Dodici, ma anche dei credenti, sia essi giudeocristiani che etnocristiani, come rileveremo subito. Di fronte a simili atteggiamenti il credente non deve esitare e deve tagliare corto, respingendo ogni dubbio e incertezza sul Gesù perseguitato, sofferente e ucciso. Tutto ciò è una sconfitta secondo le logiche umane, ma non secondo quelle di Dio, che proprio nel suo Cristo sofferente opera con la sua sapiente potenza salvifica. In tal senso l'attestazione di 1Cor 1, 22-24, che sottolinea proprio questo aspetto della fede: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio”.

Un ruolo determinante in tutto questo gioca la fede, che consente di leggere e comprendere come in eventi disastrosamente falliti per gli uomini operi in realtà la stessa potenza di Dio. Da qui l'invito a non scandalizzarsi per ciò che si percepisce, ma andare oltre sostituendo agli ingannevoli organi del corpo quelli dello spirito, che consentono di percepire realtà e verità altrimenti non percepibili: la fede, che è la nuova sensibilità del credente, che gli consente di cogliere le realtà spirituali.

I vv.48-49 concludono la pericope formata dai tre detti sentenziali (vv.43-47) e sono posti a loro commento. Il v.48 riporta Is 66,24b ed esprime la condanna di coloro che hanno preferito conservare la loro posizione di rifiuto nei confronti del Cristo sofferente, piuttosto che dare un taglio netto e drastico alle loro pretese umane, quelle di voler vedere e toccare con mano quelle realtà che sono impercettibili ai sensi, ma che si rivelano solo alla nuova sensibilità del credente, quella della fede, l'unica capace di mettere il credente in comunicazione e comunione con Dio. L'espressione “dove il loro verme non muore, e il fuoco non si spegne”, ripetuta anche ai vv.44.46, dopo ogni sentenza, ma non riportata nelle edizioni critiche, fa riferimento con quel “dove” alla Geenna ed esprime un tormento senza fine. Espressione questa che si ritrova molto simile anche in Sir 7,17 e Gdt 16,17.

Con la sentenza del v.49 si chiude questa pesante pericope di minacce e di condanna (vv.42-48): “Ognuno infatti sarà salato con il fuoco”. In altri termini “Ognuno sarà duramente provato nella propria fede”. Quel verbo posto al futuro “sarà salato” fa riferimento alla prova del Getsemani e del Golgota, dove tutti i discepoli abbandonarono Gesù (14,50), evento che Marco richiamerà mettendo sulle labbra di Gesù le parole di Zc 13,7: “Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse” (14,27). Anche qui torna il tema dello scandalo del Messia perseguitato, sofferente e ucciso. Non è un caso se il verbo scandalizzare compare sette volte nel vangelo di Marco, e tutte, se si esclude 6,3, si concentrano nella pericope 9,42-47 e in 14,27.29, cioè sempre in un contesto di passione e morte di Gesù, dove queste costituiscono per il credente uno scandalo, cioè una prova che va affrontata e superata con la sola fede. Questa è la salatura con il fuoco, di cui Marco sta parlando qui al v.49. Un detto che in qualche modo assomiglia anche al nostro modo di dire: essere sottoposto alla prova del fuoco, riferendosi ad una o più situazioni particolarmente difficili, in cui si è chiamati a dimostrare le proprie abilità.

Il v.50 chiude chiude il cap.9 e con questo la seconda parte dell'insegnamento di Gesù ai suoi (vv.30-48)22, in preparazione alla loro salatura del fuoco, cioè al loro essere sottoposti alla prova del Golgota. Un insegnamento che comunque continuerà in vario modo a riecheggiare in tutto il cap.10.

Il termine “salato” del v.49 funge da parola aggancio per il v.50, che ammonisce i discepoli a non perdere la ricchezza spirituale che stanno acquisendo e che servirà loro al momento della salatura per conservarsi nella comunione senza alcuna dispersione. Il sale nella Bibbia assume significati controversi, ma tutti hanno una radice comune, quella di sterilizzare, di purificare, di risanare, arrestando ogni forma di decomposizione23. Ebbene questo sale, che è l'insegnamento di Gesù, la sua Parola, che qui sta somministrando ai suoi, deve preservare al momento della salatura con il fuoco da ogni dissoluzione, fungendo da polo catalizzatore per ogni credente: “In voi stessi avete sale e state in pace gli uni gli altri”.


Note

1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima (1,2-8,30) riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio; la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme, dove si compiranno i Misteri della passione, morte e risurrezione. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10 dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

2Cfr. Anche Es 34,29-30

3Cfr. la voce “Numero” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista ed integrata 2005 – Cfr. anche la voce “Sette” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo,1990

4Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo,1990

5Cfr. il termine “Bianco” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo,1990

6Cfr. Es 33,19a; 1Cr 16,27; 29,11; Sal 4,2; 75,5; 92,1; 95,6; 103,1; Is 2,10

7Cfr. Mc 1,25.34.44; 3,12; 5,43; 7,36; 8,26;

8 Cfr. 16,8; Mt 28,17; Lc 24,9-11.36-37

9 Cfr il mio commento a Gv 20,1-10, pagg.5-10: https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Cap.%2020.pdf

10Anche Lc 9,8.19 cita due volte Elia in riferimento a Gesù, ma va detto che Luca dipende da Marco.

11Cfr. At 1,11; Ef 1,10; Col 1,16-17; 1Cor 15,23-28

12La traduzione di Ml 3,22-23 è mia ed è stata fatta sulla LXX, a cui Marco fa riferimento con questo passo.

13Il nome Elia significa “Dio è Dio”, lasciando intravvedere non soltanto l'unicità di Dio e la sua Signoria, ma anche la sua onnipotenza, che lo pone vincente sopra ogni altra divinità.

14Gli altri tre racconti sono: la liberazione dell'uomo posseduto nella sinagoga di Cafarnao (1,21-28); la liberazione dell'indemoniato di Gerasa (5,1-20) e la guarigione a distanza della figlia della donna sirofenicia (7,24-30). A questi quattro racconti di esorcismi si aggiungono sommari di guarigioni di ammalati e di indemoniati ed accenni all'attività esorcistica di Gesù e dei suoi discepoli (1,32.34.39; 3,15.22; 6,7.13). Con questa particolare attenzione all'attività esorcistica Marco mette in rilievo come l'avvento di Gesù comporta la fine del potere di satana sull'uomo e l'istituzione del Regno di Dio, cioè la ricostituzione del potere di Dio in mezzo agli uomini. In Gesù, dunque, Dio è venuto a riprendersi ciò che gli apparteneva fin dai primordi della creazione e dell'umanità. Una simile visione ci viene offerta da 1Cor 15,23-28.

15Cfr. At 4,1-3; 5,17-187,55-60; 8,1; 11,19a; 12,1; 13,50

16Cfr. Mt 12,27; Mc 9,38; Lc 9,49; 11,19; At 19,13-16

17Questo versetto, ripetuto anche al v.46, è di traduzione molto incerta ed è assente nelle edizioni critiche. Cfr. nota in Nestle-Aland, Novum Testamentum, graece et latine, 27^ edizione 1993; e in La Bibbia TOB, nuova traduzione CEI, editrice ELLEDICI, Leumann, 2010.

18Cfr. Is 66,24b

19Cfr. G. Ravasi, Le pietre d'inciampo del Vangelo, edizioni Mondadori, 2015

20Cfr. A. Poppi, I quattro vangeli, commento sinottico, ed. Messaggero di S.Antonio – Editrice, Padova 1997 – pag.316

21La Geenna, dall’ebraico “ghe-Hinnom” (valle del fiume Innom), è una sorta di precipizio posto a sud-ovest di Gerusalemme. In questa valle anticamente, sotto i re Acaz (735-716 a.C.) e Manasse (687-642 a.C.), si erano eretti dei templi al dio Moloch, al quale venivano sacrificati dei bambini, secondo riti pagani cananei, a cui partecipavano anche gli ebrei (2Cr 28,1-3; 33,1-6; Ger 7,31-32; 32,35). Il re Giosia (640-609 a.C.), nel riformare e nel ristabilire il vero culto a Jhwh, fece abbattere questi templi e ridusse la valle ad un deposito di immondizie e di cadaveri, che non potevano avere sepoltura e dove il tutto veniva bruciato. Il fuoco qui dunque era perenne. Da qui, per similitudine, la Geenna divenne la rappresentazione del luogo di ogni impurità sottoposto ad un fuoco eterno, cioè l’Inferno. Questo concetto è stato ripreso nel N.T. in cui il termine Geenna ricorre 12 volte, di cui sette solo in Matteo, e indica il luogo della perdizione eterna e del giudizio divino.

22La prima parte dell'insegnamento (8,31-38) ha avuto inizio con il primo annuncio della passione (8,31), che si apriva significativamente con “E incominciò ad insegnare a loro”. Insegnamento che è poi proseguito qui in 9,31-50, con il secondo annuncio della passione (9,31), dove si dice: “insegnava, infatti, ai suoi discepoli e diceva loro”. I due verbi all'imperfetto danno continuità all'insegnamento iniziatosi in 8,31.

23Cfr. per il senso negativo del sale: Gen 19,26; Dt 29,22; Gdc 9,45; Sof 2,9. Per il senso positivo: Lv 2,13; 2Re 2,21; Sir 39,26; Bar 6,27; Ez 16,4; 43,24; 47,11; Esd 6,9; Gb 6,6;