IL VANGELO SECONDO GIOVANNI


L'attività pubblica di Gesù
incorniciata da quattro
grandi feste ebraiche

ossia

l'operare trasformante
e rigenerante di Gesù
collocato nel cuore
del culto giudaico,
preludio ad un nuovo culto



Commento esegetico e teologico
ai
Capp. 5 - 10

a cura di Giovanni Lonardi




CAPITOLO OTTAVO

Tra continue diatribe e tensioni,
percorse dal tema della morte,
emerge la vera origine di Gesù






Note generali al cap.8


Il contesto del cap.7 era caratterizzato da incomprensioni e contrasti tra Gesù e il giudaismo, percorsi dal tema della morte (7,19.20.25). Lo sfondo era quello della festività della Capanne (7,2.14a.37a), da cui emergeva l'identità di Gesù come Messia e come Profeta messianico (7,26-27.31.40.41-42), in consonanza con le attese della venuta del messia in questa festa. In continuità con il cap.7 il cap.8 ne riprende il clima di tensioni e di attriti e ne accentua i toni esasperandoli. Tuttavia il suo intento primario è quello di mettere in evidenza un altro aspetto dell'identità di Gesù: la sua origine divina e quindi la sua stessa divinità1. Lo sfondo su cui si muove l'intero capitolo è sempre la festa delle Capanne e più precisamente, come vedremo, l'ottavo giorno della festività. Il contesto tuttavia che l'autore qui richiama all'attenzione del lettore è il tempio, in cui si svolge l'intera azione del cap.8. Parallelamente al cap.7, in cui si sottolineava la festa, richiamandola in 7,2.14a.37a, qui al cap.8 si sottolinea l'azione di Gesù, collocata all'interno della cornice del tempio (vv.2.20.59), quasi a voler sottolineare la presa di possesso della casa del Padre da parte di Gesù (2,15-17), il cui corpo è in qualche modo in esso prefigurato (2,19-21). Qui il clima è fortemente surriscaldato, fatto da un susseguirsi continuo di diatribe, sempre più serrate, che si muovono tra accuse e insulti reciproci (vv.33-58), che danno l'idea più di battibecchi che di vere e proprie dispute, spingendosi fino al punto di venire alle mani (v.59). Anche in questo capitolo non mancano gli accenni alla morte incombente su Gesù e da lui stesso denunciata (vv.22.37.40). Ora il cammino verso il Golgota, con i capp.7 e 8, si fa sempre più concreto. Il tema del morire ormai non è più sussurrato, ma appare sempre più evidente nelle denunce di Gesù e nelle trame delle autorità giudaiche2; nei diversi tentativi di arresto3 non conclusisi, perché non è ancora giunta l'ora di Gesù (7,30; 8,20); nelle sempre più infuocate diatribe e scontri che tendono a degenerare in forme di linciaggi fisici (8,59; 10,31-33; 11,8). Con i capp.7 e 8 il racconto giovanneo subisce una brusca accelerazione verso il Golgota e verso quell'ora il cui compimento verrà annunciato per la prima volta in 12,23.

Incluso tra due movimenti uguali e contrari, Gesù entra nel tempio al v.2 e se ne esce al v.59b, il cap.8 si presenta come una sezione narrativa ben delimitata e compatta con una macrostruttura scandita in cinque parti:

  1. vv.1-2: introduzione al capitolo, che personalmente ritengo di redazione giovannea e quindi non associabile al racconto dell'adultera, ma ai tre discorsi che compongono il restante cap.8 e ai quali originariamente faceva da preambolo ed era narrativamente legata;

  1. vv.3-11: il racconto dell'adultera, che ormai unanimemente gli studiosi ritengono un'aggiunta tardiva; posizione su cui mi trovo d'accordo;

  1. vv.12-20: il primo discorso di questa sezione è il sesto nell'ordine generale con cui si presentano i numerosi discorsi che popolano l'intero vangelo giovanneo4. Esso si apre con un solenne annuncio di Gesù, che si autoproclama luce del mondo (v.12) e che provoca da parte dei Farisei l'accusa di incapacità di valida testimonianza nei suoi confronti perché autoreferenziale (vv.13); al contrario Gesù ne sottolinea la validità (v.14a) perché la sua testimonianza è data in concordanza e in comunione con il Padre (vv.16.18), da cui egli proviene (v.14b) e dal quale è inviato (v.16b). L'accusa ora si ritorce da Gesù contro i Giudei, che non conoscono né la provenienza di Gesù (v.14c), né tantomeno conoscono lui e il Padre (v.19);

  2. vv.21-30: secondo discorso, il settimo nell'ordine generale. Le diverse e contrapposte origini di Gesù e dei Giudei rendono incomprensibile Gesù ai Giudei (v.23), la cui incredulità preclude loro la salvezza (vv.21.24). Soltanto dopo la sua morte e risurrezione essi comprenderanno chi era veramente lui e la verità del suo annuncio, in cui si era rivelato il Padre;

  3. vv.31-59: terzo discorso, l'ottavo nell'ordine generale. Si tratta di un lungo quanto strutturalmente complesso discorso, in cui, in un continuo crescendo, vengono poste a confronto le due origini: quella di Gesù e quella dei Giudei. Questi si autodefiniscono “discendenza di Abramo” (v.33a), chiamato loro padre (v.39a), così come loro padre chiamano Dio (v.41b). In realtà, afferma Gesù, il loro vero padre è il diavolo (v.44a), perché come lui essi sono omicidi, in quanto lo vogliono uccidere (v.37.40); e menzogneri, poiché si dichiarano discendenza di Abramo e chiamano Dio loro padre, ma non ne compiono le opere e non ne riconoscono la verità che si manifesta in lui. Ma nel contempo viene evidenziata la vera origine di Gesù, quella divina (vv.40.42.55-58). Il filo conduttore qui è la figura di Abramo che percorre trasversalmente l'intero terzo discorso e viene posta a confronto con quella di Gesù (v.53) e che Gesù chiama a sua testimonianza (vv.56-58).


Tutti tre i discorsi riguardano l'identità di Gesù, il suo rapporto con il Padre e la sua origine divina. Per contro i Giudei ignorano tutto su Gesù perché si pongono su di una prospettiva umana, dettata dalla loro Tradizione, da quella Tradizione che il Gesù sinottico definisce “dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7). Ed è proprio questa cieca e acritica fedeltà alla Tradizione che, come si è visto nel cap.75, ha impedito al giudaismo un'evoluzione spirituale verso il nuovo evento Gesù, di cui la Torah e i Profeti avevano in qualche modo parlato (5,39; Lc 24,27), ma che il radicamento alla lettera delle Scritture piuttosto che al loro spirito, aveva impedito loro di coglierlo, cosa che invece fece il giudeocristianesimo.

Tutti tre i discorsi sono introdotti da una sentenza (vv.12; 21; 31-32) da cui si diparte e si sviluppa il dibattito. La prima sentenza (v.12) è di carattere generale e riguarda l'identità di Gesù che si proclama luce del mondo; la seconda (v.21) è rivolta contro l'incredulità dei Giudei, che non avranno accesso né al Mistero di Gesù, né al suo regno a motivo della loro incredulità; la terza (vv.31-32) riguarda il giudaismo credente, che ha aderito a Gesù e al quale l'autore riserverà l'intero cap.9.


La questione della pericope 7,53-8,11


Prima di introdurci al commento si rende necessaria una precisazione circa la pericope 7,53-8,11 che manca nei codici più antichi e più importanti quali quello Vaticano (circa 325-350 d.C.) e Sinaitico (circa 330-360 d.C.), nonché nei P45 (circa 250 d.C.), P66 (circa 200 d.C.) e P75 (circa 175-225 d.C.). Tutti questi testi fanno parte dell'area greca. Nell'area latina, la pericope in questione gode di una migliore attestazione fin dal IV sec. Ora la chiesa latina non ha avuto una tradizione testuale propria, ma i propri testi sono stati copiati da quelli greci. Se quindi l'area occidentale è riuscita a recuperare questa pericope e senza problemi l'ha conservata nei propri testi, ciò significa che la pericope era comunque ampiamente diffusa anche nella chiesa di lingua greca. Del resto anche il codice Beza (circa 380-420 d.C.) riporta la nostra pericope. Lo stesso Girolamo (347-420 d.C.), a cui papa Damaso I (366-384 d.C.) aveva affidato la traduzione della Bibbia dal greco al latino (382 d.C.), aveva attestato come il racconto dell'adultera si trovasse in molti codici latini e greci e per questo lo inserisce anche lui nella sua Vulgata. Sempre nell'area latina, l'episodio si trova attestato negli scritti di s.Ambrogio (339-397 d.C.) e di s.Agostino (354-430 d.C.). Lo stesso Eusebio da Cesarea (265-340 d.C.) nella su Storia Ecclesiastica (Hist. III,39,17) afferma che Papaia (70-150 circa d.C.), vescovo di Gerapoli, parla di una donna accusata di molti peccati davanti al Signore, episodio raccontato nel Vangelo degli Ebrei6. Rufino da Aquileia (345-411 d.C.), nella sua versione latina della Storia ecclesiastica di Eusebio, scritta in greco, identifica l'episodio con quello della donna adultera. Se così è, allora l'episodio rivela antiche origini palestinesi7, databili intorno ai primi anni del II sec. Dall'insieme dei dati fin qui riportati si può attestare con una certa tranquillità che questa pericope faceva parte del vangelo di Giovanni, anche se tardivamente inserita, probabilmente da un suo discepolo nel primo decennio del II sec., epoca questa in cui l'ultima redazione del vangelo giovanneo era da poco terminata8.

Ora tuttavia rimane da capire perché i maggiori codici non la riportano, mentre altri invece la conservano e perché assieme al racconto dell'adultera siano stati omessi anche i vv.7,53-8,2.

Il racconto dell'adultera si trova soltanto nel vangelo di Giovanni. Ciò significa che il racconto è nato all'interno della cerchia dei discepoli giovannei e chi lo ha interpolato doveva avere sufficiente autorità e credibilità per farlo, forse lo stesso redattore finale. I vangeli non potevano essere facilmente manipolati, specialmente nel II sec., epoca questa in cui sorse la canonizzazione della letteratura neotestamentaria e i testi erano passati al vaglio delle autorità ecclesiastiche, che ne valutavano l'apostolicità, la correttezza dottrinale e l'ampia diffusione presso le comunità credenti9. Il copista pertanto poteva interpolare o storpiare una qualche parola o un qualche versetto, ma non di certo aggiungere o togliere a piacimento intere pericopi della consistenza di 7,53-8,11. Ora se ciò è avvenuto significa che chi ha omesso la pericope era a conoscenza dell'aggiunta tardiva e l'ha pertanto omessa, probabilmente per rispettare l'originalità dello scritto; chi invece l'ha riportata o ha accettato l'autorità del suo interpolatore o non ne era a conoscenza, per cui ha preso per buona l'interpolazione, riportandola integralmente. Un altro motivo di omissione della pericope, e non ultimo, va ricercato nella rigida disciplina sessuale e matrimoniale in essere presso la chiesa antica, che non vedeva di buon occhio un Gesù misericordioso e perdonativo nei confronti della donna adultera. Di ciò ci dà testimonianza lo stesso s.Agostino nella sua opera “I connubii adulterini” (2,7.6): “Tutto questo è inaccettabile, evidentemente, per l'intelletto dei non credenti: infatti alcuni di fede debole, o piuttosto nemici della fede autentica, per timore, io credo, di concedere alle loro mogli l'impunità di peccare, tolgono dai loro codici il gesto di indulgenza che il Signore compì verso l'adultera, come se colui che disse: d'ora in poi non peccare più avesse concesso il permesso di peccare, o come se la donna non dovesse essere guarita dal Dio risanatore con il perdono del suo peccato, perché non ne venissero offesi degli insensati”.

Certo quanto fin qui detto non costituisce prova, ma è la spiegazione più probabile e ragionevole per spiegare il perché questa pericope compare in certe copie ed è omessa in certe altre e perché è accolta con favore presso la chiesa d'occidente, mentre viene taciuta da quella d'oriente.

Ora si pone un'altra questione: l'entità dell'omissione circoscritta ai vv.7,53-8,11. I copisti che hanno omesso questa pericope hanno a mio avviso commesso un errore di lettura, includendo nell'omissione anche i vv.7,53-8,2, che, per le ragioni che dirò ora, fanno parte del racconto originale e non sono stati interpolati. Infatti chi li ha omessi deve averli interpretati come introduttivi al racconto dell'adultera e pertanto legati al racconto stesso, ritenendoli, alla pari del racconto, interpolati. Ora l'omissione dei vv.7,53-8,2 crea dei seri problemi al ritmo narrativo, spezzando la logica e la continuità narrativa dei capp.7-8. Togliendo questi versetti infatti il cap.8 inizierebbe al v.12, che andrebbe posto immediatamente dopo il v. 7,52. Così il racconto riparte ex abrupto con un redazionale “Di nuovo, dunque, Gesù parlò dicendo”, fatto seguire da tre lunghi discorsi che occupano l'intero cap.8. Si verrebbe a creare una cesura netta che tronca la narrazione precedente, trasportandoci inaspettatamente e all'improvviso in un diverso contesto. Ne risentirebbe inoltre la conclusione della pericope 7,45-52, che verrebbe lasciata in sospeso, mancando il v.53. Si verrebbe a verificare inoltre un intasamento narrativo poiché nell'ultimo giorno della festa delle Capanne, annunciato in 7,37, ci starebbero dentro oltre che l'ultima parte del cap.7 (vv.37-52) anche gli interi capp.8 e 9 e, per una certa esegesi, anche parte del cap.10. Inoltre diventerebbe impossibile capire di quale giorno si tratti, quello che viene annunciato al v.7,37: “nell'ultimo giorno della festa, il più grande”, se del settimo o dell'ottavo giorno. Lasciando invece il v.8,2, si viene a sapere che Gesù sale nuovamente al tempio, dove, sedutosi, ammaestrava la gente. L'ammaestramento di cui si parla sono appunto i tre discorsi che partono dal v.12 e si estendono all'intero cap.8. Lasciando quindi i vv.7,53-8,2 l'intero apparato narrativo acquista una sua armonia e una sua coerenza logica, che rispetta la dinamica narrativa. Per questo insieme di motivi i vv.7,53-8,2 devono essere considerati, a mio avviso, originari e facenti parte del racconto giovanneo. Infatti, lasciando 7,53 si viene a chiudere il racconto delle guardie e della disputa tra sinedriti; il v.8,1 si pone in parallelo a 7,53, per cui anche Gesù, come i sinedriti, se ne torna a casa propria; mentre 8,2 apre, con l'annuncio di un nuovo giorno e dell'ammaestramento, una nuova fase narrativa che ha per sfondo sempre la festa delle Capanne, per cornice rilevante il tempio e per contenuto tre lunghi discorsi, da cui emerge l'origine e l'identità divine di Gesù, che vanno a completare l'identità messianica e profetica di Gesù emersa dal precedente cap.7. Entrambi i capitoli infine sono accomunati da un clima di forte tensione e di minacce incombenti su Gesù.


Commento al cap.8

L'introduzione

Testo (vv.1-2)

1- Ora, Gesù si incamminò verso il monte degli Ulivi.

2- Sul far del giorno, giunse nuovamente al tempio e tutto il popolo veniva da lui, e sedutosi li ammaestrava.


Commento ai vv.1-2

Il cap.7 si chiudeva con la segnalazione che i sinedriti, tra loro in disaccordo, “se ne andarono ciascuno a casa propria”. Similmente anche Gesù si incammina verso il monte degli Ulivi (8,1). Tutti quindi se ne tornano a casa loro, chiudendo così una fase narrativa. Un parallelismo sottolineato non soltanto dall'identico movimento, ma anche dall'uso dello stesso verbo (poreÚw, poreúo) fatto seguire dalla stessa particella di moto verso luogo (e„j, eis). La citazione del monte degli Ulivi, ricorrente nei Sinottici, in Giovanni compare soltanto qui. Non sembra esserci tuttavia nessun particolare riferimento scritturistico né una qualche allusione. La citazione sembra sottesa soltanto da una motivazione narrativa e di aggancio storico, distando il monte degli Ulivi da Gerusalemme “quanto il cammino permesso in un sabato” (At 1,12), equivalente ad una distanza di 2000 cubiti, cioè circa 900 mt10. Il monte, durante le tre festività di pellegrinaggio (Dt 16,16), proprio per la sua vicinanza, fungeva come estensione di Gerusalemme11. Lo stesso Luca, che riporta in 21,37-38 un'annotazione molto vicina a Gv 8,1-2, attesta l'abitudine di Gesù a pernottare sul monte degli Ulivi, consentendogli in tal modo di raggiungere rapidamente il tempio, dove svolgeva la sua attività di insegnamento: “Durante il giorno insegnava nel tempio, la notte usciva e pernottava all'aperto sul monte detto degli Ulivi. E tutto il popolo veniva a lui di buon mattino nel tempio per ascoltarlo”.

Il v.2 rispetto a 7,53-8,1, che sono più conclusivi del cap.7 che introduttivi del cap.8, apre il nuovo capitolo con una segnalazione di tipo temporale che se da un lato stacca nettamente il cap.7 dal cap.8, dall'altro ne dà una solida continuità narrativa e temporale, facendo del cap.8 il naturale proseguimento e completamento del cap.7: “Sul far del giorno, giunse nuovamente al tempio e tutto il popolo veniva da lui, e sedutosi li ammaestrava”. Il v.2 è scandito da tre movimenti, i primi due sono tra loro paralleli: Gesù va al tempio e la gente va da Gesù. Significativo è il verbo che Giovanni usa per indicare che Gesù si reca al tempio: “paregšneto”. Il verbo è composto dalla preposizione “para”, che significa “presso, verso” e dal verbo “gignomai”, che significa “diventare, essere”. L'andare di Gesù al tempio dunque è un farsi vicino e un diventare sempre più quel tempio che non solo è la casa di suo Padre, ma anche figura del suo nuovo corpo, in cui si celebrerà un nuovo culto gradito al Padre (2,14-21). Il terzo movimento indica l'attività di Gesù: l'ammaestramento, “sedutosi li ammaestrava”, in cui il sedersi indica la posizione caratteristica del maestro, che qui viene sottolineata da un verbo all'imperfetto indicativo per dire come il suo insegnare fosse continuo e in cui risuona in qualche modo quel “fiumi di acqua che vive scoreranno dal suo ventre” del v.7,38. Questi tre movimenti sono introdotti da una locuzione di tempo “”Orqrou” (Órtzru, Sul far del giorno), sottinteso “genomšnou” (ghenoménu), che se da un punto di vista narrativo apre una nuova pagina, dall'altro scandisce il ritmo del tempo della festività delle Capanne, facendo sì che l'ultimo giorno della festa, in cui Gesù si proclama vera acqua vivente che disseta (7,37), sia seguito dall'ottavo giorno, un giorno di transizione dalla grande festa, la cui durata era di sette giorni. Questo ottavo giorno è considerato un giorno a parte rispetto ai sette e costituisce una sorta di conclusione, un'appendice, e secondo il rituale posteriore della Mishnah in esso non si abita più sotto le capanne, benché vi sia ancora l'obbligo di rimanere a Gerusalemme. Si tratta di un giorno successivo alla festa, un passaggio verso la vita normale. In questo giorno anche i sacrifici al tempio erano quantitativamente minori12. E che si tratti dell'ottavo giorno della festività delle Capanne lo lascia intuire anche il primo movimento, in cui si dice che Gesù “giunse nuovamente al tempio”. Un avverbio questo che lascia intendere come Gesù ci sia già stato di recente, tanto da dover sottolineare con quel “nuovamente” di esserci ritornato sul far del giorno, dando l'idea di una continuità contigua. Del resto, come si è accennato sopra, la sottolineatura del v.8,1 dà da pensare come Gesù doveva aver pernottato sul monte degli Ulivi per essere pronto, già dal primo mattino, a recarsi nel tempio per continuare la sua attività di insegnamento. Vi è in tutto ciò una logica narrativa e probabilmente anche storica, confermata da Lc 21,37-38. Un insieme di tre elementi, pertanto, dice come qui ci troviamo nell'ottavo giorno della festa: a) il v.8,1; b) la locuzione “Órtzru”; c) l'avverbio “nuovamente”. Ma vi è anche un quarto motivo che dice come questo giorno sia l'ottavo. Al v.7,37, l'ultimo giorno della festa, Gesù gridava “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva”. Ora il v.8,2 dice: “tutto il popolo veniva da lui”. Pertanto, all'esortazione “venga a me” fa eco qui il “veniva da lui”; mentre l'espressione “se qualcuno” diventa “tutto il popolo”; e l'invito a bere da lui, da cui sgorgano fiumi di acqua vivente (7,38), è sintetizzato in quel “sedutosi li ammaestrava”. Vi è dunque anche un aggancio cristologico di questo giorno a quello ultimo della festa (v.7,37), che fa si che questo giorno sia quello successivo all'ultimo, cioè l'ottavo giorno, il giorno del compimento sovrabbondante.


L'episodio dell'adultera

Testo a lettura facilitata (vv.3-11)

Introduzione

3- Ora, gli Scribi e i Farisei conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo,

La questione da dibattere

4- gli dicono: <<Maestro, questa donna è stata sorpresa sul fatto mentre commetteva adulterio;

Mosè e Gesù a confronto

5- ora, nella Legge Mosè ci ha ordinato di lapidare queste tali. Tu, dunque, che cosa dici?>>.

Gesù riscrive la Legge ….

6- Ora, dicevano questo per metterlo alla prova, per avere (di che) accusarlo. Ma Gesù, chinatosi giù, scriveva con il dito sulla terra.
7- Ma poiché quelli che lo interrogavano insistevano, si alzò e disse loro: <<Il vostro immune da colpa lanci per primo una pietra contro di lei>>.
8- E di nuovo chinatosi, scriveva sulla terra.

. sulla base della misericordia e del perdono

9- Ma quelli, udito (ciò), se ne andavano fuori uno per uno, incominciando dai più vecchi e (Gesù) fu lasciato solo e la donna che era in mezzo.
10- Ora Gesù, alzatosi, le disse: <<Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?>>.
11- Quella disse: <<Nessuno, Signore>>. Gesù disse: <<Neppure io ti condanno; Va', e da ora non peccare più>>.

Note generali

Nell'economia narrativa dei capp.7-8 questo racconto dell'adultera sembra suonare come una stonatura. Si inserisce infatti tra i vv.1-2, che fungono da introduzione a tre nuovi discorsi di Gesù, e il v.12 con cui iniziano i tre discorsi, che apparentemente non hanno nulla a che vedere con questo racconto; il linguaggio non è certamente giovanneo e i ritmi narrativi sembrano essere più vicini ai sinottici e in particolare, considerato il tema della misericordia e del perdono nonché l'eleganza e la scorrevolezza con cui è stato steso questo racconto, a quelli lucani. In tutto il vangelo giovanneo non c'è nulla che assomigli ad un simile racconto; un racconto in cui si parla di misericordia e di perdono, tematiche totalmente estranee alla teologia giovannea, anche se l'espressione “Va', e da ora non peccare più” la si ritrova sostanzialmente identica in 5,14. È da chiedersi come un simile racconto sia piovuto in questo contesto; perché vi è stato posto. Un racconto che non ha paralleli nei sinottici e che quindi appare come una sorta di sondergut13 di Giovanni, ma che tuttavia non ne possiede lo stile né il linguaggio. È molto probabile, come si è sopra accennato (primo capoverso di pag.4), che il racconto provenga dai circoli giovannei14 e che sulla falsa riga dei racconti sinottici sia stato steso da un qualche discepolo, quasi certamente, come vedremo, inventato per il suo alto contenuto metaforico e simbolico, anche perché non era possibile che Gesù si mettesse scrivere per terra con un dito, considerato che il tempio era lastricato di pietra. Ecco che allora il suo scrivere sulla pietra con il dito acquista un significato tutto particolare. Soltanto leggendo questo racconto in termini metaforici e simbolici si può comprendere perché sia stato collocato in questo contesto e come questo racconto, ben lungi dall'essere una stonatura, in realtà diventa il cuore dei capp.7-8. Proprio per questa sua natura non ci soffermeremo a disquisire sulla sua storicità o sullo stato civile della donna adultera, se sposata o solo fidanzata, o se era già stata giudicata e condannata o se invece si aspettavano un parere da Gesù o cose simili, poiché gli intenti del suo autore erano altri. Il racconto quindi è stato reso verosimile, ma la sua lettura non è storica, ma simbolica e metaforica. È dunque necessario porsi di fronte a questo racconto, collocato in questo contesto, e chiedersi che cosa intendesse dire il suo autore.

Per poter comprendere la simbologia di questo racconto si rende necessario capire il contesto in cui è stato posto e che il racconto drammatizza:

Un'attenzione particolare va riservata a due verbi che si ripetono in coppia due volte (vv.6b.7b.8.10) e che rientrano nella teologia giovannea: “katakÚptw” (katakípto) e “anakÚptw” (anakípto); il primo indica il curvarsi, il piegarsi in giù verso il basso; il secondo l'alzarsi, l'andare in su, l'elevarsi. Sono i due movimenti che caratterizzano la missione di Gesù, che uscito dal Padre entra nel mondo per poi risalire al Padre. Un movimento pendolare significativamente espresso in 16,28: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e vado al Padre”. Il curvarsi in giù richiama l'incarnazione del Verbo (1,14), ma anche il piegarsi materno di Dio verso l'uomo a cui tende la mano nel Figlio; un uomo dapprima reso schiavo dal peccato (Rm 3,23) e ora imprigionato in una Legge che da un lato lo accusa (Rm 7,5-10), dall'altro si rivela del tutto incapace di riscattarlo (7,18-25), elevandolo verso quel Dio da cui è uscito. Il verbo “chinarsi in giù” viene qui usato in funzione di riscrivere la Legge, dandole un senso evolutivo e non più regressivo (vv.6a.8), legandola allo spirito e non più alla lettera (Rm 7,6). Porta in sé in qualche modo il senso della missione di Gesù: far evolvere l'uomo verso Dio. Il secondo verbo (anakípto) indica l'alzarsi, il salire in su, che lascia intravvedere sia la risurrezione che l'ascensione, che parlano del ritorno al Padre. Un verbo che qui viene usato sia per indicare all'uomo la sua incapacità di salvezza (v.7b) sia per annunciargli in Gesù la cessazione di ogni condanna (vv.10-11). In entrambi i casi per proclamare un nuovo e diverso livello di salvezza, non più legato alla Legge, ma alla fede in Gesù (1,12-13.17). Un elevarsi di Gesù verso il Padre da cui proviene, portando in sé e con sé l'uomo riscattato (Col 1,13; 3,3).

Commento ai vv.3-11

vv.3-5: il contesto in cui si inserisce il racconto è quello del secondo tempio16 e più precisamente, come sottolinea con puntigliosità quasi notarile il v.20a, il recinto della tesoreria detto anche cortile delle donne, perché segnava il confine al di là del quale le donne non potevano accedere17. Un luogo questo che doveva essere frequentato spesso da Gesù se anche Marco e Luca vi collocano l'episodio della vedova povera (Mc 12,42; Lc 21,2), raccontando come Gesù “sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro” (Mc 12,41a;); e similmente Luca: “Alzati gli occhi, vide alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro” (Lc 21,1). Quando dunque gli scribi e i farisei conducono la donna colta in flagranza di adulterio da Gesù, questi stava insegnando nell'atrio delle donne o tesoreria. Il racconto dell'adultera dunque si incunea all'interno dell'attività didascalica di Gesù e vedremo che in qualche modo ne farà parte. Compare qui la singolare accoppiata degli “scribi e farisei”, ricorrente nei Sinottici, ma del tutto inusuale in Giovanni dove si trova soltanto qui, così come soltanto qui appare la figura degli scribi. Questi conducono da Gesù una donna. Il verbo greco usato per “condurre” è “¥gw” (ágo), che significa spingere, muovere, portare; un verbo che dà l'idea del disprezzo con cui è trattata questa donna, quasi fosse un animale o un oggetto. Essa viene posta in mezzo. Non si dice esattamente dove, ma l'idea che ne viene è che essa sia posta in mezzo alle due parti, tra Gesù e le autorità religiose. Ci si trova dunque tra due schieramenti contrapposti in mezzo ai quali viene posto l'oggetto del contendere, non tanto la donna, spogliata di ogni identità e di ogni dignità, ma quanto lei rappresenta: un caso di violazione della Torah. La questione dunque si sposta subito dalla donna, volutamente anonima, alla Legge mosaica, che la condanna alla lapidazione (Lv 20,10; Dt 22,22-24). Una contrapposizione che si fa confronto e ciò diviene più evidente al v.5 dove si oppone Mosè a Gesù: “Mosè ci ha ordinato …. Tu dunque cosa dici”.

vv.6-9: Si è giunti ormai ai ferri corti e l'autore al v.6a svela gli intenti omicidi dei suoi interlocutori: “Ora, dicevano questo per metterlo alla prova, per avere (di che) accusarlo”. Sotto processo quindi non c'è soltanto la donna, ma con lei anche Gesù. Non sembra esserci scampo: Gesù si trova di fronte ad un aut aut: Mettersi contro Mosè, sostenendo la sua posizione critica nei confronti del modo di intendere la Torah; o dare ragione a Mosè, rinnegando la sua posizione. Ma Gesù, similmente al racconto del tributo a Cesare18, trova una terza via: “Ma Gesù, chinatosi giù, scriveva con il dito sulla terra”. Per due volte, qui e al v.8, viene evidenziato questo strano quanto bizzarro comportamento di Gesù. L'autore quindi sembra voler attrarre l'attenzione del suo lettore su tale comportamento. Ci si è chiesti che cosa Gesù stesse scrivendo per terra con il dito e fiumi d'inchiostro sono stati versati nelle più disparate ipotesi, che, a giochi finiti, tali sono rimaste. Ma qui il problema non è il contenuto, cioè ciò che Gesù stava scrivendo, ma lo scrivere stesso di Gesù; è questo gesto che l'autore indica al suo lettore e non ciò che Gesù ha scritto: “chinatosi giù, scriveva con il dito sulla terra”. Del resto, non va dimenticato, Gesù stava scrivendo sul pavimento dell'atrio delle donne, che certamente era di pietra, come l'intero cortile del Tempio che, secondo Giuseppe Flavio, “era pavimentato con pietre di svariate qualità e di diversi colori19. Ciò che disegnava con il dito quindi non poteva rimanere impresso e pertanto non poteva neppure essere letto. Per capire il comportamento di Gesù è necessario leggerlo: “chinatosi giù” (k£tw kÚyaj, káto kípsas); è l'atteggiamento di chi si avvicina dall'alto verso il basso, quasi andando incontro a qualcosa o a qualcuno, che si trova più in basso di lui. A questo punto Gesù “scriveva con il dito sulla terra”. Ecco ciò che conta “lo scrivere con il dito” sulla terra, che sappiamo essere però “pietra”. Gesù dunque, chinatosi giù scriveva con il dito sulla pietra. A rafforzare questo concetto c'è lo stesso verbo scrivere che, diversamente da quello contenuto al v.8, è qui reso con una forma verbale particolare: “katšgrafen” (katégrafen), il cui significato primario non è scrivere, bensì incidere, graffiare, sottolineando più l'azione di uno scalpellino che quella di uno scriba. Ed è esattamente ciò che Es 31,18 dice: “Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio” e così similmente in Dt 9,10: “il Signore mi diede le due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio, sulle quali stavano tutte le parole che il Signore vi aveva dette sul monte, in mezzo al fuoco, il giorno dell'assemblea”. Anche Dio quindi è sceso giù sul monte Sinai e lì con il suo dito ha scritto la sua Legge sulla pietra. Il comportamento di Gesù dunque riproduce esattamente quello di Dio sul Sinai. Gesù quindi sta qui riscrivendo la Legge mosaica con l'autorità stessa di Dio, riproducendone il comportamento, dichiarando in tal modo superata non tanto la Torah, quanto la modalità di approcciarsi ad essa e di intenderla, secondo la logica della lettera, soffocandone lo spirito di cui era portatrice. Un riscrivere che avviene sulla terra, quasi ad indicare come il suo essere venuto (“chinatosi giù”) abbia a che fare con questo riscrivere la Legge. Non a caso il verbo scrivere è seguito dalla preposizione “e„j” (eis) che esprime un moto verso luogo, dando così un senso finale allo scrivere. Egli infatti è la Parola del Padre, che manifesta e rivela le profondità di Dio e che aiuta l'uomo a vedere le cose dalla prospettiva di Dio, andando oltre alle apparenze della lettera.

Il v.7a denuncia l'inintelligenza di quelli che stavano assistendo allo strano comportamento di Gesù: “Ma poiché quelli che lo interrogavano insistevano”. Il v.7a inizia con un'avversativa “Ma”, che dice tutta l'opposizione e la chiusura di un giudaismo che non riusciva a trascendere la fisicità della Legge espressa nella lettera. I suoi avversari infatti che “lo interrogavano, insistevano”; due verbi all'imperfetto indicativo, un tempo verbale questo che dice il protrarsi di una simile, insistente e persistente chiusura, sostanzialmente invincibile per presa di posizione. Gesù pertanto, richiamandosi in qualche modo all'accusa mossa loro in 7,19, quella della loro incapacità di osservare la Legge, ora li sfida proprio su questa loro incapacità, ribaltando l'accusa mossa all'adultera su di loro: “Il vostro immune da colpa lanci per primo una pietra contro di lei>>”. Si noti l'ironia di quel “`O ¢nam£rthtoj” (O anamártetos), che letteralmente significa infallibile, immune da colpa, irreprensibile. Giovanni, a modo suo, sta qui riproponendo l'accusa di Paolo al giudaismo, che si riteneva giusto e santo, perché possessore della Torah: “Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi20; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose […] Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l'espressione della sapienza e della verità... ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che proibisci l'adulterio, sei adultero? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge? Infatti il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra i pagani, come sta scritto” (Rm 2,1.17-24).

Alla loro insistenza Gesù, dunque, risponde invitandoli a riflettere sulla loro comune condizione di peccatori, poiché nessuno di fronte a Dio può ritenersi in qualche modo giusto e santo. La Torah dunque va riletta e ricompresa dalla prospettiva di Dio e non dell'uomo; per questo Gesù sta riscrivendo la Torah secondo le logiche e il sentire di Dio e ne ha tutta l'autorità e il potere21. Egli infatti è per eccellenza il Logos Incarnato, colui che fin dall'eternità era presso Dio e ne conosce per questo le più recondite profondità, poiché egli non solo proviene da Dio, ma ne è stato anche generato22.

Il v.9 rileva come tutti se ne andarono, denunciando in tal modo la loro incapacità di giudizio, perché un peccatore non può ergersi a giudice verso un altro peccatore, condannando in lui ciò che egli stesso fa. Il giudizio, quindi, va rimesso soltanto a Dio, poiché “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23). Dio in Gesù sta dunque riscrivendo la sua Legge secondo le logiche non più della lettera, ma dello spirito che la vivifica. Il giudizio pertanto si dovrà espletare nel perdono e nella misericordia, poiché “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio” (Gc 2,13)23.

Il v.9 termina con un'annotazione significativa: “e (Gesù) fu lasciato solo e la donna che era in mezzo”. Ora nessun giudizio viene più posto, né su Gesù, che era stato messo alla prova per essere accusato; né sulla donna. Il giudaismo con il suo mondo della Lettera che accusa e condanna è scomparso, lasciando posto ad una nuova realtà, quella dell'amore del Padre che si è donato all'uomo nel Figlio perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (3,16). “Dio, infatti, non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è giudicato; ma chi non crede è già stato giudicato, poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di Dio”. Infatti “[...] la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità avvenne per mezzo di Gesù Cristo”. La venuta di Gesù dunque inaugura una nuova economia di salvezza non più fondata sulla lettera della Legge, ma sull'amore del Padre, che si è manifestato e attuato in Gesù. Per questo Paolo può dire con fermezza che “Non c'è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1).

I vv.10-11 chiudono il racconto dell'adultera con una constatazione: nessun verdetto è stato emesso; nessun giudizio si è compiuto. Il processo che si era instaurato nei confronti di Gesù (v.6a) e della donna si è disciolto, poiché questo è il tempo della misericordia e della salvezza e non del giudizio (3,17; 8,15b). La Legge mosaica perde il suo volto duro di giudice che condanna senza appello per confluire nell'economia dell'amore e della grazia. Per questo attorno a Gesù i rappresentanti e i sostenitori di questa Legge sono scomparsi ed è rimasto solo Gesù, il nuovo Mosè che sta riscrivendo con il dito di Dio una nuova legge, quella fondata sullo spirito che dona la vita e non la toglie “poiché voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6). Quel alzarsi di Gesù, con cui inizia il v.10, dice il suo alzare l'uomo dal suo stato di condanna, prospettandogli ora solo un futuro di perdono e di grazia, poiché “Non c'è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù.” (Rm 8,1), perché “la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità avvenne per mezzo di Gesù Cristo” (1,17).

Il v.11 si chiude con l'esortazione a riprendere e a proseguire quel cammino di rigenerazione che è iniziato con l'incontro con Gesù espresso con quel “da ora” che segna una netta cesura tra il prima e il dopo; tra il Primo e il Secondo Testamento. “Da ora” quindi inizia un cammino nuovo e l'uomo, rigenerato dall'incontro con il Verbo Incarnato (1,12-13), è posto in novità di vita, che si radica “da ora” nell'evento Gesù e non più nella Legge24. Ne consegue l'esortazione “e da ora non peccare più”. Nel nostro normale intendere, il non peccare significa non commettere dei peccati, cioè non commettere delle violazioni a dei divieti sacri, come i dieci comandamenti, per cui il peccare è un fare o non fare ciò che la Legge divina ci comanda. Ma l'espressione in questione va ben oltre a questa visione riduttiva. Infatti il verbo “¡mart£nw” (amartáno, peccare) in prima battuta non significa peccare, bensì deviare, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità, non raggiungere l'obiettivo, fallire; quindi, in seconda battuta, anche peccare, il cui significato però va compreso all'interno di quei significati da cui deriva. Di conseguenza l'invito di Gesù “a non peccare” non è un invito a non violare più la Legge mosaica, bensì a prendere atto come essa, la donna, dall'incontro avuto con Gesù sia stata generata a nuova vita (“da ora”) e collocata in novità di vita, da cui deve guardarsi dal deviare e dall'abbandonarla, non tanto perché qualcuno la potrebbe condannare nuovamente, ma perché “da ora” l'abbandonarla contiene già in sé il senso del fallire quell'obiettivo ultimo verso cui si è incamminati: Dio, della cui vita siamo stati resi partecipi fin d'ora in Cristo. A tal punto più nessuno, né la Legge né Dio, ci condannerà perché noi stessi ci condanneremmo e Dio non può più fare nulla, perché, parafrasando s.Agostino, quel Dio che ci ha creati senza di noi, non può salvarci senza di noi25. In altri termini, ora la salvezza è un dono che è stato posto nelle nostre mani; spetta a noi aderirvi esistenzialmente o meno. E qui non si tratta di osservare qualche comandamento o meno, un modo banale quanto ingannevole di sentirci a posto con Dio, ma di mantenere saldo, al di là di ciò che è la nostra connaturata fragilità, il nostro orientamento esistenziale verso di Lui, che solo la Parola può alimentare e sorreggere, evitandoci di peccare, cioè di fallire il nostro obiettivo primo ed ultimo: Dio, che non ha inviato suo Figlio perché noi osservassimo bene i comandamenti, ma perché credessimo in lui; e il credere comporta l'adesione esistenziale a suo Figlio e questo va ben al di là dell'osservanza o meno di qualche comandamento.

La testimonianza di Gesù è vera e giuridicamente valida


Testo (vv.12-20)

12- Di nuovo, dunque, Gesù parlò loro dicendo: <<Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nella tenebra, ma avrà la luce della vita>>.
13- Gli dissero, dunque, i Farisei: <<Tu testimoni su te stesso; la tua testimonianza non è vera>>.
14- Rispose Gesù e disse loro: <<Anche se io testimonio su me stesso, la mia testimonianza e vera, poiché so da dove sono venuto e dove vado; ma voi non
sapete da dove vengo o dove vado.
15- Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno.
16- Ma anche se io giudico, il mio giudizio è vero, poiché non sono solo, ma (siamo) io e il Padre, che mi ha mandato.
17- Ora, anche nella vostra Legge è scritto che la testimonianza di due uomini è vera.
18- Io sono colui che testimonia di me stesso; e testimonia di me il Padre che mi ha mandato>>.
19- Gli dicevano, dunque: <<Dov'è tuo padre?>>. Rispose Gesù: <<Non
conoscete me né mio Padre; se conosceste me, conoscereste anche mio Padre>>.
20- Queste parole disse nella tesoreria, insegnando nel tempio; e nessuno lo arrestò, poiché non era ancora venuta la sua ora.

Note generali

La pericope in esame è delimitata dall'inclusione data dall'espressione verbale “™l£lhsen” (elálesen, parlò, disse) presente nei vv.12.20. Un verbo questo che in Giovanni compare 59 volte ed è legato alla rivelazione, preannunciando in tal modo lo sfondo rivelativo e dottrinale della pericope stessa. La pericope inclusa da questo verbo infatti è caratterizzata dall'autorivelazione di Gesù sia come luce del mondo (v.12a) che nei suoi rapporti con il Padre, con il quale forma un'accoppiata inscindibile (v.16b) e dal quale egli proviene ed è inviato e verso il quale sta ritornando (vv.14b).

In quanto autorivelazione diventano rilevanti la veridicità e la validità giuridica della testimonianza. Quanto alla veridicità essa è fondata dalla coscienza che Gesù ha della sua origine e quindi della sua provenienza e sa verso dove egli sta andando (v.14b); il tratto di mezzo tra il provenire e il ritornare è occupato dalla sua missione, per questo sa anche quello che dice, avendone piena coscienza. Egli pertanto è portatore di una conoscenza che supera di gran lunga quella delle folle e delle stesse autorità religiose, che invece ignorano totalmente il suo stato di divinità e di conseguenza anche i rapporti che lo legano al Padre, che in lui opera e si manifesta (vv.14c.19). Proprio per questa loro ignoranza sulle vere origini di Gesù e sul Padre e a motivo della loro connaturata incapacità a conoscere, essi non possono contestare il contenuto della rivelazione di Gesù.

Quanto alla validità giuridica, che, secondo Dt 17,6 e 19,15, deve essere supportata da almeno due testimoni, questa esigenza viene soddisfatta dall'accoppiata Gesù e Padre (vv.16b.18). Ma per cogliere e accogliere il Mistero che opera in Gesù si rende necessario anche un altro elemento fondamentale: porsi dalla parte di Dio e valutare le cose rivelate da Gesù mettendosi dalla sua prospettiva; mentre essi, i Giudei, giudicano secondo la carne (v.15a), cioè si pongono di fronte alla rivelazione, che ha dimensioni trascendentali e divine, da una prospettiva umana, precludendosi in tal modo ogni possibilità di comprensione. Si carica dunque d'importanza questa pericope perché da un lato si attesta come la rivelazione di Gesù, così come i suoi rapporti con il Padre, non è raggiungibile dall'uomo; dall'altro si afferma che per comprendere queste realtà, di cui l'uomo non ha conoscenza se non per rivelazione, è necessario porsi dalla prospettiva di Dio, abbandonando le posizioni umane, per loro stessa natura incapaci di trascendersi. Il giusto approccio dunque è soltanto il credere accogliente, conditio sine qua non per poter accedere al Mistero, che vive ed opera in Gesù.

Questa pericope, similmente agli altri due discorsi (vv.21-30; 31-58) che completano il cap.8, si apre con una sentenza (v.12) che provoca il dibattito. Questo ha per tema non la sentenza bensì la capacità di testimonianza di Gesù e quindi la sua credibilità. La struttura è formata da due parti parallele tra loro (vv.13-14;17-18) intermezzate da una terza (vv.15-16). La prima parte è dedicata alla veridicità della testimonianza di Gesù (vv.13-14); la seconda parte alla capacità legale della sua testimonianza (vv.17-18); la terza parte (vv.15-16) costituisce un intermezzo narrativo, una sorta di pausa riflessiva, che funge anche da premessa alla seconda parte. Pertanto si avrà la seguente struttura:

  1. v.12: la sentenza, che provoca il dibattito;

  2. v.13-14a: il dibattito vede due parti contrapposte: i Giudei che negano la veridicità della testimonianza di Gesù (v.13); per contro Gesù l'attesta (v.14a).

  3. v.14b: la motivazione: la veridicità della testimonianza di Gesù è supportata dalla coscienza che egli ha della propria origine e della propria provenienza; altrettanto non possono dire i Giudei.

  4. vv.15-16: intermezzo in cui, da un lato, si attesta l'incapacità dei giudei a formulare un valido giudizio su Gesù, perché valutano le cose da un punto di vista meramente umano (v.15a); dall'altro, il v.16 funge da premessa ai vv.17-18, attestando che Gesù non è solo, ma assieme al Padre (v.16b);

  5. vv.17-18: la testimonianza di Gesù è anche giuridicamente valida perché soddisfa l'esigenza dei due testimoni: lo stesso Gesù e il Padre;

  6. v.19: parallelamente al v.14b, anche qui si attesta l'incapacità di conoscere le cose di Dio da parte dei Giudei;

  7. v.20: parte conclusiva e localizzazione del discorso.

Ci troviamo di fronte ad una pericope che per molti versi ha il suo parallelo in 5,31-39 e ne costituisce una sorta di doppione26, ma sono diverse le finalità: in 5,31-39 il Gesù giovanneo, chiamandosi fuori come teste autoreferenziale (5,31), cita i suoi testimoni principali e a loro rimanda: il Padre (5,32.37a), il Battista (5,33-35), le opere che il Padre gli ha dato da compiere (5,36) e le Scritture (5,39); qui, per contro, c'è in gioco la veridicità e la validità della testimonianza non dei testi precedentemente citati, ma quella stessa di Gesù, sia quanto a contenuto (v.14) sia quanto a formalità legale (vv.16b18).

Il tema della testimonianza in Giovanni percorre per intero il suo vangelo27 e ha diverse sfaccettature: essa vede coinvolti Gesù e il Padre28, lo stesso operare di Gesù29, lo Spirito Santo30, il Battista31, le Scritture (5,39) e, non da ultimi, la stessa comunità giovannea e l'autore del vangelo32, senza i quali non avremmo avuto lo splendore del Quarto Vangelo. Una testimonianza che è qui sinonimo di rivelazione e di verità e che potremmo sintetizzare in un unico termine: luce, perché la luce fa emergere dal buio le cose e le fa apparire nella loro verità, per ciò che esse sono. Una luce che fa la sua prima apparizione nella creazione genesiaca (Gen 1,3; Gv 1,3-4) e avvolge come in un manto divino l'intera creazione che in essa viene collocata e da cui è permeata, rendendo la creazione incandescente di Dio33, così che Dio riconoscerà in essa se stesso (Rm 1,20): “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a). Forse per questo la seconda tornata dei discorsi di Gesù (8,12-59) si apre con il tema della luce. Un'attestazione che qualifica Gesù non solo come il Testimone per eccellenza del Padre, ma anche come la sorgente unica ed esclusiva di una simile testimonianza. Un Gesù che l'autore dell'Apocalisse definisce significativamente come “l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio” (Ap 3,14). Gesù, dunque, il Testimone del Padre, che diviene Luce, perché ogni credente veda nella luce della sua rivelazione, la luce dell'Eternità divina (1,9), che è la stessa vita di Dio: “E' in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce” (Sal 35,10).

Commento ai vv.12-20

Il v.12 si apre con un avverbio “P£lin” (Pálin), “Di nuovo”. La valenza di questo avverbio non è meramente redazionale, una sorta di imbastitura che lega tra loro diverse pericopi e unità narrative originariamente slegate, dando l'idea in tal modo di un'apparente continuità narrativa, ma in realtà soltanto fittizia. L'avverbio qui acquista un significato di reale successione temporale, creando un effettivo legame logico-narrativo con il precedente cap.7 e più precisamente con il v.7,37ss dove Gesù, nell'ultimo giorno della festa attesta di essere l'acqua vivente che disseta il credente. Ora qui, al v.12, viene ripreso l'identico concetto, ma con un'altra metafora, quella della luce34, che illumina il credente, colto come colui che segue Gesù, così che egli, illuminato dalla rivelazione, non sarà mai nelle tenebre. Si ha quindi qui una continuità catechetica iniziata con il v.7,37. La stretta continuità temporale, logica e narrativa appare più evidente se si toglie il racconto dell'adultera (vv.3-11): “Sul far del giorno, giunse nuovamente al tempio e tutto il popolo veniva da lui, e sedutosi li ammaestrava. […] Di nuovo, dunque, Gesù parlò loro dicendo: <<Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nella tenebra, ma avrà la luce della vita>>”. Ora appare chiaro come quel “Di nuovo” si agganci a quanto Gesù aveva detto il giorno precedente e ne dà continuità qui, il giorno successivo (v.2a).

Il contesto immediato in cui si colloca questa dichiarazione di Gesù è la tesoreria del tempio (v.20), prospiciente l'atrio delle donne, dove, secondo Sukkah 5,2-3, erano disposti ai quattro angoli quattro candelabri d'oro dell'altezza di 50 cubiti (circa 22 mt). Ciascuno di questi aveva sopra quattro coppe d'oro riempite d'olio, raggiungibili attraverso quattro scale, e per stoppini erano usati degli abiti usurati dei sacerdoti. Quando erano accesi, sempre secondo Sukkah 5,2-3, non vi era cortile in Gerusalemme che non riflettesse tale splendore35. Al mattino, al sorger del sole, i sacerdoti si ponevano con le spalle rivolte verso est e il loro volto rivolto verso il tempio, che, via via il sole lo rischiarava, diventava sempre più luminoso. In questa posizione essi esclamavano a gran voce: “Il Signore è la nostra Luce. Gioite ed esultate con noi”. Lo sfondo, qui, è sempre quello della festa delle Capanne, l'ottavo giorno. Durante la festa, oltre al rito dell'acqua, che porta Gesù a proclamarsi acqua vivente che disseta i credenti (7,37-38), vi era anche quello del fuoco, che consisteva in una processione serale con fiaccole accese, che esprimeva l'attesa della luce piena, promessa ad Israele per il giorno del Messia, che una certa Tradizione attendeva proprio durante la festa delle Capanne36.

Probabilmente è questo insieme di contesti che suggerisce a Gesù di proclamarsi luce del mondo.

Il v.12, dopo aver creato uno stretto aggancio con il cap.7, apre ora con una solenne attestazione di Gesù, che, come si è sopra accennato, si pone in parallelo a 7,37-38 e funge da premessa all'intera pericope, assimilando la testimonianza di Gesù alla luce che illumina il credente sul suo Mistero e ve lo introduce. Un'attestazione che preannuncia in qualche modo anche il racconto del cieco nato (9,1-41), metafora di quel Israele che si è reso disponibile ad accogliere Gesù (8,30-31; Lc 2,25.38) e pertanto guarito dalla sua innata cecità, cioè dalla sua connaturata incapacità di vedere oltre la Legge mosaica. Proprio in questo racconto (9,5) verrà infatti richiamato il v.12, che parla sia di Gesù luce del mondo che di sequela. Una successione “luce”-“guarigione del cieco” che ricorda in qualche modo Is 42,6b-7a: “ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi”.

La solenne dichiarazione di Gesù, introdotta dal verbo “elálesen”, che in Giovanni imprime una valenza rivelativa a ciò che viene detto, è scandita in due momenti: a) Io sono la luce del mondo”; b) “chi mi segue non camminerà nella tenebra, ma avrà la luce della vita”. La prima parte dice un qualcosa dell'Essere di Gesù; la seconda ne indica gli effetti conseguenti sulla sequela. Nell'espressione “Io sono la luce del mondo” compare l'ormai nota formula rivelativa caratteristica di Giovanni, “Io sono”37 che riproduce in se stessa il nome con cui Dio si manifestò a Mosè in Es 3,14: “Dio disse a Mosè: <<Io sono colui che sono!". Poi disse: "Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi>>”. Ma se la primitiva formula di rivelazione indicava Dio come presenza radicata nel presente, colto come luogo (hinc et nunc) in cui l'uomo è chiamato a cercare e a incontrarsi con il suo Dio38, qui in Giovanni l'indefinita presenza divina è colta come “luce del mondo”, che, come già si è visto, si richiama in qualche modo alla prima luce genesiaca (Gen 1,3), in cui l'intera creazione è stata collocata e trova il suo senso, divenendo essa stessa interprete manifestatrice dell'indicibilità di Dio (Rm 1,20). E Giovanni riprenderà questo concetto in 1,3-9 dove la luce non acquista soltanto una valenza rivelativa in favore degli uomini (1,4b.9), ma, come qui, anche di donazione di vita; una luce da cui è scaturita l'intera creazione (Gv 1,3-4a). Una luce quindi con capacità generative e rigeneratrici (v.12d). La luce pertanto diviene rivelatrice della stessa vita di Dio, che trova la sua espressione tangibile nel Logos Incarnato. Questi, in quanto tale, si rende storicamente raggiungibile all'uomo, lasciandosi da lui non soltanto contemplare nel suo disvelarsi (1,14; 2,11), ma anche percepire sensibilmente (1Gv 1,1-3), attraendo il credente nel Mistero della sua divinità e umanità, rendendo dicibile l'Indicibile, conoscibile l'Inconoscibile, esperibile l'Incontenibile. Una Parola di Luce che mentre illumina genera la vita (v.12d; 1Pt 1,23).

L'affermazione di Gesù di essere luce del mondo evidenzia quindi il manifestarsi e il dischiudersi di Dio in lui a tutto favore dell'uomo. Ma solo il credente, che si è lasciato illuminare, potrà accedere al Mistero che gli si disvela. Non è un caso infatti che al solenne proclama di Gesù faccia seguito la precisazione, costruita attorno ad un contrasto caratteristico di Giovanni, giocato sui termini tenebra e luce (1,5) e accentuato dalla congiunzione avversativa “ma”: “chi mi segue non camminerà nella tenebra, ma avrà la luce della vita”. Il credente qui è definito con un participio presente “Ð ¢kolouqîn” (o akolutzôn), che indica la natura stessa del credente, come colui che non solo si pone alla sequela della Luce, ma anche al suo servizio, definendo in tal modo un orientamento esistenziale che si concretizza in un servizio accogliente e donativo nel contempo, in un conformare il proprio essere e il proprio vivere alle esigenza di questa Luce divina che gli si è disvelata. Il verbo “¢kolouqšw” (akulutzéo), infatti, oltre che seguire significa anche tener dietro, accompagnare, andare assieme, aderire, lasciarsi guidare e in alcuni casi anche imitare, corrispondere a..., essere simile.

Significativo è quel “camminare nelle tenebre” reso in greco con il verbo “peripatšw” (peripatéo) che significa andare attorno, quasi un girare a vuoto, senza una meta precisa, senza un preciso orientamento esistenziale poiché questo muoversi è collocato “nella tenebra” (™n tÍ skot…v, en tê skotía), espresso in greco dalla particella “en”, che indica uno stato in luogo e quindi dice uno stato di vita, uno stato in cui è posta la vita. È questa la condizione di peccato che porta alla perdizione, questo camminare, questo muoversi, questo vivere in opposizione a Dio, che è Luce generatrice di Vita. Per contro, chi ha accolto la Luce della rivelazione “avrà la luce della vita”. È sempre quella primordiale luce genesiaca da cui viene generata e in cui è posta l'intera creazione, che qui appare nuovamente. Ci troviamo di fronte ad un complemento di specificazione “luce della vita” che significa luce che appartiene alla Vita o che promana dalla Vita; comunque una luce che porta in sé la Vita ed è per questo generatrice di Vita; infatti “Tutto avvenne per mezzo suo, e senza di lei (non) avvenne nessuna cosa. Ciò che avvenne in lei era vita, e la vita era la luce degli uomini” (1,3-4).

In questa seconda parte del proclama di Gesù vi è un accostamento di tempi verbali che aprono al tema del giudizio escatologico, che si gioca fin d'ora: chi mi segue (presente indicativo), non camminerà ... ma avrà (futuro). Il seguire la Luce, in altri termini il conformare nell'oggi il proprio vivere alle esigenze di questa Luce, che è rivelazione divina dischiusasi in Gesù, ha come conseguenza un duplice effetto: la vita del credente non si disperderà nella vacuità delle tenebre; il suo vivere pertanto sarà un vivere di senso, un vivere illuminato orientato a Dio; di conseguenza “avrà la luce della vita”, non come premio perché si è comportato bene, ma come eredità, in quanto generato alla Vita divina da questa Luce, che promana dalla rivelazione accolta: “Ma quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati” (1,13-14). Farà eco a questa attestazione giovannea quella di 1Pt 1,23: “essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna”.

Ci apprestiamo ora a commentare i versetti seguenti cambiandone la sequenza in modo tale da raggrupparli per tematica, per cui si avrà: vv.13-14.17-18 e vv.15-16, messi a parte sia perché interrompono la sequenza tematica della testimonianza, sia perché essi costituiscono, come meglio vedremo nel commento, una sorta di pausa riflessiva.

I vv.13-14 incentrano il dibattito, si badi bene, non sulla capacità giuridica di testimoniare di Gesù, questo sarà il tema dei vv.17-18, bensì sulla veridicità della testimonianza stessa, cioè sui contenuti del suo proclama. Per capire il senso della contestazione dei farisei (v.13) e il senso della risposta di Gesù (v.14) è necessario rifarsi al contesto di ciò che è avvenuto prima. Il v.2 dice che Gesù si recò al tempio “sul far del giorno” (”Orqrou, Órtzru), quindi all'alba, nel momento in cui il sole stava sorgendo. Questo era esattamente il momento in cui i sacerdoti, con le spalle rivolte ad est e il volto rivolto al tempio, che veniva lentamente illuminato dal sole nascente, proclamavano a gran voce con tono solenne “Il Signore è la nostra Luce(v. sopra pag.16). È a questo punto che Gesù, facendo il verso ai sacerdoti, a sua volta proclama “Io sono la luce del mondo”. Con una simile asserzione Gesù associava se stesso a Dio, anzi si identificava con Dio, per questo i farisei gli contestano la validità giuridica di ciò che dice, proprio perché non c'è nulla e nessuno che lo possa provare, inficiando in tal modo la sua testimonianza. Nessuno infatti può essere testimone di se stesso. Dt 17,6 e 19,15 impone infatti per l'attendibilità della testimonianza almeno due testimoni. Privato quindi di ogni valida testimonianza che lo potesse in qualche modo supportare, Gesù si trova ora seriamente esposto a motivo di quell'affermazione (v.12), che era considerata alla stregua di una bestemmia (vv.10,33.36) e pertanto, secondo Lv 24,16, era passibile di pena di morte (vv.5,18; 10,33; 19,7); ed è ciò che si tenterà di fare al v.59a, costringendo Gesù alla fuga (v.59b). Il fatto che le autorità religiose pongano la questione su di un piano giuridico lascia infatti intendere in qualche modo la loro volontà di aprire una sorta di processo preliminare contro Gesù per poterlo poi incriminare di blasfemia e condannare a morte.

Fatta questa premessa per chiarire i fatti, ora diviene più comprensibile ciò che dicono i vv.13-14. Vi è tra i due versetti un sottile e quasi impercettibile passaggio di senso e di significato sui termine testimonianza e testimoniare. I farisei infatti al v.13 contestano a Gesù la sua testimonianza autoreferenziale e quindi la sua incapacità giuridica di dimostrare la grave asserzione che ha fatto e che lo espone all'incriminazione per blasfemia. La questione pertanto viene posta dai farisei su di un piano meramente giuridico: giuridicamente una cosa è attendibile se ci sono almeno due persone che l'attestano. Gesù con il v.14 opera il passaggio in due momenti, accentrando l'attenzione non sugli aspetti giuridici, ma sulla verità di ciò che ha detto. Al v.14a afferma che quanto ha detto di se stesso, pur essendo autoreferenziale, non per questo è meno vero. La verità infatti non è tale perché ci sono altri che l'attestano, ma lo è per se stessa. Ed è su questo aspetto che i farisei farebbero bene a porre la loro attenzione e non sulla forma giuridica. Il v.14b porta la prova e la motivazione della veridicità e quindi della credibilità di quanto egli aveva pubblicamente affermato, ribaltando così l'accusa sui suoi stessi accusatori, tacciandoli di ignoranza e di incompetenza, la quale cosa apparirà più chiaramente al v.15a, dove i farisei vengono accusati di giudicare secondo la carne e, precedentemente in 7,24, di superficialità di giudizio.

Tutto ora si incentra sui v.14bc, che costituiscono sia la motivazione che la difesa della propria posizione: “poiché so da dove sono venuto e dove vado; ma voi non sapete da dove vengo o dove vado”. Il v.14b infatti si apre con un “Óti” (óti, che, poiché, perché) che imprime all'intero versetto un senso dichiarativo e causale nel contempo. Quindi ora Gesù sta portando le argomentazioni non solo della verità che ha detto, ma anche della sua attendibilità e questo non perché qualcuno lo testimonia, ma per il suo stesso curriculum che esibisce, la cui natura lo rende unico ed esclusivo e di conseguenza, v.14c, non vi può essere nessun testimone capace di attestarlo: “poiché so da dove sono venuto e dove vado”. Compare qui per l'ennesima volta il verbo “o‡da” (oída), che ricorre nel vangelo giovanneo ben 78 volte ed è quasi sempre posto in relazione a tematiche inerenti al Mistero di Gesù e alle sue relazioni con il Padre. Seguono due avverbi di luogo caratteristici di Giovanni: “pÒqen poà” (pótzen - pû), che segnano i confini del Mistero di Gesù e lo spazio entro cui si muove la sua stessa missione. Il primo, pótzen (da dove, da quale luogo), che ricorre in Giovanni 13 volte, indica la provenienza di Gesù e quindi la sua origine divina; il secondo, (dove, in quale luogo), che nel vangelo giovanneo ricorre 19 volte, indica la meta verso la quale è teso Gesù, quel Logos Incarnato che fin dalla sua coeternità con Dio non solo era presso il Padre, ma anche era rivolto verso di Lui (prÕj tÕn qeÒn, pròs ton tzeón39). L'esserci di Gesù dunque è racchiuso e si muove all'interno di Dio stesso ed è definito dal suo essere lui stesso Dio. L'insieme di questi tre elementi (oída, pótzen, pû) ci dicono come qui siamo giunti nel cuore del Mistero di Gesù, nel cuore della sua stessa divinità, ma ci dicono anche il livello di coscienza che Gesù aveva di se stesso, della duplicità della sua natura umano-divina.

Similmente alla contrapposizione dei vv.13-14a, ora anche il v.14c si contrappone al v.14b: al sapere di Gesù e alla sua Verità (v.14b), si contrappone ora il non sapere dei farisei (v.14c), che senza conoscere la Verità di Gesù si ergono contro di lui con ragionamenti umani, incapaci per loro natura di raggiungerne il Mistero. Una contrapposizione che dice tutta la distanza che intercorre tra l'uomo e Dio e che richiamano in qualche modo la testimonianza del Battista: “Colui che viene dall'alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza; chi però ne accetta la testimonianza, certifica che Dio è veritiero” (Gv 3,31-33).

vv.17-18: se con i vv.13-14 la controversia circa la validità giuridica della testimonianza di Gesù è passata in second'ordine per lasciare spazio alla veridicità dei suoi contenuti, con questi versetti in esame la questione viene ripresa per essere portata a definitiva soluzione. Giovanni, come vedremo, lo farà in modo molto abile attraverso un gioco di doppio senso al v.18.

Il v.17 quindi riprende la questione posta dai farisei al v.13, confermando così la loro contestazione, legalmente corretta: “Ora, anche nella vostra Legge è scritto che la testimonianza di due uomini è vera”. La Legge a cui Gesù fa qui riferimento è Dt 19,15, che così recita: “Un solo testimonio non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni40. L'espressione “La vostra Legge” crea con quel “vostra” un netto distacco tra le pretese di Gesù e quelle dei farisei, da cui traspaiono le tensioni e le ostilità tra il giudaismo e il nascente cristianesimo, molto evidenti non solo in Giovanni, ma anche nel racconto di Matteo. Tensioni ed ostilità che sono accentuate dall'uso del pronome “Ûmeteroj” (ímeteros, la vostra) anziché del solito e consueto “Ømîn” (imôn, di voi), così che “la vostra Legge” letteralmente diventa “la Legge, la vostra”. L'accento dunque viene fatto cadere su quel “la vostra”. Ma l'uso di questo pronome e la costruzione dell'espressione greca, che letteralmente andrebbe tradotta: “Ora, anche nella Legge, la vostra, è scritto ...” nascondono non solo un distacco, ma anche un implicito disconoscimento della stessa Legge mosaica. Infatti, la frase cosi costruita lascia intendere come Gesù inizialmente si riferisca alla Legge, ma poi, quasi a correggersi e a mo' di appellativo, aggiunge “la vostra”, come dire “quella che avete scritto voi”, con chiaro riferimento alla Torah orale, che altrove già aveva definito come “[...] dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7).

Il v.18 riporta ora la tanto attesa risposta all'insidiosa contestazione dei farisei (v.13); risposta preannunciata al v.17, in cui Gesù sembra voler finalmente svelare chi sono i suoi due testimoni che dovrebbero attestare la veridicità di quanto egli aveva affermato al v.12: “Io sono colui che testimonia di me stesso; e testimonia di me il Padre che mi ha mandato”. Una frase che in sé sconcerta perché compare certamente il Padre come testimone valido, ma come secondo testimone Gesù porta ancora se stesso e quindi la sua testimonianza non è legalmente valida, perché nessuno può essere testimone di se stesso; di conseguenza ancora una volta Gesù non assolve alle prescrizioni di legge circa la validità della testimonianza, che richiede due testimoni. Ma è strano nel contempo come qui i farisei non gli contestino, come invece avevano fatto al v.13, l'autoreferenzialità, ma si limitino a chiedergli “Dov'è tuo padre?” (v.19a), accettando di fatto l'altro testimone, che apparentemente sembra essere Gesù stesso. Giovanni qui gioca sul doppio senso che può avere l'espressione in greco: “™gè e„mi Ð marturîn perˆ ™mautoà” (egó eimi o matirôn perì emautû); essa può significare letteralmente “Io sono il testimoniante su me stesso”, nel quale caso Gesù è nuovamente autoreferenziale e quindi nuovamente passibile di contestazione; ma ciò non avviene. Allora ciò che il Gesù giovanneo deve aver lasciato intendere è che “Io sono (è)41 il testimoniante di me”, in cui “Io sono” è il nome di Jhwh, rivelato a Mosè in Es. 3,14. In altri termini qui Gesù si appella alla testimonianza stessa di Jhwh, come già si era appellato alle Scritture, dichiarando che esse gli rendevano testimonianza (v.5,39). Non era, infatti, un evento eccezionale chiamare in causa Dio come testimone nei casi di rilevanza42; né lo era allorché si chiamava in causa Dio come giudice (Es 22,7-8)43. La doppia testimonianza portata da Gesù è stata dunque soddisfatta, tant'è che i farisei si limitano a chiedergli “Dov'è tuo Padre?”. La risposta su quest'ultima richiesta formerà l'oggetto del v.19, il cui commento sarà associato a quello dei vv.15-16.

I vv.15-16 costituiscono all'interno della dinamica narrativa della pericope in esame (vv.12-20) una brusca interruzione, che forma una sorta sia di pausa riflessiva che di introduzione tematica ai vv.17-18; per questo sono stato estrapolati dalla normale sequenza narrativa e qui riportati per il commento (v. sopra pag.18).

Il v.15 è scandito in due parti e contrappone il giudicare dei farisei al non giudicare di Gesù: “Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno”. Prima di introdurci nel commento poniamo subito una sintetica precisazione circa il significato di giudicare e giudizio in Giovanni. Il verbo “krnw” (kríno) compare complessivamente 19 volte, quasi sempre al presente indicativo o in tempi verbali che lo legano al presente, come il piuccheperfetto (3,18; 16,11), dando il senso dell'immediatezza del giudizio; e soltanto 11 volte il corrispondente sostantivo “kr…sij” (krísis). La presenza così consistente dei due termini colloca il lettore in un immediato contesto di escatologia in atto, caratteristico del pensiero giovanneo. Il significato del verbo come del sostantivo parla, quanto al verbo, di distinguere, separare, scegliere, preferire, decidere, giudicare, spiegare, interpretare, valutare, stimare; quanto al sostantivo, esso indica separazione, scelta, giudizio, decisione, sentenza, elezione, esito, risoluzione. Ciò che accomuna sia il verbo che il sostantivo è il senso del valutare, discriminare, separare, soppesare, che ci colloca in un contesto di giudizio il quale più che di premio parla di condanna. Al di là del fatto che Gesù giudichi o non giudichi, va subito precisato che la presenza di Gesù è di per se stessa una forma di giudizio e di discriminazione, poiché pone l'uomo di fronte ad una scelta ineludibile, che il Gesù sinottico esprime in modo sentenziale e radicale in quel “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30; Lc 11,23). L'umanità, quindi, per la sola venuta di Gesù è già fin d'ora posta sotto giudizio, poiché è chiamata, suo malgrado, a fare una scelta di campo, in cui non esiste l'indifferenza o le vie di mezzo, poiché Ap 3,15-16, rivolta alla benestante e ricca chiesa di Laodicea44, sentenzia duramente: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”.

Per questa pluralità di significati, sia il verbo che il sostantivo, acquisiscono il proprio dal contesto in cui vengono collocati dall'autore. Non vi è dunque contraddizione se qui Gesù afferma che egli non giudica nessuno, mentre in 9,39 attesta che “Io venni in questo mondo per un giudizio, affinché quelli che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”, in cui il termine giudizio assume il significato di presenza discriminante, che mette a nudo i singoli comportamenti; così come in 5,22 dove si attesta che il Padre ha affidato al Figlio ogni giudizio; o gli ha dato ogni potere di giudicare come in 5,27. Espressioni queste che hanno più il senso di sottolineare il potere di Gesù conferitogli dal Padre, più che un potere di giudicare nel senso di condannare. Infatti la venuta di Gesù non ha alcuna finalità di condanna, poiché essa va colta come un atto di amore del Padre nei confronti dell'uomo, una sorta di benevola mano tesa verso di lui (3,16-17). Lo stesso Paolo in Rm 8,1 attesta che “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù”. Per contro, la presenza di Gesù diviene motivo di condanna solo nel caso in cui non la si accolga (3,18-19). Giudizio e condanna, pertanto, non dipendono da Dio, poiché il suo piano di salvezza prevede solo che tutti gli uomini siano salvi (1Tm 2,4), ma soltanto dalla libera scelta dell'uomo.

Il senso del v.15a muove un'accusa contro i farisei, che costituisce anche la motivazione della loro incapacità di cogliere il Mistero che vive in Gesù: “Voi giudicate secondo la carne”. Il verbo giudicare qui assume il significato di valutare, stimare, soppesare ed è definito dal sorprendente “kat¦ t¾n s£rka” (katà tèn sárka), “secondo la carne”, che in Giovanni ricorre soltanto qui, ma che invece è ricorrente in Paolo (20 volte) e ne caratterizza il pensiero ed ha la sua contropartita e contrapposizione in “kat¦ pneàma” (katà pneûma, secondo lo spirito). Ma se in Paolo l'espressione indica preferibilmente un modo di vivere ed ha quindi prevalentemente addentellati etici, qui, in Giovanni, questo “katà tèn sárka” definisce la posizione dei farisei e del giudaismo in genere, incapaci di porsi dalla prospettiva di Dio, legandosi al solo aspetto fisico della Lettera, che impedisce loro di cogliere la novità dell'evento Gesù. Per questo il loro giudicare li porta a formulare dei progetti di morte nei suoi confronti45

Per contro il v.15b attesta che Gesù non giudica nessuno. La sua venuta infatti non ha finalità di accusa o di condanna (5,45a), ma di salvezza (3,17) perché egli si pone dalla prospettiva di Dio (3,16), da cui proviene ed è inviato46 , benché egli abbia capacità di giudizio (vv.5,22.27) e il suo giudizio sia attendibile alla pari della sua testimonianza “poiché non sono solo, ma (siamo) io e il Padre, che mi ha mandato”. Il suo giudizio infatti non si muove per sentito dire o secondo opinioni personali, poiché si riflette in esso quello stesso del Padre. Infatti in 5,30 egli attesta: “Io non posso far nulla da me stesso; giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”. La correttezza del giudicare di Gesù è tale perché si muove secondo le logiche del Padre. E il giudizio che è venuto a portare è che “ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”, così che “il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Si tratta dunque di un giudizio di vita quello posto sull'umanità, perché Gesù è “secondo Dio” e non “secondo la carne”.

Questa perfetta unione e comunione tra il Padre e il Figlio, in cui si riflette lo stesso operare del Padre, diventano garanzia di veridicità non solo del giudizio (v.16a), ma anche della sua testimonianza, preludendo in tal modo ai vv.17-18. Il Padre dunque è chiamato da Gesù a testimoniare in suo favore.

Se il v.14b poneva in evidenza l'identità e la coscienza di Gesù (oŒda, oîda) circa la sua origine (pÒqen, pótzen, da dove) e la sua destinazione (poà, , verso dove), ignorate (oÙk o‡date, uk oídate) invece dai farisei (v.14c), parallelamente il v.19 (tornano qui i termini poà e oÙk o‡date) denuncia questo stato di incapacità di conoscenza anche nei confronti del Padre. Il motivo principale è stato denunciato al v.15a: “Voi giudicate secondo la carne”, cioè voi vi ponete dalla prospettiva umana e non di Dio, precludendovi così ogni possibilità di comprensione.

Significativo è il parallelismo che che Giovanni pone tra Gesù e il Padre: “Non conoscete me né mio Padre; se conosceste me, conoscereste anche mio Padre”. Il conoscere dunque Gesù diventa la conditio sine qua non per conoscere anche il Padre, poiché il Padre si riflette in Gesù e in lui si rende raggiungibile all'uomo. A Filippo che gli chiede di mostrargli il Padre, Gesù risponde: “Sono con voi da tanto tempo e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre; come tu dici: “mostraci il Padre”? Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere. Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no, credete(lo) per le stesse opere” (14,9-11). Gesù dunque, parafrasando il titolo di una nota opera di Schillebeeckx47, diviene il sacramento di incontro tra Dio e l'uomo, costituendosi la via peculiare ed esclusiva per giungere al Padre: “Io sono la via e la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (14,6), così come il Padre, attraverso la potenza dello Spirito, muove il credente verso Gesù (6,44).

Il v.20 chiude la pericope annotando da un lato il luogo dove è avvenuto questo primo discorso, caratteristica questa tutta giovannea, dandone un tono di ufficialità, quasi a registrare in modo notarile l'evento di ciò che è una rivelazione (™l£lhsen, elálesen) riguardante il rapporto che intercorre tra lui e il Padre, la sua origine divina e il senso della sua missione; dall'altro, l'autore segnala che nessuno lo arrestò perché non era ancora giunta la sua ora 48, cioè il tempo stabilito dal Padre in cui Gesù manifesterà la sua gloria per mezzo della sua passione, morte e risurrezione e con le quali egli glorificherà il Padre, portando a compimento la sua volontà salvifica. Come già aveva fatto in 7,30, anche qui, una volta di più, l'autore sottolinea l'inarrestabilità del progetto divino che si sta manifestando e attuando in Gesù.


L'identità di Gesù: Io sono


Testo a lettura facilitata (vv.21-30)

Credere nella divinità di Gesù apre il credente alla salvezza (vv.21-24)

21- Pertanto, disse loro di nuovo: <<Io vado e mi cercherete, e morirete nel vostro peccato; dove io vado voi non potete venire>>.
22- Dicevano pertanto i Giudei: <<Forse ucciderà se stesso, poiché dice: “Dove io vado, voi non potete venire”?>>.
23- E diceva loro: <<Voi siete da quaggiù, io sono da lassù; voi siete da questo mondo, io non sono da questo mondo.
24- Vi ho pertanto detto che morirete nei vostri peccati; infatti, se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati>>.

La sua divinità apparirà soltanto sulla croce (vv.25-30)

25- Gli dicevano dunque: <<Tu chi sei?>>. Disse loro Gesù: <<Ciò che vi dico fin dall'inizio.
26- Ho molte cose da dire su di voi e da giudicare, ma colui che mi ha mandato è veritiero; e io quelle cose che ho udite da lui, queste cose dico al mondo>>.
27- Non capirono che diceva loro del Padre.
28- Disse, dunque, loro Gesù: <<Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora
conoscerete che io sono; e da me stesso non faccio niente, ma come il Padre mi ha insegnato, queste cose dico.
29- E colui che mi ha mandato è con me; non mi ha lasciato solo, poiché io faccio sempre le cose a lui gradite>>.
30- Dicendo egli queste cose, molti credettero in lui.


Note generali


La pericope 8,12-20 era incentrata sulla capacità di testimonianza di Gesù sia in termini di veridicità dei contenuti (vv.13-14) che in termini di validità giuridica (vv.17-18), fornendo in tal modo la base di credibilità alla pericope in esame (vv.21-30), in cui Gesù dichiara non solo la sua divinità, ma anche la necessità per l'uomo di credergli per ottenere la sua salvezza.

La pericope è caratterizzata dalla ripetuta presenza dell'espressione “Io sono” (vv.23.24.28), che ormai il lettore, precedentemente edotto, riconosce come il nome di Jhwh, rivelato a Mosè in Es 3,14-15 e che Gesù attribuisce a se stesso, facendosi così uguale a Dio (5,18; 10,33).

La struttura di questo secondo discorso (8,21-30), il sesto in ordine di progressione dei 18 discorsi di cui è composto il racconto giovanneo49, è scandita in due parti: la prima (vv.21-24) rileva tutta la distanza che intercorre tra Gesù, in quanto Dio, e l'uomo (vv.21c; 22-23), che può sottrarsi alla condanna, che pesa sul suo capo a motivo dello stato di peccato in cui vive, soltanto attraverso la fede in Gesù, riconosciuto come Dio (v.24) e, quindi, capace di salvezza. La seconda (vv.25-30) ruota attorno all'identità stessa di Gesù (v.25a) che si autodefinisce “Io sono” e che tale apparirà nell'esaltazione della croce (v.28) da dove egli attirerà tutti a sé (v.12,32).


Commento ai vv.21-30


vv.21-24: questa pericope è delimitata dall'inclusione data dall'espressione “morirete nel vostro peccato”, posta nei vv.21.24; quest'ultimo, agganciato al v.21 dall'espressione stessa, ne diviene non solo il suo sviluppo (si passa “dal peccato” del v.21 “ai peccati” del v.24), ma anche la conclusione della pericope stessa. L'intera pericope infatti si snoda attraverso una sequenza logica, simile ad un sillogismo:

La pericope 8,21-24 costituisce una ripresa ed uno sviluppo di 7,33-36; uno sviluppo che avviene attraverso la tecnica del pensiero a spirale, che riprendendo il pensiero precedente, nel nostro caso 7,33-36, ne dà continuità sviluppandolo in 8,21-24. Pertanto si ha il seguente schema:

  1. l'annuncio del v.7,33 (“Sono con voi ancora per un po' di tempo e (poi) me ne vado da colui che mi ha mandato”) trova la sua attuazione nel “Io vado” del v.8,21a, che racchiude tutto il senso di 7,33;

  2. il “mi cercherete” di 7,34a viene ripreso identico in 8,21b;

  3. il “non mi troverete” di 7,34b si evolve in “morirete nel vostro peccato” di 8,21c, quale conseguenza del non aver trovato, cioè colto Gesù come l'Io-Sono (8,24); l'allusione all'incredulità è evidente;

  4. Il “dove io sono voi non potete venire” del v.7,34c viene ripreso apparentemente identico in 8,21d: “dove io vado voi non potete venire”. Il “dove io sono” di 7,34c diviene infatti “dove io vado” di 8,21d, sottolineando con il primo la dimensione divina in cui Gesù si trova e quindi il suo stato di divinità, da cui proviene; e con il secondo il suo ritorno al Padre da cui è uscito ed è stato inviato e verso cui da sempre è rivolto (1,1-2). Un movimento pendolare che caratterizza il Gesù giovanneo e che trova la sua espressione più significativa in 16,28: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e vado al Padre”.

  5. I vv.7,35-36 si pongono in parallelo al v.8,22; entrambi infatti sono dei fraintendimenti, non privi di un leggero tono ironico; entrambi infatti portano in loro stessi, come vedremo nel commento, un richiamo sia all'attività missionaria della chiesa (7,35-36) che al senso del morire di Gesù (8,22).

  6. Il v.8,23, riprendendo il “dove io sono/vado voi non potete venire” dei vv. 7,34c e 8,21d ne costituisce lo sviluppo esplicativo, indicando la distanza che separa Gesù dai Giudei, alludendo alla divinità di Gesù, che verrà pretesa nel successivo v.8.24.

  7. L'espressione “se non credete che io sono” di 8,24b diviene esplicativa di quel “non mi troverete” dei vv.7,34ab e 8,21bc; come dire: “non riuscirete mai a raggiungere il Mistero che è in me e con esso la vostra salvezza (non mi troverete), se non mi accogliete come uscito da Dio, di cui faccio parte”.

Il v.21 apre con un'espressione redazionale (“Pertanto, disse loro di nuovo”), che costituisce una sorta di imbastitura narrativa per collegare la precedente pericope (vv.12-20) a questo secondo discorso, dando l'impressione di una continuità narrativa, di per sé inesistente.

Questo secondo discorso di Gesù si apre con una sorta di sentenza dal sapore sapienziale ed è scandita in tre movimenti: a) “Io vado e mi cercherete”, b) “e morirete nel vostro peccato”, c) “dove io vado voi non potete venire”. La prima affermazione, “Io vado e mi cercherete”, va capita nel significato che si rileva dal contesto in cui per ben tre volte Gesù attesta di essere “Io-Sono” (vv.23.24.28), cioè Dio. I verbi in a) e b) sono posti al futuro e quindi collocano il giudaismo in un tempo successivo a Gesù. In questo tempo post-pasquale il giudaismo continuerà ad essere quello che è sempre stato: un fedele servitore della Torah, ligio alla lettera in cui credeva e tuttora crede si esprima la volontà di Dio. Paradossalmente è proprio questa sua fedeltà alla lettera che gli ha impedito di cogliere quel Dio che serviva, quando questi gli si è presentato sacramentalizzato non più in un testo letterario, ma in forma umana (1,11.14). Il “mi cercherete”, quindi, non va inteso come un giudaismo, che dopo la dipartita di Gesù, ha incominciato a cercarlo, aprendosi in tal modo alla conversione o forse è meglio dire ad un nuovo modo di approcciarsi a Dio, non più per mezzo della Torah e del Tempio, bensì per mezzo del Risorto; al contrario, significa che esso continuerà a cercare Dio per l'antica strada, ignorando, anzi respingendo completamente la nuova versione di Dio che gli si era prospettata nell'evento Gesù. Quel “mi” infatti non indica Gesù, bensì il Gesù in quanto Io-Sono, cioè il nuovo e definitivo modo di essere di Dio. Quindi Gesù sentenzia che essi continueranno a cercare Dio nella Torah, respingendolo nella sua persona. La lettera b) conferma questa comprensione, poiché sentenzia “e morirete nel vostro peccato”, perché dove il giudaismo cerca Dio non lo troverà più (7,34). Sulla stessa posizione si trovano i Sinottici, che al momento della morte di Gesù sottolineano come il velo del Tempio, che separava il Santo dei Santi, dove vi era l'Arca dell'Alleanza su cui dimorava la presenza di Dio, si squarciò da cima a fondo (Mt 27,51; Mc 15,38; Lc 23,45), lasciando intendere come ormai l'antico culto fosse finito e Dio ora dimorasse nel nuovo Tempio, il corpo del Risorto (Gv 2,19-21).

Significativamente, il secondo movimento si apre con la congiunzione “kaˆ” (kaì, e), che lo lega al primo così da diventarne una conseguenza. Il peccato di cui qui Giovanni parla è quello dell'incredulità, non tanto nel Dio della Torah, quanto in quello che si è incarnato in Gesù, rivelazione e manifestazione del Padre e disconosciuto dal giudaismo. La conseguenza di questo è espressa nella lettera c) dove viene affermato “dove io vado voi non potete venire”. Colpisce la contrapposizione “Io-voi”, una contrapposizione che vede come parti in causa “l'Io-Sono-Gesù” e il suo popolo. Una contrapposizione che richiama da vicino il v.1,11: “Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero”. Il giudaismo non può accedere dove Gesù sta andando, cioè non può accedere nel suo Mistero di ritorno e di comunione con il Padre a motivo della sua invincibile incredulità.

Il v.22 sdrammatizza la densità teologica del v.21 con la bonaria ironia di Giovanni, che attraverso la tecnica del fraintendimento rilancia il discorso del v.21, riprendendone la finale e accentrando l'attenzione del lettore su quel “dove io vado”: “Dicevano pertanto i Giudei: <<Forse ucciderà se stesso, poiché dice: “Dove io vado, voi non potete venire”?>>”. Altrove, in 7,35, in contesto simile, si chiedono : “[...] Forse sta per andare nella diaspora dei Greci e insegnare ai Greci?”, lasciando trasparire, quasi in filigrana, l'azione missionaria della chiesa nel mondo greco50. Qui, similmente, si parla di un ipotetico suicidio; ma anche qui l'autore, con fine ironia, suggerisce quasi di soppiatto il consegnarsi liberamente di Gesù alla morte per il riscatto dell'umanità, che verrà ricordato in 10,17-18: “Per questo il Padre mi ama, perché io offro la mia vita, per prenderla di nuovo. Nessuno la toglie da me, ma io la offro da me stesso. Ho potere di offrirla, e ho potere di prenderla nuovamente; questo mandato ho ricevuto dal Padre mio>>51.

Il v.23 segna un ulteriore passaggio e dettaglia, motivandolo, il significato di quel “Dove io vado, voi non potete venire”: “E diceva loro: <<Voi siete da quaggiù, io sono da lassù; voi siete da questo mondo, io non sono da questo mondo”. Il versetto si apre con un “kaˆ” (kaì, e), che lo lega, dandone continuità, alla parte finale del v.22, che riporta la parte conclusiva del v.21, che a sua volta sarà ripreso dal v.24. Questo continuo riprendersi e intrecciarsi di un versetto con un altro fa si che il v.23, verso cui convergono gli altri tre versetti, diventi il cuore stesso della pericope, sul quale si fonda e acquista il suo senso. Si tratta di un versetto caratterizzato dalla persistente presenza di una particella che si ripete per ben quattro volte: “™k” (ek, da), che indica un moto da luogo e quindi la provenienza, l'origine. L'attenzione del lettore viene pertanto accentrata su questa particella e, quindi, sull'origine di Gesù che è messa in maggiore evidenza venendo contrapposta a quella del giudaismo. E parlando di origini contrapposte si parla di stati e condizioni di vita molto diversi; si parla di aspetti ontologici e metafisici che vanno a toccare l'essere e l'essenza stessa delle parti in causa, la cui contrapposizione e diversità è ulteriormente accentuata dal ripetuto confronto dei pronomi “voi-io”. La diversità e la contrapposizione è formulata con due espressioni significative: “™k tîn k£tw” (ek tôn káto, dalle cose di quaggiù) e “™k tîn ¥nw” (ek tôn áno, dalle cose di lassù); si parla di “cose”, cioè di realtà e dimensioni di provenienza non solo diverse, ma anche completamente opposte: quaggiù-lassù, che caratterizzano l'essere di Gesù e del giudaismo. Il giudaismo proviene da Mosè ed è caratterizzato dalla Torah, espressione dell'Alleanza Jhwh-Israele; un giudaismo che professa un culto che gli autori della lettera agli Efesini e agli ebrei definiscono ombra di quello futuro, attestando che la realtà è Cristo52. Gesù invece è uscito da Dio53 e da Lui inviato; un Gesù che, uscito dal Padre ed entrato nel mondo, ora sta per lasciarlo per congiungersi al Padre (16,28), non come premio per aver compiuto bene la sua volontà, ma come ricostituzione di Gesù in quella gloria che gli era propria ancor prima della creazione (17,5) e della sua incarnazione (1,1-2); un Gesù che Dio riconosce e costituisce suo Figlio nella gloria della risurrezione per la potenza dello Spirito (Rm 1,3-4); quel Gesù che Giovanni dapprima contempla come Logos nella sua coeternità con Dio (1,1-2) per poi contemplarlo nel suo manifestarsi storico (1,14), mentre il Battista ne dà testimonianza: “Chi viene dall'alto è al di sopra di tutti; colui che è dalla terra è dalla terra e parla dalla terra. Colui che viene dal cielo è al di sopra di tutti; ciò che ha visto e udito, questo testimonia, e nessuno accoglie la sua testimonianza. Colui che accolse la sua testimonianza attestò che Dio è veritiero” (3,31-33). Le origini dunque sono ben diverse: il giudaismo ha come padre Abramo, ma Gesù, pur ebreo di nascita, ha la sua origine e il suo radicamento in Dio; anzi egli si pone ancor prima di Abramo, che lo contemplò e ne gioì (8,56-58). E sarà proprio il confronto tra Abramo e Gesù che impegnerà il resto del cap.8 (vv.31-59); un confronto che svelerà la vera identità di Gesù quale Dio e che si concluderà con un tentativo di linciaggio da parte dei Giudei (vv.58-59).

Il v.24 conclude la breve pericope (vv.21-24) riassumendone i tratti essenziali: “Vi ho pertanto detto che morirete nei vostri peccati; infatti, se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati”. Esso è scandito in tre parti, di cui la prima e la terza identiche formano una sorta di inclusione alla seconda parte, che è il cuore del versetto stesso nonché la causa di quel “morirete”. Benché la prima e la terza parte siano tra loro identiche acquistano tuttavia un significato diverso. La prima parte infatti, riprendendo il v.21b, forma in qualche modo da premessa alla seconda parte e preannuncia la terza, anticipandone gli effetti; mentre la terza parte acquista il senso di una sentenza di condanna conseguente alla seconda parte.

Sia la prima che la terza parte del v.24, pur riprendendo sostanzialmente il v.21b, tuttavia operano una modifica apparentemente insignificante, ma che in realtà fa si che il v.24 diventi lo sviluppo del v.21b: il termine peccato del v.21b è posto al singolare; quello del v.24a.c è posto al plurale. L'idea che ne nasce è che qui ci si trovi di fronte alle conseguenze di quel peccato originario che per Giovanni è la stessa incredulità, che genera i peccati, cioè i comportamenti di resistenza a Dio che si manifesta nel Figlio, rendendo il giudaismo impermeabile a Dio; per questo esso è condannato. Si noti l'accostamento dei tempi verbali: posti al futuro nella prima e terza parte del v.24; al presente indicativo nella seconda parte: “morirete - se non credete – morirete”, una morte che parla di sterilità spirituale, che preclude un'evoluzione spirituale verso Dio, soffocata da un pervicace attaccamento alla lettera. È dunque la scelta posta qui nel presente, credere o non credere, che determina il destino dell'uomo, pregiudicandolo fin d'ora. Ed ora si giunge al cuore del problema del giudaismo nei confronti di Gesù: “se non credete che Io sono”. È dunque la divinità stessa di Gesù che diviene l'ostacolo insuperabile per il giudaismo e che diviene una pregiudiziale per ogni possibile rapporto futuro. Da qui l'atteggiamento di incredulità e di accusa di blasfemia nei confronti di Gesù54. Non c'è più dunque spazio per poter accedere al Mistero che permea la persona di Gesù, precludendosi così ogni possibilità di accesso a quella salvezza che invece è venuto a portare per chi crede in lui (3,16.36; 5,24). Il problema che qui si pone sta proprio nel fatto che da parte del giudaismo c'è stato un rifiuto di riconoscere in Gesù il Messia atteso e l'inviato divino, in cui Dio operava e si manifestava (14,9-11); eppure il giudaismo era stato preparato per secoli proprio a questo. Proprio su questo rifiuto da parte del giudaismo Paolo, scrivendo alla comunità di Roma, confesserà tutto il suo dolore e non se ne dà pace né riesce a capacitarsene, cercando di darsene una ragione, dedicando a questo suo dramma interiore i capp.9-11.

I vv.25-30 sono incentrati sull'identità di Gesù nei suoi rapporti con il Padre. La struttura di questa pericope si muove su versetti tra loro paralleli in modo speculare concentrico, cioè con movimento verso l'interno; la specularità è di tipo complementare, nel senso che ciò che viene detto nei versetti A, B, C viene ripreso e sviluppato nei corrispondenti versetti C', B', A'.

La struttura pertanto avrà il seguente svolgimento:

A) v.25: La rivelazione: Gesù rivela la sua identità: egli è colui che è fin da principio;

B) v.26: Gesù è il portatore e rivelatore universale delle cose del Padre;

C) v.27: inintelligenza del giudaismo sulle realtà di Dio;

C') v.28: solo con l'elevazione di Gesù (morte-risurrezione) il giudaismo conoscerà la Verità;

  B') v.29: Gesù è il rivelatore universale del Padre perché in lui opera il Padre a cui si è conformato;

A') v.30: la risposta di adesione: molti accolgono il manifestarsi di Gesù e aderiscono a lui.

Al v.24b Gesù aveva affermato la necessità di credere nella sua divinità: “se non credete che Io sono”. I farisei, fraintendendo la sua affermazione, gli chiedono “Tu chi sei?”, riferendosi all'“Io sono”, che dovevano aver interpretato come un predicato nominale incompleto “Io sono ...”, sono che cosa o chi? Da qui la domanda diretta: “Tu chi sei?”. L'interrogativo posto su Gesù apre la questione sulla sua identità. Vi è in questo una sorta di parallelismo con la stessa domanda che sempre i farisei (1,24) avevano rivolto al Battista in 1,19c: “Tu chi sei?”. Anche là si apriva la questione sull'identità di Giovanni. La risposta di Gesù non è tra le più semplici; essa ha fatto e sta facendo sudare gli esegeti circa il suo significato per il modo sibillino del suo porsi: “T¾n ¢rc¾n Ó ti kaˆ lalî Øm‹n;” (“Tèn archèn ó ti kaì lalô imîn). Non sto qui a riportare tutte le traduzioni fatte, per non sottoporre a snervanti accademismi il mio già paziente lettore. Preferisco andare direttamente al cuore della questione, perché dalla traduzione di questa affermazione di Gesù dipende tutto il resto della pericope. Per poter accedere alla traduzione è necessario rifarsi al contesto in cui essa è posta. Già si è visto come al v.24b Gesù aveva sollecitato a credere alla sua divinità (“se non credete che io sono”); al v.25a, malamente interpretando la sua affermazione, i farisei gli chiedono “Tu chi sei?”; viene da sé che la risposta debba riprendere necessariamente lo stesso verbo dell'interrogativo. Anche la domanda posta a Giovanni circa la sua identità (1,19c) ha avuto come risposta la naturale ripresa del verbo della stessa domanda, sia pur posto al negativo: “Io non sono” (1,20.21b); infine egli darà la sua risposta positiva, ma lo farà sottintendendo il verbo “e„m…” (eimí, sono) per cui affermerà: “Io (sono) voce di colui che grida nel deserto ...”. È esattamente ciò che avviene anche qui: la risposta di Gesù, riprende il verbo della domanda posta dai farisei (“Tu chi sei?”), ma l'autore lo lascia sottinteso, perché è chiaramente comprensibile e parte, invece, mettendo in rilievo ciò che più gli interessa: il “T¾n ¢rc¾n” (“Tèn archèn”). Questa espressione greca, posta in accusativo, non dipende da un verbo, ma assume un valore avverbiale di tempo o di luogo, per cui si avrà “fin dal principio, dall'origine, da tempo remoto”55. La risposta che Gesù dà quindi, deve necessariamente riprendere, anche se qui lo sottintende, il verbo essere della domanda che gli è stata posta (“Tu chi sei?). Pertanto la riposta che Gesù dà è la seguente: “Dal principio (io sono) ciò che dico anche a voi!”; una seconda soluzione più esplicita di questa, ma ugualmente corretta, può essere possibile se al posto di “™gè e„mi” (egó eimi, io sono), si mettesse l'espressione verbale equivalente, ma al participio presente nominativo “ên” (ón), per cui si avrebbe “(Colui che sono) dal principio, ciò che dico anche a voi”. A questo punto potremmo fare anche una leggera, ma non impropria, forzatura e premettere al “Tèn archèn” la significativa espressione di Es 3,14: “'Egè e„mi Ð ên” (Egó eimi o ón, Io sono colui che sono). Si avrebbe pertanto: “Fin dal principio Io sono colui che sono, ciò che dico anche a voi”56. Il Gesù giovanneo dunque compie davanti ai farisei la stessa rivelazione che egli fece “fin da principio” ai loro padri, questo il senso della seconda parte dell'attestazione di Gesù: “ciò che dico anche a voi”. Il verbo greco usato qui per “dico” è “lalî” (lalô) che in Giovanni acquista il significato di rivelare. Ciò che Gesù dunque sta rivelando ai farisei è che lui è quel “Io sono colui che sono”, che già si è rivelato ai loro padri, creando in tal modo un parallelismo tra il rivelarsi di Jhwh sul Sinai e il rivelarsi di Gesù ai discendenti di quel Israele.

Il v.26 presenta la missione di Gesù intesa come atto rivelativo del Padre che si compie in lui e per suo mezzo. Egli dunque deve dare spazio in se stesso a questa azione missionaria del Padre, manifestando al mondo la sua Verità, rifuggendo da inutili polemiche, che nascono dalla loro inintelligenza del Mistero che opera in lui e che sarà loro manifesto soltanto dopo la sua glorificazione. È questo il senso dei vv.26-29.

Il v.26 è scandito in tre parti: la prima attesta come Gesù, per autorità propria, potrebbe sindacare sul loro comportamento e sulle loro relazioni con Dio con l'azione critica propria del profeta; o, con l'autorità dell' Io-Sono, esprimere un giudizio di condanna per la loro caparbia incredulità e chiusura all'azione rivelativa che si sta attuando in lui; ma questo non è il suo compito, perché lui è venuto per salvare e non per giudicare o condannare57; sarà per contro proprio la risposta che essi daranno alla sua parola che determinerà la loro salvezza o condanna (12,47-48). Il suo dunque non è il tempo del giudizio, ma della rivelazione e della manifestazione dell'azione salvifica di Dio che è in atto in lui.

La seconda parte del v.26 si apre con un “ma” (¢ll£, allá) che imprime al restante versetto (seconda e terza parte) un forte senso avversativo, definendo la vera missione di Gesù: rivelare, manifestare, salvare e non più criticare e condannare, come invece continua a fare la Legge mosaica. Con Gesù il tempo del profetismo critico e minaccioso, il tempo del castigo è terminato ed è subentrato il tempo del perdono incondizionato e della misericordia. Una contrapposizione che si rispecchia nelle stesse predicazioni del Battista e di Gesù: quella del primo porta in sé il tono duro dell'imminente condanna divina, convocando tutti ad una immediata conversione (Mt 3,7-12); quella di Gesù parla di perdono incondizionato58 e di convocazione dei peccatori al banchetto escatologico per condividere con loro la vita stessa di Dio59. Un comportamento inatteso e sconcertante che spinge Giovanni ad interrogarsi se sia veramente lui, Gesù, il messia atteso o se, invece, se ne dovesse aspettare un altro (Lc 7,18-20).

L'azione rivelatrice e salvifica che si manifesta e si attua in Gesù non nasce dalla sua libera iniziativa, ma essa è associata al Padre, definito qui come “colui che mi ha mandato”, sottolineando così come l'esserci e l'agire di Gesù assumano lo statuto proprio della missionarietà divina, che possiede in sé non soltanto l'autorità di Dio, ma anche la sua stessa potenza salvifica; per questo il rifiutare la mano tesa di Dio in Gesù comporta per l'uomo la sua perdizione definitiva. La missione di Gesù infatti non solo proviene da Dio e ne porta il sigillo, ma si radica nello stesso Padre, qui definito come “veritiero”, non nel senso che dice la verità, ma che è fonte della Verità, da cui Gesù è uscito e ne è testimone privilegiato ed esclusivo.

La terza parte attesta la fedeltà e l'esclusività della testimonianza di Gesù, intesa qui come sua missione specifica: “e io quelle cose che ho udite da lui, queste cose dico al mondo”. Significativa è l'espressione con cui si apre questa terza parte: “k¢gë” (kagò, forma contratta di kaì egó, e io) con cui Gesù viene legato, quasi come in una continuità di intenti e di azione, al Padre veritiero che lo ha inviato (v.26b). La dinamica con cui si svolge la testimonianza può essere riassunta in una incisiva frase latina: “relata refero”; Gesù dunque riporta soltanto ciò che gli è stato riferito dal Padre; non vi sono sue personali interpretazioni, poiché egli è l'azione attuatrice, rivelatrice e manifestatrice del Padre. E Gesù così si comporta non perché è una brava e onesta persona, un bravo e devoto figlio del Padre, ma perché questa è la sua natura e la sua essenza. L'espressione “quelle cose che ho udite da lui, queste cose dico al mondo” va a toccare l'essere stesso di Gesù e ci porta nella stessa ontologia divina. Significativi sono i due tempi verbali, il primo (½kousa, ékusa, udii) posto all'aoristo ingressivo o incipiente, che colloca l'udire di Gesù in seno al Padre stesso, nella stessa coeternità di Dio (1,1-2), prima ancora che il mondo fosse (17,5); lì ha avuto origine il suo udire e il suo conoscere. Il secondo tempo verbale è posto al presente indicativo, che dice l'attuarsi nell'oggi dell'evento Gesù ciò che egli ha udito nell'eternità di Dio; un dire che è espresso significativamente con il verbo “lalî” (lalô), il verbo che, riferito a Gesù, assume in Giovanni il significato di rivelazione. Il dire di Gesù dunque è rivelativo del Mistero stesso del Padre; quel Mistero che Giovanni contempla nel Verbo incarnato nel suo disvelarsi storico (1,14; 2,11). Il verbo “lalô” è seguito dalla particella di moto verso luogo “e„j” (eis), che lo carica del dinamismo proprio della missionarietà, che caratterizza il dire rivelativo di Gesù, speso a favore del mondo e perché il mondo creda e credendo torni ad avere in lui la vita divina, da cui originariamente era uscito (20,31).

Il v.27 conclude la prima parte della pericope (vv.25-27), quella parte che si rifletterà specularmente nella seconda (vv.28-30) e in essa verrà completata (v. sopra, pag.27). La conclusione di questo versetto è amara, benché non inaspettata: “Non capirono che diceva loro del Padre”. L'inintelligenza generata da una incredulità persistente e invincibile diventa per Giovanni il tratto caratterizzante il giudaismo. Non a caso il nome “Giudei” nel racconto giovanneo acquista un significato decisamente negativo e diventa sinonimo di incredulità60. Del resto già in 8,19 l'autore si era premunito affermando che il non capire Gesù porta necessariamente a non capire il Padre, che con Gesù forma una cosa sola.

Il v.28, riprendendo in qualche modo il v.27, che denuncia l'inintelligenza del giudaismo non solo su Gesù, ma anche sulle cose che riguardano il Padre61, prospetta la possibilità per il giudaismo, possibilità che verrà confermata ai vv.30.31, di conoscere la Verità di Gesù e il Mistero in cui egli è vissuto, allorché egli sarà innalzato. Punto di accesso al Mistero dunque è l'innalzamento di Gesù.

Il v.28 costituisce una sintesi di ciò che è il Mistero di Gesù e la Verità che vive in lui. Si parla infatti di Gesù come Figlio dell'uomo, espressione che in Giovanni compare tredici volte ed è sempre collocata in contesti che hanno a che vedere con la dimensione divina di Gesù62 e la sua glorificazione63; l'apparire di questa espressione pertanto avverte il lettore che qui si sta accedendo al Mistero di Gesù. Ed ecco che la prima comprensione che il giudaismo credente avrà di Gesù riguarderà il riconoscimento della sua divinità (il verbo conoscere è qui posto al futuro e parla dei tempi post-pasquali): “conoscerete che Io sono” e di conseguenza anche il suo rapporto con il Padre, da cui dipende in tutto al punto da non poter fare nulla da se stesso (5,19.30; 8,28). Ogniqualvolta compare questa dichiarazione essa rimanda sempre ai rapporti che intercorrono tra Gesù e il Padre. Non si tratta di una dichiarazione di inettitudine di un figlio soverchiato e dominato da un padre padrone, ma la rivelazione di un tratto della natura stessa del Figlio-Gesù che è in stretto legame e sintonia con il Padre: egli è infatti azione attuante, rivelante e manifestante del Padre, che senza il Figlio diventerebbe inconoscibile e irraggiungibile. La missionarietà rivelatrice, manifestatrice e attuatrice di Gesù è pertanto possibile proprio per la sua natura e ne diventa espressione. Non a caso Giovanni nel suo prologo ce lo presenta come la Parola, che per sua natura ha funzioni di comunicazione e di rivelazione; una Parola che è dall'eternità rivolta verso il Padre (1,1-2), che in Lei si riflette così che al dire del Padre corrisponde il fare attuativo e rivelativo della Parola (Gen 1,3; Gv 1,3). Per questo Gesù può dire a Filippo: “Chi ha visto me ha visto il Padre; come tu dici: “mostraci il Padre”? Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere. Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no, credete(lo) per le stesse opere” (14,9b-11). Ed è proprio questa intima e reciproca compenetrazione del Figlio nel Padre e questi nel Figlio, che consente al Figlio, per la sua peculiare natura, di essere azione e manifestazione del Padre, splendore della sua gloria e impronta della sua sostanza (Eb 1,3a). Una comprensione di un Mistero, come si è detto, che è condizionato dall'innalzamento di Gesù. Il verbo che qui compare e sta per innalzare è “ØyÒw” (ipsóo), che Giovanni usa soltanto quattro volte e sempre in riferimento alla croce di Gesù64. Ma l'uso che Giovanni fa di questo verbo con riferimento all'innalzamento fisico di Gesù sulla croce è improprio, poiché “ipsóo” significa si innalzare, ma nel senso di glorificare, esaltare, celebrare, magnificare. È un verbo questo che compare 20 volte nel N.T. e il significato è sempre quello che indica un'esaltazione e mai un innalzamento in senso fisico di un qualche oggetto o persona. Giovanni quindi usando esclusivamente questo verbo per indicare l'innalzamento di Gesù sulla croce gioca di equivoco, vedendo nella croce la via dell'esaltazione, l'inizio della glorificazione. Vedremo meglio nel commento dei capp.18-19 come per Giovanni la passione e morte di Gesù in croce non è il segno della sconfitta, ma la sua intronizzazione regale e Gesù non viene sopraffatto dagli uomini, ma si offre volontariamente (10,18) ed è un dominatore degli eventi (18,4-8).

Il v.29 prosegue e completa il tema del rapporto di Gesù con il Padre, motivando questa sua conformazione piena e totale alla volontà del Padre: “E colui che mi ha mandato è con me; non mi ha lasciato solo, poiché io faccio sempre le cose a lui gradite”. Il versetto è scandito in tre parti: nella prima si sottolinea la grande conformazione di Gesù al Padre, che non è sudditanza, bensì condivisione di vita che si fa comunione (“è con me”). Non si tratta della compresenza di due amiconi per la pelle, del tipo tutti per uno e uno per tutti, ma qui ci si addentra all'interno della stessa struttura e architettura della vita divina; la seconda parte è conseguente alla prima e ne sottolinea gli effetti: “non mi ha lasciato solo”, perché il Padre e Gesù, proprio per la loro condivisione comunionale, che crea una sorta di compenetrazione reciproca, una sorta di osmosi tra i Due, pur nella distinzione dei ruoli, di Persone e senza confusione, sono una cosa sola65. Il “non mi ha lasciato solo” non va interpretato, a mio avviso, nel senso della fedeltà del Padre nei confronti del Figlio, ma indica un aspetto della natura propria dei Due. La terza parte si apre con un “Óti” (óti), che imprime alla frase seguente un senso esplicativo: “poiché (óti) io faccio sempre le cose a lui gradite”. Il “poiché”, pertanto, va inteso come “per questo che io faccio sempre le cose a lui gradite”. Quest'ultimo passaggio costituisce la parte conclusiva e spiega perché Gesù si comporta in un determinato modo. Il fare le cose “a lui gradite”, in questo contesto, non va inteso come un atto di gentilezza e di devozione filiale da parte di Gesù nei confronti del Padre, ma l'espressione “a lui gradite” parla di conformità del fare e del muoversi di Gesù rispetto al Padre, che ha attinenza con la sua stessa ontologia. Gesù infatti è il Dabar del Padre, la Parola-Azione, attuatrice della sua volontà, senza la quale il Padre risulterebbe incomunicabile e incomunicante; una Parola-Azione che, a sua volta, non può nulla da sé (5,19.30; 8,28) se il suo agire non è informato e sostanziato dal Padre, nel quale il Padre si riflette e si riconosce. È significativo infatti come il racconto della creazione genesiaca termini con il commento dell'autore che constata come “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (1,31a); una creazione che, uscita dal “dire”, era incandescente di Dio e Dio vi si rispecchiava e in essa si riconosceva.

Un significato diverso o forse potremmo dire una diversa accezione è possibile dare al v.16,32 in cui, in forma chiasmica, viene riportata l'identica frase di 8,29: “ma io non sono solo, perché il Padre è con me”. L'affermazione qui, infatti, si contrappone al comportamento dei discepoli, che abbandonano Gesù: “Ecco, verrà l'ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo” e quindi il vero parallelo non è più il Padre-Gesù come in 8,29, ma tra questi e i suoi discepoli. Vi è dunque un confronto di rapporti dove alla pochezza e all'infedeltà dei discepoli si contrappone la fedeltà del Padre nei confronti del Figlio-Gesù.

v.30: Già al v.28 con il verbo al futuro (“conoscerete che Io sono”) il Gesù giovanneo pensava certamente ai tempi post-pasquali, tempi in cui anche gran parte dei Giudei sarebbero confluiti nel nascente cristianesimo, nonostante la loro difficoltà nello staccarsi nettamente dal giudaismo e dalla Legge mosaica, inscritta più che nei rotoli, nel loro stesso DNA. Ora l'autore dà qui, al v.30, una prima conferma di quel “conoscerete”, benché sia ancora una fede immatura e che abbisogna di una lunga riflessione post-pasquale: “Dicendo egli queste cose, molti credettero in lui”. Il v.30 è scandito in due momenti che segnano la dinamica propria del nascere della fede: “Dicendo egli queste cose”; in conseguenza di questo annuncio vi è da parte degli ascoltatori accoglienti la giusta risposta: “molti credettero in lui”. La fede dunque quale risposta esistenziale alla parola annunciata, poiché, ricorda Paolo, la fede si origina dall'ascolto della parola (Rm 10,14-17). Ma di quale tipo di fede qui si parla? L'uso del verbo all'aoristo ingressivo fatto seguire dalla particella di moto verso luogo (“™p…steusan e„j aÙtÒnepísteusan eis autón) lasciano intendere come questa fede sia agli inizi e quindi ancora incerta. Si potrebbe quindi tradurre con “Incominciarono a credere in lui”. Si tratta di un cammino di fede indicato da quel “eis” che sta andando verso un Gesù, che non è stato tuttavia ancora raggiunto. Un cammino che verrà indicato nel successivo v.31 in cui il rimanere nella parola di Gesù costituisce il credente, per ciò stesso, discepolo di Gesù (entrambi i verbi sono al presente indicativo: se rimanete … siete); ma quanto al raggiungere la piena maturità di fede, che introduce alla pienezza della Verità, serve molta perseveranza. Per questo gli altri due verbi sono posti al futuro (conoscerete … vi libererà).


L'orgoglio di avere per padre Abramo e Dio
rende i Giudei ciechi di fronte al nuovo evento Gesù

Testo a lettura facilitata (vv.31-59)

La vera liberazione viene da Gesù e non da Abramo

31- Diceva dunque Gesù ai Giudei che gli avevano creduto: <<Se voi rimanete nella mia parola siete veramente miei discepoli
32- e
conoscerete la verità, e la verità vi libererà>>.
33- Gli risposero: <<Siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno; come tu dici che “diventerete liberi”?>>.
34- Rispose loro Gesù: <<In verità, in verità vi dico che chiunque commette il peccato è schiavo del peccato.
35- Ora, lo schiavo non rimane per sempre nella casa, il figlio rimane per sempre.
36- Pertanto, se il figlio vi libera, sarete realmente liberi.
37- So che siete discendenza di Abramo; ma cercate di uccidermi, poiché la mia parola non cresce in voi.

I Giudei non sono figli di Abramo perché non ne compiono le opere

38- Io dico quelle cose che ho visto presso il Padre; anche voi, dunque, fate quelle cose che avete udito presso il padre (vostro)>>.
39- Risposero e gli dissero: <<Il nostro padre è Abramo>>. Dice loro Gesù: <<Se siete figli di Abramo, fareste le opere di Abramo;
40- Ora, invece, cercate di uccidere me, un uomo, che vi ho detto la verità, che udii presso Dio: Abramo non fece questo.
41a- Voi fate le opere del padre vostro>>.

ma non sono neppure figli di Dio, perché non accolgono Gesù, uscito da Dio; ma del diavolo, perché sono omicidi e falsi come lui

41b- Gli dissero dunque: <<Noi non siamo stati generati da prostituzione, abbiamo un unico padre, Dio>>.
42- Disse loro Gesù: <<Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, io, infatti, sono uscito da Dio e sono giunto (qui); poiché non da me stesso sono venuto, ma quello mi ha inviato.
43- Per cosa non comprendete il mio discorso? Perché non potete ascoltare la mia parola.
44- Voi siete dal padre, il diavolo, e volete fare i desideri del padre vostro. Quello era omicida fin dall'inizio e non è stato nella verità, poiché la verità non è in lui. Quando dice il falso, parla di ciò che gli è proprio, poiché è menzognero e suo padre.
45- Io, invece, poiché dico la verità, non mi credete.
46- Chi di voi mi convince di peccato? Se dico la verità, per che cosa voi non mi credete?
47- Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; per questo voi non ascoltate, perché non siete da Dio.

Gesù non è indemoniato, ma credibile e veritiero, perché non cerca la propria gloria, che gli viene dal Padre

48- Risposero i Giudei e gli dissero: <<Non diciamo bene noi che tu sei un Samaritano e hai un demonio?>>.
49- Rispose Gesù: <<Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio, e voi mi disprezzate.
50- Ma io non cerco la mia gloria; c'è chi cerca e chi giudica.
[vv.51-53]
54- Rispose Gesù: <<Se io glorificassi me stesso, la mia gloria è niente; chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite che è nostro Dio,
55- e non lo conoscete, io invece lo conosco. E se dicessi che non lo conosco, sarei un bugiardo simile voi; ma lo conosco e osservo la sua parola.

Il confronto tra Gesù e Abramo, che testimonia su di lui, porta a scoprire la divinità di Gesù

51- In verità, in verità vi dico, se qualcuno osserva la mia parola, non vedrà la morte per sempre>>.
52- Gli dissero dunque i Giudei: <<Ora
sappiamo che hai un demonio. Abramo è morto e (anche) i Profeti, e tu dici “se qualcuno osserva la mia parola non gusterà la morte per sempre”.
53- Sei tu forse più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi fai te stesso?>>.
[vv.54-55]
56- Il vostro padre Abramo esultò nel vedere il mio giorno, e vide e gioì>>.
57- Gli dissero dunque i Giudei: <<Non hai ancora cinquant'anni e hai visto Abramo?>>.
58- Disse loro Gesù: <<In verità, in verità vi dico, prima che Abramo fosse, Io sono>>.
59- Presero dunque delle pietre per scagliar(le) su di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.

Note generali

Questa seconda parte del cap.8 è interamente riservata al terzo discorso di Gesù, il settimo nell'ordine generale dei diciotto discorsi che compongono buona parte del vangelo giovanneo. Più che un discorso si tratta di un collage di più discorsi che sono legati tra loro dalla figura di Abramo che li percorre tutti. Il nome Abramo in Giovanni compare undici volte e soltanto qui. Una figura fondamentale quella di Abramo nella tradizione di Israele, perché considerato il padre del popolo e padre di ogni israelita, nonché portatore di una promessa e di una benedizione divina che ha a che vedere con la fondazione e la grandezza dello stesso Israele, che in lui acquista una dimensione universale (Gen 12,1-3; 22,16-18). Essere figli di Abramo significava per l'israelita avere la salvezza e la benedizione divina assicurate e a buon mercato; sarà soltanto il Battista, con la sua dura predicazione escatologica che infrangerà questa loro illusione, sollecitandoli ad una sincera quanto radicale conversione (Mt 3,8-10).

In questo terzo discorso la figura di Abramo è centrale e forma da luogo di confronto e di scontro tra i Giudei e Gesù. Da un lato i Giudei, che con orgoglio oppongono a Gesù la loro discendenza abramitica e pertanto non hanno bisogno di quel riscatto e di quella liberazione che Gesù sta predicando loro (vv.33-37). Accanto al nome di Abramo essi accampano anche una paternità divina, che li rende santi e pertanto non sono figli di prostituzione, cioè non appartengono al mondo degli pagani idolatri (v.41b), destinati alla perdizione. Bastano dunque questi due titoli per nobilitare Israele, renderlo gradito a Dio e naturale erede della salvezza. Dall'altro Gesù, che li sollecita a compiere le opere di Abramo e di Dio; infatti se fosse vero quello che dicono circa la loro discendenza e la loro identità non penserebbero ad ucciderlo, poiché Gesù attesta, quanto ad Abramo, che questi gli è testimone (vv.56-58); quanto a Dio, egli è uscito da lui, e da lui proviene ed è mandato (v.42). In entrambi i casi, a motivo della loro vantata duplice paternità, dovrebbero riconoscerlo ed accoglierlo e non progettare di ucciderlo. Se, invece, arrivano a tanto è perché la loro vera paternità è un'altra: il diavolo, che da sempre è stato omicida e menzognero per natura, così come lo sono loro (v.44). Dai frutti dunque si riconosce l'albero. I giudei controbattono che per le pretese che egli accampa è lui l'indemoniato (vv.48.52); Gesù, a sua volta, controbatte che non è lui l'indemoniato, perché egli onora il Padre, mentre loro lo disprezzano (v.49). Si è dunque arrivati ad un reciproco e rapido scambio di accuse e di insulti, così che dalla disputa si è scaduti in un vero e proprio battibecco, che andrà a finire in un tentativo di linciaggio, dal quale Gesù riesce a sfuggire a stento, nascondendosi e scappando dal tempio (v.59). In questa seconda parte del cap.8 i ritmi della polemica si intensificano, il tema della morte compare prepotente sia nella denuncia di Gesù (vv.37.40.) che nel tentativo di linciaggio (v.59).

La struttura di questo terzo discorso di Gesù (vv.31-59) è alquanto complessa ed è scandita in due parti dall'uso che viene fatto della figura di Abramo:

  1. nella prima parte (vv.31-47) Abramo costituisce il parametro di confronto per i Giudei. Qui il clima, benché sovraccarico di tensione, è ancora pacato e il pensiero si muove sul filo del ragionamento e della deduzione logica ed è scandito in tre pericopi giustapposte l'una accanto all'altra, definite dalle rispettive inclusioni. Esse costituiscono una sorta di sillogismo: nella prima (vv.31-37) si attesta che la salvezza viene da Gesù e non da Abramo, che era in funzione di Gesù (v.56); la seconda (vv.38-41a) i Giudei rivendicano la paternità di Abramo, ma non ne compiono le opere, perché cercano di uccidere Gesù; similmente nella terza (vv.41b-47) i Giudei si arrogano la paternità di Dio, ma rifiutano Gesù, che da Dio è uscito e inviato. Di conseguenza non resta che concludere che la loro vera paternità non è né quella di Abramo, né quella di Dio, bensì quella del diavolo, che come loro fu omicida e menzognero fin dagli inizi.

  2. Nella seconda parte (vv.48-59) le cose cambiano e Abramo diviene il luogo di confronto non più dei Giudei, ma di Gesù (v.53), che da Abramo non solo riceve testimonianza (v.56), ma diviene anche motivo per dichiarare la propria divinità (v.58). Il clima qui si surriscalda e la diatriba degenera in battibecco: vi è un susseguirsi rapido di battute brevi e di reciproche accuse, per concludersi in un tentativo di lapidazione (v.59). In questa seconda parte si avverte il precipitare delle cose. Cambia drasticamente anche la struttura letteraria che non si muove più su pericopi giustapposte, ma si snoda in modo più dinamico su quattro brevi pericopi disposte tra loro a parallelismi alternati, secondo lo schema A, B, A', B', in cui A è ripreso e completato da A' e così B da B'. Nel nostro commento seguiremo pertanto lo schema A-A', B-B', così come esposto sopra nel testo a lettura facilitata, per dare più continuità al discorso, che diversamente verrebbe spezzettato. Questo attorcigliamento a mo' di spirale dà l'idea di un crescendo di tensione e della dura schermaglia finale che pone a confronto Gesù e i Giudei e che finirà in un tentativo di linciaggio, che prelude all'imminente morte di Gesù, già peraltro richiamata ai vv.37.40.


Commento ai vv.31-59


La salvezza viene da Gesù e non da Abramo (vv.31-37)

Questa pericope è delimitata dall'inclusione data dalle espressioni, uguali e contrarie, poste in forma chiasmica nei vv.31.37: “Se voi rimanete nella mia parola siete veramente miei discepoli” e “ma cercate di uccidermi poiché la mia parola non cresce in voi”. Strutturalmente la pericope si snoda in parallelismi concentrici in D), che costituisce il cuore dell'intera pericope e ne funge da motivazione. Pertanto si avrà:

  1. v.31: la parola accolta e conservata (“rimane”) genera il vero discepolato;

  2. v.32: la verità rende liberi;

  3. v.33: in quanto discendenza abramitica, i Giudei rivendicano il loro essere liberi;

                        D. v.34: la loro incredulità li rende schiavi di loro stessi;

     C') v.35: la vera libertà si fonda sul figlio, che è il vero erede; quella abramitica è solo figura di questa e dovrà cedere il passo;

     B') v.36: il figlio rende liberi;

     A') v.37: la parola accolta, ma non conservata (“non cresce”) viene perduta, generando progetti di morte;


Il
v.31a si apre con Gesù che si rivolge “ai Giudei che gli avevano creduto”. Il tempo verbale qui è posto al perfetto indicativo (pepisteukÒtaj, pepisteukótas), che indica l'effetto presente di un'azione collocata nel passato. Ci si trova dunque di fronte a dei credenti il cui credere ha avuto inizio in precedenza e nel nostro caso al v.30 in cui l'autore, a conclusione dei discorsi di Gesù, commenta: “Dicendo egli queste cose, molti credettero in lui”. Si disse allora (pag.31) che quel “credettero” era un aoristo di tipo ingressivo, che indicava l'inizio di una fede sorta dall'ascolto della parola (“Dicendo egli queste cose”). Il verbo “credettero” poi era fatto seguire dalla particella di moto a luogo “e„j” (eis, in), che imprimeva al credere la dinamicità che è propria della vita e parla di un cammino spirituale evolutivo: dal giudaismo verso Gesù. I molti che credettero in lui infatti appartenevano alle folle che si trovavano nel Tempio di Gerusalemme (v.2) e più precisamente nella tesoreria del tempio (v.20a), luogo riservato ai soli Giudei; il successivo v.31, poi, in modo più esplicito, definisce quei “molti” come “Giudei”. Ma ora qui, proprio al v.31, le cose cambiano radicalmente: non si parla più di folle ma di “Giudei che avevano creduto”. Già la precisazione di quei molti come “Giudei”, termine che in Giovanni assume quasi sempre una connotazione negativa ed è sinonimo di incredulità66, dice come ora il quadro sia completamente mutato, pur rimanendo nell'ambito di “coloro che avevano creduto”. Lo stesso uso del verbo “pistšuw” (pistéuo, credere), fatto seguire qui non più dalla particella “eis”, che parla, come si è detto, di un cammino di evoluzione, di crescita spirituale, ma da un semplice dativo (aÙtù, autô, a lui), dice come anche la qualità della fede sia decisamente scaduta67. Infatti il credere seguito da un dativo riduce la fede ad un semplice atto di fiducia umana, legata più alla reputazione di Gesù che alla sua divinità, rivelata in quel “Io sono” (vv.28-29), che inizialmente li aveva smossi alla fede. Posto all'interno di questo quadro ora è anche comprensibile perché quegli che “gli avevano creduto” assumano da questo momento in poi anche un atteggiamento ostile verso Gesù. Dopo una prima fiammata di fervore, quindi, il seme della parola è andato perduto e Gesù viene visto come un oppositore del giudaismo.

Prima di proseguire nella nostra analisi, si rende necessario soffermarci per un istante sul substrato storico che sottende questa seconda sezione del cap.8 e in particolare la pericope in esame (vv.31-37). I vangeli non sono mai un atto di accademismo letterario o una biografia scritta per ricordare le gesta di un grande personaggio, ma elaborazioni di fede, che l'evangelista indirizza alle proprie comunità credenti per confermarle nella loro fede e per rispondere ai loro problemi, che nei vangeli si riflettono. Giovanni infatti qui sta parlando della sua comunità, formata prevalentemente, almeno agli inizi, da cristiani provenienti dal giudaismo68. Non era facile per un ebreo, che aveva impresso nel suo DNA la Legge mosaica, che scandiva meticolosamente e ritualmente i ritmi della sua vita, trasformandola in una sorta di sacra liturgia cultuale, lasciare tutto questo per abbracciare una fede nuova e completamente diversa che si discostava nettamente dalla Tradizione dei Padri. Per l'ebreo infatti non c'era la distinzione tra il sacro e il profano, tra il tempio, la sinagoga e la propria abitazione, se non per la diversità dei riti che in questi luoghi venivano celebrati. Tutto per l'ebreo era sacro, tutto era rito, tutto era culto. Ora tutto questo nella nuova fede non c'è più; non solo, ma cambiavano radicalmente anche certi parametri riguardanti i digiuni, la purità, il modo di approcciarsi alla Legge, che spesso veniva reinterpretata (Mt 5,22-48) se non relativizzata dal nuovo insegnamento (Mt 15,9; Mc 7,7). Non tutti i giudeocristiani dunque erano convinti della scelta fatta o cercavano in qualche modo degli aggiustamenti per renderla compatibile con la Legge mosaica, che continuavano a praticare, stando con un piede su due staffe. Questa commistione di giudaismo e cristianesimo nascente è testimoniata dagli stessi Atti in 2,46: “Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore”. Questi giudeocristiani si sentivano ancora figli di Abramo, eredi della promessa, soggetti all'Alleanza e alla Legge mosaica e continuavano a frequentare il tempio e l'antico culto69; anzi pretendevano che i nuovi credenti, provenienti dal paganesimo, fossero circoncisi e sottomessi a Mosè (At 15,1.24), provocando una dura reazione da parte della chiesa di Antiochia, formata da etnocristiani, cristiani cioè provenienti dal paganesimo. Si prospettò una grave frattura all'interno della chiesa nascente, solo apparentemente risanata dal primo concilio di Gerusalemme (49 d.C.) (At 15,1-33; Gal 2,1-10). È questo il contesto storico in cui si colloca anche la comunità giovannea, formata nel suo nucleo iniziale da giudeocristiani, attorno al quale ha avuto inizio la prima fase del vangelo giovanneo. Una comunità che per certi aspetti trova dei suoi echi in quanto accadde nelle comunità della Galazia, che dopo aver abbracciato la nuova fede predicata da Paolo, sotto la spinta di gruppi di giudeocristiani giudaizzanti (Gal 1,7), avevano aperto alla pratica del giudaismo sottomettendosi alla Legge e alla circoncisione (Gal 3,2; 4,21; 5,4). Ho scelto l'esempio delle comunità della Galazia perché nella lettera paolina, come sostanzialmente anche qui, si parla di schiavitù e di libertà, dei veri figli di Abramo e come la figliolanza di Abramo e le sue promesse trovano il loro compimento in Cristo. Non quindi la pratica della legge, bensì la fede in Cristo affranca il credente dalla schiavitù della Legge e lo rende vero figlio di Abramo in virtù della fede e quindi erede delle promesse compiutesi in Cristo. Anche qui vi è l'esortazione a rimanere liberi in Cristo e di non lasciarsi imporre nuovamente il giogo della Legge (Gal 3-5). È molto probabile dunque che anche presso la comunità giovannea ci sia stato una sorta di ripensamento da parte di giudeocristiani e che questi impugnassero le pretese della nuova fede, che in origine avevano abbracciato, opponendo ad essa la loro plurisecolare e ben consolidata Tradizione, che affondava le sue radici nelle promesse fatte ad Abramo, nell'Alleanza, nel dono della Torah e nella stessa testimonianza dei profeti. Da qui l'esortazione dei vv.30-31, che sollecitano questi giudeocristiani a rimanere nella parola accolta e perseverare nella loro conoscenza di Cristo e del suo mistero per rendersi completamente liberi dal peso della Legge mosaica e della Tradizione. Ma da qui anche la dura diatriba che animerà questa seconda parte del cap.8, che terminerà in un tentativo di linciaggio per blasfemia, essendosi dichiarato Gesù pari a Dio (v.58).

I vv.31b-32 costituiscono la parte parenetica di questa seconda sezione del cap.8 e ne dà l'intonazione: “Se voi rimanete nella mia parola siete veramente miei discepoli e conoscerete la verità, e la verità vi libererà”. L'espressione è strutturata su due parti: la prima è caratterizzata da due verbi posti al presente indicativo (rimanete, siete); la seconda parte da altrettanti verbi al futuro (conoscerete, libererà). Lo scarto che intercorre tra il presente e il futuro indica il cammino e l'evoluzione spirituale di cui beneficerà il discepolo, qualora questi rimanga nella parola di Gesù. Entrambi i versetti sono dipendenti dalla congiunzione ipotetica “Se” ('E¦n, Eàn), che lascia intendere la posizione incerta degli interlocutori di Gesù. Essi avevano accolto inizialmente la parola di Gesù (v.30), ma ora non ne sono più molto sicuri (v.31a), perché il giudaismo, di cui sono permeati fin dal seno materno, sembra avere il sopravvento su di loro: il fascino della Torah, dell'Alleanza, dell'essere figli di Abramo, eredi della promessa, la certezza di essere salvi e superiori a tutti gli altri popoli; l'orgoglio, in ultima analisi, di essere giudei, un orgoglio che Paolo stigmatizzerà duramente e con sprezzante ironia, trasformando il loro vantarsi in un atto di accusa (Rm 2,1.17-24). Gesù, dunque, li esorta a rimanere nella sua parola, nel cammino intrapreso, che li porterà alla scoperta delle Verità vera, quella che alimenta il Mistero che vive in lui e che va a toccare direttamente la vita stessa di Dio. Non è un caso se in questi due versetti il termine “verità” ricorre tre volte: siete veramente miei discepoli e conoscerete la verità e la verità vi libererà.

Il v.31b è scandito in due momenti in cui il primo è condizione per il secondo: “se rimanete … siete”. Si noti la contemporaneità dei due verbi posti al presente indicativo, che evidenzia come il rimanere sia la conditio sine qua non che definisce il discepolato. Il discepolo pertanto è tale in quanto “rimane” nella parola e il rimanere provoca in lui una modificazione ontologica. L'uso del verbo essere (siete miei discepoli) va a toccare, infatti, l'ontologia, la struttura stessa della persona, che viene qualificata per il suo “essere in”. “Rimanere”, un verbo che ricorre in Giovanni 40 volte ed assume diversi significati a seconda dei contesti in cui viene a trovarsi70. Esso, qui, indica la fedeltà dello stare, del permanere nella parola e che fa si che la Parola diventi la dimora abituale del discepolo; uno “stare in” che compenetra il discepolo nel proprio maestro e lo rende ad esso conforme, creando tra i due un profondo ed intimo legame comunionale, facendo dei due una cosa sola, così come il Padre e Gesù lo sono (17,11.21.22). Significativo in tal senso quel “siete miei discepoli”, un aggettivo possessivo che qualifica il discepolo come appartenente a Gesù; una sorta di sua consacrazione, sottolineando una volta di più l'intimo rapporto comunionale che lega i due e che colloca il discepolo nella stessa comunione di vita che scorre tra Gesù e il Padre, che stabiliranno in lui la loro dimora (14,23); una sorta di compenetrazione osmotica, che porterà Paolo ad esclamare: “[...] non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20a).

Il v.32 si apre con la congiunzione “kaˆ” (kaì, e), che lega strettamente questo versetto a quello precedente, diventandone una sua conseguenza: “e conoscerete la verità, e la verità vi libererà”. Un'espressione che possiede in sé un forte dinamismo prodotto da quel susseguirsi, quasi senza respiro, del termine “verità”, che crea un effetto cascata. Il rimanere, il dimorare, l'abitare nella Parola porta dunque con sé un inevitabile effetto: conoscere la verità che genera il discepolo alla libertà. “Conoscenza e libertà” due termini ad effetto, cari allo gnosticismo; ma se per questo il conoscere porta a liberarsi del mondo, inteso come estraneazione ad esso, creando una sorta di illusione, qui il conoscere che genera la libertà assume significati completamente diversi. Il conoscere per l'ebreo non è un atto di mera intellettualità, ma ha la concretezza della stessa vita, mentre per Giovanni la verità non è un'astrazione filosofica indeterminata, ma assume i contorni della persona di Gesù, che si definisce “la via, la verità e la vita” (14,6a). Si creano quindi delle equazioni: conoscere significa vivere, esperire, assimilare; verità significa la persona di Gesù, intesa quale rivelazione e manifestazione del Padre. Gesù dunque Verità del Padre che si offre all'uomo per una conoscenza che è esperienza di vita. Conoscere la verità pertanto significa conformare la propria vita al disvelarsi del Padre in Gesù; entrare in comunione esistenziale con quel Dio, che si comunica a noi attraverso la Parola-Gesù, Logos incarnato (1,14), che ha condiviso con noi la nostra umanità per consentirci di condividere la sua divinità. Tutto questo dinamismo coinvolgente ed efficace genera il discepolo alla libertà, che non significa liberazione dai vincoli umani e/o terreni, che porrebbe il discepolo al di sopra e al di fuori della concretezza della sua stessa umanità, a cui sarà sempre soggetto finché è avvolto dalla sua corporeità; libertà qui è il frutto della verità, che ci libera dalle illusioni di un vivere effimero come se fosse eterno, per ricollocarci nelle nuove realtà eterne che l'evento Gesù ha inaugurato e dalle quali proveniamo e verso le quali siamo incamminati fin d'ora. Una conoscenza quindi che ci porta ad una nuova comprensione e visione della vita e delle cose e che spinge a conformarsi alle nuove realtà, abbandonando le vecchie. Significative in tal senso le due brevi parabole matteane del tesoro trovato nel campo e della perla di grande valore trovata dal mercante (Mt 13,44.45-46); una scoperta che spinge entrambi a vendere tutti i loro beni per acquisire la proprietà della nuova ricchezza scoperta.

Ma libertà è anche liberazione da quei vincoli veterotestamentari, incarnati nella Legge mosaica, che impediscono di accedere a quel Nuovo che già era in qualche modo prefigurato nell'Antico. Una liberazione ottenuta dalla conoscenza di Gesù, rimanendo nella sua parola. Ed è certamente questa, al di là delle possibili teologie e diverse comprensioni, la libertà a cui allude qui il Gesù giovanneo, la cui esortazione richiama da vicino quella di Paolo alle sue comunità della Galazia: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Un'esortazione che arriva a conclusione di un serrato confronto tra Cristo e la Legge, che ha occupato i capp.3-4 della lettera ai Galati. La libertà di cui si parla qui dunque è la liberazione dalle imposizioni della Legge mosaica, che Paolo definisce come “giogo della schiavitù”; e il confronto tra Abramo, Legge e Cristo della lettera ai Galati ora si riproduce sostanzialmente identico anche qui nella nostra pericope: un confronto tra Abramo e Gesù, tra chi è il vero liberatore tra i due (vv.31-32.36). Ed è proprio questo che andrà a provocare la suscettibilità degli interlocutori di Gesù.

I vv.33-36, come nei capp.3-4 della lettera ai Galati, innescano un duro confronto tra le pretese di libertà ottenuta in Abramo, che Gesù definisce illusoria (v.34), e la vera libertà operata dal figlio (v.36). Un confronto-scontro che trova il suo vertice al v.35 dove Gesù annuncia, con la sua venuta, la fine del giudaismo.

La reazione dei Giudei alle pretese di Gesù (vv.31-32) non si fa attendere: “Siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno; come tu dici che “diventerete liberi”?” Il confronto dunque verte sul tema della libertà e sulla titolarità della vera libertà. I Giudei portano la loro carta vincente, che costituisce anche il loro orgoglio nazionale: “Siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno”. Un'affermazione che va capita nel senso di identità religiosa e non certo in senso storico o politico, poiché la storia ha dimostrato come la Palestina e Israele fossero stati terra di continue conquiste e dominazioni da parte del potente di turno: Egitto, Assiria, Babilonesi, Greci, Romani. Sono dunque le promesse che Dio ha fatto ad Abramo, di cui loro sono la discendenza e quindi i naturali eredi, che non solo hanno dato loro una dignità e un'identità, assegnando loro una missione tra i popoli e ponendoli al di sopra di tutte le genti, ma ha garantito loro anche la sopravvivenza e la loro indipendenza morale e spirituale nonostante le numerose traversie della storia, che lo hanno travolto, ma mai vinto. E ora Gesù viene a dire loro che lui ha la capacità della vera libertà.

La risposta dei Giudei lascia emergere l'ennesimo fraintendimento: Gesù intendeva dire che se loro avessero perseverato nella loro iniziale sequela, in un costante atteggiamento di apertura accogliente della sua parola, avrebbero capito chi effettivamente fosse lui e lo avrebbero definitivamente accolto, lasciando i pesi e i vincoli di un giudaismo che ormai aveva già compiuto la sua missione: quella di condurre Israele alle soglie dell'era messianica. Proprio in tal senso Paolo, scrivendo ai Galati, andava loro dicendo: “Prima però che venisse la fede, noi eravamo rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo” (Gal 3,23-25). I Giudei invece se ne risentirono, ritenendo le parole di Gesù lesive del loro status di popolo eletto, che vantava antiche e nobili origini patriarcali e divine, e offensive pertanto del loro orgoglio nazionale. Ancora una volta i Giudei mostrarono tutta la loro cecità spirituale, che impediva loro di andare oltre a Mosè, dando da vedere di non aver ancora ben compreso il senso della loro storia e della loro elezione. Per questo Gesù li accusa di essere schiavi del loro peccato (v.34), che per Giovanni, quando il termine compare al singolare, indica l'incredulità da cui si genera l'inintelligenza dell'evento Gesù e, ancor prima, dell'agire di Dio nella loro storia.

Rinchiusi nel loro orgoglio nazionale e insensibili al nuovo agire di Dio nella storia, i Giudei non riuscirono a cogliere la novità dell'evento Gesù ed operare pertanto il passaggio fondamentale dal giudaismo a Gesù; da Mosè a Gesù, come fecero molti loro connazionali. Proprio per questo Gesù afferma che “lo schiavo non rimane per sempre nella casa, il figlio rimane per sempre” (v.35). L'impossibilità di una evoluzione spirituale del giudaismo, tenacemente radicato nel mosaismo, porta il Gesù giovanneo a decretare la fine dell'esperienza veterotestamentaria del giudaismo, la cui finalità era condurre Israele a lui. Era quindi nelle logiche delle cose che lo schiavo non potesse rimanere per sempre nella casa del suo padrone. Il substrato storico a questa sorta di sentenza è duplice: uno immediato e l'altro remoto. Quanto a quello immediato Gesù si rifà a Es 21,2 e Dt 15,12, che decretano come un ebreo, in quanto membro dell'Alleanza, non poteva rimanere schiavo a vita di un altro ebreo, ma, dopo sei anni di servizio, al settimo gli doveva essere restituita la sua libertà; quanto a quello remoto, il riferimento doveva essere ai due figli di Abramo, nati, il primo dalla sua schiava Agar (Gen 16,1-4.15) e poi cacciato dalla sua casa per incompatibilità con il primo figlio (Gen 21,9-1.14); il secondo nato dalla moglie legittima Sara e in quanto tale vero figlio della promessa, rimase nella casa di Abramo. Il vero erede della casa paterna, cioè della storia della salvezza, è dunque il figlio, con chiara allusione a Gesù. E che così sia lo attesta il v.36: “Pertanto, se il figlio vi libera, sarete realmente liberi”. Il potere e la capacità di liberazione pertanto viene dal figlio e non dallo schiavo. In altri termini, vera discendenza di Abramo è lui, Gesù, non loro. A ben guardare è l'identica esegesi che Paolo fa nella sua lettera ai Galati circa la promessa di Dio ad Abramo: “Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: "e ai tuoi discendenti", come se si trattasse di molti, ma alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo” (Gal 3,16).

Il v.37 conclude l'intero ragionamento del Gesù giovanneo, che riprendendo le pretese di discendenza abramitica dei Giudei sottolinea la contraddittorietà di simili pretese, perché se loro fossero veramente discendenza di Abramo, come rivendicano con ostentato orgoglio, certamente non progetterebbero di uccidere lui, che di Abramo è la discendenza ed erede delle promesse. Se ciò invece avviene è perché quella parola che inizialmente essi avevano accolto non è cresciuta in loro e questo ha impedito loro di cogliere la Verità e il Mistero della sua persona. In altri termini in loro non si è verificata una crescita ed una evoluzione spirituale capace di riconoscere in Gesù la vera discendenza di Abramo, in cui si sono realizzate tutte le promesse. Invece i Giudei si comportano come la discendenza di Ismaele, che seppur figlio di Abramo, rimase pur sempre generato da una schiava e per questo incapace di accedere ai beni promessi, riservati invece alla vera discendenza di Abramo, quella della promessa; esso invece è discendenza di Ismaele, che si prendeva gioco di Isacco (Gen 21,9), il figlio della promessa, e divenne ostile a Dio e alla vera discendenza abramitica (Gen 16,12; Sal 82,2-8).


I Giudei non sono figli di Abramo perché non ne compiono le opere (vv.38-41a)


Anche questa pericope è delimitata dall'inclusione data dalle espressioni sostanzialmente identiche: “fate quelle cose che avete udito presso il padre (vostro)” al v.38 e “Voi fate le opere del padre vostro” al v.41a. La pericope è caratterizzata dalla massiccia presenza del termine “padre”, quattro volte, e altrettante volte del nome Abramo. In discussione, quindi, vi è qui la figliolanza abramitica dei Giudei (“Se siete figli di Abramo”, v.39b).

I vv.38-41a introducono, quindi, il tema della vera paternità dei Giudei, tema che proseguirà anche alla pericope successiva (vv.41b-47) e che avrà il suo vertice al v.44, in cui verrà allo scoperto il vero padre dei Giudei. L'autore giungerà a scoprirlo per ragionamenti ad esclusione: a) Abramo non può essere il vero padre dei Giudei, perché essi non ne compiono le opere, anzi vogliono uccidere Gesù, mentre Abramo gioì nel vedere il giorno dell'avvento di Gesù (vv.38-41a.56); b) non possono avere per padre neppure Dio, perché in questo caso ascolterebbero Gesù, che da Dio è uscito ed è stato inviato; ma in realtà non ne comprendono l'annuncio e lo rifiutano (vv.41b-43). Non resta che concludere che i Giudei abbiano come vero padre il diavolo, perché come lui amano la menzogna, rifiutano la verità ed elaborano progetti di morte nei confronti di Gesù. Infatti se fossero da Dio ascolterebbero chi parla loro con parole di Dio (vv.44-47).

Sullo sfondo di questa caustica e polemica ricerca dell'effettiva paternità dei Giudei emerge, quasi di soppiatto, la vera paternità di Gesù, che rivela le cose che ha visto presso il Padre (vv.38a.40), da cui è uscito ed è stato inviato (v.42).

Il v.38, riprendendo in qualche modo la parte finale del v.37 (“la mia parola non cresce in voi”), ne fa da eco amplificatore sottolineando come quella parola che non attecchisce nei Giudei dice proprio quelle cose che lui ha veduto presso il Padre: “Io dico quelle cose che ho visto presso il Padre; anche voi, dunque, fate quelle cose che avete udito presso il padre (vostro)”. La parola dunque che i Giudei rifiutano, in ultima analisi, è proprio quella di Dio, che loro si beano di chiamare Padre (v.41c).

Il versetto qui è scandito in due parti tra loro parallele, che innescano un confronto tra Gesù e i Giudei, tra la paternità di Gesù e la loro.

Nella prima parte (v.38a) Gesù dichiara di fatto la sua trascendenza e il suo profondo legame con Dio: “Io dico quelle cose che ho visto presso il Padre”. Il verbo “dire” è qui reso in greco con “lalî” (lalô), che in Giovanni, qualora riferito a Gesù, acquista sempre un senso rivelativo; quindi Gesù con il suo dire rivela ciò che “ha visto” presso il Padre e pertanto è veritiero; di conseguenza, rifiutare lui significa rifiutare il Padre. Il verbo vedere qui è reso significativamente con un perfetto indicativo (˜èraka, eóraca), che rileva come il vedere di Gesù e quindi il suo sapere è conseguente ad un'azione passata, che Gesù colloca ai tempi in cui egli era ancora presso il Padre (vv.1,1-2; 17,5). Una chiara asserzione di divinità. Il verbo al perfetto infatti indica sempre uno stato presente come conseguenza di un'azione passata. In questo caso il verbo al perfetto diventa rafforzativo dell'espressione “presso il Padre”. La vera paternità di Gesù dunque è divina, come sottolineerà in termini più diretti e immediati al v.42b (“sono uscito da Dio e qui sono giunto”).

La seconda parte (v.38b) è dedicata ai Giudei e alla loro paternità. Si tratta qui di un'esortazione a comportarsi coerentemente alla loro paternità: come Gesù dice ciò che vede presso suo Padre, così loro facciano ciò che udirono dal loro padre. Il tempo verbale greco di “udire” è qui un aoristo (ºkoÚsate, ekúsate), corrispondente al nostro passato remoto, ed indica un'azione puntuale nel tempo e là rimasta. Si tratta dunque di un udire che si è perso nel tempo e che non risuona più nella loro vita; ben diverso dal tempo verbale usato per il vedere di Gesù, il perfetto, che come si è detto definisce un'azione che è sorta nel passato, ma che continua ancora nel presente, creando un forte legame tra Gesù e il Padre; quel legame che invece è andato perduto tra i Giudei e il loro padre Abramo; da qui l'esortazione a compiere le opere loro padre. Un padre che qui l'autore qualifica in due modi: con l'aggettivo possessivo “vostro” e con l'anonimato. Quanto al “vostro”, questo segna tutta la distanza che intercorre tra la paternità di Gesù e quella dei Giudei; il padre dei Giudei non è quello di Gesù; eppure Gesù è un giudeo come i suoi connazionali, che si erano qualificati come discendenza di Abramo (v.33a). Perché dunque Gesù non si ritiene discendenza di Abramo? Eppure Matteo apre il suo vangelo dichiarando Gesù “figlio di Davide, figlio di Abramo” (Mt 1,1) e similmente, ma partendo alla rovescia, la genealogia lucana include Gesù nella discendenza di Abramo (Lc 3,34). In realtà Gesù qui non nega, in quanto giudeo, la sua discendenza abramitica, ma l'autore sta pensando ad un'altra paternità, che non può appartenere a Gesù. L'anonimato, infatti, con cui è definita la paternità dei Giudei non è solo un escamotage letterario per lasciare aperta la ricerca di questa paternità, ma lascia presagire come il loro vero padre è privo di nome, che per il mondo antico non solo definisce una persona, ma ne esprime l'identità e la sua essenza. Essere privi o privati di un nome significa non avere una propria identità, essere nessuno e cadere dunque nel vuoto dell'oblio che appartiene allo sheol, il luogo dei morti, dove le anime vivono in uno stato larvale, prive di ogni identità; un vuoto che appartiene alle forze del male. Essere senza nome significava anche appartenere ad una razza disprezzata e reietta (Gb 30,8; Sal 14,27). E i Giudei colgono subito il senso di questo anonimato, il senso del nome volutamente taciuto e con vigore oppongono a Gesù la loro pregiata paternità: “Il nostro padre è Abramo” (v.39a).

I vv.39-41a affrontano la controversia sulla paternità dei Giudei e il v.39a ne enuncia il tema: “Il nostro padre è Abramo”. Intento dell'autore qui è di escludere tale paternità. Una disputa da cui emergerà, a latere e quasi in filigrana, la paternità di Gesù (“la verità che udii presso Dio”). Il ragionamento che qui viene sviluppato è una sorta di sillogismo: si parte da una premessa (v.39b), si arriva al corpo dimostrativo (v.40) e si conclude (v.41a):

  1. la premessa: “Se siete figli di Abramo, fareste le opere di Abramo” (v.39b). Si tratta di una frase ipotetica che si conclude con un verbo ottativo potenziale (“fareste”), cioè condizionale, dipendente dalla particella “Se”, ed esprime la possibilità del verificarsi di un qualcosa al verificarsi di un altro evento precedente da cui l'ultimo dipende. Già con questa premessa l'affermazione categorica dei Giudei, “Il nostro padre è Abramo”, viene posta in discussione;

  2. il corpo dimostrativo: “Ora, invece, cercate di uccidere me, un uomo, che vi ho detto la verità, che udii presso Dio: Abramo non fece questo” (v.40). È il cuore dell'intero impianto ragionativo. Il versetto viene qui scandito in tre parti: a) l'accusa: “cercate di uccidere me” da cui traspare in quel “cercate” la persistenza del loro comportamento, che lascia trasparire non solo l'aspetto persecutorio, ma anche un piano, che, man mano il tempo passa, si va sempre più definendo fino a giungere, a ridosso della terza pasqua, ad una decisione definitiva, lungamente maturata: “Da quel giorno, dunque, deliberarono di ucciderlo” (11,53). b) questa seconda parte accentra la propria attenzione sulla figura di Gesù, definito qui in duplice modo: come “uomo”, che può essere inteso sia “in quanto uomo” con riferimento al fatto che i Giudei consideravano Gesù un semplice uomo, uno dei tanti sedicenti messia di quel tempo, senza riuscire ad andare oltre e quindi vi è qui un'accusa implicita di incredulità; oppure, più semplicemente, come suggerisce lo stesso Brown71, significa “uno”, “un tale”. La preferenza, a mio avviso, va accordata alla prima soluzione, perché la logica grammaticale e sintattica della frase vorrebbe che il verbo della frase relativa seguente “che vi ho detto la verità” fosse posto alla terza persona singolare e non alla prima, che invece lega con la frase principale “cercate di uccidere me […] che vi ho detto la verità”. In tal modo il termine “uomo” va letto come appellativo del pronome “me” e va esplicitato come una sorta di frase incidentale “me, che invece mi avete compreso come semplice uomo”. La seconda definizione di Gesù emerge dall'espressione: “vi ho detto la verità, che udii presso Dio”. Il verbo “dire” qui è reso con “lalšw” (laléo), che, attribuito a Gesù, assume in Giovanni un senso rivelativo, ed è qui posto al perfetto indicativo che indica come uno stato presente sia conseguenza di un'azione passata; così che il dire di Gesù ha le sue origini nel Padre. La verità dipendente dal dire rivelativo di Gesù acquista il senso di rivelazione di realtà che Gesù “udì” presso il Padre. L'uso qui dell'aoristo (½kousa, ékusa, udii), corrispondente al nostro passato remoto, rimanda l'azione dell'udire di Gesù ad un tempo passato, ad un punto preciso del suo udire, alla sua stessa origine, là dove egli si trovava “presso a Dio” (1,1-2). Emerge dunque con prepotenza l'identità di Gesù, che si contrappone vistosamente alla comprensione che i Giudei ebbero di lui, come semplice uomo. c) La terza parte del v.40, “Abramo non fece questo” diviene da un lato constatativa di un dato storico, che in qualche modo verrà richiamato al v.56; dall'altro si trasforma in un parametro di confronto con il comportamento dei Giudei, che invece “cercano di uccidere” Gesù e di conseguenza in un implicito atto di accusa.

  3. La conclusione: Il v.41a conclude la diatriba sulla paternità abramitica dei Giudei con un'attestazione: “Voi fate le opere del padre vostro”. Torna nuovamente l'espressione “padre vostro”, ma ormai, dopo il passaggio del v.40, appare chiaro e indiscutibile che qui non si parla più del padre Abramo, dal cui esempio ed insegnamento i Giudei si sono gravemente discostati respingendo e cercando di uccidere proprio quel Gesù per il quale invece Abramo gioì (v.56). Essi pertanto non ne possono più invocare la paternità. A quale padre dunque si allude qui al v.41a? Tolto dunque ogni alibi, al lettore non resta che proseguire nel racconto per comprendere quale paternità sta per attribuire l'autore ai Giudei.


I Giudei non sono neppure figli di Dio, perché non accolgono Gesù, uscito da Dio; ma del diavolo, perché sono omicidi e falsi come lui
(vv.41b-47)


Similmente alla precedente, anche questa pericope (vv.41b-47) è delimitata dall'inclusione data dalle contrapposte espressioni sostanzialmente identiche: “abbiamo un unico padre, Dio” al v.41c e “non siete da Dio” al v.47c.

Strutturalmente la pericope si snoda secondo uno schema ragionativo parallelo e identico alla precedente pericope (vv.38-41a): alla pretesa di paternità abramitica (v.39a) corrisponde qui, al v.41b, la pretesa di paternità divina; all'espressione condizionale “Se siete figli di Abramo, fareste le opere di Abramo” (v.39b) corrisponde l'altra condizionale “Se Dio fosse vostro padre, mi amereste” (v.42a); al cuore della pericope vv.38-41a, che denuncia le intenzioni omicide dei Giudei del v.40, che li pone al di fuori della discendenza abramitica, corrisponde, preceduto da una battuta di arresto (v.43), il cuore di questa pericope, che porta allo scoperto la vera paternità dei Giudei: il diavolo (v.44). I restanti vv.45-47 sono asserzioni dimostrative di supporto al v.44. Dopo dunque aver contestata la figliolanza abramitica dei Giudei (vv.38-41a), parallelamente, ora, l'autore si appresta a contestare l'altro caposaldo dell'identità di Israele: la loro pretesa paternità divina.

v.41b: L'insistenza da parte di Gesù nel definire in modo anonimo la paternità dei Giudei, collocandoli in tal modo in un'area di disonore e di disprezzo, provoca nuovamente la loro reazione: “Noi non siamo stati generati da prostituzione, abbiamo un unico padre, Dio”. La questione qui posta valuta l'altro aspetto della loro origine, quella divina. La presenza della particella “™k” (ek, da) e il verbo “gegenn»meqa” (gheghennémetza, siamo stati generati) porta Israele a considerare il momento della sua nascita e quindi la sua discendenza. Israele venne qualificato come proprietà di Dio, nazione santa e regno di sacerdoti ai piedi del Sinai; con lui Jhwh strinse alleanza e gli fece dono della Torah (Es 19,5-6). Il verbo “gheghennémetza” infatti è al perfetto indicativo, che indica uno stato presente conseguente ad un'azione passata, che si colloca ai piedi del Sinai. La santità d'Israele pertanto è fuori discussione. Essi quindi, come alludeva in qualche modo l'anonimato imposto dall'autore sulla paternità di Israele (vv.38b.41a), non sono figli della prostituzione, un termine con cui nell'A.T. veniva designato il mondo pagano che si prostrava a divinità senza nome o, allorché Israele, abbandonando l'Alleanza, seguiva i culti idolatrici dei popoli vicini72. A questo tipo di generazione essi contrappongono il loro secondo titolo qualificante: “abbiamo un unico padre, Dio”. Una paternità divina attestata da Es 4,22-23a: “Allora tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva!73.

Il v.42, riprendendo la parte finale del v.41b, che funge da tema a questa pericope, mette in discussione, similmente al v.39b, la pretesa paternità divina dei Giudei. Questo versetto è scandito in due parti: la prima contesta la loro reclamata discendenza divina: “Se Dio fosse vostro padre, mi amereste”; l'amare Gesù dunque costituisce la prova fondante della loro discendenza divina. Il verbo greco qui usato per indicare l'amare è “¢gap£w” (agapáo) che tra i suoi primi significati riporta “accogliere con amore, trattare con affetto, aver caro”. Il verbo pertanto delinea proprio quel comportamento che invece i Giudei negano a Gesù, per questo essi non possono provenire da Dio. La seconda parte fornisce la motivazione alla prima parte, ma nel contempo mette nuovamente in luce la vera paternità di Gesù: “io, infatti, sono uscito da Dio e sono giunto (qui); poiché non da me stesso sono venuto, ma quello mi ha inviato”. Anche questa seconda parte è scandita in due tempi: il primo definisce la divinità di Gesù; il secondo diventa esplicativo dell'espressione verbale “sono giunto (qui)”. Questo primo tempo è caratterizzato da tre elementi significativi: la particella “™k” (ek, da), che indica un moto da luogo e quindi riconduce alla vera origine originante di Gesù: Dio; il verbo “™xÁlqon” (exêltzon), che significa “uscire, venir fuori” e che richiama l'uscire del bambino dall'utero materno. Proprio per questo suo uscire dalle “viscere” di Dio Gesù viene qualificato come vero Figlio di Dio, non in senso metaforico, bensì reale. Ma il suo essere originato e il suo uscire da Dio significa non solo che egli ne conosce le profondità del suo Mistero, ma anche che egli, Gesù, si costituisce come l'apparizione manifestatrice e rivelatrice di Dio in mezzo agli uomini. Ed proprio questo che dice il terzo elemento di questo primo tempo, il verbo “¼kw” (éko), “sono giunto (qui)”. Questo verbo, infatti, nel mondo pagano era usato per indicare la venuta di una divinità e la sua solenne apparizione in mezzo agli uomini74. Il secondo tempo, richiamandosi al verbo “éko”, lo amplifica precisandolo: “non da me stesso sono venuto, ma quello mi ha inviato”. Il suo apparire in mezzo agli uomini e il suo manifestarsi a loro non nasce da una sua iniziativa personale, ma egli è il portatore di una missione, che si sta compiendo in lui e per suo mezzo. Significativo qui l'uso del verbo “¢postšllw” (apostéllo) al posto del tradizionale “pšmpw” (pémpo) giovanneo. Entrambi dicono l'inviare, ma il primo acquista il significato più specifico di un incarico, di una missione da compiere, che non dipende dà lui, ma da chi gliel'ha affidata; il secondo invece ha il senso generico di inviare, che inerisce più all'azione dell'invio e al suo mandante che al contenuto della missione stessa, proprio invece “apostéllo”.

Il v.43 è una sorta di battuta d'arresto, un interrogativo che spinge ad una riflessione: “Per cosa non comprendete il mio discorso? Perché non potete ascoltare la mia parola”. Questa brusca e inaspettata interruzione dei ritmi narrativi lascia presagire un cambio di marcia e funge di fatto da premessa introduttiva ai vv.44-47. Fino a qui l'autore ha dimostrato come i giudei non sono né figli di Abramo e tantomeno di discendenza divina. Si pone ora il quesito: qual è dunque la loro paternità? Sarà compito di questi versetti ad indicare la vera paternità dei Giudei e a motivarla.

Il v.43 è composto di due parti, la prima interrogativa, introdotta dall'espressione “di¦ t…” (dià tí, per che cosa?); la seconda è dichiarativa ed è introdotta dalla particella “Óti” (óti, perché) che porta con sé la motivazione che sottende il 43a. Vista l'ostilità del giudaismo nei suoi confronti, Gesù si interroga sul perché di tanta opposizione: “Per cosa non comprendete il mio discorso?” Il termine qui usato per discorso è “lali¦n” (laliàn), strettamente imparentato con il verbo “lalšw” (laléo), da cui deriva e che, se riferito a Gesù, in Giovanni ha stretta attinenza con la sua rivelazione. Gesù dunque si sta interrogando del perché i Giudei non riescono a comprendere e a penetrare il Mistero che traspare dal suo annuncio. La risposta viene dalla seconda parte del v.43: “Perché non potete ascoltare la mia parola”. Il v.43b si apre con la particella causale “óti” che imprime all'intera frase il senso di spiegazione che motiva la riluttanza dei Giudei verso Gesù. Il motivo risiede in quel “non potete ascoltare”. Vi è dunque nel giudaismo una sorta di congenita incapacità all'ascolto; proprio il popolo della Parola e dell' “Ascolta, Israele” (Dt 6,4-9) è diventato un popolo duro di orecchi, perché duro di cuore, come lo apostroferà Isaia: “Và e riferisci a questo popolo: Ascoltate pure, ma senza comprendere, osservate pure, ma senza conoscere. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro d'orecchio e acceca i suoi occhi e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da esser guarito” (Is 6,9-10). Ciò che i Giudei non possono ascoltare è “la mia parola”, qui espressa con il sostantivo “lÒgoj” (lógos), che in qualche modo richiama quel Logos del prologo giovanneo: “Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero” (1,11).

I vv.44-47 portano alla luce la vera origine dei giudei e sono inclusi dalle espressioni contrapposte con cui si apre e si chiude questa pericope: “Voi siete dal padre, il diavolo” (v.44a) e “non siete da Dio” (v.47c). Ciò che ci sta di mezzo diventa un'amplificazione e un approfondimento di queste due constatazioni.

Il v.44 è scandito in due parti: la prima riguarda l'origine dei Giudei: “Voi siete dal padre, il diavolo”. Quella paternità dapprima soltanto ambiguamente allusa in 38b e più chiaramente indicata al v.41a trova ora la sua chiara conferma: il padre dei Giudei è il diavolo. Torna nuovamente qui, e per la penultima volta in questo cap.8, la particella “™k75, che indica il luogo della provenienza dei Giudei. In quanto figli del diavolo essi ne vogliono compiere i desideri. Si noti la determinazione espressa dal verbo “qšlete” (tzélete, volete), che esprime non soltanto un moto della volontà, ma li coinvolge interamente in ogni aspetto della loro personalità. Il verbo infatti non dice soltanto “volere”, ma anche “bramare, desiderare, amare, essere disposti a, acconsentire”. Vi è dunque nei Giudei un orientamento demoniaco che li porta a soddisfare i desideri del loro padre, di cui portano quel DNA che si manifesta nelle loro opere e in quella connaturata incapacità di cogliere e accogliere la Parola rivelatrice (“non potete ascoltare”). Quali siano i desideri del loro padre viene detto nella seconda parte del v.44 dove viene descritta dettagliatamente la sua personalità, che si riflette nei Giudei: “Quello era omicida fin dall'inizio e non è stato nella verità, poiché la verità non è in lui. Quando dice il falso, parla di ciò che gli è proprio, poiché è menzognero e suo padre”. Omicida, menzognero, padre della menzogna, la verità non è in lui. Questa l'identità del diavolo. Il riferimento del v.44b è evidentemente il racconto genesiaco della caduta di Adamo ed Eva, ingannati dal serpente demoniaco (Gen 3,1-5), che procurò loro la morte (Gen 3,16-19) e con loro l'intera creazione ne venne travolta (Rm 3,23; 5,12; 8,19-21). Ma il riferimento qui non è soltanto genesiaco, ma allude anche alla passione e morte di Gesù. Il diavolo infatti è omicida e fautore della morte di Gesù, ingannando Giuda, che Gesù già in 6,70 aveva indicato come “un diavolo”. È lui, infatti, il diavolo, che mette in cuore a Giuda di tradire il proprio Maestro (13,2); lui che operò in Giuda la morte di Gesù con l'inganno e il tradimento (13,27).

Ma ciò che qui viene maggiormente sottolineato, quasi in modo ossessivo, è il tema della falsità: “non è stato nella verità”, “la verità non è in lui”, “la falsità gli è propria”, “è menzognero”, “è padre della menzogna”. Questa marcata insistenza funge da premessa ai vv.45-46 e ne diventa la chiave interpretativa.

Il v.45 infatti è una sorta di prova inconfutabile di quanto attestato al v.44: “poiché dico la verità, non mi credete”. Ancora una volta spunta qui la contrapposizione dualistica giovannea della luce e delle tenebre, che percorre qua e là i primi dodici capitoli76, e che si riflette nella verità contrapposta alla menzogna, rendendo inconciliabili e irriducibili tra loro Gesù e i Giudei.

Il v.46 è scandito in due parti: la prima riporta la sfida di Gesù ai Giudei, che richiama da vicino quella già lanciata loro all'inizio del cap.8 in occasione dell'adultera (v.7): “Chi di voi mi convince di peccato?”. In altri termini, chi mi può accusare di peccato? Il peccato a cui Gesù qui allude è quello della menzogna. È infatti il contesto in cui è lanciata questa sfida di Gesù ai Giudei che induce a pensare che questo peccato consista nella falsità. Gesù infatti aveva accusato pesantemente i Giudei di essere omicidi e falsi come il loro padre, il diavolo, generatore di menzogna. La sfida consiste proprio in questo: voi potete dire altrettanto di me? La domanda sembra suonare retorica e attende una risposta negativa; la seconda parte del v.46 infatti riprende dicendo: “Se dico la verità, per che cosa voi non mi credete?”. La veridicità di Gesù, infatti, è stata testimoniata già al v.38a in cui egli attesta di dire quelle cose che ha visto presso il Padre; essa viene confermata al v.40 dove si dichiara che Gesù ha detto la verità che ha udito presso Dio; egli infatti è uscito da Dio ed è giunto in mezzo agli uomini proprio per rivelare la verità del Padre dal quale è stato inviato (v.42). Come si può dunque accusarlo di menzogna? Si può forse dire che il diavolo sia suo padre come lo è invece di loro, che rifiutano la verità portata da Gesù? Il guanto di sfida lanciato da Gesù ai Giudei verrà da loro raccolto e rilanciato contro Gesù a partire al v.48.

Il v.47, dai toni sentenziali e sapienziali, chiude la pericope e l'intero impianto ragionativo (vv.38-46) teso a dimostrare l'origine demoniaca dei Giudei, colta qui dal versante non più del diavolo, ma di Dio: “Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; per questo voi non ascoltate, perché non siete da Dio”. Il versetto sviluppa una sorta sillogismo in cui la prima parte funge da principio guida, la seconda è un'attestazione, la terza, introdotta da un “óti” causale, diviene conclusiva e confermativa: i Giudei non sono da Dio.


Gesù non è indemoniato, ma credibile e veritiero, perché non cerca la propria gloria, che invece gli viene dal Padre (vv.48-50.54-55)

Con il v.48 ha inizio il susseguirsi di due brevi discorsi di Gesù tra loro paralleli e, come si è visto nel testo a lettura facilitata sopra riportato (pag.33), tra loro intrecciati, dando il senso di una dinamicità e di un susseguirsi di battute, che creano un forte clima di tensione che culminerà in un tentativo di linciaggio di Gesù (v.59), attestando in tal modo la verità circa la discendenza demoniaca dei Giudei, omicidi come il loro padre.

La reazione alla pesante provocazione di Gesù nei confronti dei Giudei, ai quali viene disconosciuta la loro duplice paternità abramitica (vv.30-41a) e divina (vv.41b-43) ed assegnata invece quella demoniaca (vv.44-47), non si fa attendere: “Non diciamo bene noi che tu sei un Samaritano e hai un demonio?”, a cui Gesù controbatterà: “Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio, e voi mi disprezzate” (vv.48-49). Siamo giunti quindi al battibecco e il ritmo del dialogo si fa incalzante; anche la qualità dei suoi contenuti, eccettuata la solenne proclamazione del v.58 con cui si conclude il cap.8, è sostanzialmente poco rilevante, riflettendosi in quest'ultima parte temi già trattati altrove. Trova qui la sua eco la tensione che doveva animare, a partire dalla seconda metà del I sec., i rapporti tra il giudaismo e le prime comunità credenti, che emergerà più evidente nel successivo cap.9, dove si parlerà degli effetti del primo proselitismo cristiano nei confronti del giudaismo.

Gesù dunque è controaccusato di essere un samaritano e di avere un demonio (v.48), come dire di essere un bastardo77 e uno fuori di testa; un'accusa quest'ultima che già era risuonata in 7,20, ma che doveva essere un sentire abbastanza comune tra gli avversari di Gesù, se anche il racconto marciano la riporta e la fa dire proprio ai suoi parenti più stretti (Mc 3,21), che si saprà poi essere sua madre e i suoi fratelli (Mc 3,31-32) e che Gesù disconoscerà per la disistima che essi avevano nei suoi confronti (Mc 3,33), indicando invece in coloro che credevano in lui la sua nuova e vera famiglia (Mc 3,34-35). Gesù dunque si difende dalla seconda accusa, ma non da quella di essere un samaritano. Il motivo è fondamentalmente storico: nella comunità giovannea vi era un numero consistente di samaritani78, a cui Giovanni ha dedicato lo stupendo racconto della Samaritana (4,1-43), mettendo in rilievo la loro disponibilità accogliente e la loro pronta adesione di fede nei confronti di Gesù, che loro riconoscono e professano come il vero “salvatore del mondo” (4,42). Il sentire quindi del Gesù giovanneo nei confronti dei Samaritani è ben diverso da quello dei Giudei.

I vv.49-50 riportano la contro risposta di Gesù: “Rispose Gesù: <<Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio, e voi mi disprezzate. Ma io non cerco la mia gloria; c'è chi cerca e chi giudica”. La risposta di Gesù si articola in cinque passaggi:

  1. negazione di essere un indemoniato, cioè di essere un esaltato in cerca di notorietà e fama;

  2. il secondo passaggio si apre con una particella avversativa “¢ll¦” (allà, ma), che contrappone quanto segue all'accusa dei Giudei e costituisce la prova della correttezza del suo comportamento: egli onora il Padre compiendo la sua volontà (17,4);

  3. il terzo passaggio formula un'accusa contro i Giudei: essi disprezzano Gesù, che onora il Padre, di conseguenza essi disprezzano indirettamente lo stesso Padre. La contrapposizione dei due comportamenti è messa in evidenza dai due verbi tra loro antitetici: “timî (timô, onoro) e “¢tim£zete” (atimázate, disprezzate). Si tratta dello stesso verbo, il primo espresso nella forma positiva (timô); il secondo (atimázate) associato ad una “a” privativa, che non ne dà il senso negativo, ma contrario.

  4. Il quarto passaggio riprende il senso di quel “Io non ho un demonio”, cioè non sono un esaltato in cerca di approvazioni e consensi, e lo esplicita in “Ma io non cerco la mia gloria”. Gesù dunque non è ripiegato su stesso e in funzione di se stesso (5,41), come lo sono invece loro (5,44).

  5. Il quinto passaggio motiva il quarto: “c'è chi cerca e chi giudica”. Il soggetto è chiaramente il Padre che cerca la gloria del Figlio79; ma nel contempo esso si costituisce come giudice nei confronti di chi disprezza lui nel Figlio. Come dire: colui che cerca la gloria del Figlio è anche colui che giudica voi che lo disprezzate.

I vv.54-55 riprendono i vv.49-50, sviluppando su di essi una riflessione in cui riecheggiano temi già trattati altrove. Il v.54 è la riproduzione amplificata del v.50, dove l'espressione “io non cerco la mia gloria” diviene qui “Se io glorificassi me stesso, la mia gloria è niente”, in cui riecheggia in qualche modo il tema di 7,18; così la seconda parte del v.50, “c'è chi cerca e chi giudica”, diviene qui “chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite che è nostro Dio” con riferimento in quest'ultima battuta al v.41b. Il v.55a contrappone la non conoscenza che i Giudei hanno di Dio alla conoscenza che invece ne ha Gesù, riprendendo di fatto il tema del v.19b; la conseguenza di ciò, anticipata al v.49b, è che loro disprezzano Dio in lui, mentre Gesù lo onora osservando la sua parola e glorificandolo nel compiere la sua opera, frutto questo della conoscenza che egli ha del Padre; conoscenza che i Giudei dicono di avere, ma in realtà sono dei bugiardi, perché quel Dio che loro invocano come Padre non viene riconosciuto in Gesù, che invece disprezzano e cercano di uccidere. In questo tradiscono la loro vera paternità demoniaca.

Il confronto tra Gesù e Abramo, che testimonia su di lui, porta a scoprire la divinità di Gesù (vv.51-53.56-58)

Si ha qui il secondo discorso parallelo e intrecciato con quello riportato ai vv.48-50.54-55. Esso è incentrato sulla figura di Abramo posta a confronto con quella di Gesù, altrove, direttamente o indirettamente, confrontato con altri personaggi veterotestamentari (1,17; 4,12; 9,29), quasi a dire come questi ne fossero in qualche modo preannuncio e figura e come Gesù ne sia il compimento prefigurato e atteso (Mt 5,17).

Questo ultimo discorso del cap.8 si apre con un'espressione dai toni sentenziali (v.51), che provocherà la reazione dei Giudei, portando, tra un fraintendimento ed un altro (vv.52.57), ad un confronto-sfida tra Gesù ed Abramo (v.53), da cui non solo si rileverà la grandezza di Gesù, che da Abramo ha ricevuto la sua testimonianza (v.56), ma spingerà Gesù a proclamare in forma solenne la propria divinità (v.58).

Il v.51 inizia con una formula cara a Giovanni, che ricorre nel suo vangelo 24 volte, imprimendo all'intero versetto un tono di solennità e di veridicità: “In verità, in verità vi dico”. L'attenzione qui va a cadere sul tipo di relazione che il credente ha nei confronti della parola di Gesù: “se qualcuno osserva la mia parola”. Il verbo “osservare” è reso in greco con “thršw” (teréo) che significa oltre che praticare anche custodire, aver cura e delinea il comportamento del vero discepolo; si tratta dunque di una parola che è penetrata in lui ed è diventata modo di vivere, la sua forma mentis. La conseguenza di questo status di cose è il “non vedrà la morte per sempre”. Il verbo al futuro qui più che evidenziare prospettive escatologiche ha la funzione di rimarcare quel “per sempre”. Singolare questa attestazione di vita eterna da parte di Gesù pronunciata in un contesto di morte, dove i Giudei, durante la festa delle Capanne e in un clima di forti tensioni, cercano in ogni modo di arrestarlo80 per ucciderlo81. Un versetto questo in cui riecheggia 5,24-26: “In verità, in verità vi dico che chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità vi dico che viene l'ora, ed è adesso, quando i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che hanno ascoltato vivranno. Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così anche al Figlio ha dato di avere la vita in se stesso”. Ed è quest'ultimo versetto (5,26) che spiega la potenza rigeneratrice e rigenerante della parola di Gesù, in cui vive la vita stessa del Padre. Si tratta dunque di una parola che non solo possiede in sé la vita stessa di Dio, ma anche la sua stessa potenza trasformante. L'autore della lettera agli Ebrei attesta che “[...] la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12); una parola che è un essere vivente ed è efficace, producendo ciò che dice; una parola che interpella l'uomo nelle profondità del suo essere pretendendo una risposta esistenziale e instaurando su di lui un giudizio escatologico. Similmente 1Pt 1,23 vede nella parola la potenza rigeneratrice di Dio: “essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna”; una parola quindi che possiede in se stessa il germe dell'eternità, della vita stessa di Dio ed è capace di donarlo.

I vv.52-53 riportano la dura reazione dei Giudei, sicuri che ora Gesù è posseduto da un demonio, cioè è un esaltato, uno fuori di testa nel fare simili asserzioni. L'intera reazione è fondata su di un fraintendimento: Gesù non intendeva dire che la sua parola rendesse immortale la vita mortale dell'uomo, bensì che essa è capace di generare il credente alla vita stessa di Dio, che in Giovanni per definizione è vita eterna. Un fraintendimento che va ad innescare un confronto tra Gesù ed Abramo e i Profeti e si conclude con un tono di arroganza: “Chi fai te stesso?”, corrispondente al nostro: “Ma chi ti credi di essere?”. Saranno proprio questi due i temi su cui si incentrerà la risposta di Gesù, che occupa i vv.56-58.

Il v.56 replica alla prima sfida dei Giudei lanciata a Gesù: “Sei tu forse più grande del nostro padre Abramo […]?” (v.53a). La risposta di Gesù è qui alquanto sibillina e ha dato luogo nel passato a diverse interpretazioni. Tuttavia, per poter coglierne il senso si rende necessario rilevare lo scenario che il testo letterario suscita: ricorrono qui insistenti i verbi “esultare, vedere, gioire” che definiscono un contesto di messianismo compiuto in cui l'espressione “il mio giorno” richiama da vicino il “giorno del Signore”, giorno che è legato alla sua venuta. L'espressione ricorre diciassette volte nell'A.T. dove è colta come il giorno dell'ira divina e del giudizio incombente, che porta con se stragi e devastazioni; un contesto questo che riecheggerà anche nella predicazione escatologica del Battista, che a questo mondo apparteneva (Mt 3,7-12). Similmente l'espressione ricorre otto volte nel N.T., ma cambia lo sfondo in cui è posta: non più giudizio e ira, non più stragi e distruzioni, ma salvezza, che At 2,20, riportando Gl 3,1-5, definisce come giorno “grande e splendido”. È il giorno in cui le due madri, Elisabetta e Maria, si incontrano in un clima di piena gioia messianica, che scaturisce dai frutti del loro seno (Lc 1,39-48); è il giorno del vecchio Simeone e della profetessa Anna, che alla vista del bambino esultano in cuor loro, lodando e benedicendo il Dio d'Israele, perché in quel bambino vedono compiute le promesse fatte ad Abramo (Lc 2,25-32.36-38). Ed è proprio questo contesto di gioia messianica che qui ricrea Giovanni, pensando probabilmente alla nascita di Isacco, in cui Abramo e Sara videro compiuta la promessa. La rilettura cristiana dell'episodio vide nella nascita di Isacco, figlio della promessa, prefigurata la nascita di Gesù, compimento di quella promessa. Una tendenza questa che animava l'intero cristianesimo del primo secolo, che aveva incominciato a rivisitare le Scritture in chiave cristologica. Sullo stesso tono 12,41, in cui Giovanni attesta: “Queste cose disse Isaia, poiché vide la sua gloria, e parlò di lui”. Una tendenza questa che viene confermata anche da Eb 11,13, a conclusione di un lungo elenco di figure bibliche, che vissero nella fede e nella speranza del compimento: “Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra”.

Il v.57 riporta l'ennesimo fraintendimento dei giudei che non riescono ad andare oltre agli eventi storici e cronologici per entrare nei tempi messianici ed escatologici, preannunciati dai profeti e compiuti in Gesù. La lettura della loro storia della salvezza è miope, perché legata al vincolo della lettera, che impedisce loro di accederne allo spirito del suo contenuto: “Gli dissero dunque i Giudei: <<Non hai ancora cinquant'anni e hai visto Abramo?>>”. Si noti come il fraintendimento sia totale: Gesù non ha mai detto che ha visto Abramo, ma che questi ha visto il giorno del compimento della promessa nella nascita di Isacco, in cui era prefigurata quella di Gesù, la promessa compiuta. Ed è sull'onda della misurazione del tempo (cinquant'anni) che distanzia Abramo e Gesù che fornisce a quest'ultimo il motivo della sua dichiarazione solenne della propria divinità.

Il v.58, nel rispondere alla seconda sfida lanciata dai Giudei a Gesù (“Chi fai te stesso?”), porta a conclusione il tema della divinità di Gesù, che qui tocca il suo vertice e che ha sotteso e caratterizzato l'intero cap.8, significato nell'espressione cara a Giovanni “Io sono”, che richiama il nome di Jhwh rivelato a Mosè sul Sinai (Es 3,14). Un'espressione che si è ripetuta per ben cinque volte solo in questo capitolo82. L'apertura del versetto è solenne, preceduta dalla nota formula giovannea “In verità, in verità vi dico” che carica di importanza e di ufficialità, imprimendone il carattere di veridicità, la dichiarazione che segue: “In verità, in verità vi dico, prima che Abramo fosse, Io sono”. Questo porsi dell' “Io sono” prima di Abramo lascia intendere come Gesù non solo sia più importante di Abramo, trovandosi prima di lui in ordine di tempo e in senso assoluto, ma come egli sia l'autore e nel contempo il compimento stesso della promessa fatta ad Abramo. In altri termini una dichiarazione di divinità, che affonda le sue radici nella stessa storia di Israele. È quel “prima di” che troviamo altre due volte in 1,15.30 dove il Battista riconosce in Gesù la sua grandezza e la sua superiorità rispetto a se stesso. Tuttavia va posto una distinzione tra il “prima di” dei vv.1,15.30, reso in greco con “prîtÒj” (prôtos), che significa primo nel senso di ordine (primo, secondo, terzo, ecc.), indicando un ordine di grandezza; e il “prima di” di questo versetto, reso in greco con la particella avverbiale “prˆn” (prìn), che indica un prima in ordine di tempo. Un uso appropriato perché il confronto tra Gesù ed Abramo era fatto sul tempo (“Non hai ancora cinquant'anni e hai visto Abramo?”). Ma è proprio questo “prìn” che crea dei problemi, poiché se Abramo è per l'ebreo l'origine della sua storia, che porta in sé una promessa, Gesù che si dichiara prima di Abramo si pone di fatto al di là della storia, in quel principio genesiaco da cui tutto discende e tutto trae la propria esistenza (Gen 1,1; Gv 1,3) e che porta in sé i tratti della stessa divinità, proclamata con enfasi in quel “Io sono”.

v.59: la dichiarazione di divinità di Gesù suscita nei Giudei sdegno ed ira che sfociano in un istintivo tentativo di linciaggio di Gesù; un atto, che proprio perché istintivo e irrazionale, e quindi spontaneo, denuncia la loro naturale propensione all'omicidio, sottoscrivendo una volta di più la verità detta da Gesù: essi sono omicidi come lo fu il loro padre, il diavolo (v.44): “Presero dunque delle pietre per scagliar(le) su di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio”. L'atto di blasfemia era sanzionato da Lv 24,16a con la lapidazione, ma non è pensabile che qui si stia eseguendo una sentenza del Sinedrio, che avrebbe richiesto tempi e modalità piuttosto laboriose. Tutto si svolge in un contesto di reazione immediata e istintiva, che serviva all'autore per dimostrare il loro istinto omicida e quindi la loro paternità diabolica. Indubbiamente la dichiarazione di Gesù doveva essere stata intesa come una bestemmia, perché similmente avviene in 10,30-33 e costituirà inoltre, nei racconti sinottici della passione, motivo di condanna davanti al Sinedrio83, e così similmente in Gv 19,7 formerà l'atto di accusa dei Giudei contro Gesù davanti a Pilato.

Quanto alla lapidazione che stava per avvenire nel Tempio questa non era pensabile per la sacralità del luogo, che non doveva essere contaminato né da sangue né da cadaveri, che rendevano impuro il Tempio e quindi in qualche modo veniva profanato e reso inidoneo al culto. Ed anche se sono giunti a noi due casi di lapidazioni avvenute nel tempio, questi vanno letti nel contesto in cui sono avvenuti, un contesto di gravità eccezionale: di dispregio alla religione, quello riportatoci da 2Cr 24,17-22; e nel corso di una rivolta nel secondo caso riferitoci da Giuseppe Flavio84. Casi dunque che non possono essere assunti a modello e a giustificazione di Gv 8,59. Non era nella logica delle cose lapidare uno nel tempio, presso il quale non si eseguivano condanne a morte, che in genere avvenivano fuori dalle mura della città85. Nel Tempio inoltre non vi erano sassi a disposizione perché il tempio era tutto lastricato in pietra, almeno la parte interna del Tempio, l'edificio vero e proprio, la parte sacra, dove si trovava Gesù (2,20). L'osservazione, poi, che il tempio fosse in manutenzione per lavori di ampliamento iniziati da Erode il Grande86 non significa che lì vi fossero necessariamente pietre idonee ad una lapidazione. Per eseguire una lapidazione dovevano esserci dei sassi di una certa consistenza e maneggevoli per essere lanciati. Questo presuppone che il pavimento del Tempio fosse in terra smossa, scavata e piena di buche da cui prendere dei sassi. Cosa questa difficilmente immaginabile se si pensa che all'epoca di Gesù i lavori erano in corso già da circa 46 anni (2,20). Non va trascurato poi, come si è accennato sopra, che Gesù qui al cap.8 doveva trovarsi ancora nell'atrio delle donne, presso la tesoreria del tempio (v.20), nel vero e proprio tempio, un luogo quindi molto interno rispetto ai lavori che invece dovevano investire l'area esterna del cortile. Da questo insieme di cose se ne deduce che l'episodio del tentativo di lapidazione di Gesù assume più che contorni storici aspetti narrativi e dimostrativi degli intenti persecutori e omicidi dei Giudei, che in tal modo si dimostrano di vera discendenza demoniaca.

Il v.59, e con lui il cap.8, si chiude con la constatazione dell'autore: “ma Gesù si nascose e uscì dal tempio”. Il “ma” avversativo dice come l'ora di Gesù non si sia ancora compiuta (7,30; 8,20) e come il progetto del Padre, che conduce la storia della salvezza al suo compimento, sia più forte delle pretese e dei progetti degli uomini, anzi se ne serve per realizzare i propri. Gesù era salito al tempio di nascosto (7,10b) e qui, al termine di una lunga diatriba, svoltasi tutta nel tempio (7-8), in cui minacce e progetti di morte si sono susseguiti incessantemente87, creando un clima di forti tensioni, egli si nasconde per poi uscirne, anche se vi ritornerà qualche mese dopo in pieno inverno88 (v.22b), per l'ultima volta, durante la festa della Dedicazione (10,22-23), l'ultima prima della pasqua fatale (11,55; 12,1; 13,1).

Non so se fosse intenzione dell'autore, ma guardando dall'alto i due capp.7-8 sembrano trasparire da questi le tappe salienti della missione di Gesù dapprima nei rapporti sostanzialmente fallimentari con la sua famiglia (7,5); poi nel suo tentativo di colloquiare e manifestarsi al giudaismo credente, quello del culto, della Torah, del Tempio, ma con esiti disastrosi (8,59), così che egli decide di abbandonare questo tipo di giudaismo, troppo arroccato nelle sue posizioni e nelle sue sicurezze, per rivolgersi infine a quello più disponibile, che emerge dal racconto del cap.9, il cieco nato, qui con esiti favorevoli (9,35-38).

Dio entra dunque nella storia attraverso le logiche di una famiglia umana e qui fa la sua prima apparizione. Ma già sua madre e suo padre, Giuseppe, ritrovatolo nel tempio, non lo comprendono: “Ma essi non compresero le sue parole” (Lc 2,48-50); “neppure i suoi fratelli credevano in lui” (7,5), anzi il racconto marciano arriva a dire che i suoi lo ritenevano fuori di testa (Mc 3,21). Si crea dunque una scissione tra Gesù e i suoi fratelli, tra Gesù e la sua famiglia: entrambi salgono al tempio (7,10a), ma separatamente (7,8), che dice il diverso modo di porsi davanti al culto e davanti a Dio; un diverso modo di intenderne la volontà: in modo vistoso ed eclatante per i fratelli (7,3-4); in modo nascosto per Gesù (7,10b).

E qui nel tempio, il giudaismo del culto e della Torah lo sta cercando (7,11) e si interroga su di lui e ne nascono dei contrasti e delle divisioni (7,12-13); si interrogano sulla sua messianicità e sul suo profetismo messianico, ma il loro essere legati a schemi tradizionali impedisce loro di cogliere la novità dell'evento messianico che si sta proponendo a loro e la folla si divide su di lui (7,26-27.40-43.52); così come si divide al proprio interno il gruppo delle autorità giudaiche (7,44-53), anche questo legato a schemi tradizionali di messianismo profetico (7,52).

Ma proprio qui all'interno del giudaismo del tempio sembrano esserci quelli a lui favorevoli (8,30), ma il suo linguaggio così nuovo e così innovativo non riesce a far breccia neppure in questo: rimanere nella sua parola (8,31-32) infatti significava rivedere il proprio modo di penare e di credere; significava riposizionarsi in modo nuovo e completamente diverso nei confronti di Dio; troppo per chi è legato alla tradizione e ai propri schemi mentali e culturali, che diventano un ostacolo insuperabile; troppo per chi ha la pretesa di possedere la verità e di essere sempre nel giusto e di andare orgoglioso del suo status sociale e religioso. Rimanere nella sua parola significa in ultima analisi mettersi completamente in discussione, rivedere tutte le proprie sicurezze. Ed è qui che emergono nuovamente i contrasti e tutta la distanza tra questo giudaismo del tempio e la novità dell'evento Gesù, entrato nascostamente in questo tipo di giudaismo, quasi di soppiatto (7,10b), creando un grande sconquasso, che ha provocato il suo rigetto sistematico89. Per questo Gesù si nasconde nel tempio, cioè non si lascia più raggiungere da questo tipo di giudaismo, arroccato nelle sue sicurezze e sulle sue posizioni tali da risultare invincibile anche per Dio. E l'uscire di Gesù dal tempio dice l'abbandono di Gesù di questo tipo di giudaismo ormai inavvicinabile, per incontrare un diverso giudaismo, quello maggiormente disponibile a lui, quello che il racconto lucano definisce “quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”, l'anima del vero Israele, quello del vecchio Simeone e della profetessa Anna (Lc 2,25-32.36-38). Questa sarà la storia del cieco nato, a cui Giovanni dedica l'intero cap.9.


Giovanni Lonardi



N O T E

1Cfr. Gv 12.14b.23.24.28.38a.40.42.56-58

2Cfr. Gv 5,18; 7,1.19.20.25; 8,37.40; 11,53; 12,10.

3Cfr. Gv 7,30.32.44; 8,20

4I discorsi da me individuati sono i seguenti: 1° discorso 3,11-21; - 3,31-36; - 4,30-38; - 5,19-47; - 6,28-71; - 8,12-20; 7°- 8,21-31; 8°- 8,31-59; - 10,1-21; 10°- 12,23-36; 11°- 13,31-35; 12°- 14,1-31; 13°- 15,1-17;14°- 15,18-16,5; 15°- 16,5-15; 16°- 16,16-22; 17°- 16,23-33; 18°- 17,1-26. Sulla questione dei discorsi in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 88-89

5 Si leggano le note generali e il commento ai vv.19-24 del cap.7

6Il Vangelo degli Ebrei è andato perduto. Notizie ci sono giunte attraverso attestazioni dei Padri della Chiesa. Esso era in uso presso i giudeocristiani della Palestina del II sec.

7Sulla questione della pericope Gv 8,1-11 cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag.434-435; S.Grasso, il Vangelo di Giovanni – commento esegetico e teologico, nota 2, pagg.363-364; tutte le opere citate.

8Sul luogo della composizione e datazione del vangelo giovanneo cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.38-41

9Questi erano i tre criteri che definivano la canonicità degli scritti neotestamentari.

10Un cubito equivale a circa 45 cm. Sulle misure antiche cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, editrice Marietti, Genova, ristampa della III edizione 2002

11Cfr. la voce “Monte degli Ulivi” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

12Sulla questione dell'ottavo giorno cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, pag. 477; op. cit.

13Il termine tedesco “sondergut” è tecnico e indica il materiale proprio di un determinato evangelista, che non si ritrova negli altri. Esso è usato esclusivamente all'interno dello studio dei sinottici, a motivo della loro particolare natura di racconti tra loro paralleli. Tale termine tuttavia non può essere applicato al vangelo di Giovanni, distaccandosi questo totalmente dai racconti sinottici ed essendo unico nel suo genere.

14Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag.435; op. cit.

15Il numero “otto” in ebraico si dice “Sh'moneh” e ha la sua derivazione da “Shah'meyn” che significa produrre grasso, ricoprire di grasso e quindi sovrabbondare. Del resto il numero otto è dato da 7+1 ed è ciò quindi che va al di là del sette che indica perfezione e compiutezza; proprio per questo quel uno in più della compiutezza dice abbondanza.

16Il primo tempio fu costruito da Salomone nel X sec. a.C. e distrutto da Nabucodonosor nel 587 a.C. Esso verrà ricostruito dopo il rientro dall'esilio babilonese (538 a.C.) tra il 520-515 a.C. sotto la spinta dei profeti Aggeo e Zaccaria e la guida di Zorobabele, primo governatore della Giudea dopo il rientro dall'esilio. Erode il Grande per ingraziarsi il popolo e la classe sacerdotale ristrutturò, ampliò e abbellì notevolmente il tempio a partire dal 19 a.C. I lavori terminarono nel 64 d.C. Due anni più tardi scoppierà la guerra giudaica contro Roma e il tempio verrà distrutto definitivamente nel 70 d.C. da Tito, rimasto a capo dell'esercito romano, dopo che il padre Vespasiano venne richiamato a Roma perché eletto imperatore.

17Il Tempio era disposto su diversi livelli di accesso: 1) vi era il cortile dei gentili a cui avevano accesso anche i non ebrei; in genere luogo molto affollato e dove i venditori e cambiavalute svolgevano la loro attività. Qui avviene l'episodio, ricordato da tutti gli evangelisti, della cacciata dei venditori dal tempio da parte di Gesù. 2) Al centro di questo cortile vi era un luogo sopraelevato, separato dal cortile dei gentile da una balaustra in pietra finemente lavorata, alta circa 1,35 mt (Guerra Giudaica, 5,193), che i gentili, cioè i non ebrei e gli incirconcisi non potevano oltrepassare pena la morte immediata. Ce ne dà testimonianza un'epigrafe di 60x90 cm che fu ritrovata dall'archeologo francese Charles Simon Clermont-Ganneau nel 1871. Giuseppe Flavio nella sua opera Antichità Giudaiche ce ne dà conferma in 15,417 3) Superata la balaustra si accedeva attraverso nove porte, tra le quali la più importante e nota era la Porta Bella, ricordata anche in At 3,2.10, in un secondo atrio riservato ai soli ebrei, denominato atrio delle donne, perché questo atrio costituiva il limite oltre il quale le donne non potevano accedere. Qui vi era anche la tesoreria del tempio. Ai quattro angoli di questo atrio vi erano quattro stanze: due riservate ai nazirei e ai lebbrosi guariti; altre due fungevano da deposito della legna, dell'olio e del vino. Sempre in questo atrio vi erano anche tredici contenitori a forma di corno dove venivano deposte le offerte. È proprio qui che il Gesù marciano vede la povera vedova gettarvi dentro due spiccioli, tutto ciò che aveva (Mc 12,42; Lc 21,2) 4) Dall'atrio delle donne, attraverso la Porta Nicanore, si accedeva al cortile degli Israeliti, riservato ai soli uomini; 5) da qui si accedeva al cortile dei sacerdoti, a loro esclusivamente riservato, da dove si poteva accedere al Santo e da qui al Santo dei Santi, il cuore del Tempio, dove si trovava l'Arca dell'Alleanza. Per la descrizione del Tempio e delle sue parti cfr. Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, 5,184-237

18Cfr. Mt 22,16-22; Mc 12,14-17; Lc 20,21-26

19Cfr. Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, 5,192

20Con l'espressione “o uomo che giudichi” Paolo si rivolge al giudeo che aveva il vezzo, in quanto conoscitore della Legge, di giudicare gli altri.

21Gv 5,17; 10,18; 13,3; 16,15; 17,2;

22Gv 6,46; 7,17; 8,40.42; 13,3; 16,27.30

23In una simile logica anche la parabola matteana del debitore spietato, che perdonato e assolto, non ha usato la stessa misericordia ricevuta verso il suo debitore.

24Ai Galati, che dopo aver accolto la predicazione di Paolo, avevano abbandonato la novità Cristo per aderire al giudaismo, l'Apostolo risponde duramente: “Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla” (Gal 5,2)

25Il testo originale dice “Perciò chi ti ha formato senza di te, non ti renderà giusto senza di te”; cfr. s.Agostino, Discorso 169,11.13

26Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pagg.445-446; op. cit.

27Il termine testimonianza si riscontra in Giovanni complessivamente ben 47 volte, 14 volte come sostantivo e 33 volte come verbo. Basti pensare che nei Sinottici sia il sostantivo che il verbo compaiono complessivamente soltanto sei volte: due volte il verbo (Mt 23,31; Lc 4,22) e 4 volte il sostantivo (Mc 14,55.56.59; Lc 22,71).

28Cfr. Gv 5,32.37; 6,46.57; 8,16.18.28.38a.54; 12,28.49; 18,37;

29Cfr. Gv 5,36; 10,25.32.37.38; 14,11

30Cfr. Gv 15,26; 16,13

31Cfr. Gv 1,7.8.15.19.32.34; 3,26.28.32.33; 5,33

32Cfr. Gv 3,11; 4,22; 6,69; 16,30; 19,35; 20,31; 21,24

33La luce di cui si parla in Gen 1,3 non riguarda la luce del firmamento o degli astri, sole luna stelle, che invece verranno creati nel quarto giorno (Gen 1,14-19).

34Il termine luce nella Bibbia acquista prevalentemente un senso metaforico e simbolico per indicare Dio, il suo mondo e il rapporto che l'uomo intrattiene con Lui. Non è un caso infatti se il sostantivo luce, che ricorre nell'A.T. 155 volte, ben 137 volte fa la sua comparsa nei soli libri sapienziali e profetici, il cui linguaggio non è mai storico-narrativo, ma metaforico-simbolico, l'unico linguaggio che meglio si addice all'uomo quando deve parlare delle realtà divine e del suo rapportarsi ad esse. Gesù stesso, del resto, parlando del Regno di Dio o dei cieli non dice mai che” il Regno di Dio è”, ma che “è simile a”, poiché sono tutte realtà che sfuggono all'esperienza umana.

35Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag.446-447; op. cit.

36Cfr.X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni,edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo, II ed. 2007; pag.566.

37Sull'uso della formula “Io sono” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.63-64 e il commento al cap.6, pag.37

38Luca esprimerà questo concetto di salvezza che si attua nel presente con l'avverbio di tempo “oggi” (s»meron, sémeron), che ricorre in lui 11 volte su un totale complessivo di 20 nei Sinottici. In Giovanni l'espressione è assente.

39La preposizione greca “prós” dice sia il trovarsi presso qualcuno o qualcosa; sia l'essere rivolto verso qualcuno o qualcosa.

40Cfr. anche Dt 17,6

41Non è raro che il greco tralasci il verbo essere sottintendendolo.

42Cfr. Gen 31,50; Gdt 7,28; 1Sam 12,5.6; 20,23; Fil 1,8. - Cfr. anche la voce “Testimone, Martire” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

43Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, editrice Marietti, Genova, ristampa della III edizione 2002; pag.164.

44Laodicea è una città della Turchia, fondata nel III sec. a.C. dal re seleucida Antioco II, alla quale diede il nome si sua moglie. La città si trovava presso un importante nodo stradale e la sua posizione favorevole ne fece un ricco centro commerciale, soprattutto in epoca romana. - Cfr. la voce “Laodicea” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

45Cfr. Gv 5,18; 7,1.19.25; 8,37.40.59; 10,31;11,53.

46Cfr. Gv vv.8,42; 10,36; 16,28.30; 17,8.

47L'opera in questione è “Cristo, sacramento dell'incontro con Dio”, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1987

48Anche in 2,4 e 7,30 l'autore sottolineerà che l'ora non è ancora giunta. Soltanto a partire dal v.12,23 e in 13,1; 16,21; 17,1 si dirà che l'ora è giunta; l'ora del compimento e della glorificazione in cui il Figlio glorifica il Padre e questi il Figlio (13,31).

49Cfr. nota 3 di pag.2 del presente commento.

50Per un maggiore approfondimento cfr. il commento al cap.7 – pag.34

51Cfr. anche Gv10,11b.15b

52Cfr. Ef 2,17; Eb 8,5; 9,5; 10,1

53Cfr. Gv 8,42; 16,28.30; 18,17,8

54Cfr. Gv 10,33.36

55Cfr. il vocabolo “¢rc¹” (arché) in L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, editrice Dante Alighieri, Roma 1993, XXXVII edizione

56Nella mia traduzione del Vangelo secondo Giovanni ho preferito tradurre il v.8,25b con “Ciò che vi dico fin dall'inizio”, allineandomi così alle traduzioni più correnti, perché una diversa traduzione, come quelle da me sopra riportate, difficilmente sarebbe stata compresa in un confronto con il testo greco.

57Cfr. Gv 3,16-18; 8,11.15; 12,47-48

58Cfr. Mt 9,2; Mc 2,5; Lc 1,77; 5,20

59Cfr. Mt 9,10; Lc 5,29-32; 19,5-10

60Cfr. la voce “Giudei” in Giovanni, Parte Introduttiva della presente opera, pag.61.

61Cfr. Gv 8,19.55; 15,21; 16,3; 17,25

62Cfr. Gv 1,51; 3,13.14; 5,27; 6,27.53.62; 8,28; 9,35

63Cfr. Gv !2,23.34; 13,31

64Cfr. Gv 3,14; 8,28; 12,32.34

65Cfr. Gv 10,30.38; 14,10.11; 17,11.21.22.23

66Cfr. la voce “Giudei” nella Parte Introduttiva della presente opera; pag. 61

67Sul significato del verbo credere in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag. 60.

68Cfr. il titolo “La comunità giovannea” nella Parte Introduttiva della presente opera; pag.30ss

69Cfr. At 3,1-3.8; 5,20-21.25; 22,17;

70Cfr. la voce “Rimanere” nella Parte Introduttiva della presente opera; pagg.75-77

71Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag.463, op. cit.

72Cfr. Es 14,15.16; 17,7; Dt 31,16; Gdc 8,3; Sap 14,12; Ez 6,9; Os 1,2

73Cfr. anche Dt 32,6; Os 11,1;

74Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag.464; op. cit.

75Nel cap.8 la particella ™k (ek, da) ricorre 11 volte. Escludendo quella del v.59 che indica soltanto l'uscita di Gesù dal tempio, le altre dieci hanno tutte stretta attinenza con l'origine dei Giudei e di Gesù. Il primo confronto appare al v.8,23 dove la particella compare quattro volte per indicare la diversa origine dei due: i primi sono da quaggiù, dal mondo; mentre Gesù è da lassù, non da questo mondo. Le due contrapposte origini così attestate al v.8,23 verranno continuamente riprese ai versetti successivi (8,41.42.44.47) in un confronto sempre più serrato che rasenterà lo scontro.

76Cfr. Gv 1,5; 3,19; 8,12; 12,35.46;

77Sul perché l'accusa di essere un samaritano costituiva un'offesa cfr. il commento al cap.4, pag.31

78Sulla composizione della comunità giovannea cfr. la Parte Introduttiva alla presente opera, pagg.31-32, 37, 69. Cfr. anche il commento al cap.4 pag.5

79Cfr. Gv 8,54b; 12,28; 13,31-32; 17,1

80Cfr. Gv 7,30.32.44; 8,20

81Cfr. Gv 7,1.19.20.25; 8,22.37.40.59

82Cfr. Gv 8,12.23.24.28.58

83Cfr. Mt 26,63-66; Mc 14,61-64; Lc 22,66-71

84Cfr. Antichità Giudaiche, XVII, 214-217

85Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico testamento, editrice Marietti, Genova 2002 ristampa della III edizione del 1977- pag.166

86I lavori di manutenzione e ampliamento del Tempio di Gerusalemme iniziarono nel 19 a.C. e terminarono nel 64 d.C. Circa due anni dopo scoppiò la rivolta giudaica contro Roma che ben presto dilagò trasformandosi in una guerra vera e propria che sostanzialmente terminò nel 70 d.C. Con la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio; essa ebbe un suo prolungamento fino al 73 contro la fortezza erodiana di Masada in cui si erano asserragliati circa un migliaio di ribelli, che piuttosto di consegnarsi prigionieri ai romani preferirono suicidarsi in massa. L’intera vicenda bellica viene raccontata in da Flavio Giuseppe in “Guerra Giudaica”.

87Cfr. Gv 7,1.19.20.25.30.32.44; 8,20.22.37.40.59

88I capp.7-9 collocano Gesù nella festa delle Capanne, che cade nei mesi tra settembre/ottobre (Tishrì); il cap. 10 vede Gesù nuovamente al tempio durante la festa della Dedicazione, che cade tra novembre/dicembre (Kislèv)

89Cfr. nota precedente, n.86