IL VANGELO SECONDO MARCO

Il discorso escatologico1

Cap. 13, 1- 37



Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi





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Note generali


Il racconto della purificazione del Tempio (11,15-17), metafora della missione di Gesù, venuto per rovesciare il culto giudaico e rifondarlo, non più legato ai sacrifici, ma al cuore e alla vita (Gv 4,20-24), viene fatto seguire dal racconto della maledizione del fico sterile, così ricco di foglie, ma totalmente privo di frutti. Anche questo metafora dello sfarzoso culto giudaico, che contrastava con un modo di vivere tutto improntato ad una mera esecuzione legalistica della Torah, ma che non dava spazi a Dio nella propria vita e ben lontano dalla conversione del cuore, tanto da meritare le rimostranze di Gesù, che, richiamandosi a Is 29,13, lamenta: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Mc 7,6b-7); e così la parabola dei vignaioli omicidi, che si conclude con la loro condanna e i loro sterminio (12,1-9). Tutti racconti che costituiscono nel loro insieme il prologo al cap.13, che si apre significativamente con un Gesù che lascia definitivamente il Tempio (v.1a), preannunciandone una irreparabile e definitiva distruzione (vv.1a.2), sancendo con questa la fine dell'ormai asfittico culto giudaico. In altri termini la fine del giudaismo, da cui Gesù è uscito, prospettando un nuovo culto, radicato nel cuore e nella vita. Per questo egli è stato ucciso, perché incompatibile con il culto giudaico e il modo di rapportarsi a Dio.

Un capitolo, quindi, il 13, che non giunge inatteso, e la cui posizione all'interno del racconto marciano, al termine dell'attività missionaria di Gesù e a ridosso del racconto della sua passione e morte, è alquanto significativa, quasi a dire che con questo ampio discorso escatologico non solo si è giunti al termine della vita terrena di Gesù, ma come i suoi discepoli, l'intera umanità e con lei l'intero cosmo, simboleggiato negli astri del cielo, sono stati tutti in qualche modo associati alla sua passione e morte, richiamando da vicino l'attestazione del Gesù giovanneo: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32), dove il verbo “sarò elevato” (Øywqî, ipsotzô) acquista il doppio senso di essere elevato sulla croce, ma anche essere elevato dalla tomba, alludendo alla sua risurrezione.

Il cap.13 è formato da un unico lunghissimo discorso di Gesù, che dura senza interruzioni ben 33 versetti, il secondo dopo quello del cap.4, dove Gesù inaugura una nuova strategia della sua missione: non più discorsi aperti e diretti, che creano dure reazioni da parte delle autorità religiose e incomprensioni da parte della gente, ma attraverso il linguaggio criptato delle parabole, che, a parte poi, spiegava ai suoi (4,33-34).

Un capitolo, questo, composito, costruito artificialmente dallo stesso autore, con un continuo assemblaggio di piccole unità narrative disposte, in parte, a parallelismi concentrici o evidenziate da inclusioni. Si tratta di detti di Gesù o a lui attribuiti, rivisitati e ricompresi in senso escatologico; o di composizioni dello stesso Marco, mutuate dal contesto storico, in cui si trovava mentre stava scrivendo il suo vangelo, tra il 65 e il 69 d.C. Un periodo, questo, molto difficile, come vedremo, gravemente segnato dalla guerra giudaica (66-73 d.C.), da persecuzioni, dalla presenza di falsi profeti e da divisioni intrafamiliari. È comprensibile, quindi, che assemblare assieme tutto questo materiale così eterogeneo, coordinandolo per mettere in rilievo il messaggio in esso contenuto, cercando di rispondere agli interrogativi delle comunità credenti, in particolare quella di Roma, a cui il vangelo era indirizzato, non sia stato un'impresa facile. E lo denuncia la struttura stesa del discorso, molto complessa ed elaborata, sulla quale è stato distribuito il materiale e che, proprio per la sua complessità, ancor oggi, non trova ancora concordi tra loro gli esegeti.

Pertanto, di seguito, propongo una mia lettura della struttura, cercando di decifrare i segnali che Marco vi ha disseminati, suddividendola in cinque parti:

  1. vv.1-4: pericope introduttiva al discorso escatologico, che si apre con l'annuncio della distruzione del Tempio, da cui trae avvio l'intero discorso;

  2. vv.5-23: questa sezione contiene il racconto degli eventi storici, che hanno particolarmente segnato il periodo in cui Marco ha scritto il suo vangelo, ed è circoscritta da un'inclusione data dal verbo “Blšpete” (Blépete, badate, fate attenzione), posto in apertura (v.5) e in chiusura (v.23) della sezione stessa. All'interno di questa sezione il materiale è disposto in parallelismi concentrici in modo tale che l'annuncio delle persecuzioni risulti centralmente. Per cui si avrà che ad A), che comprende i vv.5-6, corrisponda A1), formato dai vv.21-23; a B), che comprende i vv.7-8, corrisponda B1), costituito dai vv.14-20; centralmente viene posta la lettera C) formata dai vv.9-13, a loro volta suddivisi in due parti: le persecuzioni riguardanti la comunità credente (vv.9-11) e i dissidi e le divisioni intrafamiliari in cui viene a trovarsi il credente (vv.12-13). Avremo modo di approfondire questa complessa suddivisione nell'apposito commento ai vv.5-23.

  3. vv.24-27: all'interno della suddivisione del capitolo, questa pericope si pone centralmente e, quindi, secondo le logiche della retorica ebraica, essa è la più rilevante e attorno alla quale gira l'intero discorso escatologico: la Parusia, preceduta da eventi catastrofici della volta celeste, segnando in tal modo la fine del tempo e, con questa, della storia.

  4. vv.28-32: la pericope contiene la risposta alla questione posta dai discepoli al v.4: “qual è il segno che li preannuncia” (vv.28-31) e “quando questi eventi accadranno” (v.32). Le risposte sono poste in forma chiasmica rispetto alle domande, dove prima avveniva la richiesta del “quando” e poi quella del “segno”. Un'inversione che dice come sia più importante il saper leggere i segni dei tempi e, quindi, il senso degli avvenimenti che preannunciano, più che vedersi platealmente spiattellato il “quando”.

  5. vv.33-37: Da qui la pressante esortazione alla vigilanza, il cui sollecito viene ripetuto quattro volte, rafforzato dall'iniziale “State attenti” (v.33a), che l'accompagna. Quanto al v.33, questo è, a mio avviso, da considerarsi di transizione, perché nel chiudere la pericope vv.28-32, introduce il tema della vigilanza.

Per poter comprendere il senso di questo complesso discorso escatologico è necessario rifarsi a due elementi fondamentali: il contesto storico entro il quale è stato scritto e le attese da parte delle comunità credenti dell'imminente ritorno glorioso di Gesù e l'instaurazione del Regno di Dio. Attese che le hanno profondamente animate durante tutto il primo secolo e gli inizi del secondo2.

Un discorso, quindi, rivolto esclusivamente alle comunità credenti, in primis quella di Roma, alle quali Marco deve fornire una risposta circa il drammatico contesto storico-sociale in cui esse vivono; nonché, all'interno di questi sconquassi storici, alle loro attese circa la parusia del Signore. Si tratta, quindi, di una risposta ai problemi contingenti in cui si dibattono i credenti. Non a caso il discorso inizia con una duplice domanda, sul quando e sul segno. E che sia un discorso dai toni escatologici lo si arguisce non soltanto dagli eventi che qui vengono narrati, caratteristici dell'escatologia, ma soprattutto dall'accenno della distruzione del Tempio, che secondo le credenze giudaiche avrebbe segnato l'inizio della fine della storia e aperto lo spazio all'avvento del regno di Dio.

Quando Marco scrive il suo vangelo per la comunità di Roma, tra il 65 e il 69 d.C., era scoppiata la la sanguinosissima guerra giudaica, che ha impegnato Roma per sette anni, dal 66 al 73 d.C. e che vide nel 70 la conquista di Gerusalemme e la distruzione del Tempio, sconquassando l'intera Palestina e le regioni limitrofe, provocando, secondo Giuseppe Flavio, novantasettemila prigionieri e un milione e centomila morti3. Una vera e propria catastrofe umanitaria se si considera la popolazione di quel tempo. Ed è probabilmente a questa situazione di guerra che fanno riferimento i vv.7-8.14-20. Durante questo periodo, secondo quanto racconta Eusebio da Cesarea, i cristiani fuggirono a Pella, città della Decapoli4. Ed è forse a questo che si riferisce l'esortazione a fuggire dei vv.14-16, preceduta da quel intercalare “colui che legge capisca”. Una sorta di richiamo in codice per i diretti interessati, cioè i cristiani o più semplicemente per richiamare l'attenzione sul v.14a, circa “l'abominazione della devastazione che sta dove non deve”. Il riferimento è a Dn 9,27, che va, però, ricompreso in questo contesto. Un richiamo, quindi, al buon senso e alla perspicacia dei credenti, nel saper comprendere l'allusione a Dn 9,27.

Una situazione, quella dei primi credenti, molto difficile, perché soggetti a persecuzioni. E qui il pensiero corre a quella di Nerone, anche questa scoppiata a Roma nel luglio del 64 d.C. e durata poco più di un anno, epoca questa in cui Marco si stava accingendo a scrivere il suo vangelo. Ma non vanno escluse quelle perpetrate dalle autorità giudaiche contro i cristiani5, che culminarono con la morte di Stefano (At 7,57-60) e di Giacomo, il fratello di Giovanni (At 12,1-3). A queste fanno riferimento i vv.9-11; mentre i vv.12-13 si riferiscono alle difficili situazioni in cui venivano a trovarsi i primi credenti all'interno della cerchia familiare, degli amici e conoscenti ancora pagani e avversi a questa nuova religione, che scompaginava la fede dei loro padri e il loro modo di vivere e di pensare. A queste alluderà Lc 12,51-53, parlando dello sconquasso che la venuta di Gesù ha portato: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera”.

In questo clima di forti tensioni, di guerre, persecuzioni e sconvolgimenti sociali, non di rado apparivano sulla scena personaggi che si autoproclamavano re messianici, o messia o profeti, creando attorno a se stessi movimenti di persone pronte a seguirli in avventure che in genere si concludevano in un bagno di sangue. Si pensi, in Perea, ad un certo Simone, uno schiavo del re, che forte della sua avvenenza e del suo ascendente, si pose a capo a dei rivoltosi e, cintosi di un diadema regale, si proclamò re e incendiò la reggia di Gerico6. Anche un pastore, un certo Antrongeo, emulò le gesta di Simone7, proclamandosi re e portando distruzioni e saccheggi per la Palestina. Questa insistente autoproclamazione regale da parte dei rivoltosi, la quale cosa accadrà anche per la guerra del 132-135 d.C. con Bar Kochbah, proclamato messia da rabbi Aqibah, dà un'idea di questo clima di attesa di un imminente avvento messianico-regale e quanto questa idea fosse radicata e persistente in mezzo al popolo, sempre pronto a seguire il nuovo messia o il nuovo re di turno, nonostante i massacri che puntualmente ne seguivano8. Si pensi in tal senso alla rivolta di un certo Teuda, sedicente profeta, che ai tempi del procuratore romano della Giudea, Fado, convinse molti Giudei a prendere i propri beni e a seguirlo fino al Giordano, che, a un suo comando, si sarebbe aperto al loro passaggio9. Teuda, tuttavia, non fu l'unico personaggio che si dichiarò profeta, ma altri lo seguirono proclamandosi, di volta in volta, o messia o re o profeta, in particolar modo sotto il governo di Felice (52-60 d.C.), procuratore della Giudea. Qui, un tale, conosciuto con il nome de “L'Egiziano”, raccolse attorno a sé un foltissimo gruppo di seguaci, li condusse sul monte degli Ulivi e da lì egli, a un suo comando, avrebbe fatto cadere le mura di Gerusalemme. Ma anche questo assurdo tentativo di autoproclamazione regale, messianica o profetica finì, come tutti gli altri, in un massacro: quattrocento morti e duecento dispersi10. Questo clima di attesa messianica, la pronta creduloneria del popolo e la sua facile predisposizione alla rivolta fanno capire anche le preoccupazioni del sommo sacerdote Caifa, ricordate da Gv 11,47-50: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: “<<Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione>>. Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: <<Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera>>”; parole a cui l'evangelista attribuirà un valore profetico (Gv 11,51-52).

A questo clima sociale turbolento non mancavano all'interno delle stesse comunità credenti gente che sobillava il quieto vivere di queste comunità, disseminando false dottrine e creando discordie e scompiglio al loro interno. Testimonianze in tal senso ci provengono da Giovanni11 e dallo stesso Paolo12. Tutti eventi questi che vengono richiamati da Marco ai vv.5-6.21-23

Quanto ai vv.26-27, questi danno concretezza alle attese della chiesa primitiva del I sec. e inizi del II sec.13 e da qui il sollecito a vigilare e a vegliare nell'attesa della venuta del Signore (vv.33-37), il cui tempo è sconosciuto (v.32), come racconta la parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13); venuta che viene invocata alla fine dell'Apocalisse, composta intorno all'anno 96 d.C., l'ultimo libro della Rivelazione, che si chiude significativamente presentando il quadro di una chiesa tutta protesa verso il ritorno del Signore, sentito come imminente: “Colui che attesta queste cose dice: <<Sì, verrò presto!>>. Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen!” (Ap 22,20).

Il lungo discorso, dove solo Gesù parla (vv.5-37), si esprime attraverso un linguaggio che è proprio dell'apocalittica e si muove su di uno sfondo escatologico: guerre, distruzioni, sollevamento dei popoli, pestilenze, carestie, terremoti, persecuzioni, segni e sconvolgimenti negli astri e terrore nell'umanità; ma nel contempo un'esortazione agli eletti a vegliare, a resistere e a perseverare in mezzo a queste avversità, che sono lette come lo scatenarsi finale delle forze del male, che non prevarranno e sono preparatorie al ritorno glorioso del Risorto, che distruggerà i suoi nemici glorificando invece chi gli è stato fedele. Una visione escatologica ed una comprensione simili che proporrà 1Cor 15,24-27a: “come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi.

L'apocalittica è un fenomeno letterario e ancor prima culturale, che si sviluppa in particolari contesti storici e sociali difficili per i credenti ed è finalizzata a rincuorarli e a sostenerli nelle prove, prospettando loro un imminente ritorno del Signore che schiaccerà i suoi nemici, rendendo giustizia ai fedeli oppressi e perseguitati, ai quali viene riservata la pienezza di vita ed ogni consolazione.

Storicamente l'apocalittica nasce intorno al V-IV sec. a.C. sul finire del profetismo e si estende fino al II sec. d.C. e si presenta come un'accentuazione del linguaggio dei profeti, sconfinando in quello sapienziale e sentenziale. Ma mentre i profeti leggevano il male del presente come causa di castighi e motivo di conversione, agendo sul popolo e su ogni singolo membro dell'Alleanza, prospettando loro un futuro in dipendenza diretta dalla loro conversione, l'apocalittica legge il male del presente come una forza invincibile a cui si deve resistere mantenendosi fedeli, vigilando per non essere travolti, e attendendo la salvezza in uno straordinario intervento divino che ristabilisca la giustizia. Per cui si tende a leggere la storia del proprio presente in termini teologici, che vengono compresi in un contesto escatologico, quale preludio al ritorno del Signore14. Un tema vibrante quest'ultimo che riecheggia nelle letteratura canonica e deuterocanonica neotestamentaria, a testimonianza dello stato d'animo delle prime comunità credenti della seconda metà del I secolo15.

Commento ai vv.1-37


Preambolo introduttivo (vv.1-4)

Testo

1- E uscendo egli dal tempio, gli dice uno dei suoi discepoli: <<Maestro, guarda che pietre e che edifici!>>.
2- E Gesù gli disse: <<Vedi questi grandi edifici? Certamente non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia distrutta>>.
3- E sedutosi egli sul monte degli Ulivi, di fronte al tempio, lo interrogava, in disparte, Pietro e Giacomo e Giovanni e Andrea:
4- <<Di' a noi, quando ci saranno queste cose e quale il segno allorché tutte queste cose staranno per accadere?>>.


Note generali

Una pericope certamente rimaneggiata da Marco, che deve aver fatto un collage tra i primi due versetti e i secondi due. Lo si rileva dalla diversa contestualizzazione: a) i primi due versetti collocano la scena mentre Gesù sta uscendo dal Tempio; i secondi due seduto sul monte degli Ulivi; b) nella prima parte vi è un anonimo discepolo che interpella Gesù; nella seconda parte compaiono quattro discepoli nominati; c) la prima parte rileva la centralità del Tempio; la seconda parte indirizza l'attenzione del lettore sugli eventi che seguiranno alla distruzione del Tempio.

Lo stesso numero dei discepoli elencati nella seconda parte lascia perplessi, poiché nei momenti più intimi, che si muovono su di uno sfondo rivelativo, come viene qui rilevato dall'espressione “in disparte” (v.3), compare sempre e soltanto la triade Pietro, Giacomo e Giovanni, ma mai Andrea: così in occasione della risuscitazione della figlia di Giairo (5,37); la trasfigurazione sul monte (9,2) e nell'orto del Getsemani, quali esclusivi testimoni della profonda sofferenza di Gesù (14,33). La comparsa del nome di Andrea è probabile che sia stata un aggiunta successiva, ma non va escluso che il suo richiamo in scena abbia altre finalità, come vedremo subito.

Commento ai vv.1-4

Il v.1 si apre con Gesù che sta uscendo dal Tempio, dove era entrato per la prima volta in 11,11a, provenendo da Gerico; e l'ultima volta vi era entrato in 11,27, caratterizzata questa dalle cinque diatribe gerosolimitane, che segnano il livello di tensione tra Gesù e le autorità giudaiche, preludio alla sua passione e morte. E qui nel tempio vi rimarrà per tutto il cap.12. Ora, Gesù esce dal Tempio e questo suo uscire dice l'abbandono del Tempio, cuore del culto giudaico, e con esso del giudaismo. Un movimento di uscita, dunque, dal culto giudaico, che aveva inutilmente cercato di riformare con il gesto profetico e metaforico della cacciata dei venditori (11,15-17); un'uscita che già in qualche modo era stata preannunciata in 1,29, dove Gesù uscì dalla sinagoga per entrare nella casa di Simone e Andrea, metafora della comunità credente, dove si trova Pietro.

Ed è a questo punto che “uno dei suoi discepoli”, volgendosi verso il Tempio, ne declama la magnificenza. Significativo l'anonimato di questo discepolo, forse figura di quel giudaismo che, convertitosi al cristianesimo, guardava ancora con nostalgia a quel culto e a quella Torah di cui è ancora pregno, e non poteva essere diversamente. La conversione, infatti, non è un semplice cambio d'abito, ma implica una metamorfosi interiore, psicologica, spirituale e culturale, molto profonda, non sempre facile e scontata. Molta di quella ritualità, dettata dalla Legge mosaica, che scandiva la vita quotidiana del pio ebreo, era ancora presente nel giudeocristiano. La Lettera agli Ebrei probabilmente ha questo senso, una rivisitazione del culto giudaico in chiave cristologica, che doveva aiutare a capire il senso del giudaismo in prospettiva cristiana a quei cristiani, forse sacerdoti dell'antico culto, provenienti dal giudaismo, in un'epoca in cui Gerusalemme era già stata distrutta assieme al suo Tempio, che ha devastato l'animo dei giudei e distrutto l'intera classe sacerdotale, che non si riprenderà più, ma verrà sostituito a Jamnia, a partire dal 70 d.C., da un nuovo movimento, quello del rabbinismo, che promuoverà il culto della Torah, come il nuovo culto spirituale gradito a Dio, sostitutivo dei sacrifici, ormai non più praticabili.

Ed è, infatti, in questo contesto che Gesù predirà la distruzione del Tempio: “Vedi questi grandi edifici? Certamente non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia distrutta”. Un detto probabilmente attribuibile a Gesù, poiché riportato da tutti quattro gli evangelisti16, benché in Gv 2,19-21 la distruzione del Tempio, attribuita ai giudei, si riferisca al corpo di Gesù, morto e risorto. Si tratta, a mio avviso, sempre dello stesso detto, ma che ha subito una profonda rivisitazione dalla riflessione giovannea, in cui il Tempio giudaico viene in qualche modo ricompreso come il corpo di Gesù17, il nuovo Tempio di Dio, che Giovanni vede collocato nella nuova Gerusalemme celeste: “Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio” (Ap 21,22). Non è un caso, infatti, che il detto del Gesù giovanneo venga pronunciato strettamente legato alla cacciata dei venditori dal Tempio (Gv 2,14-17 ), preannunciando in questo gesto profetico un nuovo culto (Gv 4,20-24), rinnovato in un nuovo Tempio (Gv 2,19-21). Un'eco di questo detto viene fatto risuonare come accusa davanti al sommo sacerdote in Mt 26,61 e Mc 14,58.

La seconda parte della pericope in esame, vv.3-4, colloca il lettore in un diverso contesto topografico. Il Tempio con la predizione della sua distruzione, viene lasciato alle spalle e Gesù con i suoi si ritrova, ora, sul monte degli Ulivi. Il cambio di scena, legato al monte degli Ulivi, non è casuale ed acquista un particolare significato, fornendo la chiave di lettura al lungo discorso di Gesù.

Gesù viene presentato “seduto” su questo monte, nel caratteristico atteggiamento del maestro in mezzo ai suoi discepoli, i quali già si erano rivolti a lui con l'epiteto di “Maestro” (v.1), perché ciò che qui sta per iniziare è, più che una predizione degli eventi futuri, un insegnamento, una parenesi, dove i verbi all'imperativo esortativo sono ovunque disseminati lungo tutto il discorso, che si concluderà con l'esortazione finale a vegliare, quale meta finale dell'intero discorso e risposta conclusiva alla domanda del “quando ci saranno queste cose”.

Per comprendere il senso del “monte degli Ulivi”, quale sito dove Gesù pronuncerà il suo discorso escatologico, è necessario ricorrere a 2Sam 15, 30, dove Davide, per sfuggire al figlio Assalonne che cercava di ucciderlo per prenderne il potere, “[..] saliva l'erta degli Ulivi; saliva piangendo e camminava con il capo coperto e a piedi scalzi; tutta la gente che era con lui aveva il capo coperto e, salendo, piangeva”. Un'immagine che richiama da vicino quella della passione di Gesù, tradito da Giuda e che sale sofferente il Golgota. Un'immagine, quella di Davide, facilmente associabile a Gesù, invocato qualche giorno prima a Gerico come “Figlio di Davide” e proclamato quale “benedetto regno che viene, del nostro padre Davide”, richiamandosi alla profezia di Natan, che aveva promesso a Davide una discendenza, che avrebbe reso stabile il suo casato (2Sam 7, 12-16). Una profezia che la chiesa, nella sua ricomprensione delle Scritture in senso cristologico, aveva riferita a Gesù, di regalità e discendenza davidiche. Un'immagine e un parallelismo questo che non potevano sfuggire allo scriba Marco per il suo Gesù, ormai giunto a ridosso della sua passione e morte.

Tuttavia il “monte degli Ulivi” assume un secondo significato, quello del giudizio divino che sta per compiersi su Gerusalemme, in qualche modo preannunciato da Zc 14, 4: “In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente, e il monte degli Ulivi si fenderà in due, da oriente a occidente, formando una valle molto profonda; una metà del monte si ritirerà verso settentrione e l'altra verso mezzogiorno”. Il versetto qui sopra riportato, che preannuncia grandi sconvolgimenti per Gerusalemme per il giudizio finale, che Dio ha posto sulla città, fa seguito a 14,1-2 dove si parla del giorno del Signore, che segnerà la distruzione di Gerusalemme, quale giudizio divino: “Ecco, viene un giorno per il Signore; allora le tue spoglie saranno spartite in mezzo a te. Il Signore radunerà tutte le genti contro Gerusalemme per la battaglia; la città sarà presa, le case saccheggiate, le donne violate, una metà della cittadinanza partirà per l'esilio, ma il resto del popolo non sarà strappato dalla città”.

Questa accoppiata di 2Sam 15,30 e Zc 14,1-2.4, legata al monte degli Ulivi evidenzia come la passione e morte di Gesù ricadrà su Gerusalemme come un giudizio divino; e in tal senso verrà letta dalla chiesa primitiva la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio durante la guerra giudaica (66-73 d.C.). Posta in un simile contesto, la posizione di Gesù “seduto sul monte degli Ulivi di fronte al Tempio” assume altresì la coloritura del giudice che sta di fronte all'imputato.

Compaiono qui, nella seconda parte del v.3, inaspettatamente, i quattro discepoli, che furono i protagonisti della prima chiamata di Gesù (1,16-20), dove Gesù disse loro: “Orsù, dietro di me, e farò che voi siate fatti pescatori di uomini”. Qui, ora, si è giunti al termine della missione di Gesù e del loro lungo cammino di formazione, dove i quattro ora sono diventati pescatori di uomini, pronti a proseguire sulla strada iniziata da Gesù, protraendo lungo i secoli la sua missione terrena. La loro ricomparsa qui, per la prima volta da allora, prelude alla loro imminente vicarialità. È significativo infatti come siano loro e non più Gesù a ritrovarsi con lui “in disparte” e a ricevere l'ultima testimonianza sui tempi futuri che attendono la chiesa, poiché saranno loro, le nuove guide delle comunità credenti, quelli che sono considerate le colonne della chiesa madre di Gerusalemme (Gal 2,9).

Il v.4 imposta la questione dell'intero discorso escatologico: “Di' a noi, quando ci saranno queste cose e quale il segno allorché tutte queste cose staranno per accadere?”. Due, dunque, le domande: quando accadranno queste cose e quale il segno che esse stanno per accadere. Vedremo come Gesù punterà più che sul “quando”, racchiuso nella mente del Padre (v.32), sul “segno”, per spingere la chiesa nascente e quella futura, da un lato, a imparare a leggere i segni dei tempi (vv.28-31), poiché Dio attraverso questi, attraverso il linguaggio degli uomini, parla loro; dall'altro a vegliare e a vigilare, per non perdersi nel vortice di un presente, che può assorbire a tal punto da impedire di alzare gli occhi oltre questa effimera barriera temporale.


Gli eventi ultimi della storia (vv.5-23)

Testo a lettura facilitata

I falsi profeti e i falsi cristi (vv.5-6.21-22)

A)

5- Or dunque Gesù incominciò a dire loro: <<Badate affinché nessuno vi inganni.
6- Molti verranno nel mio nome dicendo che sono io, e inganneranno molti.

A1)

21- E allorché in quel tempo qualcuno vi dicesse: <<Vedi qui il Cristo; vedi là>>, non credete(gli).
22- Sorgeranno, infatti, dei falsi cristi e dei falsi profeti e daranno dei segni e dei prodigi per trarre in errore, se fosse possibile, gli eletti.


Le guerre (vv.7-8) e i loro devastanti effetti (14-20)

B)

7- Quando sentirete guerre e notizie di guerre, non turbatevi; deve accadere, ma non sarà ancora la fine.
8- Insorgerà, infatti, un popolo contro un popolo e un regno contro un regno; ci saranno terremoti in regioni, ci saranno carestie. Queste cose (saranno l') inizio (delle) doglie del parto.

B1)

14- Ma allorché vedrete l'abominazione della devastazione, cose queste che stanno dove non devono - colui che legge capisca – allora quelli (che sono) nella Giudea fuggano ai monti;
15- chi (è) sul terrazzo, non scenda né entri a prendere qualcosa dalla sua casa;
16- e chi (è) nel campo non torni indietro a prendere il suo mantello.
17- Guai alle (donne) incinte e a quelle che allattano in quei giorni.
18- Ma pregate affinché (ciò) non avvenga d'inverno;
19- quei giorni, infatti, saranno di afflizione, quale non ci fu tale dall'inizio della creazione, che Dio creò, fino ad ora e certamente non ci sarà (più).
20- E se il Signore non accorciasse (quei) giorni, nessuna carne sarebbe salvata; ma per gli eletti, che si è scelto, accorciò (quei) giorni.


Le persecuzioni (vv.9-11) e le tensioni intrafamiliari (vv.12-13)

C)

9- Guardate, invece, voi stessi! Vi consegneranno ai sinedri e sarete percossi nelle sinagoghe e sarete posti davanti (ai) governanti e (ai) re a causa mia, a testimonianza per loro.
10- E prima bisogna che sia predicato il vangelo a tutti i popoli.
11- E allorché vi condurranno per consegnar(vi), non pensate prima che cosa direte, ma ciò che vi sarà dato in momento, questo dite; non siete voi, infatti, quelli che parlano, ma lo Spirito Santo.
12- (Il) fratello consegnerà a morte (il) fratello e (il) padre (il) figlio; e insorgeranno i figli contro i genitori e li faranno morire;
13- e sarete disprezzati da tutti per il mio nome. Ma chi ha resistito fino (alla) fine, questi sarà salvato.


Conclusione (v.23)

23- Ora voi fate attenzione, vi ho predetto tutto.


Note generali

Questa ampia sezione descrive gli eventi ultimi della storia, che si muovono su di uno sfondo escatologico e apocalittico. Eventi che accadevano mentre Marco stava scrivendo il suo vangelo tra il 65 e il 69 d.C., come le guerre, in particolare quella giudaica (66-73 d.C.), con il loro strascico inevitabile di sofferenze, dolori e dissolvimento sociale, dove ogni sicurezza è scomparsa e ognuno è affidato soltanto a se stesso (vv.7-8.14-20); il comparire di falsi profeti e falsi cristi, che creavano scompiglio e confusione all'interno delle comunità credenti (vv.5-6.21-23); persecuzioni (vv.9-11) e dissidi familiari per i cristiani (vv.12-13). Eventi che stavano travolgendo la chiesa primitiva ed esigevano delle risposte. Qui Marco offre una lettura di questi eventi in chiave escatologica, cioè presentandoli come prologo all'imminente ritorno glorioso di Gesù (vv.24-27), il quale avrebbe instaurato definitivamente il suo Regno di giustizia, di amore e di pace. Ma per questo era necessario che prima l'intera struttura sociale e con essa la storia e lo stesso cosmo, profondamente segnati dal peccato, venissero distrutti, per dare spazio ad un nuovo ordine sociale e cosmico (Ap 21,1.5). Richiami in tal senso li troviamo in 1Cor 15,22-28. Da qui l'esigenza primaria di vegliare e vigilare (vv.34-37) e i persistenti ammonimenti a stare attenti: “Blšpete” (Blépete, state attenti, badate), verbo che ricorre in questa forma quattro volte all'interno del cap.13 e scandisce i vari passaggi dell'intero discorso (vv.5.9.23.33), che diventa quindi una messa in guardia delle comunità credenti, perché non si lascino travolgere e traviare da questi eventi storici sconvolgenti, ma si mantengano sempre e comunque fedeli.

Questa sezione degli eventi ultimi della storia (vv.5-23) è circoscritta da un'inclusione data dal verbo “Blšpete” (Blépete, badate, fate attenzione), posto in apertura (v.5) e in chiusura (v.23) della sezione stessa. Esso dà il tono all'intera sezione, che si presenta come un ammonimento e un sollecito a fare attenzione a quanto sta accadendo, dove numerosi sono i verbi all'imperativo esortativo.

Le numerose unità narrative che compongono questa ampia sezione sono tra loro concatenate e disposte a parallelismi concentrici, come segue:

A) vv.5-6: comparsa di sedicenti inviati da Dio o tali che si presentano come Gesù ritornato;

B) vv.7-8: annunci di guerre e sconvolgimenti sociali;

C) vv.9-13: persecuzioni e dissidi intrafamiliari per i credenti;

B1) vv.14-20: gli effetti della guerra e come ci si deve comportare;

A1) vv.21-23: venuta di falsi profeti e falsi cristi


Per cui A) e A1) denunciano all'interno delle comunità credenti il sorgere di falsi inviati di Dio, falsi profeti e falsi messia, il cui intento è ingannare le persone più deboli, creare confusione e disgregazione al loro interno, cercando esclusivamente interessi personali; a B) fa da eco B1), agli annunci di guerre si fanno seguire gli effetti di queste guerre; la posizione della lettera C) risulta centrale e annuncia le persecuzioni e i dissidi intrafamiliari per i credenti, e come ci si deve comportare in questi frangenti. La centralità della lettera C), verso la quale tutte le altre convergono, secondo le logiche della retorica ebraica, dice l'importanza della questione che qui viene trattata.

Il commento di questa sezione, pertanto, considerato il continuo richiamarsi delle diverse unità contrassegnate dalle lettere, verrà fatto a blocchi, così come esposto nella sezione del “Testo a lettura facilitata”. Solo in questo modo si eviteranno ripetizioni e si potrà meglio focalizzare la questione che, di volta in volta, Marco presenta.


Commento ai vv. 5-23

I falsi profeti e i falsi cristi (vv.5-6.21-22)

Il grande discorso escatologico si apre con una nota redazionale: “Or dunque Gesù incominciò dire loro”. Un discorso, quindi, che ha qui il suo inizio ed è interessante notare come questo cominci con un'esortazione, che sollecita la comunità credente, posta, suo malgrado, in un contesto difficile di attacchi che le provengono dal suo interno, come i sedicenti profeti e messia; sia dall'esterno come le guerre, le rivolte, e le persecuzioni. In mezzo a questa difficile situazione il Gesù marciano fa appello alla vigilanza, alla quale l'autore dedicherà un'attenzione particolare nell'ultima pericope di questo discorso (vv.34-37): “Badate affinché nessuno vi inganni”, un fare attenzione, che ha come scopo e finalità primaria il non lasciarsi ingannare. Un appello generale, dunque, alla prudenza e al buon senso, all'avvedutezza senza lasciarsi trasportare da facili entusiasmi per il comparire di sedicenti messia o spaventati dalle grandi paure delle persecuzioni e dei stravolgimenti sociali, cercando di guardare sempre oltre, là dove c'è Gesù e il suo insegnamento. Affrontare, dunque, la situazione con i “piedi per terra”. Questa è la chiave comportamentale che deve muovere ogni comunità e ogni suo componente nell'ambito di questa difficile situazione, che tutti sono chiamati ad affrontare e alla quale devono dare le risposte giuste, che servono a tutelare la propria fede e a non deviare mai dal difficile cammino intrapreso, quello dell'essere fedeli a Gesù e al suo insegnamento.

Ed è significativo come la prima messa in guardia non riguardi le guerre o le persecuzioni, ma quei personaggi che emergono dall'interno della stessa comunità o che provengono dall'esterno con le pretese di essere degli inviati di Gesù, di parlare a suo nome o, perfino, si identifichino con Gesù, come fossero loro Gesù stesso ritornato in mezzo ai suoi, provocando divisioni o scissioni all'interno della comunità stessa attraverso l'arte dell'inganno. Una figura, questa dei falsi profeti, che verrà ricordata anche da Ap 13,11: “Vidi poi salire dalla terra un'altra bestia, che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago”.

Molti, dunque, verranno nel nome di Gesù o dichiarandosi tali e molti cadranno nell'inganno (Ap 13,14). Da qui la necessità di vigilare attentamente. Una vigilanza che, tuttavia, presuppone, a priori, la formazione di una retta coscienza e di una capacità critica, che sappia valutare attentamente la situazione, alla quale il credente e, ancor prima, i suoi responsabili, devono saper dare delle risposte certe.

Tempi, dunque, difficili quelli in cui si trovavano i credenti.

A questi vv.5-6 fanno eco i corrispondenti vv.21-22, dove ai falsi inviati nel nome di Gesù o a sedicenti Gesù compaiono anche loro adepti che facilitano l'inganno, indicando in questo o quel personaggio il messia: “Vedi qui il Cristo; vedi là”. Sono, quindi, due categorie di persone indicati come “falsi cristi” e i loro portavoce “falsi profeti”. E qui il linguaggio si fa apocalittico: “daranno dei segni e dei prodigi per trarre in errore, se fosse possibile, gli eletti”. Espressione questa che richiama da vicino Ap 13,11-14, dove una bestia sorta dalla terra, quindi, un essere umano, si fa il portavoce dei un'altra bestia e con il suo potere “Operava grandi prodigi, fino a fare scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini. Per mezzo di questi prodigi, che le era permesso di compiere in presenza della bestia, sedusse gli abitanti della terra dicendo loro di erigere una statua alla bestia che era stata ferita dalla spada ma si era riavuta”. Effetti speciali, dunque, per trarre in inganno possibilmente anche gli eletti, che proprio per questo sono messi in guardia, facendo ricorso alla loro coscienza e alla loro capacità critica, formata sulla Parola di Gesù. Solo così si sconfiggono sia i falsi cristi che i loro profeti.

Questo, dunque, è il primo pericolo: la disgregazione della comunità credente e la perdizione dei suoi membri ad opera di ingannatori.

Le guerre (vv.7-8) ….

Dopo aver compattato la comunità credente al suo interno, sollecitandola nel non lasciarsi sviare dalle false apparizioni di Gesù o dai suoi falsi profeti o altri sedicenti messia, che rischiano di disorientarla e disintegrarla (vv.5-6.21-22), Marco, ora, passa agli eventi esterni alla comunità credente. Il linguaggio è sempre quello caratteristico dell'escatologia e dell'apocalittica, dove ci sono sempre le immancabili guerre e le deflagrazioni tra i popoli, che preannunciano la fine di un sistema sociale, che ha come prima conseguenza la carestia e la fame. Lo sconquasso sociale è accompagnato da quello della terra, stravolta anch'essa dai terremoti. Un linguaggio che punta a evidenziare come ogni sicurezza su cui poggiava l'umanità, la sua organizzazione sociale, da cui traeva la propria vivenza, e la stessa solida terra, sulla quale poggiavano le strutture del suo vivere quotidiano, personale e sociale, vengono all'improvviso a mancare. In altri termini l'intera sicurezza necessaria per il proprio vivere viene meno e la stessa vita dell'uomo è messa in discussione.

Tutto questo sconquasso, in cui la vita dell'uomo è posta sotto assedio senza via di scampo, fa parte di un piano prestabilito: tutto ciò “deve accadere” (v.7b), ma questo, rassicura il Gesù marciano, non è ancora la fine. Quindi tutto ciò costituisce solo il preambolo alla fine. Ma fine di che cosa? Quale sia il senso di tutto questo lo fornisce lo stesso Marco: “Queste cose (saranno l') inizio (delle) doglie del parto”. Quindi in realtà non si tratta della fine, ma di un inizio, sia pur doloroso, com'è nella logica delle cose, di un parto e, quindi, il preannuncio di una nuova vita, che si prospetterà nella successiva pericope, circoscritta dai vv.24-27, che si apre, richiamandosi alle tribolazioni fin lì annunciate: “Ma in quei giorni, dopo quella tribolazione”. “Dopo”, pertanto, e quindi quanto viene prima è in funzione di questo “Dopo”: la nuova vita, il nuovo ordine sociale e cosmico, inaugurato dalla venuta gloriosa e in potenza di Gesù (vv.26-27). Il vecchio mondo, pertanto, viene distrutto per dare spazio al nuovo mondo18.

.. e i loro devastanti effetti (14-20)

Se i vv.7-8 erano rivolti in senso generale alle comunità credenti, la pericope vv.14-20 focalizza l'attenzione del lettore sulle comunità della Palestina e in particolare sulla regione della Giudea (v.14b), là dove si trova Gerusalemme e il suo Tempio, la patria e il cuore del giudaismo. Una pericope che descrive le conseguenze delle guerre annunciate dai vv.7-8.

La pericope è suddivisa in due parti dal v.17, che chiude la prima parte (vv.14-17), dove viene illustrato il parapiglia generale che si sta verificando e che è caratteristico di un assedio che sta per terminare con uno sfondamento della resistenza, con tutte le sue cruenti e drammatiche conseguenze di violenze e di morte, che stanno per rovesciarsi sull'intera popolazione civile. Eventi drammatici che stanno per travolgere la vita stessa fin dalle sue origini e la stanno per sradicare, raffigurata in quelle “donne incinte e in quelle che allattano in quei giorni”, sulle quali viene posto quel iniziale e lugubre “oÙaˆ” (uaì, guai), con cui si apre il v.17 e che, pronunciato nella lingua greca, sembra un guaito di dolore.

La seconda parte della pericope in esame (vv.18-20), invece, descrive il difficile contesto temporale che si sta prospettando ed entro il quale vengono collocati gli eventi tragici descritti dai vv.14-17 e che li va a caricare ulteriormente, rendendoli ancor più tragici.

Marco apre la pericope con un'immagine variamente tratta da Dn 9,26-27; 11,31 e 12,11, passi questi dove compare l'espressione “bdšlugma tÁj ™rhmèsewj” (bdéligma tês eremóseos, abominio della devastazione) e che si completano tra loro, riflettendo questi la situazione a cui Marco fa qui riferimento: l'assedio di Gerusalemme, che sta per concludersi con la sua conquista e la distruzione del Tempio.

Il contesto storico, da dove Marco ha mutuato questa espressione e al quale fa riferimento per la particolare somiglianza con quanto sta succedendo ora a Gerusalemme e al suo Tempio, è quello di Antioco IV Epifane (216-164 a.C.), che nell'intento di creare un regno compatto attorno a sé, volle grecizzarlo non solo nei costumi, ma anche nella cultura e nella religione, violando gravemente gli usi e i costumi dei giudei, così che questi scatenarono una dura lotta contro questo despota, capeggiata dalla famiglia dei Maccabei e raccontata nei due libri omonimi. Antioco IV nel dicembre del 167 a.C. conquistò Gerusalemme e pose sull'altare degli olocausti una piccola ara in onore a Zeus Olimpico, abolendo tutti i sacrifici in onore a Jhwh. Una profanazione gravissima che provocò la reazione dei Maccabei, che sfociò in una guerra che durò dal 167 a.C. al 164 a.C. conclusasi vittoriosamente dai giudei. Il tempio venne riconsacrato e gli usi e costumi dei giudei ristabiliti secondo la Tradizione dei Padri. Nell'occasione venne istituita una festa, che ancor oggi viene celebrata presso gli ebrei, la Chanukkà, cioè dell'Inaugurazione del Tempio, detta anche Chàg Haneròth, festa dei Lumi, che si celebra il 25 di Kislèv, tra novembre e dicembre, e dura otto giorni.

A che cosa, dunque, fa riferimento Marco quando dice “allorché vedrete l'abominazione della devastazione, cose queste che stanno dove non devono”? Nel passo parallelo di Lc 21,20 l'evangelista dice: “Allorché vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione si è avvicinata ”. Luca, che segue pedissequamente Marco, si sta rivolgendo al mondo greco-ellenista che ben difficilmente capirebbe il linguaggio oscuro usato da Mc 13,14 e da Mt 24,15, che qui ha riprodotto Marco, per cui ha dovuto sciogliere l'enigma per i suoi lettori, mettendo in chiaro l'oscuro e criptato linguaggio apocalittico degli altri due sinottici. E Luca qui fa chiaramente riferimento alla guerra giudaica e, nello specifico, all'assedio di Gerusalemme, che già aveva richiamato in 19,43-44, leggendo la distruzione di Gerusalemme come punizione divina per aver rifiutato Gesù: “Poiché verranno giorni su di te e i tuoi nemici ti pianteranno palizzate e ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte, e colpiranno te e i tuoi figli in te, e non lasceranno pietra su pietra in te, poiché non hai riconosciuto il tempo della tua visita”. Immagini queste che sembrano riflettere il Libro V dell'opera “Guerra Giudaica” di Flavio Giuseppe19 e del successivo dramma che conseguì all'accerchiamento della città20.

L'abominazione della devastazione, pertanto, la quale, quando Marco scrive il suo vangelo, ancora non era avvenuta, ma era facilmente intuibile da come le cose si stavano mettendo, fa riferimento all'assedio e all'imminente conquista di Gerusalemme con tutto ciò che ne sarebbe conseguito in termine di violenze, distruzioni, massacri e devastazioni dalle quali anche il Tempio e le cose più sacre per il giudaismo non sarebbero scampate. Tutto ciò costituisce per Marco “l'abominio della devastazione”, richiamando con questa espressione, mutuata da Dn 9,26-27; 11,31 e 12,11, quanto già era accaduto al tempo dell'assedio e della conquista di Gerusalemme ad opera di Antioco IV Epifane. Quindi qui “l'abominio della devastazione” va letto come una sorta di endiadi: “la devastazione è un'abominazione”. In altri termini, la devastazione di Gerusalemme, che ormai si prospettava imminente, è una abominazione. Quando Marco sta scrivendo il suo vangelo (65-69 d.C.) Gerusalemme era sotto assedio, ma non era ancora caduta, lo si arguisce al v.18 dove si dice “Ma pregate affinché (ciò) non avvenga d'inverno”. La conquista di Gerusalemme e la distruzione del suo Tempio avverrà in fatti nel mese ebraico di Av, tra luglio e agosto, dell'anno successivo, il 70 d.C. Un elemento questo importante anche per la datazione del vangelo di Marco.

Tutte cose queste che non sarebbero mai dovute accadere per la città santa, la dimora del Dio di Israele. Gli orrori dell'assedio, della fame, delle partorienti e delle madri che stavano allattando, la dissoluzione di ogni sicurezza, per cui ognuno doveva pensare per se stesso anche a danno degli altri, le minacce degli zeloti che volevano resistere ad oltranza e che, violando la sacralità stessa del Tempio, si stavano asserragliando là dentro, trasformando il Tempio in una sorta di fortezza e di ultimo baluardo21, dissacrando in modo blasfemo lo stesso Sancta Sanctorum, il luogo della presenza di Jhwh. Tutto questo per Marco e per ogni singolo giudeo non doveva mai succedere. Tutte cose queste che stanno, cioè accadono, là dove non dovrebbero mai starci. Ed è proprio questo il senso dell'oscura espressione “˜sthkÒta Ópou oÙ de‹” (estekóta ópu u deî), che generalmente si traduce “che sta dove non deve”. Il verbo “˜sthkÒta” (estekóta), un participio perfetto, che in genere viene letto al singolare e di genere maschile22, per cui si tende a leggere in questo un personaggio “che sta là dove non deve”, in realtà si tratta, si, di un participio perfetto, ma posto al neutro plurale e fa da soggetto al “de‹” (deî), che è posto correttamente al singolare e non al plurale perché quando il soggetto del verbo è un neutro plurale, il verbo va sempre posto al singolare e mai al plurale. Una semplice regola di buona sintassi greca, nient'altro. La corretta traduzione, pertanto, dell'espressione “˜sthkÒta Ópou oÙ de‹” è “cose queste che stanno (là) dove non devono (esserci)”. Il riferimento è all'assedio della città di Gerusalemme e a quanto stava accadendo in essa e l'imminente e facilmente prevedibile sua conquista, con tutte le conseguenze che questa avrebbe comportato.

Il v.14 è intercalato da una frase accidentale: “colui che legge capisca”. Si tratta di un'annotazione dell'autore, che sospende il discorso diretto di Gesù, per accentrare l'attenzione del suo lettore su quanto si sta dicendo. Infatti, qui il Gesù marciano non sta parlando apertamente dell'assedio e della distruzione di Gerusalemme, come per Lc 21,20 o 19,43-44, ma fa ricorso ad immagini apocalittiche che Daniele ha usato con riferimento all'assedio e alla conquista di Gerusalemme e alla profanazione del Tempio da parte di Antioco IV Epifane (1Mc 1,54; 6,7). Per cui il richiamo dell'autore rimanda il lettore a quel contesto, ponendolo implicitamente in parallelo a questo. Ma questo, per chi è addentro alle Scritture, come lo sono i credenti, diviene il segnale della fine imminente e, quindi, l'invito a mettersi in salvo con urgenza, poiché, ormai, non c'è più tempo.

I versetti che seguono (vv.14b-17) danno l'idea del parapiglia e del trambusto generale che si crea nel momento in cui il nemico alle porte sta per sfondare, creando un fuggi fuggi generale, che non dà neppure il tempo per prendersi quei pochi oggetti di conforto quotidiano come il mantello (v.16), qualche pentola, una ciotola o una stuoia (v.15), perché ormai non c'è più tempo. E il rifugio non è più il conforto amichevole della propria casa, ma gli aspri monti della Giudea (v.14b), dove potersi riparare in qualche grotta o sotto qualche albero o in mezzo alla boscaglia. Tutto viene stravolto e il rassicurante, tranquillo e ripetitivo ritmo della vita quotidiana spezzato, mentre sulla stessa sorgente della vita, le donne incinte e quelle che allattano, viene posto un dolente “oÙaˆ” (uaì, guai), che in greco suona come un doloroso lamento funebre.

Uno scenario che richiama da vicino l'imminente giorno del giudizio di Jhwh, paventato da Lc 19,43-44 in questo stesso contesto di assedio e conquista di Gerusalemme da parte dei Romani; uno scenario che richiama Ap 6,15-17: “Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: <<Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall'ira dell'Agnello, perché è venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può resistere?>>”. Un passo che richiama a sua volta la distruzione di Sodoma in Gen 19,17, dove gli angeli, prima della distruzione della città, conducono fuori Lot e la sua famiglia, invitandoli a fuggire sui monti: “Dopo averli condotti fuori, uno di loro disse: <<Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!>>”.

In questo contesto di fuga, tuttavia, non è da escludersi che Marco faccia riferimento anche alla fuga dei giudeocristiani da Gerusalemme a Pella, una città della Decapoli, nell'imminenza della guerra giudaica, di cui qui si sta parlando. Forse un sollecito a loro.

In questo scenario di disperazione, di grande confusione e disorientamento, descritto dai vv.14b-17, Marco inserisce ora la seconda parte della pericope in esame, quella delimitata dai vv.18-20, che presenta una sorta di riflessione su quanto sta accadendo, che viene sviluppata in tre passaggi:

  1. dapprima si auspica che la tragedia che le comunità credenti stanno vivendo assieme agli abitanti della Palestina e in particolare con quelli di Gerusalemme non accada d'inverno, poiché le rigide temperature aggraverebbero la situazione di sofferenza e di disagio. Un'annotazione temporale, questa che va attentamente considerata, perché funge da indizio circa la datazione del vangelo di Marco. Quando l'evangelista si auspica che la presa di Gerusalemme, con la devastazione e le violenze che ne conseguono, non accada d'inverno significa che la conquista della città doveva ancora avvenire e che, benché ormai inevitabile e facilmente prevedibile, tuttavia ancora non si conosceva esattamente il tempo della sua caduta. Quindi, quando l'autore fa questa annotazione si doveva essere o in primavera o in estate del 69 d.C. La conquista di Gerusalemme, infatti, avverrà l'anno successivo nell'agosto del 70 d.C.

  2. Il v.20 funge in qualche modo da motivazione al fatto che la presa di Gerusalemme non avvenga d'inverno, poiché già di per loro stessi “quei giorni saranno di afflizione, quale non ci fu tale dall'inizio della creazione, che Dio creò, fino ad ora e certamente non ci sarà (più)”. Il versetto qui riportato Marco lo ha mutuato da Dn 12,1b e fa parte del caratteristico linguaggio apocalittico, che qui l'autore accentua ed esaspera per dare l'idea al suo lettore della grandiosità di questi travolgimenti, che si pongono come unici ed esclusivi di questi tempi. Dn 12,1b, infatti, recita: “Vi sarà un tempo di angoscia, come non c'era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo”. L'espressione “dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo” Marco lo sostituisce con “dall'inizio della creazione, che Dio creò, fino ad ora”, ampliando il tempo della storia, che fa partire dalla creazione e non dal sorgere delle nazioni, probabilmente con riferimento al mito della Torre di Babele (Gen 11,1-9); e come non bastasse aggiunge un'ulteriore aggravante: “e certamente non ci sarà (più)”, rendendo tale devastazione come unica e irripetibile in tutta la storia della creazione.

  3. Anche il v.20 rientra nelle logiche della narrativa apocalittica: Dio non infierirà fino in fondo per la misericordia invocata dagli eletti, suoi prescelti23. Un tema questo che ricorrerà nel contesto della distruzione di Sodoma, dove Abramo anteporrà al braccio distruttore di Dio l'amore che egli porta per i giusti (Gen 18,17-33): “Abramo gli si avvicinò e gli disse: <<Davvero sterminerai il giusto con l'empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lungi da te il far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio; lungi da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?>>. Rispose il Signore: <<Se a Sodoma troverò cinquanta giusti nell'ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutta la città>>” (Gen 18,23-26). L'espressione “nessuna carne sarebbe salvata” è un ebraismo per dire uomo o umanità, colta qui in tutta la sua fragilità, posta di fronte a questa conflagrazione di eventi, che la annichiliscono. Un racconto quello di Gen 18,20-33 che rimanda, in una forma più elaborata, a Is 53,11 dove il giusto non solo intercede per i peccati di molti, ma offre se stesso, addossandosi l'iniquità di tutti. Una nota questa che non stona, se pensiamo che questo discorso escatologico viene posto da Marco a ridosso della passione e morte di Gesù, dandone in qualche modo un'interpretzione.

Le persecuzioni (vv.9-11) e le tensioni intrafamiliari (vv.12-13)


Note generali

Nell'ambito dell'ampia sezione strutturata su parallelismi concentrici, riguardante gli eventi storici (vv.5-23), le persecuzioni sono poste centralmente, la quale cosa, secondo le logiche della retorica ebraica, equivale a dare importanza e rilevanza a quanto occupa tale posizione, verso la quale convergono tutte le altre. Indizio questo che porta a pensare che Marco stia dedicando questo capitolo non solo alle comunità credenti della Palestina, in grande sofferenza sia per gli eventi della guerra giudaica (66-73 d.C.) che per le persecuzioni del giudaismo contro di loro (I sec. d.C.), ma anche per la comunità credente di Roma, a cui Marco appartiene e alla quale è indirizzato il suo Vangelo. Questa comunità, infatti, sta soffrendo la persecuzione di Nerone, che durò dal 64 al 68 d.C., anno in cui Nerone morì24. Tutti eventi questi che stanno accadendo mentre Marco sta scrivendo il suo vangelo (65-69 d.C.) e certamente ne fu influenzato.

L'importanza che Marco assegna al tema delle persecuzioni è rilevabile anche dal modo con cui ha elaborato questa pericope in esame (vv.9-13). Essa è scandita in due parti: la prima (vv.9-11) concerne l'aspetto sociale e pubblico delle persecuzioni, che non riguardano solo i giudeocristiani, ma anche gli etnocristiani. Si parla, infatti, di credenti che vengono trascinati non solo davanti al Sinedrio e alla sinagoga, strutture ebraiche, ma anche davanti a re e governanti, che rappresentano il potere civile della società greco-romana di quel tempo. Anche questa prima parte Marco la costruisce a parallelismi concentrici, distribuendo qui il materiale secondo lo schema A) – B) – A1) in cui la prima e la terza posizione (A- A1,vv.9.11) si completano a vicenda: nella prima parte (v.9) si descrive l'evento persecuzione, nella terza parte (v.11) si danno istruzioni comportamentali nei confronti di queste. Centralmente (B, v.10), la parte più importante, come s'è detto qui sopra. Quindi all'interno del tema delle “persecuzioni” (vv.9.11), Marco colloca l'evento più importante: l'annuncio del Vangelo a tutte le genti, non solo quale elemento scatenante le persecuzioni da parte di chi ha rifiutato tale annuncio (“a causa mia”), ma anche un onere che grava su coloro che sono perseguitati e chiamati a rispondere davanti al potere civile e religioso. Il v.10, infatti, si lega alla chiusura del v.9: “a causa mia, a testimonianza per loro”. La persecuzione, quindi, diventa un evento importante per la testimonianza, che si fa annuncio del Vangelo.

La seconda parte (vv.12-13) di questa pericope, dedicata alle persecuzioni, è riservata all'aspetto privato e intrafamiliare; persecuzioni che si consumano all'interno della cerchia familiare, formata non solo dalla parentela consanguinea, ma anche da amici e conoscenti. L'intero mondo, quindi, pubblico e privato, religioso e civile, converge contro i credenti, che sono chiamati a dare sempre e ovunque la loro testimonianza, che diviene nel contempo annuncio del Vangelo, per il quale sono perseguitati. È questa la preoccupazione primaria di Marco, che, non va dimenticato, apre il suo racconto con i breve prologo “Inizio del vangelo di Gesù Cristo [Figlio di Dio]” (1,1). Vangelo, quello di Marco, che è una predicazione scritta e che ora va annunciata con la testimonianza e la vita.

Commento ai vv.9-13

Il v.9 si apre con il secondo dei quattro25blšpete” (blépete, badate, state attenti), che esorta le comunità credenti a fare attenzione a quanto sta loro accadendo, perché ognuna sappia come regolarsi in questi difficili frangenti. Ogni comunità, pertanto, deve saper badare a se stessa, cominciando con l'imparare a leggere i segni dei tempi e interpretare attentamente gli eventi che in questi tempi accadono e nei quali sono, loro malgrado, coinvolte.

Con il v.9 viene introdotto il tema delle persecuzioni, scandite da tre verbi al futuro, che, rispetto a Gesù che le sta annunciando, delineano il tempo della chiesa e nello specifico quello in cui Marco sta scrivendo il suo vangelo. Oggetto di queste persecuzioni sono i discepoli e i credenti di ogni tempo. Persecuzioni, quindi, il cui avvento era stato già preannunciato da Gesù. Un futuro facilmente presagibile, poiché se hanno perseguitato Gesù, anche i suoi seguaci avrebbero subito la stessa sorte: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. […] Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Gv 15,18.20). Persecuzioni che i credenti subiranno da parte dei giudei, qui richiamati dalle due istituzioni che caratterizzavano la vita civile e religiosa del mondo ebraico: i sinedri, che fungevano non solo da governo locale, ma anche da tribunali locali. Essi erano composti da 23 membri nominati dal Sinedrio di Gerusalemme, che rappresentavano localmente. A questi sono associate le sinagoghe che, oltre ad essere luoghi di culto e di preghiera, erano centri di attività civili e scolastiche nonché di esecuzioni di punizioni e di sentenze (At 22,19; 26,11; 2Cor11,24)26. A queste sono associati i governanti e i re, che rappresentano il potere civile e caratteristico del mondo greco-romano. Ovunque, quindi, i credenti sono perseguitati sia tra i giudei che tra i pagani. Significativo in tal senso è quanto dice Gv 1,10-11: “Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto”.

Il v.9 termina presentando la motivazione che sta alla base delle persecuzioni: “a causa mia, a testimonianza per loro”. Per altre tre volte Marco sottolinea nel suo vangelo come il credente sia inviso al mondo, sia pagano che giudaico, “a causa”, “a motivo” della parola (4,17), del vangelo o semplicemente perché sono seguaci di Gesù (10,29; 13,13). Quindi il motivo è che questi credenti sono diventati seguaci di quel Gesù che per primo è stato perseguitato e ucciso, perché in dissonanza con le logiche del potere civile e religiose. Gv 15,19 andrà più a fondo nel ricercare la motivazione delle persecuzioni e vede in queste il fatto che i credenti non appartengono al mondo e, quindi, non ne hanno sposato le logiche: “Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia”. Essi certo sono nel mondo, ma non vi appartengono per una scelta che Dio stesso ha posto su di loro, poiché “non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,13).

Stupenda la descrizione che l'autore della Lettera a Diogneto27 fa dei cristiani perseguitati: “Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati” (V, 8-11)

Tuttavia Marco vede in queste persecuzioni una privilegiata occasione di annuncio del vangelo: “a testimonianza per loro”, per i persecutori, che sono interpellati, loro malgrado, da questi credenti disposti a tutto pur di non rinnegare la propria fede nel Risorto. Essi stessi, dunque, a motivo della loro scelta, divengono annuncio del Vangelo. Così come per Paolo, l'indomabile annunciatore del Vangelo e del Risorto, ogni situazione, anche la più sgradevole, diventa occasione e motivo per annunciare il Vangelo con ciò che è più importante: la propria vita, messa in discussione proprio a causa del Vangelo, divenendo esempio e stimolo per altri credenti: “Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo, al punto che in tutto il pretorio e dovunque si sa che sono in catene per Cristo; in tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno” (Fil 1,12-14)

Ed è proprio questo il senso del v.10, posto significativamente nel cuore della pericope riguardante le persecuzioni, accentrando in tal modo l'attenzione del lettore sul senso più vero e profondo che devono acquisire le persecuzioni: “E prima bisogna che sia predicato il vangelo a tutti i popoli”, che va compreso nel senso che è necessario innanzitutto (prîton, prôton, per prima cosa, innanzitutto, primariamente) che il vangelo sia predicato a tutte le genti, in cui quel “de‹” (deî, bisogna, è necessario) dice come l'annuncio del vangelo a tutti i popoli rientri in un preciso piano divino. Ecco, quindi, la necessità di trasformare le persecuzioni in una occasione di annuncio del vangelo a tutti i popoli, siano essi giudei che pagani. Il v.10, infatti, si aggancia alla parte terminale del v.9, “a testimonianza per loro” e ne costituisce la spiegazione. Ogni situazione, pertanto, deve diventare occasione di annuncio del vangelo.

Dopo l'inciso del v.10, che mette in rilievo la primaria necessità di annunciare sempre, ovunque e comunque il vangelo, poiché ciò rientra in un preciso piano salvifico del Padre, ora Marco, con il v.11, passa a suggerire la modalità di comportamento nei frangenti della persecuzione, per quei credenti che sono chiamati a rispondere della loro fede davanti ai giudei e ai pagani. Tutto si muove sul piano superiore della fede, che qui si fa fiducia o, per meglio dire, abbandono del credente nelle mani del Padre: “non pensate prima che cosa direte, ma ciò che vi sarà dato in momento”. L'esortazione che qui l'evangelista suggerisce è quello di riporre la propria difesa non tanto sulle proprie capacità umane da contrapporre con abilità alle accuse rivolte, quasi che la salvezza del credente dipenda da se stesso e non da quel Dio che è chiamato a testimoniare. Ogni sforzo umano deve essere deposto per lasciare spazio all'azione dello Spirito di Dio, che in quel momento supremo opera nel testimone e saprà suggerire Lui le opportune parole al credente, “a testimonianza per loro”: “non siete voi, infatti, quelli che parlano, ma lo Spirito Santo”.

Nell'ambito delle persecuzioni il v.12 traghetta il lettore dal contesto sociale e pubblico a quello familiare e privato. Un contesto che tratteggia una situazione storica reale, dove il credente, dopo la sua scelta esistenziale, doveva fare i conti con la cerchia pagana dei propri familiari, amici e conoscenti, dove diverse mentalità e sensibilità si contrapponevano in modo irriducibile le une alle altre, generando tensioni all'interno delle famiglie. Significativa la scelta dell'autore, che per descrive la situazione dei credenti del suo tempo, mutua questo v.12, riadattandolo, da Mi 7,6: “Il figlio insulta suo padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera e i nemici dell'uomo sono quelli di casa sua”. Un profeta questo, che per annunciare la Parola di Jhwh ha subito l'isolamento sociale e dei suoi stessi familiari e amici e la loro persecuzione.

Il v.13 chiude la pericope sulle persecuzioni sviluppando una considerazione generale, una sorta di sommario, che sta alla base di ogni persecuzione: il nome di Gesù che essi professano nella loro vita e con la loro vita diviene la causa primaria di ogni persecuzione in ogni tempo. Un disprezzo che non fa eccezioni, ma proviene “da tutti”, in cui, in quel “tutti” va ravvisato ogni uomo, giudeo o pagano, amministratore pubblico o familiare o amico o conoscente. Il nome di Gesù non lascia indifferente nessuno, perché è un nome che interpella ogni uomo e lo spinge a prendere esistenzialmente posizione a favore o contro, ma che nel contempo innesca un processo di salvezza o di condanna, che non avrà appelli, poiché tutto ciò si colloca nei tempi escatologici, i tempi della scelta definitiva: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30; Lc 11,23).

Il v.13b prospetta la persecuzione come una lotta che richiede forza, costanza, perseveranza, pazienza fino alla fine, dove quel “fino alla fine” non intende la fine della persecuzione, ma fino alla prova suprema della testimonianza, il sacrificio della propria vita; ma che nel contempo, il termine “fine”, lascia trasparire la fine dei tempi. La persecuzione, pertanto, percepita come la prova finale, quella escatologica, dove tutto si gioca in modo ultimo e definitivo.

E soltanto chi ha saputo resistere agli assalti otterrà la vittoria della salvezza: “Ma chi ha resistito fino (alla) fine, questi sarà salvato”. Un detto dai toni parenetici, che esorta alla paziente perseveranza nella prova, che ha come contropartita la salvezza non tanto dell'anima o dello spirito, come suggeriscono Lc 21,19, quanto dell'interezza della vita dell'uomo. L'uomo nella sua interezza, quindi, verrà salvato. Il credente, pertanto, duramente provato dalla persecuzione è chiamato a perseverare pazientemente, guardando oltre alla prova, che deve concepire come una sorta di test dalla cui risposta dipende la sua salvezza. Elemento chiave, che traspare dal detto, come in filigrana, è l'esortazione alla “pazienza” nella prova, che richiama da vicino Rm 5,3: “E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata”. E similmente Gc 1,3-4: “sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla”.

La conclusione (v.23)

Il v.23 conclude la sezione (vv.5-23) degli eventi storico-escatologici che stanno per travolgere i credenti. Tuttavia questi non sono ancora la fine (v.7b), ma sono preordinati alla fine. La vera fine avverrà soltanto con la pericope successiva (vv.24-27), dove viene descritta la venuta gloriosa del Figlio dell'uomo, che porrà un punto fermo alla storia, traghettandola nell'eternità di Dio.

Una sezione fortemente parenetica, che nel rivelare esorta nel contempo. Non poteva quindi concludersi se non con un'ultima esortazione, che suona quasi minacciosa: “Ora voi fate attenzione, vi ho predetto tutto”. Torna nuovamente, per la terza volta, il verbo “blšpete” (blépete, badate, fate attenzione), che forma inclusione con il “blšpete” con cui si apre questa sezione al v.5b, avvertendo in tal modo il lettore che su quanto qui viene detto va posta una particolare attenzione. Un versetto questo che nel concludere crea nel contempo uno stacco netto tra quanto fin qui descritto, riguardante gli eventi storici, a cui si riferisce quel “vi ho predetto tutto” conclusivo, e quanto sta per seguire, che riguarda eventi cosmici e apocalittici. Eventi di tutt'altra natura, sottratti al potere dell'uomo.


Gli ultimi eventi e la fine di tutto (vv.24-27)

Testo a lettura facilitata

Gli eventi cosmici (vv.24-25)

24- Ma in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole sarà oscurato e la luna non darà la sua luce,
25- e gli astri cadranno dal cielo e le potenze che (sono) nei cieli saranno scosse.

L'evento finale: la Parusia (vv.26-27)

26- E allora vedranno il Figlio dell'uomo che viene su(lle) nubi con molta potenza e gloria.
27- E allora manderà gli angeli e radunerà insieme i [suoi] eletti dai quattro venti dall'estremità (della) terra fino all'estremità (del) cielo.


Note generali

All'interno del cap.13 la pericope in esame è posta centralmente e tutto ruota e converge verso di essa, dando così senso e risposta alle attese dei credenti, che stanno vivendo drammatiche situazioni di guerre, rivolte, persecuzioni e forti tensioni all'interno della cerchia familiare, sospinti nel contempo da Marco a resistere e a vegliare.

Lo scenario qui descritto viene espresso con il linguaggio caratteristico dell'escatologia e dell'apocalittica e certamente non intende descrivere ciò che succederà realmente28. L'idea che ne esce è che la Parusia del Signore è preceduta dalla distruzione della vecchia creazione, quella adamitica, profondamente segnata dal peccato, per lasciare spazio a quella nuova (Ap 21,1.5), inaugurata con la risurrezione e instaurata con l'avvento definitivo del Risorto. Da qui il sollecito a resistere fino alla fine, poiché ormai la salvezza è vicina (v.13b; Rm 13,11-12a) e da qui trae senso anche l'accorata e pressante esortazione a vigilare (vv.33-37).

La struttura della pericope è scandita in due parti: la prima, dopo i sconquassi avvenuti sulla terra (vv.5-23), riguarda quelli che accadranno subito dopo nei cieli, così che potenze terrestri e celesti vengono distrutte, liberando in tal modo il campo per il grandioso scenario dell'avvento glorioso e definitivo del Signore (vv.24-25); la seconda parte riguarda tale avvento, l'attesa e tanto sospirata Parusia del Signore da parte dei credenti (Ap 22,17.20), che in una sorta di apoteosi vengono raccolti e associati alla gloria del loro Signore (vv.26-27), preparando in tal modo il terreno per il giudizio finale contro gli avversari e le forze del male, che verranno annientate (1Cor 15,23-25).

Commento ai vv.24-27

Gli eventi cosmici (vv.24-25)

Il v.24a si apre ricollegandosi a quanto descritto nella prima sezione, circa lo sconquasso della terra e dei suoi abitanti, travolti da guerre, rivolte, persecuzioni, carestie e terremoti (vv.5-23), eventi questi che qui vengono richiamati e sintetizzato dall'espressione “dopo quella tribolazione”, in cui il “dopo” dice il susseguirsi di eventi, che dalla terra si estendono ora nel cielo, coinvolgendo anche le potenze celesti, che in qualche modo riflettono e sono associate a quelle umane terrestri, richiamate dall'aggettivo dimostrativo “quella”. Mentre l'espressione “in quei giorni”, caratteristica del linguaggio profetico ed apocalittico, crea il contesto temporale che salda gli eventi catastrofici terrestri con quelli celesti. Vi è pertanto una contemporaneità susseguente di eventi, che danno il senso della loro convergenza e della loro universalità. Il “ma” ('all¦, allà), pertanto, con cui si apre il v.24 e che introduce gli eventi celesti non è avversativo, ma dà continuità e complementarietà a quelli terrestri.

I vv.24b-25 aprono lo scenario degli sconvolgimenti celesti elencando due diverse tipologie di eventi: fisiche, quali il sole, la luna e gli astri, da un lato; e spirituali, quali le potenze celesti, dall'altro. Il cielo, infatti, non è soltanto la sede esclusiva di Dio29 e della sua corte angelica, ma è popolato anche da un mondo spirituale che sta di mezzo tra la terra e il cielo e che viene definito come le potenze dell'aria, che operano in modo avverso a Dio (Ef 2,2), o più genericamente come “principato, potestà e potenza” (1Cor 15,24). Tali potenze, pur create da Dio (Col 1,16), tuttavia sono, parimenti all'uomo, decadute e divenute nemiche di Dio e dell'uomo (Ef 6,12) e schiavizzano i non credenti, sottomettendoli al potere delle tenebre (Col 1,13; Ef 2,2; Lc 22,53). Ma sarà proprio la potenza del Risorto a ridurle all'impotenza (Col 2,15) dominando su di esse (Ef 1,20-21); potenze che saranno distrutte con il ritorno glorioso del Risorto (1Cor 15,24)30.

Quanto poi agli astri che saranno oscurati e cadranno (vv.24b-25a), sono immagini queste in cui riecheggia Is 13,9-10 dove sole, luna ed astri del cielo sono oscurati e preannunciano l'avvento del terribile giorno del Signore; così come il cielo stesso e le sue potenze si dissolveranno e gli astri cadranno nel giorno del giudizio divino (Is 34,4). Significativo in questo contesto l'annotazione del “sole che sarà oscurato”, immagine questa che ritroveremo in 15,33, nel momento supremo della morte di Gesù: “E venuta (l')ora sesta si fece buio su tutta la terra fino (all')ora nona”. In tal modo la distruzione del cielo, a cui è associata la terra (v.24a), sono tutti assimilati alla morte di Gesù (Gv 12,2), preannuncio di cieli nuovi e di terra nuova, di una nuova creazione, che, come “In principio” (Gen 1,1.3ss; Gv 1,3), ha la sua origine nel Risorto.

L'evento finale: la Parusia (vv.26-27)

Con i vv.26-27 si è giunti nel cuore del cap.13, poiché è proprio verso questo momento che l'intera chiesa primitiva, quella del I° sec, è tesa e solo da questo momento essa si sente appagata in tutte le sue attese. Una tensione che si percepisce in tutta la letteratura neotestamentaria e che in modo significativo traspare in chiusura dell'ultimo libro della Rivelazione, quello dell'Apocalisse, quasi una sorta di testamento spirituale e di esortazione che essa vuole lasciare alle future generazioni cristiane, perché siano sempre tese verso la venuta del Signore, senza lasciarsi disperdere dalle vacuità delle cose, per potersi perdere, disciogliere e compenetrare, come in una grande osmosi cristica e divina, nell'unico loro Signore, polo catalizzatore di tutti i loro desideri e delle loro attese: “Lo Spirito e la sposa dicono: "Vieni!". E chi ascolta ripeta: "Vieni!". Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l'acqua della vita. […] Colui che attesta queste cose dice: "Sì, verrò presto!". Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen!” (Ap 22,17.20).

Il v.26 si apre con l'annotazione temporale “e allora vedranno”, in cui quel “kaˆ” (kaì, e) collega l'evento della Parusia con quanto precede (vv.5-25). Il senso, pertanto, è che i credenti “soltanto allora vedranno”. Il riferimento qui riguarda non solo gli sconvolgimenti celesti (vv.24-25) preceduti da quelli terrestri (vv.5-23), bensì anche i vv.6.21-22 dove si parla della presunta venuta del Cristo e di falsi profeti e falsi messia. In altri termini, il vero Cristo apparirà nella sua pienezza di potenza e gloria soltanto dopo gli sconquassi terreni e celesti, pertanto non sono attendibili le voci di apparizioni del Cristo o di sedicenti tali prima che tali eventi si compiano, rimarcando in tal modo quanto già affermato ai vv.6.21-22.

L'evento della Parusia è scandito in due momenti: l'apparizione del Figlio dell'uomo nella sua onnipotenza e nella sua gloria. Un'immagine, questa, che Marco sembra mutuare da Dn 7,13-14 ed Ap 14,14, dove il Figlio dell'uomo sulla nube, avvolto nella sua gloria regale, appare con una falce in mano, simbolo del giudizio divino che si sta per abbattere sugli uomini (Ap 14,15) e in qualche modo richiama anche lo stesso Cristo plenipotenziario di Mt 28,18 dove i discepoli, prostrati a terra, pur attraversati dai loro dubbi, videro il Risorto a cui è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Un'immagine questa che tornerà in Mc 14,62 e in Mt 26,64, durante il processo di Gesù davanti al Sinedrio, in cui Gesù preciserà la sua vera natura messianica, sul cui sfondo si staglia il contro-giudizio di Dio su quello degli uomini: “Ma Gesù disse: <<Io (lo) sono, e vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e che viene tra le nubi del cielo>>”.

Il secondo momento è dato dalla raccolta dei “suoi eletti”, persone, quindi, che appartengono a Cristo e, in quanto “eletti”, essi sono stati scelti secondo un preciso piano salvifico del Padre, che si è attuato nel suo Cristo. Lo scenario, qui, si fa grandioso, poiché questi eletti provengono da ovunque, quindi da ogni parte della terra, poiché questi sono quelli che hanno dato la loro risposta esistenziale al piano divino di annuncio universale del vangelo a tutte le genti, preannunciato al v.10: “prima bisogna che sia predicato il vangelo a tutti i popoli”. Una universalità che non esclude nessuno, per cui nessuno andrà perduto tra tutti quelli che il Padre ha affidato a Gesù (Gv 17,11b-12). Una universalità che qui Marco tratteggia con un linguaggio figurato, caratteristico del linguaggio biblico: “dai quattro venti” e “dall'estremità (della) terra fino all'estremità (del) cielo”. Due espressioni che sono tra loro parallele e che troviamo simili solo in Ger 49,36a, mentre in altri passi si parla solo di “quattro venti del cielo”, ma che Marco, sulla falsariga di Ger 49,36a ha smembrato ed elaborato per conto proprio, per rendere più ridondante questa universalità.

Questa venuta, quindi, diventa il punto catalizzatore non solo della nuova creazione, ma anche quello degli eletti, che convergeranno in Lui in pienezza (“dai quattro venti”), secondo la promessa del Gesù giovanneo: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32), così che tutti diventino un solo gregge sotto un solo pastore (Gv 10,16b). E quando tutto sarà nel Cristo (Ef 1,10), anch'egli si lascerà attrarre in modo definitivo e pieno dal Padre, verso il quale era rivolto fin dall'eternità (Gv 1,1), così che Egli, il Padre, sia nuovamente tutto in tutti, com'era nei primordi (1Cor 15,28). Vengono, dunque, definiti con il v.27 il senso e il fine di questa venuta ultima.

Saper leggere i segni (vv.28-31)


Testo a lettura facilitata

Saper leggere i segni (vv.28-29)

28- Dal fico imparate la parabola: allorché il suo ramo diventa tenero e germogliano le foglie, sapete che l'estate è vicina;
29- così anche voi, allorché vedrete queste cose che accadono, sappiate che (egli) è vicino, alle porte.

Quando succederà (vv.30-31)

30- In verità vi dico che non passerà questa generazione finché tutte queste cose non siano accadute.
31- Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.


Note generali

La pericope in esame costituisce la risposta alla questione posta dai discepoli al v.4: quando accadranno queste cose e quale il segno che esse stanno per accadere. Due, quindi, le domande: il “quando”, che delimita lo spazio temporale entro cui queste cose accadranno; e il “segno” che avverte che si è giunti al tempo degli eventi. Due domande, dunque, che scandiscono questa pericope in due parti, ma invertite rispetto alla sequenza delle domande del v.4: Marco apre con il segno (vv.28-29) e conclude con il quando (vv.30-31). Questa inversione dice l'importanza che l'autore attribuisce al segno più che al tempo dell'accadimento, poiché vuol sospingere il credente ad imparare a leggere i segni dei tempi, tenendo in tal modo desta la sua attenzione e spingendolo a vigilare e a vegliare (vv.33-37), creando in lui una forte tensione esistenziale, orientata all'accadere delle cose, che rimane, comunque segreto (v.32). In altri termini il futuro ha le sue radici nel presente ed è insito nel presente che si sta formando. Serve, dunque, attenzione e vigilanza per non lasciarsi sfuggire, qui e ora, quei segnali, che, se proiettati, lasciano intuire dove andranno a cadere le cose e, quindi, quale sarà il futuro,

Commento ai vv.28-31

Saper leggere i segni (vv.28-29)


Dopo uno scenario di stravolgimenti e sconquassi sulla terra e nel cielo, che precedono la Parusia e con questa l'associazione degli eletti al Signore, predisponendo la terra al giudizio divino e, con questo, la fine di tutte le cose, Marco, quasi con un tocco di poesia, inserisce qui una inattesa visione rasserenante: quella del fico, che qui assume i tratti di un maestro che insegna, attraverso la parabola di se stesso, a leggere gli eventi della storia. La natura, dunque, offre molti parallelismi con la storia dell'uomo, il quale deve imparare a leggerla perché proprio attraverso di essa Dio manifesta il suo progetto di salvezza. Non a caso la creazione è il primo atto rivelativo di Dio e non a caso Paolo sottolinea alla comunità di Roma come proprio attraverso la creazione l'uomo, con la sua sola intelligenza, può cogliere Dio: “Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” (Rm 1,20). Ed è proprio sulla creazione, che Paolo vede associata all'uomo sia nella sua sofferenza che nella sua attesa di una vita nuova che sta per nascere (Ap 21,5), che egli accentra la sua attenzione. Anzi è proprio questa vita nuova che sta per nascere, che genera la sofferenza, che segna profondamente la vita dell'uomo e della stessa natura, e che Paolo legge positivamente, come le doglie del parto (Rm 8,18-23). La sofferenza del tempo presente, pertanto, va compresa come il preannuncio della nascita di una vita nuova, di una nuova creazione, nata dalla croce e da questa profondamente segnata.

Se il v.28 funge da cattedra su cui si è assiso un insolito maestro, il fico, che inconsapevolmente nei suoi ritmi naturali, ammannisce il suo insegnamento agli uomini, il v.29 svela il senso di questo insegnamento: “così anche voi, allorché vedrete queste cose che accadono”. I dolori e le sofferenze del tempo presente, pertanto, vanno compresi come il preannuncio di un nuovo evento, che rivoluzionerà completamente non solo la storia, ma l'intero universo. Ma non è ancora il tempo definitivo, ma lo preannuncia e ne è il preambolo: “sappiate che (egli) è vicino, alle porte”. È, dunque, vicino alle porte, ma non è ancora entrato. Un'espressione questa che si richiama ai vv. 7b e 8c: “ma non è ancora la fine” e “Queste cose (saranno l') inizio (delle) doglie del parto”. Così come i dolori del parto non dicono che il bambino è già nato, ma che sta nascendo. Il dolore, conseguente al disfacimento della vecchia realtà, è causato dall'irrompere della nuova realtà, incompatibile con quella precedente; così come i dolori del parto sono causati dalla nascita di una nuova vita (Rm 8,22-23).

L'evento finale, pertanto, non sembra ancora essere la venuta del Signore, che è prodromo di un altro evento, quello di una nuova creazione, in cui si instaurerà definitivamente il Regno di Dio, preannunciato in qualche modo da Ap 21,1-5: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro". E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate". E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose"; e soggiunse: "Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci>>”. Pertanto “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli”.

Quando succederà (vv.30-31)

I vv.30-31 contengono due detti il cui tono è sentenziale e si muove su di uno sfondo sapienziale e profetico e decretano la veridicità degli eventi circoscritti dalla sezione 5-29. Essi sono un ammonimento, che funge da solenne attestazione con quel “In verità vi dico”. L'invito, pertanto, ai propri lettori è quello di prendere in seria considerazione quanto qui viene detto.

Il v.30 costituisce la risposta al “quando” del v.4a. Tuttavia i parametri temporali qui indicati, entro cui gli eventi catastrofici (vv.5-26), prodromi alla Parusia del Signore (vv.27-28), accadranno, sono molto generici e riguardano “questa generazione”. La generazione di cui Marco qui parla sono gli uomini del suo tempo, quelli del I sec. d.C., in particolar modo i credenti, ai quali egli si sta rivolgendo con il suo vangelo. Un tempo questo in cui la chiesa primitiva aveva sviluppato un forte senso escatologico ed apocalittico, di attesa dell'imminente ritorno del Signore, preceduto dalla distruzione del potere umano. In tal senso se ne trova traccia in 1Cor 7,29-31; Rm 13,11-12, in 2Ts 3,11-13, dove alcuni credenti, nella certezza che ormai i tempi della fine erano giunti, avevano rinunciato ad ogni loro impegno quotidiano, vivendo disordinatamente alla giornata, creando trambusto nella comunità. A questi Paolo ordina di riprendere a vivere nell'impegno quotidiano, esortandoli a non scoraggiarsi mai nel compiere il bene. E similmente in 2Pt 3,3-18, dove l'autore risponde a quanti tra i credenti lamentavano che la promessa del Signore circa il suo ritorno, preceduto dalla fine delle cose, ancora non si era compiuta31.

Questa genericità nell'indicare i parametri del “quando”, che comunque il v.32 dirà essere sconosciuti a tutti, serve, tuttavia, a Marco per evitare che i credenti si adagino, disperdendosi nelle cose, nell'attesa del ritorno del Signore e, invece, imparino a leggere i segni dei tempi senza lasciarsi traviare dagli sconquassi storici, dalle pretese dei falsi profeti e falsi cristi e dalle persecuzioni, che formano il contenuto delle cose che stanno accadendo e che preannunciano l'avvento del Signore e del suo Regno. Un Regno che non può, per sua natura, essere soltanto un semplice elemento aggiuntivo alla storia degli uomini e al loro regno, quasi una loro appendice spirituale, ma sarà sostitutivo ad esso, inaugurando un'era di pace e di giustizia. Un Regno capace di rigenerare l'uomo alla vita stessa di Dio, facendolo concittadino dei santi e familiare di Dio (Ef 2,19). I tragici eventi, pertanto, non vanno letti come mali irreparabili e annichilenti, ma come lo scandire storico di un piano salvifico finalizzato all'affermarsi del Regno di Dio in mezzo agli uomini. Una morte, dunque, in vista di una risurrezione, di una vita nuova, rigenerata dalla Parola e dallo Spirito Santo.

Il v.31 è un detto che compare in tutti tre i sinottici e si gioca tutto sul contrasto tra gli elementi che costituiscono l'habitat dell'uomo, cielo e terra, e la solidità e la certezza delle parole di Gesù, da cui traspare, in quel “non passeranno”, la loro eternità divina. Come dire che le certezze degli uomini e il loro potere sono effimeri e fragili, ma ciò che resta al di sopra di tutto è la Parola di Gesù. Da qui la necessità di confermare la propria fede e fondare la propria scelta esistenziale su di essa.

Il detto, dai toni proverbiali e sentenziali, suona come un'attestazione notarile, che convalida non solo il precedente v.30, ma l'intera sezione (vv.5-30). Una sorta di sottoscrizione di veridicità che suona in un certo qual modo minacciosa in quel “non passeranno”. Come dire che su queste parole si svolgerà il giudizio sul credente e sull'intera umanità.

L'appello a vegliare e a vigilare (vv.32-37)

Testo a lettura facilitata

Versetto di transizione (v.32)

32- Riguardo a quel giorno o all'ora nessuno sa, né gli angeli in cielo né il Figlio, se non il Padre.

Appello alla vigilanza e la sua motivazione (v.34)

33- State attenti, vegliate; non sapete, infatti, quando è il tempo.

La parabola, intercalata da continui richiami alla vigilanza (vv.34-36)

34- (Sarà) come un uomo che è partito in viaggio, lasciata la sua casa e data autorità ai suoi servi, a ciascuno la sua incombenza e al portinaio ha ordinato affinché vigili.
35- Vigilate, dunque, poiché non sapete quando il signore della casa viene, o alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino,
36- affinché, venuto repentinamente, non vi trovi addormentati.

Un richiamo rivolto anche ai futuri credenti (v.37)

37- Ciò che dico a voi, (lo) dico a tutti: vigilate>>.


Note generali

L'intera pericope ruota attorno ad una parabola inframezzata da tre esortazioni alla vigilanza, che creano una forte tensione, rafforzando il senso stesso della parabola. Una tensione che rispecchia il clima di attesa della chiesa primitiva, tutta protesa verso il ritorno del suo Signore. Un'esortazione a vigilare per la quale Marco usa due verbi diversi: il primo, v.33, riporta lo strano verbo “¢grupne‹te” (agripneîte), mentre per gli altri tre solleciti (vv.34.35.37) usa il verbo, caratteristico delle veglie o vigilie notturne romane32, “grhgoršw” (gregoréo). Non si capisce bene perché questo cambio di verbo per indicare l'identico concetto, quello del “vigilare o vegliare”. Non sembra esserci logica in questo. Quindi è da pensare che il v.33 sia stato mutuato altrove e adattato qui da Marco. Tuttavia vi è una seconda ipotesi, che potrebbe giustificare lo strano uso di “¢grupne‹te” anziché di “grhgoršw” da parte dell'autore: il senso particolare che questo verbo imprime al “vigilare”. Il verbo, infatti, significa “essere senza sonno, vegliare, essere vigilante, aver cura”. Quindi, Marco, usando il verbo “¢grupnšw” (agripnéo) anzichégrhgoršw” ha voluto caricare il senso del vigilare: abbiate cura di vigilare, siate insonni o siate vigilanti, per cui ne esce un'esortazione più intensa.

Una annotazione va riservata alle tre volte con cui Marco ripete il verbo “grhgoršw” (gregoréo), che se da un lato rafforza, quasi in modo ossessivo, l'esortazione a vigilare o vegliare, dall'altro, allude, con questa esortazione al vegliare, agli eventi del Getsemani (14,32-42), creando, come vedremo subito, uno stretto parallelismo, se non un vero e proprio aggancio, tra questo vegliare e quello del Getsemani. Il verbo ““grhgoršw” (gregoréo)”, infatti, in Marco ricorre sei volte, di cui tre volte qui, ai vv.34.35.37 e altre tre volte in 14,34.37.38, dove Gesù, preso da una profonda angoscia di morte, sollecita i tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, gli stessi a cui Gesù sta rivolgendo ora il discorso escatologico (v.3b), a vegliare con lui.

La comparazione:


Discorso escatologico

Eventi del Getsemani

34- (Sarà) come un uomo che è partito in viaggio, lasciata la sua casa e data autorità ai suoi servi, a ciascuno la sua incombenza e al portinaio ha ordinato affinché vigili.


35- Vigilate, dunque, poiché non sapete quando il signore della casa viene, o alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino,


37- Ciò che dico a voi, (lo) dico a tutti: vigilate>>.

34- e dice loro: <<L'anima mia è triste fino alla morte; rimanete qui e vegliate>>.

37- E viene e li trova addormentati, e dice a Pietro: <<Simone, dormi? Non sei stato capace di vegliare un'ora?


38- Vegliate e pregate, affinché non entriate in tentazione: lo spirito (è) pronto, ma la carne (è) debole>>.


Per cui si avrà:

a) “al portinaio ha ordinato affinché vigili” (13,34c) e ai tre discepoli dà il comando di vegliare: “rimanete qui e vegliate” (14,34b);


b)
Vigilate, dunque, poiché non sapete quando il signore della casa viene” (13,35a); e il signore della casa “viene e li trova addormentati, e dice a Pietro: <<Simone, dormi? Non sei stato capace di vegliare un'ora?” (14,37);

c)Ciò che dico a voi, (lo) dico a tutti: vigilate” (13,37); “Vegliate e pregate, affinché non entriate in tentazione” (14,38a). Entrambe le esortazioni sono conclusive, qui, del discorso escatologico; là dell'episodio che mostra tutta l'incapacità dei tre discepoli a vegliare.

Non è, pertanto, da escludersi che Marco, nello stendere questo insistente sollecito alla vigilanza, pensasse in qualche modo alle difficoltà del vigilare e del vegliare, che verranno denunciate nel capitolo seguente.

La struttura di questa pericope è scandita in quattro parti, rilevabili anche dalla sezione del “Testo a lettura facilitata”:

  1. Versetto di transizione (v.32);

  2. Un accorato e motivato appello alla vigilanza (v.33);

  3. Un insistente richiamo ai servi del padrone, metafora della chiesa primitiva (vv.34-36);

  4. E un richiamo anche ai futuri credenti (v.37)

Commento ai vv.32-37

Versetto di transizione (v.32)

Il v.32 è di transizione, perché nel chiudere la pericope 28-31, attestando l'impossibilità di conoscere con esattezza giorno ed ora degli eventi (vv.5-27), rispondendo in tal modo alla questione posta dal v.4a, predispone l'introduzione del v.33 e, da qui, alla pericope successiva sul tema della vigilanza. Tutto, infatti, s'impernia sul fatto che nessuno è in grado di conoscere i parametri temporali degli accadimenti, se non il Padre.

La terminologia qui usata è caratteristica dell'escatologia e dell'apocalittica. L'espressione temporale “a quel giorno o all'ora” allude non solo agli eventi circoscritti dai vv.5-27, ma anche al piano divino, conosciuto solo dal Padre, il quale ha stabilito un tempo per tutte le cose e scandisce il tempo della salvezza e degli eventi, che gradualmente la compiono.

Quel “nessuno sa” assume un senso perentorio, che esclude definitivamente la possibilità per l'uomo di conoscere i tempi stabiliti nel segreto del Padre; un'esclusione che investe non solo gli uomini, ma anche gli angeli e lo stesso Figlio. Un'affermazione quest'ultima che crea certamente imbarazzo: come può il Figlio, di pari dignità e natura del Padre non essere a conoscenza dei progetti del Padre, considerato che il Figlio è rivelazione del Padre? Com'è, dunque, possibile questa esclusione del Figlio dalle conoscenze del Padre?

L'interrogativo ci porta alle relazioni che intercorrono tra il Padre e il Figlio e, quindi, ci colloca direttamente nel Mistero di Dio, che vede il Figlio nella totale dipendenza del Padre, così che “il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa” (Gv 5,19). Una posizione questa che viene ribadita anche in Gv 5,30: “Io non posso far nulla da me stesso; giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”. Anche la capacità di giudizio di Gesù, dunque, dipende da ciò che egli ascolta dal Padre, di cui cerca la sua volontà, essendo egli, quale Verbo eterno del Padre, rivolto verso di lui fin dall'eternità divina: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1), dove quel “presso Dio” è reso in greco con “prÕj tÕn qeÒn” (pròs tòn tzeón), che parimenti significa anche “verso il Padre”, definendo, quindi, la stato del Figlio fortemente orientato verso il Padre, che si manifesta in una forte tensione di ascolto e accoglienza in se stesso del Padre, così che a Filippo dirà che chi vede lui, Gesù, vede il Padre e le parole e le opere che Gesù compie sono parole e opere del Padre e non sue. In tal senso egli è rivelazione e azione del Padre (Gv 14,9-10). Vi è, quindi, una forte dipendenza del Figlio dal Padre, di cui è Verbo eterno, cioè rivelazione del Padre, così che Gesù dirà ai suoi: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). Quindi Gesù rivela ciò che “ha udito dal Padre” e quindi ciò che il Padre gli ha rivelato. Non va mai dimenticato che pur possedendo i Due la stessa e identica natura divina, tuttavia sono due persone completamente diverse e distinte tra loro, che nella dinamica trinitaria occupano posizioni completamente diverse. Il Figlio nei confronti del Padre ha la funzione di essere espressione e rivelazione della volontà del Padre, ma non a prescindere dal Padre, ma in dipendenza del Padre e da tutto ciò che il Padre gli rivela, ma non oltre.

In aggiunta a questa si pone, poi, una seconda questione, quella della natura umana di questo Verbo eterno del Padre (Gv 1,14), che lo pone in una ulteriore diversa posizione nei confronti del Padre, avendo egli assunto una natura umana, per cui, nei confronti del Padre, il Figlio non è più semplicemente Figlio, ma è il Figlio-Gesù, cioè il Figlio incarnato che ha assunto una dimensione storica, ben diversa da quella che era precedente all'incarnazione, tant'è che Gv 1,14 dirà “Ð lÒgoj s¦rx ™gšneto” (o lógos sàrx eghéneto), cioè “il Verbo divenne carne”, la quale cosa induce a pensare che nella cerchia dei Tre con quel “divenne” sia avvenuta una mutazione33. E in tal senso Paolo si sentirà di dover precisare in Rm 1,4: “riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore”. In altri termini il Padre con la risurrezione ha riconosciuto Gesù come il suo Figlio incarnato, ricostituendolo in un certo qual modo all'interno della Trinità in qualità di Figlio-incarnato-risorto.

Per poter comprendere, quindi, questo lato oscuro di Gesù, cioè la sua nescienza circa la fine del mondo, è necessario riferirsi a ciò che è avvenuto nell'incarnazione. Egli, infatti, “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma svuotò (ekšnwsen, ekénosen) se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini [...]” (Fil 2,6-7). Ed è proprio qui, a mio avviso, che si trova la soluzione del problema: Gesù, pur essendo Dio, è venuto in mezzo a noi accettando in pieno la nostra condizione umana, rivestendosi anche lui di una carne decaduta, una carne adamitica, di peccato. Egli qui in mezzo a noi ha operato in veste umana e non divina, benché la potenza del suo operare umano fosse sostanziata dal suo essere Dio e, per questo, redentrice e salvifica. Ma al di là di questo potere divino salvifico operante in lui, egli non possedeva altro. Gesù non è nato onnisciente, non sapeva esattamente fin da piccolo cosa fare nella sua missione, né dove questa l'avrebbe portato. Gesù non recitava un ruolo come da copione, ma viveva in conformità alla volontà del Padre (Gv 4,34), che lui cercava di scoprire e di comprendere. Solo il tempo e l'attento ascolto delle Scritture (Lv 4,17-21; 24,27) e dello Spirito (Lc 3,22; 4,1.14) incominciarono a far luce sulla sua identità e sui suoi destini, risvegliando in lui la coscienza della sua identità (Lc 2,40.52). Egli infatti svuotò se stesso da ogni prerogativa divina, che non fosse quella strettamente salvifica, compresa quella di conoscere i progetti del Padre, se non strettamente inerenti alla sua missione. Insomma, l'efficacia del suo operare era divino, ma il suo operare era squisitamente umano e come tale si muoveva. E così similmente dicasi degli angeli. Il conoscere delle cose di Dio è soltanto atto di donazione del Padre, che opera nel Figlio e in lui e per lui si rivela (Gv 14,9-11). Nessuno può cogliere il mistero di Dio e del suo mondo se questo non gli è rivelato, cioè donato (Gv 3,27). Poiché la conoscenza di Dio e dei suoi disegni salvifici non è mai frutto di intelligenza, ma di compartecipazione, che si radica in un dono di amore. Conoscere Dio è soltanto un conoscere che attinge alla rivelazione e, quindi, una conoscenza mediata. Questo lo è per l'uomo e per ogni altra creatura. L'incarnazione ha posto Gesù nei confronti del Padre in una condizione creaturale, che sarà superata soltanto nella risurrezione, venendo costituito in essa Figlio di Dio per la potenza dello Spirito (Rm 1,3-4). Se, infatti, l'operare storico di Gesù non fosse stato recuperato dalla sua risurrezione, tutto si sarebbe ridotto all'operare di un saggio del suo tempo, opinabile nel suo porsi e nel suo dire, ma niente di più (1Cor 15,14-19). Un personaggio vittima anche lui del relativismo della storia. È soltanto la risurrezione che dà peso, valore ed efficacia alla sua missione, rendendola universalmente salvifica (1Cor 15,20-22).

Appello alla vigilanza e la sua motivazione (v.34)

Conseguente alla premessa del v.32, che attestava che “Riguardo a quel giorno o all'ora nessuno sa”, il v.33 trae le sue conclusioni, ergo: “State attenti, vegliate; non sapete, infatti, quando è il tempo”. Torna per la quarta ed ultima volta il “blšpete” (blépete, state attenti, badate) che ha caratterizzato l'intero discorso escatologico, che, unitamente ad altri numerosi verbi posti all'imperativo esortativo e disseminati ovunque, ne fa una parenesi per le comunità credenti, che si trovano a dover affrontare numerose difficoltà, che mettono in discussione non solo la loro sopravvivenza, ma anche quella di ogni loro singolo membro.

Al verbo “blšpete” (blépete) fa subito seguito il verbo “¢grupne‹te” (agripneîte, vigilate), che, come s'è visto sopra, è un verbo inusuale per sollecitare alla vigilanza, se si pensa che tale sollecito, che si ripeterà altre tre volte nella pericope vv.34-37, viene fatto con il verbo più appropriato “grhgoršw” (gregoréo)34. Il motivo per cui Marco usa questo verbo insolito al posto di “grhgoršw” (gregoréo), risiede nel fatto che il v.33 è stato mutuato altrove o più semplicemente perché il verbo “¢grupne‹te” (agripneîte) ha un peso specifico più intenso dell'altro, di uso più comune.

Il v.33, scandito in due parti, sollecito alla vigilanza (“State attenti, vegliate”), fatto seguire dalla motivazione (“non sapete, infatti, quando è il tempo”), costituisce il tema che verrà ripreso e sviluppato dalla parabola, inframezzata continuamente, quasi in modo ossessivo, dal richiamo alla vigilanza. Una parabola che Marco ha rimaneggiato profondamente per adattarla ai suoi scopi.

La parabola, intercalata da continui richiami alla vigilanza (vv.34-36)

Tutto gira attorno ad un padrone di casa che se ne parte per un viaggio, lasciando la sua casa ai suoi servi, affidando a ciascuno la propria incombenza, ma ad uno solo ha assegnato l'incarico di “vigilare”, al portiere, che, di fatto, per la posizione che occupa, fa le veci del suo padrone. Non è difficile ravvisare nel v.34 la metafora della chiesa, definita la casa del padrone. Questa viene affidata a ciascun membro secondo le proprie competenze e responsabilità, ma uno solo ne è il capo e a questo è affidato il compito di vigilare sull'intera casa.

Il v.34 termina con il verbo aggancio “vigilare” (grhgorÍ, gregorê), che verrà ripreso in apertura del v.35 (grhgore‹te, gregoreîte), dando consequenzialità logica ai due versetti e rilevando nel contempo l'importanza del vigilare. Un versetto che è scandito in tre parti: a) l'esortazione a vigilare: “grhgore‹te oân” (gregoreîte ûn, vigilante dunque), dove quel “dunque” diventa da un lato rafforzativo del “grhgore‹te”, rendendolo ineluttabile; dall'altro, prepara il campo al seguito del v.35, che chiarisce il motivo di questa ineluttabilità a vegliare e a vigilare: l'inconoscibilità del ritorno del padrone di casa. Il vigilare, pertanto, diviene l'unico mezzo che rimane al credente per non farsi prendere di sorpresa dal ritorno del Signore.

Marco conclude il v.35 scandendo con meticolosità il tempo, ritmandolo secondo lo schema delle vigilie o veglie romane, che si richiamano all'inquadramento militare delle sentinelle e, quindi, alla severità con cui si accompagna questo vigilare: “o alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino”, che abbraccia l'intera notte, metafora del tempo in cui sta vivendo la chiesa lontana dal suo Signore (Rm 13,11-12). La sera corrisponde alla prima vigilia o veglia, che va dalle nostre ore 18,00 alle 21,00; mezzanotte, corrisponde al termine della seconda veglia, tra le 21,00 e le 24,00; il canto del gallo corrisponde al termine della terza vigilia, dalle 00,00 alle 3,00 del mattino; il mattino indica la fine della quarta viglia e della notte, dalle 3,00 alle 6,00 del mattino. Ogni momento è, dunque, buono per il ritorno del Signore. Da qui la indiscutibile e insostituibile necessità a vegliare, che deve qualificare il vivere quotidiano della chiesa e di ogni credente.

Una necessità, quella del vegliare, che il v.36 motiva a sua volta: “affinché, venuto repentinamente, non vi trovi addormentati”, cioè dispersi nelle cose della quotidianità e totalmente impreparati all'incontro con il Signore. Un'esortazione che spinge ogni credente a riorientare la propria vita verso il Signore che viene e non che verrà, poiché ogni momento può essere quello opportuno e stabilito nel segreto progetto di salvezza del Padre. Un'esortazione attorno alla quale gira l'intera parabola matteana delle dieci vergini (Mt 25,1-13), al centro della quale campeggia il grido esploso nel cuore della notte: “A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!” (Mt 25,6). Essa si concluderà con l'esortazione: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora” (Mt 25,13).

Un richiamo rivolto anche ai futuri credenti (v.37)

Il lungo discorso escatologico termina con un'esortazione che dalla ristretta cerchia dei quattro discepoli, a cui Gesù ha rivolto l'insegnamento parenetico, deve rimbalzare “a tutti”. L'indefinibile anonimato di questo “tutti” gli assegna una dimensione universale, che si estende anche ai futuri credenti. Il vegliare, dunque, deve essere una nota qualificante del vivere della chiesa e di ogni suo membro, caratterizzando in tal modo la forte tensione escatologica del loro modo di vivere.

Un sollecito che verrà anche dalla Lettera ai Colossesi: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra”; che fa da eco all'esortazione di Paolo ai Corinti: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!” (1Cor 7,29-31).

Un ammonimento che l'autore della Lettera a Diogneto farà proprio, descrivendo il comportamento che caratterizza i cristiani nel mondo: “Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo”, lasciando intravvedere quasi in filigrana la forte tensione escatologica che anima la vita del credente.



NO T E

1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima (1,2-8,30) riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio; la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme, dove si compiranno i Misteri della passione, morte e risurrezione. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10, dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

2Quanto al tema delle attese escatologiche cfr. Rm 13,11-14; 1Cor 7,29-31; Fil 1,9-11; 1Ts 2,19; 3,13; 4,15-18; 5,1-6.23; 2Ts 2,1-17; 3,11-13; Gc 5,7-8; 1Gv 2,28; 2Pt 3,3.8-18; Eb 10,24-25; Ap 22,10-12.20.

3Cfr. Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, Libro VI, paragrafo 420: “Il numero complessivo dei prigionieri catturati nel corso dell'intera guerra fu di novantasettemila, quelli dei morti dal principio alla fine dell'assedio fu di un milione e centomila”.

4Eusebio da Cesarea, Storia ecclesiastica, Libro III,5: “Il popolo della Chiesa di Gerusalemme, invece, grazie ad una profezia rivelata ai notabili del luogo, ricevette l'ordine di emigrare di là, prima che scoppiasse la guerra, e di stabilirsi in una città della Perea chiamata Pella, dove i fedeli di Cristo emigrarono da Gerusalemme, così che gli uomini santi abbandonarono completamente la metropoli reale dei Giudei e l'intera Giudea. Allora la giustizia di Dio punì i Giudei per tutti i crimini commessi contro Cristo e i suoi apostoli, come se volesse eliminare completamente dall'umanità una simile stirpe di empi.”.

5Cfr. At 4,1-3; 5,18; 9,1-2.21;12,1-3

6Cfr. G. Flavio, Guerra giudaica, II, 57

7Cfr. G. Flavio, Guerra giudaica, II, 60-64

8Cfr. Cfr. G. Floramo e D. Menozzi, Storia del Cristianesimo, L'Antichità, edizioni Editori La Terza, Bari 1997

9Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XX, 97

10Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XX 169-172

11Cfr. 1Gv 2,18.19.22; 4,1.3.4.5

12Cfr. 1Cor 1,11-12; 2Cor 11,3-5.13; 12,11; Gal 1,6-7; 2,4; 1Tm 4,1-2; Cfr. anche 2Pt 2,1-2; 3,3.8-10

13Cfr. nota 2 qui sopra.

14Sulla questione dell'apocalittica ed escatologia cfr. la voce “Apocalittica” in Nuovo Dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione ristampata e integrata 2005; in Nuovo Dizionario di Teologi a Biblica, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1998; in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999.

15Cfr. nota 2, qui sopra

16Cfr. Mt 24,2; Lc 21,6; Gv 2,19-21

17Significativo in tal senso è Gv 1,14 dove si dice: “E la Parola divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la sua gloria, gloria come unigenito da Padre, piena di grazia e di verità”. L'incarnarsi del Verbo eterno del Padre, contemplato nella sua eternità (Gv 1,1-3), viene definito come un “attendarsi” presso di noi (“™sk»nwsen ™n ¹m‹n”, eskénosen en imîn). L'allusione qui è al primo Tempio di Israele, una Tenda che si muoveva e camminava con il popolo nel deserto. L'incarnazione del Verbo, dunque, è vista come la costituzione di un nuovo Tempio in Israele, dove c'era la presenza di Dio, raggiungibile e contemplabile nel dispiegarsi storico di questo Verbo attendato in mezzo a noi.

18Cfr. Rm 8,19-23; 1Cor 15,24-28; Ap 22,1.5

19Sulla storicità di Lc 21,20 cfr. G. Flavio, Guerra Giudaica, Libro V, 498-499 e 508-512.

20Cfr. G. Flavio, Guerra Giudaica, Libro V, 512-519

21Cfr. G. Flavio, Guerra Giudaica, IV, §163

22Il verbo ˜sthkÒta” (estekóta) non può essere considerato di genere maschile singolare, poiché se così fosse il participio dovrebbe essere letto come un accusativo e di conseguenza non può fungere da soggetto del verbo “de‹” (deî), poiché il soggetto va sempre posto al nominativo; né può essere riferito al sostantivo “bdšlugma” (Bdéligma), poiché questo, pur essendo all'accusativo, è di genere neutro singolare e quindi anche il participio perfetto in questo caso dovrebbe essere un neutro singolare, in quanto va accordato con “bdšlugma” (Bdéligma). Non resta che comprendere il verbo “˜sthkÒta” (estekóta) come un neutro plurale nominativo in quanto soggetto del verbo “de‹” (deî), posto alla terza persona singolare perché il soggetto è un neutro plurale, che richiede per questo il verbo al singolare.

23Sul tema della misericordia di Dio verso i peccatori, ottenuta per intercessione dei giusti cfr. anche Sal 106,21-23; Ger 5,1; Ez 22,30

24Cfr. K. Bihlmeyer-H. Tuechle, Storia della chiesa, 1-L'antichità cristiana, ed. Editrice Morcellania, Brescia, Tredicesima edizione 2000, pag. 105

25I quattro “blšpete” sono posti in apertura dei vv.5.9.23.33 e pongono sotto sollecito a fare attenzione le pericopi che da questi dipendono. L'intero discorso escatologico è comunque disseminato di imperativi esortativi, divenendo, proprio perché escatologico, anche una grande esortazione a tutte le comunità che si trovano in grandi afflizioni, spingendole a leggere i segni dei tempi e, di conseguenza, sapersi come comportare.

26Sulla questione dei sinedri locali e delle sinagoghe cfr. le voci “Sinedrio” e “Sinagoga” in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 2005, nuova edizione rivista e integrata.

27La lettera a Diogneto è opera di un autore anonimo, databile intorno al II sec. d.C. ed è indirizzata probabilmente ad un catecumeno che intende conoscere e aderire alla nuova fede.

28Cfr. Is 13,9-10; 34,4; Ez 32,7-8; Gl 2,10-11; 3,4; 4,14-15; Dn 7,13; Ap 6,12-14; 8,12

29Cfr. Sal 10,4a; 102,19; 114,3; 122,1; Is 63,15; 66,1

30Sulla questione cfr. la voce “Principati e Potestà” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999

31La Seconda lettera di Pietro, infatti, è databile intorno al 125 d.C. Tempo questo in cui si sarebbe dovuta già realizzare la promessa del ritorno di Gesù, ma tutto sembrava scorrere nella normalità delle cose e del tempo: “Dov'è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2Pt 3,4).

32La notte, secondo il modo di scandirla proprio dei Romani, è suddivisa in quattro vigilie o veglie notturne, della durata di tre ore ciascuna a partire dalle nostre ore 18,00. Il termine vigilia o veglia è mutuato dal gergo militare e corrispondeva ai quattro turni di guardia delle sentinelle. Marco, infatti, al v.35b scandirà con il termine temporale comune queste quattro vigilie o veglie: sera, mezzanotte, canto del gallo e mattino.

33In merito alla questione trinitaria si legga il piccolo studio elaborato sul vangelo di Giovanni, dal titolo “L'archittetura di Dio”: https://digilander.libero.it/longi48/Trinita.pdf

34Il verbo ¢grupne‹te(agripneîte) è presente in tutto il N.T soltanto quattro volte contro le ventidue volte di grhgoršw” (gregoréo). Viceversa il verbo “grhgoršw” (gregoréo) è totalmente assente nell'A.T., poiché tale verbo è strettamente legato al mondo romano e in questo ai turni di guardia notturni, le cosiddette veglie o vigilie; mentre il verbo ““¢grupne‹te(agripneîte) è presente 10 volte, quasi totalmente nei libri sapienziali.