IL VANGELO SECONDO GIOVANNI


Da Cana a Cana:

la risposta del giudaismo,

dei Samaritani e dei pagani

al manifestarsi di Gesù


Commento esegetico e teologico
ai
Capp. 2,1-4,54

a cura di Giovanni Lonardi







CAPITOLO  QUARTO


L'incontro con la Parola
apre alla fede
e genera il credente
ad una nuova vita




Note generali al cap. 4


Il manifestarsi di Gesù provoca negli uomini diverse risposte. Il cap. 2 terminava con una nota critica nei confronti di quelle persone che, ammagliate dai segni compiuti da Gesù, credettero in lui; ma si trattava di una fede superficiale, legata al miracolistico e al sensazionale, così che “Gesù, non si fidava di loro poiché egli conosceva tutti” (2,23-25). Il cap.3 presentava l'incontro con Nicodemo, metafora di quel giudaismo ben disposto nei confronti di Gesù, ma ancora troppo legato al mondo mosaico per poter fare il passo decisivo. Ci vorrà del tempo e molti dibattiti per convincerlo al passo definitivo. Soltanto al termine del cammino di redenzione e di riscatto, ai piedi della croce per inumare Gesù (19,38-40), Nicodemo apparirà, per l'ultima volta, assieme a Giuseppe d'Arimatea, ormai anche lui divenuto discepolo del Maestro. L'intero cap. 3, infatti, è imperniato attorno ad una disputa, tutta giudaica, circa la comprensione della vera natura di Gesù. Il giudaismo comprendeva Gesù secondo i suoi schemi veterotestamentari (3,2); la comunità giovannea secondo nuovi parametri, che le hanno consentito di distaccarsi dal mondo mosaico e di rileggere Gesù, ricomprendendolo alla luce dei nuovi eventi (3,12-21.31-36). Si trattava di due posizioni intellettuali, che emergevano dal confronto dei due “o‡damen” (oídamen, noi sappiamo), quello di Nicodemo (3,2), legato al tradizionale modo di comprendere le Scritture; e quello della comunità giovannea (3,11), che opponeva al giudaismo la necessità di rinascere dall'alto, per avere una nuova visione delle cose, poiché Gesù ha le sue origini dal cielo e di là proviene (3,31-36), mentre gli schemi mosaici sono del tutto insufficienti e inadeguati a comprenderne la vera natura e l'autentico significato. Il cap. 4 affronta un terzo modo di approccio all'evento Gesù: non più attraverso il sensazionalismo del miracolistico, che genera una fede radicata nell'effimero delle emozioni; non più attraverso dotte dispute dottrinali o sapienti formulazioni dogmatiche del sapere; bensì attraverso l'incontro casuale e l'esperienza della Parola Incarnata, da cui scaturisce una fede autentica, che apre ad una nuova visione delle cose; che spinge ad una nuova scelta di vita e alla testimonianza. La fede, qui, si radica nell'esperienza rigenerante e salvifica della Parola. Due sono le tipologie di persone, che qui sono prese in considerazione: i Samaritani (vv.1-42), credenti in Jhwh, ma considerati, per antiche vicende storiche, degli eretici da parte dell'autentico giudaismo di Gerusalemme; e il mondo dei pagani (vv.43-54), anche se il termine “basilikÕj” (basilikòs, funzionario regio) non esprime nessuna posizione religiosa; ma tradizionalmente, pensando ai racconti paralleli di Mt 8,5-13 e Lc 7,1-10, in cui l'attore principale è il centurione, si colloca anche questo funzionario regio nel mondo dei pagani o vicino ad esso.

Già da questa da questo breve accenno sulla tipologia delle persone si intuisce come il cap.4 si strutturi essenzialmente su due grandi sezioni, contornate da pericopi di accompagnamento e completamento. Pertanto si avrà la seguente struttura:


  1. vv.1-3: versetti di transizione, che concludono il cap.3 e traghettano il lettore in un nuovo contesto narrativo;

  1. vv.4-42: il racconto della Samaritana, che, attraverso un dialogo persistente e serrato, si conclude con una testimonianza di fede da parte del mondo samaritano, che attesta Gesù vero salvatore del mondo;

  1. vv.43-45: intermezzo narrativo, che crea uno stacco dal racconto precedente, invita ad una riflessione sul come nessuno è profeta in patria, e sottende una velata condanna al purismo del giudaismo di Gerusalemme, aprendo invece al mondo pagano.

  1. vv.46-54: il racconto della guarigione del figlio del funzionario regio, in cui l'esperienza salvifica e rigenerante della Parola, apre il mondo pagano alla fede.


Il cap. 4 costituisce un'unità narrativa ben compatta e delimitata sia da un'inclusione, data dai vv.3 e 54b (Gesù lascia la Giudea e va in Galilea), sia dall'unico tema che sottende entrambi i racconti: la missione di Gesù presso i Samaritani e i pagani, ai quali tradizionalmente i Samaritani erano associati (Mt 10,5). Una missione, dunque, che si sta spostando dal purismo del Giudaismo di Gerusalemme, chiuso nelle sue sicurezze e nelle sue diffidenze, a quello meno ortodosso e certamente molto discutibile della Galilea, verso la quale i Giudei nutrivano una forte disistima. Il nome Galilea, infatti, è l'abbreviazione dell'espressione ebraica "Galil ha goim", cioè "territorio dei gentili o pagani". Ed è così chiamata sia perché per secoli fu sotto il dominio pagano1, sia per la numerosa presenza di stranieri. La posizione geografica, inoltre, in cui si trova la Galilea, ne fa un centro di incontro e di scambio tra religioni, culti e culture diverse: a nord-ovest confina con la Fenicia; a est-sud-est con la Decapoli; a sud con la Samaria. Tutto ciò ha portato i Giudei ad un atteggiamento di diffidenza e di disprezzo verso una regione circondata e contaminata dal mondo pagano. Ed è in questa cornice di diffidenza e disprezzo che Natanaele, rivolto a Filippo, a proposito di Gesù dirà: “Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1,46a); mentre a Nicodemo, con fare sprezzante ed offensivo, i farisei rispondono: “Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea” (Gv 7,52).

Il racconto della Samaritana (vv.1-42)


Testo a lettura facilitata


Versetti di transizione

1- Quando dunque il Signore apprese che i Farisei udirono che Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni,

2- sebbene Gesù stesso non battezzasse, ma i suoi discepoli,

3- lasciò la Giudea e di nuovo andò in Galilea.

Il contesto geografico

4- Ora, bisognava che egli passasse attraverso la Samaria.

5- Egli, pertanto, va nella città della Samaria, detta Sicar, vicino al podere che Giacobbe diede a Giuseppe suo figlio;

6- Ora, vi era là una fonte di Giacobbe. Essendo, quindi, Gesù stanco per il viaggio sedeva così sulla fonte. Era circa l'ora sesta.

Il preambolo al tema dell'acqua viva

7- Viene una donna della Samaria ad attingere acqua. Le dice Gesù: <<Dammi da bere>>;

8- i suoi discepoli, infatti, erano andati in città per comperare dei cibi.

9- Gli dice dunque la donna samaritana: <<Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?>>. I Giudei, infatti, non tengono rapporti con i Samaritani.

1° tema: L'acqua viva

10- Rispose Gesù e le disse: <<Se conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice “dammi da bere”, tu avresti chiesto a lui e ti avrebbe dato acqua viva>>.

11- Gli dice [la donna]: <<Signore, non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai, dunque, l'acqua viva?

12- Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e da esso egli bevve e i suoi figli e il suo bestiame?>>.

13- Rispose Gesù e le disse: <<Chiunque beve da quest'acqua avrà di nuovo sete;

14- Chi, invece, beve dall'acqua, che io gli darò, non avrà più sete per sempre; ma l'acqua che gli darò sarà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna>>.

15- Dice la donna verso di lui: <<Signore, dammi quest'acqua affinché non abbia (più) sete e non passi qui ad attingere>>.

Preambolo al culto autentico

16- Le dice: <<Va, chiama tuo marito e vieni qui>>.

17- Rispose la donna e gli disse: <<Non ho un marito>>. Le dice Gesù: <<Hai detto bene che “non ho un marito”;

18- infatti, hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero>>.

2° tema: il culto autentico gradito al Padre

19- Gli dice la donna: <<Signore, vedo che tu sei un profeta.

20- I nostri padri adorarono in questo monte; e voi dite che è in Gerusalemme il luogo dove bisogna adorare>>.

21- Le dice Gesù: <<Credimi, donna, che viene l'ora allorché né in questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre.

22- Voi adorate ciò che non conoscete; noi adoriamo ciò che conosciamo, poiché la salvezza è dai Giudei.

23- Ma viene l'ora ed è adesso, allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano.

24- Dio è spirito, e bisogna che quelli che lo adorano (lo) adorino in spirito e verità>>.

25- Gli dice la donna: <<So che viene il Messia, detto Cristo; allorché quello sia venuto, ci annuncerà tutto quanto>>.

26- Le dice Gesù: <<Sono io, colui che ti parla>>.


L'intreccio di scene alterne: Gesù e i discepoli (vv.27.31-38) / la Samaritana e i Samaritani (vv.28-30.39-42)


27- E in quel momento vennero i suoi discepoli e stupivano perché parlava con una donna; tuttavia nessuno disse: <<Che cosa cerchi?>> oppure <<Che cosa dici con lei?>>.


28- La donna, pertanto, lasciò la sua brocca e andò in città e dice agli uomini:

29- <<Orsù, vedete un uomo che mi ha detto tutte quante le cose che ho fatto; che non sia lui il Cristo?>>.

30- Uscirono dalla città e andavano da lui.


31- Ne frattempo i discepoli lo pregavano dicendo: <<Rabbi, mangia>>.

32- Ma egli disse loro: <<Io ho un cibo da mangiare, che voi non conoscete>>.

33- Dicevano pertanto i discepoli tra loro: <<Forse qualcuno gli ha portato da mangiare?>>.

34- Dice loro Gesù: <<Mio cibo è che faccia la volontà di colui che mi ha mandato e compia la sua opera.

35- Voi non dite che ci sono ancora quattro mesi e viene il tempo della mietitura? Ecco, io vi dico, alzate i vostri occhi e guardate i campi poiché sono bianchi per la mietitura.

36- Chi miete già prende il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, affinché chi semina gioisca anche insieme con chi miete.

37- Infatti, in questo la parola è vera: “altro è chi semina e altro chi miete”.

38- Io vi ho mandati a mietere ciò (per cui) voi non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati alla loro fatica.


39- Ora, da quella città molti dei Samaritani credettero in lui per la parola della donna, la quale testimoniò che “mi ha detto tutte le cose che ho fatto”.

40- Quando, dunque, i Samaritani andarono da lui, lo pregavano di rimanere presso di loro; e rimase là due giorni.

41- E molti di più credettero per la sua parola,

42- e dicevano alla donna: «Non crediamo più per il tuo discorso; infatti noi stessi (lo) abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo».


Note generali alla sezione 4,1-42


Il racconto della Samaritana occupa circa l'80% dell'intero cap.4, segno della particolare attenzione che la comunità giovannea riservava ai Samaritani, la cui immagine è positivamente presentata, contrariamente che nei Sinottici, in cui il Gesù matteano proibisce ai discepoli di svolgere la loro missione nelle città dei Samaritani, accomunati ai pagani (Mt 10,5); mentre in Luca i Samaritani sono presentati come coloro che si oppongono a Gesù e sui quali viene invocato un fuoco divorante (Lc 9,52-54). Anche un semplice dato statistico lascia intravvedere il favoritismo che i Samaritani godevano presso la comunità giovannea. Il termine “samaritani” infatti ricorre in tutto il N.T. dieci volte, di cui sei nel solo Giovanni, tre in Luca2 e una in Matteo. Significativa, poi, l'espressione “Gesù doveva attraversare la Samaria” (4,4), che lascia intendere con quel “doveva” come anche il mondo dei Samaritani, considerati dai Giudei degli eretici e alla stregua dei pagani, rientrassero, invece, nel progetto salvifico divino, a cui i Samaritani hanno aderito prontamente e con entusiasmo (4,39-41), come ci è testimoniato anche da Luca in At 8,5.14. Il racconto della Samaritana probabilmente riflette il ricordo dell'evangelizzazione della regione della Samaria (At 8,5-8.12.14-17.25), avvenuta a seguito di una persecuzione scoppiata a Gerusalemme, che disperse i nuovi credenti per la Giudea e per la Samaria (At 8,1-4).

L'intero racconto, benché strutturalmente alquanto elaborato, tematicamente variegato e popolato da diversi personaggi, si presenta, tuttavia, come una compatta unità narrativa garantita dalla onnipresente figura della Samaritana, che attraversa come protagonista, diretta o indiretta, tutti i quadri narrativi e tematici. Tale unità ne esce rafforzata anche dalla presenza dei discepoli, che seppur secondaria, tuttavia appare legata da una solida logica narrativa, quasi obbedendo ad un prestabilito copione (vv.8.27.31-38). L'unità narrativa, infine, è circoscritta da due annotazioni geografiche, che se da un lato delimitano il racconto della Samaritana, dall'altro danno continuità logica all'intera narrazione del cap.4, consentendo di fluire da un racconto all'altro senza interruzioni di continuità narrativa: la prima è quella dei vv. 3-4, in cui si dice che Gesù è diretto verso la Galilea, ma deve passare per la Samaria; e quella del v.43 in cui si attesta che Gesù se ne va dalla Samaria, dopo una sosta di due giorni (v.40), proseguendo il suo viaggio verso la Galilea.

La struttura del racconto della Samaritana è alquanto elaborata e, per certi aspetti, anche complessa; essa varia a seconda della tematica che sta trattando, legando tra loro i temi simili e tra loro quelli complementari: il tema dell'acqua viva (vv.7-15) possiede l'identica struttura di quello dell'autentico culto, legato allo Spirito (vv.16-26); mentre il tema della missionarietà e dell'apostolato (vv.27-38) sono distribuiti su di una struttura parallela ad intreccio o a quadri alternati.

Pertanto si avrà la seguente struttura:


  1. vv.1-4: versetti di transizione, che concludendo il cap.3 introducono il lettore in una nuova sezione narrativa, lasciando intuire come il passaggio per la Samaria rientri nei piani divini (v.4);

  1. vv.5-6: cornice geografica introduttiva che, inquadrando il racconto, preannuncia un confronto illuminante e rivelativo tra Gesù e il mondo veterotestamentario a cui la Samaritana ancora appartiene;

  1. vv.7-15: la pericope è composta da un preambolo (vv.7-9), che introduce il primo tema, quello dell' “acqua viva”, e dal dialogo sul tema (vv.10-15), delimitato dall'inclusione data dal termine “acqua” nei vv.10.15;

  1. vv.16-26: anche questa seconda pericope, in parallelo a quella precedente, è composta da un preambolo (vv.16-18), che introduce il secondo tema, quello del “nuovo culto celebrato nello Spirito” (vv.19-26), posto in contrapposizione all'antico culto samaritano, alluso nel preambolo. Anche questo secondo tema è delimitato da un'inclusione, data dalla titolatura cristologica dei vv.19.25-26. I due temi, come vedremo nel commento, sono tra loro strettamente legati, costituendo una sorta di sviluppo tematico logico.

  1. vv.27-42: il tema qui affrontato è quello della missionarietà spontanea e quello dell'apostolato, in cui gli attori principali sono due: la Samaritana, che convertita da Gesù, si fa spontaneamente sua testimone presso i propri concittadini, che a loro volta, si convertono; e i discepoli, che accogliendo il mandato da Gesù, ne proseguono l'opera. In entrambi i casi Gesù è l'unico punto comune di riferimento, da cui promana la forza e l'autorità della testimonianza. La struttura di questa pericope, trattando due tematiche molto simili tra loro, è ad intreccio, cioè a quadri alterni o a sandwich; per cui si avrà:

a) v.27: ricomparsa dei discepoli, usciti di scena al v.8; essi sono posti qui, in questa pericope, a confronto con la Samaritana;

b) vv.28-30: la Samaritana convertita si trasforma in una testimone spontanea presso i suoi concittadini ed esce di scena (v.28); ma ne contempo si preannunciano dei nuovi attori, che faranno la loro comparsa e daranno la loro testimonianza ai vv.39-42

  1. vv.31-38: dialogo tra Gesù e i discepoli, in cui si sviluppa il tema della missionarietà e dell'apostolato;

d) vv.39-42: preannunciati dal v.30, entrano ora in scena dei nuovi attori, i concittadini della Samaritana, convertiti dalla stessa, i quali rendono la loro testimonianza di fede a Gesù, confessandolo come il vero “salvatore del mondo” (v.42), con cui si conclude il racconto.


L'intero racconto è percorso da una titolatura cristologica, che, in un crescendo continuo, mette in rilievo la vera e complessa dimensione di Gesù; egli è definito “un uomo” (v.29), “Giudeo” (v.9), “Rabbi” (v.31), “Profeta” (v.19), “Salvatore del mondo” (v.42), “Signore” (vv.1.11.15) e “Io sono” (v.26).

Alcune note polemiche contro il giudaismo purista di Gerusalemme si riscontrano, infine, nei vv.3.43-45, in cui l'autore appunta che Gesù lasciò3 la Giudea per la Galilea, terra dei gentili e dei pagani, dove viene accolto con entusiasmo (v.45). Durante questo tragitto, Gesù rileverà che “un profeta non ha stima nella propria patria” (v.44).


Commento al cap. 4,1-42

vv.1-4: si tratta di versetti di transizione che concludono il racconto dei due battesimi, quello di Gesù (3,22) e di Giovanni (3,23), fornendo nel contempo la motivazione della dipartita di Gesù dalla Giudea: la rivalità innescata dal gruppo battista nei confronti di Gesù (3,26) era giunta alle orecchie dei farisei, espressione del potere religioso centrale, la cui commissione d'inchiesta aveva già indagato sulla potenziale pericolosità dell'attività battezzatoria di Giovanni (1,19-28). L'attività inquisitoria e la pericolosa opposizione dei farisei e delle autorità religiose in genere nei confronti di Gesù percorreranno l'intero racconto giovanneo e saranno la causa della sua morte4. Il motivo di una così decisa opposizione persecutoria, da un punto di vista storico, va ricercata nella preoccupazione delle autorità religiose circa i movimenti che si andavano formando attorno a sedicenti messia e nel timore che questi potessero provocare delle rivolte, che certamente Roma avrebbe represso in un bagno di sangue, con il rischio concreto che venissero tolti al giudaismo tutti i benefici, che l'occupante romano gli aveva accordato pro bono pacis5. Una testimonianza in tal senso, riferita proprio a Gesù, la fornisce lo stesso Giovanni in 11,47-50.53: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione>>. Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: <<Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera>> […] Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo

Il v.1 si apre con l'annotazione da parte dell'autore che “il Signore6 apprese che i Farisei udirono che Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni”. Un modo un po' bizzarro e capzioso di aprire un capitolo, in cui il nome “Signore” sembra essere un terzo nei confronti di Gesù. L'espressione va compresa nel senso che il Signore è venuto a sapere ciò che i farisei avevano udito su di lui e cioè che “Gesù faceva più discepoli di Giovanni e che battezzava più di lui”; questa era la diceria che stava allarmando i farisei. L'uso del termine “Signore”, che nel racconto giovanneo ricorre 50 volte, al posto di “Gesù” denuncia la prospettiva dalla quale l'autore guarda la conoscenza di Gesù, colto qui non nella sua dimensione storica, bensì post-pasquale. La sua, dunque, è una conoscenza superiore, divina, che in qualche modo richiama i vv. 2,24-25; una conoscenza che domina gli eventi e la storia umana.

L'aprire, poi, il cap.4 con i vv.1-2 non è casuale, ma ha il senso di una rettifica intenzionale, la cui finalità è quella di sottrarre la figura di Gesù alle pretese dei giovanniti, che ritenevano il loro maestro superiore a Gesù, in quanto quest'ultimo fu, almeno agli inizi della sua missione, un suo discepolo, militando tra le fila dei battisti. Il richiamo, dunque, al Gesù che battezzava più di Giovanni, facendo più discepoli (3,26) è finalizzato proprio a questo. Il v.2, infatti, precisa che non era Gesù a battezzare, bensì i suoi discepoli, contraddicendo, quindi, quanto detto ai vv. 3,22.26. Non si tratta di una svista dell'autore o del redattore finale, ma di una cosa intenzionale. L'autore, infatti, avrebbe potuto creare lo stacco narrativo in diversi modi, come, ad esempio: “Dopo queste cose7, Gesù lasciò la Giudea e di nuovo andò in Galilea”. Il fatto, che qui si richiami esplicitamente l'attività battezzatoria di Gesù, rettificandola, denuncia il suo intento antigiovannita. Il v.2, pertanto, non va attribuito ad una disattenzione dell'autore, bensì alla sua intenzionalità.

Con il v.3 lo scenario geografico viene spostato dalla Giudea alla Galilea. Vi è in questo versetto una coerenza narrativa rilevata dal quel “di nuovo” (p£lin, pálin), che si richiama ai vv.1,43 e 2,1-2, dandone continuità logica. Se da un punto di vista narrativo il cambio del contesto geografico e l'introduzione di nuovi personaggi segnala sempre l'aprirsi di una nuova unità narrativa, dall'altro, l'uso di determinati verbi lascia intendere come questo “lasciare” la Giudea non fu un atto pacifico. Il verbo “lasciare”, infatti, è reso in greco con “¢fÁken” (afêken, lasciò), che significa gettare, scagliare, lasciar perdere, mandare via, staccarsi, ripudiare, abbandonare. Il lasciare la Giudea, quindi, fu un uscire sbattendo la porta a motivo della cacciata dei venditori dal Tempio, con cui si inimicò le autorità religiose (2,13-20); lo scarso successo, poi, ottenuto presso la gente, nonostante i segni operati (2,23-25) e, infine, la rivalità sorta tra lui e il gruppo dei battisti, che sembra essere la causa prima della suo andarsene.

Il v.4 introduce una precisazione geografica a sfondo teologico: “Ora, bisognava (œdei, édei) che egli passasse attraverso la Samaria”. La presenza di quel “édei”, ma più spesso “deî ”, che in Giovanni ricorre dieci volte8, nel linguaggio neotestamentario esprime sempre una necessità o un dover fare legato ad un progetto divino. Il passare, dunque, per la Samaria non è dettato da una convenienza di brevità di percorso, ma da un progetto salvifico, che qui prevede la mano tesa di Dio anche al mondo pagano o paganeggiante, come quello della Samaria e della Galilea. Gesù, dunque, lascia la Giudea, il mondo dei puristi e dei fedeli a Jhwh per antonomasia, ma che lo ha rifiutato (1,11), per aprirsi a quello pagano e infedele, dove, invece, viene accolto con gioia, portando molto frutto (vv.30.39-42;45; 53). La salvezza, dunque, si sposta dalla Giudea, a causa del suo rifiuto, al mondo dei pagani, dove viene accolta. Un concetto questo che ritroviamo anche in Paolo nella sua lettera ai Romani, in cui ai capp.9-11, con sofferenza, cerca di darsi una risposta sul perché del rifiuto di Israele, che lo sta tormentando (Rm 9,2-3): “Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d'inciampo, come sta scritto: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d'inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso. […] Ora io domando: Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale! […] Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo ...” (Rm 9,30-33; 11,11-12.15a). Il Gesù giovanneo, dunque, guarda con benevolenza al mondo dei samaritani e dei pagani, che formavano probabilmente dei gruppi consistenti nella sua comunità; contrariamente, il Gesù matteano impone ai suoi di non svolgere la loro missione presso di essi: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele” (Mt 10,5b-6). Non si tratta di una contraddizione, ma di una diversa visione degli evangelisti, che costruiscono il loro Gesù secondo la loro comprensione o perseguendo una loro visione teologica, tenendo conto delle comunità a cui il loro scritto è indirizzato. Ma potrebbe anche essere il segnale di un'evoluzione avvenuta in Gesù nella comprensione della sua missione. Non si deve, infatti, pensare a Gesù come ad un essere onnisciente, che finge di essere uomo; egli fu un uomo ad ogni effetto, che cresceva in sapienza età e grazia, davanti a Dio e davanti agli uomini (Lc 2,52).

I vv.5-6 formano la cornice geografica in cui viene inquadrato il racconto della Samaritana. Come per il v.4, anche qui il contesto geografico si muove su di uno sfondo cristologico, che preannuncia in qualche modo il confronto fra Giacobbe e Gesù (v.12) o per meglio dire tra il dono che Giacobbe fece al suo figlio Giuseppe, una fonte di acqua deperibile (vv.6.13), e quello che, invece, Gesù offrirà alla Samaritana: acqua viva zampillante, che si autogenera in chi la beve, trasformandolo a sua volta in un dono di Dio (vv.10.14). I vv. 5-6, quindi, delineano il primo parametro di confronto: Giacobbe, il capostipite dell'antico Israele, che diede in dono a suo figlio una fonte, a cui si abbeverarono i suoi discendenti e il loro bestiame; ma si tratta di un'acqua incapace di togliere definitivamente la sete in chi la beve, legandolo alla fonte stessa, a cui necessita attingere continuamente. Il riferimento a Giacobbe, a Sichem o Sicar e all'eredità lasciata al figlio Giuseppe ha la sua radice storica e narrativa in Gen 33,18-29; 48,21-22; Gs 24,32.

Quanto a Sicar, città della Samaria, dove si svolgono i fatti raccontati, si tratta di un'abbreviazione greca dell'aramaico “Sychara”, corrispondente all'antica Sichem, ossia l'attuale villaggio di Askar, ai piedi del monte Ebal, a circa un chilometro e mezzo dal pozzo di Giacobbe9. Gli scavi di Tell Balata nel 1927 ne hanno riportato alla luce le rovine10. La Samaria è una regione montuosa e i suoi monti si pongono ad un'altezza media di circa 600 mt. Dominano al centro il monte Ebal (940 mt.) e il monte Garizim (881 mt.), tra i quali sorgeva Sichem o Sicar. La conformazione delle montagne lascia molti spazi pianeggianti, favorendo le vie di comunicazione. Sicar o Sichem si trova, infatti, all'incrocio di due importanti strade: l'una, discendendo, incrociava la grande arteria di comunicazione, denominata “via del Giordano”, nei pressi di Ennon e Salim, dove Giovanni battezzava (3,23); l'altra, passando per Sebaste, scendeva verso il mare, incrociando l'altra grande arteria di comunicazione, denominata “via del Mare” e che percorreva l'intera Palestina11, citata anche da Mt 4,15. Non sorprende, quindi, che Gesù si fermi a riposare in questo luogo. Se sono vere le notizie che Giovanni ci ha passato e corretta l'interpretazione da me data al v. 3,22, allora Gesù proveniva da Betania, al di là del Giordano, dove battezzava (3,22). Da qui, come suggeriscono Galbiati e Aletti12, va verso la Galilea, ma anziché percorrere la più pianeggiante e più tranquilla “via del Giordano”, zona ricca di acque, scelse (v.4,4, scelta teologica) la più gravosa salita, su per la montuosa Samaria, giungendo verso mezzogiorno (v.6d) a Sichem o Sicar, dove si sofferma a riposare, certamente tutto accaldato e affaticato. Il racconto, dunque, è verosimile e ha una sua coerenza narrativa, anche se storicamente discutibile, per il rilevante simbolismo di cui è infarcito.

Ma al di là del possibile aspetto storico, Giovanni segnala che “Essendo, quindi, Gesù stanco per il viaggio sedeva così sulla fonte”. Si parla di una stanchezza che ha la sua origine nel viaggio: “™k tÁj Ðdoipor…aj” (ek tês odoiporías); la particella “ek”, infatti, esprime un moto da luogo ed indica l'origine, da dove proviene l'affaticamento di Gesù: dal suo viaggiare, dal suo camminare; espressioni queste a cui era legata l'azione missionaria nella chiesa antica, fondata proprio sul viaggiare, sull'itinerare. Basti pensare a Paolo, la cui missionarietà era caratterizzata da un continuo viaggiare. Viaggi che duravano anni, durante i quali fondava e visitava numerose comunità13. Gesù stesso rientrava tra i predicatori itineranti del suo tempo, percorrendo a piedi l'intera Palestina, spaziando dalla Galilea alla Giudea, fino alle fenici Tiro e Sidone o nella stessa Decapoli. Un viaggiare che comportava un affaticamento, espresso qui con un participio perfetto “kekopiakëj” (kekopiakòs, affaticato), un tempo verbale che indica uno stato presente quale conseguenza di un'azione passata, quella della missione. Il verbo “kopi£w” (kopiáo), infatti, significa essere stanco, spossato, affaticato; è un verbo che nella chiesa primitiva era strettamente legato all'attività missionaria e ne esprimeva la fatica, l'impegno e le difficoltà. Si tratta di un verbo che Paolo usa spesso nelle sue lettere per indicare il suo lavoro missionario e quello dei suoi collaboratori14, delle cui fatiche e sofferenze egli dà testimonianza in 1Cor 4,9-13 e in 2Cor 11,23-28. La stanchezza di Gesù, dunque, più che connotati meramente fisici assume aspetti di una missione affaticante e deludente, se si pensa al sostanziale fallimento riportato in Giudea (cfr. pag. 8) e che sfocerà in 12,37, a conclusione dell'attività pubblica di Gesù, nell'amara constatazione dell'autore: “Ora, sebbene avesse fatto davanti a loro tanti grandi segni, non credevano in lui”. Un bilancio di una missione sconfortante. Gesù, dunque, cerca un ristoro per la delusione provocata proprio dai suoi (1,11) e lo fa sedendosi sulla fonte di Giacobbe; lo fa proprio in un territorio considerato impuro ed eretico dal purismo giudaico; ma sarà proprio qui che troverà una consolazione missionaria. Gesù, dunque, “sedeva sulla fonte” di Giacobbe. Il verbo “sedeva” è reso in greco con “™kaqšzeto” (ekatzézeto), che significa sedersi, dimorare, stare, indugiare; un verbo che in Giovanni assume sfumature diverse a seconda dei contesti ed esprime lo “stabilirsi” (2,14; 6,3; 9,8; 11,20); descrive la postura del maestro (8,2; 13,12) o designa l'autorità di chi siede (12,15;19,13). Il verbo, inoltre, è posto all'imperfetto indicativo, che indica la persistenza dell'azione nel tempo. Non si tratta, dunque, di un sedersi temporaneo e occasionale, ma destinato a durare. Forse sotto quel “ekatzézeto” risuona, come in un'eco lontana, la profezia di Natan a Davide, a cui Dio promise un regno stabile e duraturo (2Sam 7,11-14). Il sedersi di Gesù, quindi, dice l'insediamento stabile del Logos Incarnato, che ora sostituisce la Torah e il suo insegnamento, ne dà pienezza (Mt 5,17); un sedersi che dice la ricostituita autorità di Dio in mezzo agli uomini in modo nuovo, inedito e inaspettato15. Gesù si siede sulla fonte, che si trova nei pressi del podere, che Giacobbe diede a suo figlio Giuseppe. Giacobbe è il capostipite dell'antico Israele, da cui Israele prende il nome16 (Gen 32,25-29). Israele, dunque, è il podere di Giacobbe, lasciato a suo figlio Giuseppe, insignito di regalità (Gen 41,39-46). Ma Israele è anche il podere di Jhwh, sua proprietà (Es 19,5), che il Padre affida al Figlio, venuto per le pecore di Israele (Mt 10,6; 15,24), venuto nella proprietà di Dio (1,11). Anche Gesù, dunque, inviato del Padre e insignito di regalità (18,37.39; 19,3.14), è venuto a riprendere possesso della proprietà di Dio. La cacciata dei venditori dal Tempio (2,13-17) dice proprio questo: Dio in Gesù è venuto a riprendersi i propri spazi e a ricostituire nuovamente sua proprietà un popolo (Mt 23,37), che lo onorava con le labbra, ma il suo cuore era lontano e incapace di rendergli un vero culto (Is 29,13). Il sedersi di Gesù sulla fonte, che simboleggiava presso Israele la Torah, dice la stabile presa di possesso di Gesù sulla Torah, che reinterpreta secondo la prospettiva di Dio (Mt 5,20-47), sottraendola ai precetti degli uomini (Mt 15,9; Mc 7,7), che l'avevano oscurata e sostituita con le loro dottrine (Mt 15,3-8; 23,16-26). Ed infine, il sedersi stabilmente sulla fonte (verbo all'imperfetto indicativo) dice anche il sostituirsi di Gesù al mondo veterotestamentario; un sostituirsi che è sinonimo di pienezza e compimento di una realtà che era ombra delle cose future (Col 2,17; Eb 8,5a; 10,1; Mt 5,17). Ora, è lui la nuova Torah, la Parola del Padre, il Logos Incarnato, la nuova fonte della Sapienza divina. Vi è, quindi, in questo sedersi, in questo riprendere possesso stabile della proprietà di Dio, popolo e Torah, un preannuncio di una nuova comprensione di Dio, che deve portare ad un rinnovamento nei rapporti con Lui, segnati non più dalla volontà e dalle opere dell'uomo, ma dallo Spirito. Per questo Giovanni sottolinea che “Era circa l'ora sesta”, verso mezzogiorno, un'ora strana per andare al pozzo ad attingere l'acqua, poiché era l'ora della maggior calura; era la sera, invece, il tempo più opportuno, come testimonia Gen 24,11. Ma l'ora sesta è anche l'ora della pienezza della luce, il tempo, quindi, della rivelazione e del manifestarsi di Dio in Gesù. È la stessa ora in cui si manifesterà la regalità di Gesù davanti al popolo (19,14), che dice il sovrano sedersi di Dio in mezzo al suo popolo, in mezzo alla sua proprietà, riscattata e riconquistata nuovamente sulla croce. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un racconto che l'evangelista ci spinge a leggere in modo metaforico e simbolico, più che storico e reale.

I vv.7-15 presentano il primo tema del cap.4: l'acqua viva, che prelude ed è preliminare al secondo tema, quello del nuovo culto nello Spirito (vv.16-26). La pericope, come già si è visto (pag. 6), è strutturata in un preambolo (vv.7-9) preparatorio al tema dell'acqua viva, presentando nel contempo i due attori principali: un Gesù stanco per il viaggio (v.6) e assetato e una donna samaritana. Due personaggi tra loro non solo diversi, ma anche contrapposti e storicamente rivali. Hanno tutto per non potersi capire e per far naufragare il loro incontro: Gesù è un rabbi e come tale è disdicevole per lui rivolgere la parola ad una donna, soprattutto ad una samaritana, ritenuta impura per sua natura e certamente di malaffare, considerata la sua vita libertina, costellata da sei mariti o presunti tali. Ma saranno proprio il mistero dell'interlocutore della Samaritana e la curiosità accogliente di quest'ultima, che renderanno possibile il miracolo della sua conversione. Segue, poi, il racconto del dialogo tra i due, delimitato dall'inclusione, data dal termine “acqua” nei vv.10.15. La dinamica del racconto è imperniata sul fraintendimento, una tecnica narrativa caratteristica di Giovanni17, che gli consentirà di mettere in rilievo, attraverso un dialogo serrato, la diversa natura delle due acque, quella data da Giacobbe e quella offerta da Gesù. Un dialogo che metterà a confronto i due Testamenti e il loro rapporto con la salvezza, in cui il primo, simboleggiato dal pozzo di Giacobbe, è preparatorio del secondo, simboleggiato dalla fonte di acqua viva zampillante, capace di generare la vita in chi l'accoglie in sé.

Non va trascurato il luogo dove si svolge la scena: nei pressi di un pozzo, dove Gesù e la Samaritana si incontrano. Anticamente il pozzo era il luogo degli incontri amorosi, perché frequentato da donne giovani, che vi giungevano per rifornirsi d'acqua e fuori dal controllo diretto dei familiari. Esempi in tal senso li abbiamo in Gen 24, dove il servo di Abramo, Eliezer, trova Rebecca per Isacco; in Gen 29,1-14, dove Giacobbe incontrò Rachele e in Es 2,15-21 dove Mosè conobbe le figlie di Reuel, che gli dette in moglie Zippora, episodio questo ricordato anche da Giuseppe Flavio in Antichità Giudaiche (2,257-261). L'incontro al pozzo tra Gesù e la Samaritana, dunque, potrebbe alludere al rapporto sponsale che legò Jhwh al suo popolo18 e, in questo caso, al corteggiamento di Jhwh (Dt 32, 9-16; Ez 16,6-14) verso quella parte della sua proprietà andata perduta per le vicende storiche, che vedremo di seguito, e che ora vuole riprendersi, reintegrandola in sé e ricostituendola nella sua sacralità originale. Il Gesù che siede sul pozzo di Giacobbe può alludere, dunque, al Dio che intende riprendere il possesso sull'intera sua proprietà, riconquistandola a sé così come lo è stata in origine ai piedi del Sinai (Es 19,5-6). Una sorta, quindi, di riconsacrazione della Samaria, considerata impura ed eretica dai Giudei e per questo ripudiata. La missione di Gesù in Samaria, pertanto, va letta come la riconsacrazione di quella parte di Israele andata perduta e ora ritrovata.

I vv.7-9 costituiscono il preambolo introduttivo al discorso sull'acqua viva. La scena, come da un sapiente copione, viene qui sgomberata dalla presenza dei discepoli (v.8), che ricompariranno al v.27, delimitando, da un lato, la sezione del dialogo Gesù-Samaritana, dall'altro, accentrando l'attenzione sui due personaggi centrali: Gesù e la Samaritana, che al v.7 viene colta in modo dinamico: sta andando ad attingere acqua. L'acqua attinta dal pozzo di Giacobbe è metafora della sapienza e dell'insegnamento della Torah19. La donna, quindi, benché di costumi facili, era tuttavia religiosa, poiché andava a dissetarsi al pozzo di Giacobbe, cioè alla Torah, l'unico testo sacro che i Samaritani riconoscevano20. C'era, quindi, nella donna una disponibilità ad accogliere la Parola, benché la propria vita religiosa fosse condivisa con sei “mariti”, metafora, come vedremo nel commento al v.18, delle divinità con cui i samaritani condividevano il culto a Jhwh.

La Samaritana è definita con il termine generico di “donna”. Essa non ha un nome, che le assegnerebbe un'identità e una dignità. L'anonimia di questa donna può consentire una duplice lettura: a) essa è presa come metafora del mondo dei samaritani, da cui proviene (™k tÁj Samare…aj, ek tês Samareías), così come Nicodemo lo fu per quella parte di giudaismo disponibile a Gesù; b) l'assenza di nome la priva di ogni identità di fronte a Gesù, segno di una perduta identità religiosa nei confronti di Jhwh, e che Gesù tenterà di riconquistare.

Gesù, contravvenendo le regole del buon rabbi, si rivolge in modo disdicevole alla donna, considerata nel mondo antico un essere inferiore, e per di più una samaritana, un'etnia impura, che gli ebrei avevano segregato alla stregua dei pagani. Un detto rabbinico recitava: “Chi mangia pane dei samaritani è come se mangiasse carne di cane”, un animale considerato impuro e immondo, perché si cibava, in particolar modo se randagio, di carogne. Tutto ciò che un samaritano toccava diveniva impuro, anche la brocca dell'acqua da cui, invece, Gesù si dichiara pronto a bere: “Dammi da bere”. Nessun giudeo si sarebbe azzardato a compiere una cosa simile. Ma Giovanni non si sta muovendo su di un piano storico, ma su quello metaforico e simbolico ed è su questo livello che ci si deve muovere.

Il dialogo tra Gesù e la Samaritana sull'acqua viva si apre con l'intervento di Gesù, che rivolto alla Samaritana le chiede “Dammi da bere” e termina con la Samaritana che, rivolta a Gesù, gli chiede “dammi di quest'acqua”. Un dialogo che porta ad un rovesciamento di ruoli e di aspettative, così che la richiesta di Gesù diventerà la richiesta della Samaritana e quel richiedere di Gesù prelude in qualche modo alla richiesta della Samaritana, quasi che con quel “Dammi da bere” Gesù voglia suggerire alla Samaritana che cosa essa gli debba chiedere (v.10). E, infatti, passando da un fraintendimento ad un altro, la Samaritana arriverà a comprendere che cosa essa deve chiedere. Quel “Dammi di quest'acqua” costituisce, dunque, il vertice conclusivo di un cammino, anche se ancora imperfetto, visto il fraintendimento con cui si chiude questa prima parte, che porterà definitivamente la donna a Gesù (v.28).

Il “Dammi da bere” di Gesù, nell'aprire il dialogo con la Samaritana, forma anche da titolo tematico di questa prima parte del dialogo; un titolo che potremmo sciogliere diversamente in “Il dono dell'acqua”. Ed è, infatti, il tema del dono che è dominante in questa pericope (vv.7-15). Per ben otto volte esso compare sotto forma verbale (7 volte) e di sostantivo (1 volta); un dono, che ogniqualvolta compare ha sempre una stretta attinenza con l'acqua.

Il v.9 riporta da un lato la risposta della Samaritana a Gesù; dall'altro, il commento dell'autore: “[...] Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?” (v.9a); “I Giudei, infatti, non tengono rapporti con i Samaritani” (v.9b). La Samaritana si rivolge a Gesù chiamandolo “Giudeo”. Certamente una strana definizione di Gesù, le cui origini galilaiche sono ben note21. Perché, allora, Gesù è definito “Galileo”? Non credo che si tratti di uno dei numerosi svarioni letterari disseminati nel racconto giovanneo; sarebbe stato veramente eclatante sbagliare l'origine storica di Gesù. Ritengo, invece, che l'autore abbia voluto definire Gesù con l'appellativo di “Giudeo” per legare Gesù, confessato dai Samaritani come “il salvatore del mondo” (v.42), in cui si sente l'eco della comunità giovannea, alla confessione della comunità giovannea stessa del v.22, che in tal modo identifica Gesù con quella salvezza, che ha la sua origine dai Giudei: “Voi adorate ciò che non conoscete; noi adoriamo ciò che conosciamo, poiché la salvezza è dai Giudei”.

Il v.9 si chiude con un commento dell'autore circa i cattivi rapporti che intercorrono tra i Giudei e i Samaritani. Una tale idiosincrasia ha la sua origine sul finire del sec. VIII a.C. allorché, dopo la distruzione del Regno del Nord (721 a.C.) ad opera dell'assiro Sargon II, vennero portati in Samaria dei coloni stranieri da Babilonia e dalla Media. I nuovi arrivati adottarono il culto jhawista, ma lo contaminarono con le loro credenze idolatriche (2Re 17,24-29). Quando nel 538 a.C. ritornarono in patria dall'esilio babilonese i deportati del Regno del Sud, a seguito della sua distruzione nel 597 a.C. ad opera dei babilonesi, epoca questa della prima deportazione (ne seguirono altre due nel 586 e 582 a.C.), i Samaritani si opposero ai rimpatriati e ostacolarono la ricostruzione sia del Tempio che di Gerusalemme (Esd 4,1-5). La rottura, a seguito anche della contrapposizione teologica, tra Giudei e Samaritani fu inevitabile. I Samaritani nel corso del IV sec. a.C. si costruirono un loro tempio sul monte Garizim in contrapposizione a quello di Gerusalemme. L'unico testo sacro a cui essi facevano riferimento era la Torah scritta, disconoscendo i Profeti e gli altri Scritti, riconosciuti, invece, dai Giudei. La contrapposizione tra le due popolazioni si accentuò quando nel 128 a.C. Giovanni Ircano distrusse il tempio del monte Garizim. I Samaritani, quindi, erano originari di due diversi ceppi etnici: quello ebraico, che non fu deportato alla caduta del Regno del nord, e quello formato dai coloni provenienti da Babilonia e dalla Media. Erano, dunque, una razza imbastardita non solo etnicamente, ma soprattutto religiosamente22. Erano per questo considerati eretici e impuri. Passare per il territorio dei Samaritani ed entrare in contatto con loro significava rimanere contaminati. È significativo e rivelativo della mentalità giudaica nei confronti dei Samaritani quanto dice la Mishnah in loro proposito: “Le figlie dei samaritani sono in stato di mestruazione fin dalla loro culla […] Inoltre le figlie dei samaritani restano nell'impurità per sette giorni a causa di ogni genere di flusso di sangue”. Un'espressione questa per sottolineare il profondo stato di impurità in cui vivevano costantemente gli abitanti della Samaria; un'impurità congenita. Ma non è tutto, poiché si riteneva non valida la testimonianza di un samaritano, eccetto che per il documento di divorzio. Il samaritano, infatti, era assimilato ad un pagano e considerato alla pari di un 'am ha-haretz, cioè un ignorante, un peccatore e trasgressore23.


I vv.10-15 sviluppano il tema dell'acqua viva attraverso un serrato dialogo tra Gesù e la Samaritana. La struttura di questo dialogo si presenta a forma di sandwich, per cui si avrà la seguente accoppiata di versetti:

  1. i vv.10 e 15 sono tra loro complementari: il v.10, infatti, dopo aver parlato del “dono di Dio” (v.10a), si conclude con l'espressione: “tu avresti chiesto a lui e ti avrebbe dato acqua viva” (v.10b); il v.15 costituisce la risposta al v.10: “Signore, dammi quest'acqua affinché non abbia (più) sete” (v.15a)

  1. Di mezzo si pongono i vv.11-14, suddivisi in gruppi di due versetti ciascuno: vv.11-12 e vv.13-14. Essi costituiscono un confronto e una contrapposizione tra due doni: quello del pozzo di Giacobbe, che ha dissetato se stesso, i suoi figli e il suo bestiame e fu donato ai samaritani (v.12b); e l'acqua viva che Gesù ha promesso in dono alla donna. Essi contengono anche un importante interrogativo che viene posto sull'origine dell'acqua viva: “da dove hai, dunque, l'acqua viva?” (v.11b)

Da questo confronto incalzante, caratterizzato da diversi e contrapposti doni, in cui il primo preannunciava in qualche modo il secondo, la Samaritana giungerà, anche se in modo ancora imperfetto, a formulare la richiesta dell'acqua viva (v.15a). Da un punto di vista storico questo dialogo potrebbe essere un'eco dell'annuncio-dibattito intercorso tra la comunità giovannea e i samaritani, ottenendo qui significativi risultati. L'annuncio, casuale e occasionale, avvenne quasi certamente durante l'esodo della comunità giovannea verso Efeso per fuggire dalla persecuzione contro gli ellenisti, passando per la Samaria, non coinvolta nella persecuzione24 (At 8,1.5-8.14.25). Si parla, infatti di un Gesù che passa per la Samaria diretto verso la Galilea e durante questo passaggio egli compie casualmente e occasionalmente, si ferma soltanto due giorni, l'annuncio alla Samaritana, metafora del mondo samaritano. Questo passaggio occasionale fu letto successivamente come l'attuazione di un progetto divino di salvezza (“édei”, bisognava, v.4a), esteso anche alla Samaria e al mondo dei pagani.

Il v.10 introduce il tema del dono di Dio e dell'acqua viva, che vengono fatti dipendere, a cascata, dal “conoscere”: “Se conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice “dammi da bere”, tu avresti chiesto a lui e ti avrebbe dato acqua viva”. I verbi conoscere (gignèskw; ghighnósko)25 e sapere (oŒda, oîda) ricorrono complessivamente nel racconto giovanneo circa 107 volte e quasi sempre hanno una stretta attinenza con il Mistero che permea Gesù e la sua divinità e introducono il credente, generato da questa conoscenza e da questo sapere, nel mondo arcano di Dio. Il versetto che meglio interpreta ed esprime la vera natura di questa conoscenza, da cui discende il sapere, è il v.17,3: “Ora, questa è la vita eterna, che conoscano te il solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. Il conoscere, dunque, è vita eterna, vita di Dio. Il conoscere e il sapere giovannei, quindi, qualificano il credente e lo introducono nel mistero di Dio, da cui è compenetrato, consentendogli l'esperienza stessa di Dio; sono verbi questi che hanno una stretta relazione con la rivelazione e la comprensione del Mistero. Il linguaggio giovanneo del conoscere e del sapere attinge certamente alla gnosi, ma senza mai cedere ai suoi eccessi26. Quello della gnosi, infatti, è un linguaggio potente, particolarmente espressivo e suggestivo, formatosi appositamente per sondare il mistero di Dio. Ed è proprio questo, al di là di alcuni problemi di gnosi nella sua comunità, che deve aver affascinato in qualche modo Giovanni, spingendolo ad adottarlo nella sua contemplazione del Logos Incarnato.

Strettamente legati al conoscere sono il dono di Dio e l'acqua viva. Due espressioni che descrivono l'identica realtà: lo Spirito Santo, che è conseguente alla conoscenza del divino (Ef 1,13) e fa del credente un “illuminato” (Eb 6,4; 10,32), conducendolo alla pienezza della verità (16,13). Che il “dono di Dio” così come l' “acqua viva” siano metafora dello Spirito e non di Gesù o della sua rivelazione, anche se quest'ultima non può essere esclusa per l'ambiguità e i doppi sensi con cui Giovanni usa i termini, lo si evince da tre elementi:

  1. viene posta una netta distinzione tra il “dono di Dio” e “colui che ti dice: <<Dammi da bere>>”. Gli oggetti del conoscere, quindi, sono due e tra loro distinti: il “dono di Dio” e Gesù; a meno che tale l'espressione (v.10a) non la si voglia leggere sotto forma di endiadi: “il dono di Dio, che è Gesù”, la quale cosa concorderebbe con 3,16, in cui il Figlio appare come dono di amore del Padre. Ma questa soluzione mi pare una forzatura, che non trova la sua giustificazione in questo contesto.

  1. Vi è poi il v.14 in cui il dono dell'acqua viva, altra espressione messa in parallelo al “dono di Dio” e ad esso agganciata, è posto al futuro: “che io gli darò”, ripetuto due volte; esso richiama da vicino i vv.7,37-39: “Gesù stava ritto e gridò dicendo: <<Se qualcuno ha sete, venga a me e beva, chi crede in me. Come disse la Scrittura, fiumi di acqua che vive scoreranno dal suo ventre>>. Ora, disse questo circa lo Spirito che stavano per ricevere quelli che avevano creduto in lui; infatti non c'era ancora lo Spirito, poiché Gesù non era stato ancora glorificato”. L'acqua viva, dunque, è lo Spirito che sgorgherà da Gesù dopo la sua glorificazione (morte e risurrezione); uno Spirito significato in quell'acqua che uscì dal suo costato trafitto dalla lancia (19,34) e in quel “paršdwken tÕ pneàma” (parédoken tò pneûma, 19,30b), malamente tradotto con “spirò”27, ma che letteralmente significa “consegnò lo spirito”. È, dunque, nel momento della sua morte che Gesù effonderà lo Spirito (16,5-7).

  1. Il terzo elemento è la pericope immediatamente seguente, vv.16-26, che potremmo considerare come lo sviluppo logico e complementare dei vv.7-15. Il tema dei vv.16-26 è, infatti, il nuovo culto non più legato alla materialità dei templi, ma reso al Padre nello Spirito e nella Verità, l'unico a lui gradito: “Ma viene l'ora ed è adesso, allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano” (v.23). Un nuovo culto, dunque, reso possibile solo a seguito del “dono di Dio” e dell' “acqua viva”.


Vi è, infine, uno stretto legame tra il “dono di Dio” e l' “acqua viva”. Sono queste, infatti, due definizioni dello Spirito, che lo colgono sotto due suoi aspetti caratterizzanti: il primo statico (“dono di Dio”), il secondo dinamico (acqua viva). Quanto al “dono di Dio”28 esso si definisce come il dono che proviene da Dio, che gli appartiene e lo qualifica ontologicamente. Dio, infatti, si dirà al v.24a, è Spirito, per questo è necessario relazionarsi a lui secondo i criteri dello Spirito e della Verità. Si tratta di un dono che viene elargito attraverso l'effusione29 e che figurativamente è raffigurato dal soffio o dal vento30. Questo dono, tuttavia, possiede una sua dinamicità, significata dall' “acqua viva”, letteralmente “acqua vivente”, “Ûdwr zîn” (ídor zôn). Questo participio presente (zôn, vivente) qualifica sia la natura di quest'acqua, che è vivente, sia la persistenza di questa sua vivenza, di questa sua capacità di vita inesauribile e che richiama, proprio per questo, da vicino la vita eterna, la vita stessa di Dio. Quest'acqua vivente, infatti, va strettamente legata alla fonte da cui fuoriesce copiosamente e sulla quale è seduto Gesù (v.6). Si tratta di un'acqua che ha le stesse caratteristiche di Dio: è Spirito ed è Vita vivente, cioè capace di autogenerarsi e di generare per l'eternità. Il tema dello Spirito significato nell'acqua non è nuovo in Giovanni e già lo si è visto nel dialogo con Nicodemo a proposito della necessità di rinascere dall'alto, cioè dall'acqua e dallo Spirito31, e che esplicitamente viene richiamato dai vv. 7,37-39, sopracitati (pag.15, lett.b).

I vv.11-12 riportano la risposta della Samaritana, che si sviluppa su di un fraintendimento, giocato tutto attorno al dono dell'acqua viva, che la donna intende come l'acqua che sgorga dal pozzo di Giacobbe, mentre Gesù pensa ad un'altra acqua, che ha un'altra origine. Infatti, il pozzo, quando ci si riferisce direttamente o indirettamente a Gesù (vv.6.14 ) è definito “phg¾” (peghè), cioè fonte, sorgente, che meglio si addice all'acqua viva zampillante; mentre quando l'autore si riferisce alla Samaritana usa il termine più tecnico di “fršar” (fréar), cioè pozzo, serbatoio d'acqua, cisterna. Già con questo diverso uso dei termini per indicare il pozzo, Giovanni innesca un confronto tra Gesù, a cui è associato il sostantivo “fonte” dalla quale sgorga acqua viva, e Giacobbe, capostipite di Israele, a cui è associato il termine “pozzo”, che racchiude in sé anche il significato di serbatoio d'acqua, di cisterna. Un confronto che da un lato prelude a quello più diretto del v.12, tra Gesù e Giacobbe; dall'altro richiama molto da vicino il rimprovero di Dio, mosso al suo popolo, che lo ha abbandonato per dissetarsi presso gli idoli: “Perché il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate, che non tengono l'acqua” (Ger 2,13). Un rimprovero, come vedremo, che attiene ai Samaritani, i quali hanno inquinato il vero culto a Jhwh con quello di altri idoli (vv.16-18).

Il v.11 è scandito in due parti: la prima (v.11a) si apre con la giusta osservazione della Samaritana: “Signore, non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo2”. Narrativamente essa ha una duplice funzione: a) mettere in rilievo con fine ironia l'eclatante fraintendimento della Samaritana, su cui si giocherà il resto del dialogo; b) preparare la domanda cruciale, che verrà posta al v.11b. La seconda parte (v.11b) contiene un interrogativo importante: “da dove hai, dunque, l'acqua viva?”; si pone qui la questione dell'origine di quest'acqua viva; “da dove”, quale dunque la fonte? La domanda è introdotta dall'avverbio interrogativo caro a Giovanni “pÒqen” (pótzen, di dove, da quale luogo), che si riscontra 16 volte nel suo vangelo e quando compare attiene sempre, direttamente o indirettamente, al mistero dell'origine di Gesù.

Il v.11 si apre con il titolo che la donna riferisce a Gesù: “Signore”. Esso denota una progressione nella titolatura che, man mano che il racconto avanza, acquista sempre più precisione e importanza. Nel v.9 Gesù era per la Samaritana un semplice Giudeo, suo avversario; nei vv.11.15.19, viene definito “Signore”, che va considerato soltanto come un titolo di riguardo, privo del significato che gli attribuisce il credente, ma che tuttavia in qualche modo lo prelude; o forse nasconde una fine ironia dell'autore, che mette sulle labbra della donna una inconsapevole professione di fede; o forse più semplicemente riflette la fede dell'autore, così come è avvenuto in apertura del cap. 4. Al v.19 Gesù è definito “profeta”; ai vv.25.29 “Messia/Cristo” per giungere, in conclusione del racconto al v.42, al vertice di questo cammino di fede con il titolo di “salvatore del mondo”.

Il v.12 innesca un confronto diretto tra Gesù e Giacobbe, tra il dono che Giacobbe ha fatto ai suoi discendenti (il pozzo) e quello che Gesù propone alla Samaritana (l'acqua viva). Anche in 8,53 Gesù è posto a confronto con Abramo e i profeti. Si tratta in realtà di un confronto fra due Testamenti, in cui gli attori principali convergono verso l'unico parametro di raffronto, Gesù. Abramo, l'uomo con cui Dio ha dato inizio alla storia della salvezza, facendolo depositario di una promessa, destinata a risuonare lungo i secoli; Giacobbe, l'uomo da cui è uscito un popolo numeroso più delle stelle del cielo e della sabbia del mare, dando concretezza storica alla promessa fatta ad Abramo (Gen 22,17; 26,4; 32,13); i profeti, che fecero risuonare la voce di Jhwh in mezzo al popolo, sostenendolo nel suo cammino verso la promessa, alimentando le sue attese e le sue speranze verso il riscatto finale (Lc 2,25.38b). Ed infine Gesù, che attua in sé tutte le promesse e tutte le attese; e come Giacobbe è il capostipite di Israele, che si abbevera al pozzo della Torah, così Gesù diviene il capostipite di un nuovo Israele, che si abbevera all'acqua viva e zampillante della sua rivelazione e dello Spirito.

vv.13-14: il v.12 aveva innescato un confronto tra Gesù e Giacobbe su chi fosse il più grande. Quali fossero i termini di questa grandezza e in che cosa consistesse non veniva detto, anche se l'annotazione sul dono del pozzo (v.12b) lasciava intuire che questa grandezza doveva misurarsi sul dono lasciato da Giacobbe alla sua discendenza. Sono i vv.13-14 che precisano i termini di questa grandezza, che va misurata sulla tipologia dell'acqua donata: quella proveniente dal pozzo di Giacobbe dà un sollievo momentaneo, ma non cura alla radice il bisogno di acqua: “avrà di nuovo sete”, come dire “continuerà ad avere sempre sete”, rilevando in tal modo l'intrinseca inefficacia di quest'acqua, incapace di eliminare il bisogno alla radice; quella, invece, proveniente dal dono di Gesù è terapeutica, poiché non solo cura alla radice la sete dell'uomo, ma collocandosi all'interno dell'uomo lo autogenererà per la vita eterna, cioè lo renderà capace di accedere alla vita divina e condividerla. Tutto gira, dunque, sul termine acqua, che in questi due versetti compare quattro volte, una nel v.13 e riguarda l'acqua di Giacobbe, di cui si rileva l'inefficacia; e 3 volte nel v.14 in cui viene descritta ad ogni passaggio:


  1. è un'acqua che Gesù darà; si tratta, dunque, di un dono, che richiama da vicino il “dono di Dio” (v.10) che si colloca nel futuro, “che io gli darò”; è un dono che verrà dopo Gesù e che rimanda al dono dello Spirito Santo (7,37-39; 16,7);

  1. quest'acqua ha la natura di una sorgente. Il termine usato per definire quest'acqua è “phg¾” (peghè, fonte, sorgente), che si contrappone al “fršar” (fréar, pozzo, cisterna) di Giacobbe, che dà l'idea di un'acqua stagnante e priva di vita e si contrappone alla dinamicità dell'acqua data da Gesù, che viene definita come “acqua vivente” (vv.10.11), cioè un'acqua che non solo vive e persiste nella sua vivenza, ma è capace di generare la vita in chi la beve;

  1. si tratta di un'acqua zampillante per la vita eterna; il participio presente “zampillante” (¡llomšnou, alloménu), nell'esprimere tutta l'intrinseca dinamicità di quest'acqua che si contrappone a quella stagnante del pozzo di Giacobbe, indica da un lato la natura di quest'acqua e dall'altro il protrarsi di questo zampillare in un presente continuo che genera colui che la beve alla vita eterna. Il suo zampillare, dunque, non è fine a se stesso, ma si muove verso la vita eterna, che nel linguaggio giovanneo indica la vita stessa di Dio. L'espressione “per la vita eterna”, infatti, è resa in greco con “e„j zw¾n a„ènion” (eis zoèn aiónion) in cui la particella “eis” esprime un moto a luogo, indicando in tal modo la finalità di quest'acqua: “generare chi la beve alla vita stessa di Dio”.


v.15: coerente con il suo fraintendimento (vv.11), la Samaritana chiede a Gesù quest'acqua miracolosa, che togliendole ogni sete le risparmierebbe la fatica di rifornirsi al pozzo. Ma non tutto è così come sembra. Giovanni, infatti, spesso gioca sui doppi sensi: dice una cosa, ma ne lascia intendere un'altra, con fine e bonaria ironia rivolta al suo lettore33. Se il senso del v.15 appare in prima battuta come una continuazione del fraintendimento iniziatosi al v.11, dall'altra il suo ritmo e l'uso dei termini lasciano intendere che nella donna niente è più come prima. La richiesta della Samaritana, infatti, suona meglio come una invocazione a Gesù: “Signore, dammi quest'acqua affinché non abbia (più) sete e non passi qui ad attingere”. Un'invocazione che ogni catecumeno potrebbe fare sua e che forse Giovanni sta indicando a quella parte della sua comunità composta da giudeocristiani e/o da samaritani, perché lascino definitivamente il pozzo di Giacobbe (la Torah e il mosaismo) per l'acqua zampillante data loro da Gesù (rivelazione nello Spirito). Il termine “Signore”, con cui la donna si rivolge a Gesù, incomincia ad acquistare qui una valenza che sta oltrepassando il semplice bon ton (cfr. ultimo capoverso di pag.15) con cui ci si rivolge ad uno sconosciuto. Il titolo, infatti, è incluso all'interno di una supplica. L'autore, poi, apre il v.15 con l'espressione: “lšgei prÕj aÙtÕn ¹ gun»” (léghei pròs autòn e ghiné: dice verso di lui la donna); quel “pròs autòn” dice l'orientamento della donna nei confronti di Gesù. La particella “pròs”, infatti, che qui regge l'accusativo (autòn), esprime un moto verso luogo, un orientamento verso qualcosa o qualcuno, un direzionarsi verso. Un segnale questo che dice come la Samaritana si stia aprendo a Gesù, rendendosi disponibile a lui. Certo, la sua fede non ha ancora raggiunto la pienezza dei suoi concittadini che confessano Gesù come il “salvatore del mondo” (v.42), ma sta andando verso questa direzione. Lei, infatti, sta ponendo degli interrogativi su quello che prima per lei era soltanto un “giudeo” e un “signore” sconosciuto, estraneo e ostile e incomincia a sospettare che sia un profeta o addirittura il messia e va ad esprimere i suoi dubbi presso i suoi concittadini: “[...] che non sia lui il Cristo?” (v.29). È l'annuncio di una catecumena, che sta scoprendo un po' alla volta il mistero di quel “giudeo”, inizialmente avverso e sta per lasciare la sua antica fede: “e non passi qui ad attingere” ancora al pozzo della legge mosaica. Non a caso, infatti, quando se ne va da Gesù per comunicare con entusiasmo la sua scoperta ai suoi concittadini, l'autore precisa che “lasciò la sua brocca ” con la quale stava attingendo l'acqua dal pozzo della Torah, cioè la sua fede mosaica.

I vv.16-26 presentano il secondo tema, posto in parallelo e in concatenazione al primo del dono dell'acqua viva: il nuovo culto nello Spirito conforme alla Verità, cioè alla rivelazione manifestatasi in Gesù. Ma se nel primo dialogo, che funge in un certo qual modo da premessa a questo, il dono dello Spirito e della rivelazione erano presentati sotto l'ambiguità del simbolo del “dono di Dio” e dell' “acqua viva”, qui tutto diviene più evidente: “i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”; il nuovo culto al Padre non è più legato ad un luogo o ad una sequenza di pratiche religiose, ma affonda le sue radici nello Spirito e nella Verità; sarà, quindi, un culto spirituale che attinge dalla verità della rivelazione e si colloca in essa; scaturisce dalla nuova comprensione di Dio manifestatasi in Gesù, che esige dal nuovo credente, nuova creatura in Cristo (2Cor 5,17; Gal 6,15), un nuovo rapporto con Dio.

Anche qui la struttura riflette quella del dialogo precedente (vv.7-15): un preambolo introduttivo al tema (vv.16-18) e il tema del nuovo culto (vv.19-26). Quest'ultima pericope è delimitata da una doppia inclusione ai vv. 19.25-26: la prima inclusione è data per titolatura (profeta in v.19 e Messia/Cristo/Io sono in 25-26); la seconda inclusione di tipo tematico (il nuovo culto) è data dal verbo “adorare” che si trova nei vv.20.24.- In altri termini, il nuovo culto si colloca all'interno della Verità, cioè della persona di Gesù, che si sta disvelando gradualmente come profeta (v.19), come il Cristo (v.25) e, infine, l' “Io sono” (v.26).

vv.16-18: il v.15 terminava con l'invocazione della Samaritana che chiedeva a Gesù il dono dell'acqua viva, cioè il dono dello Spirito, che non solo inaugura i tempi nuovi ed escatologici34, ma anche il nuovo culto. Ed è proprio su quest'ultimo che si accentra l'attenzione dell'autore.

I vv.16-18, da un punto di vista narrativo, costituiscono uno stacco traumatico all'interno dei ritmi armonici del dialogo. Il lettore ne rimane spiazzato e certamente prova un senso di disagio: si passa dal dono di Dio e dall'acqua viva ai poco edificanti problemi matrimoniali della Samaritana, che poi improvvisamente vengono abbandonati per passare ad un altro tema, quello del culto spirituale. Se la logica narrativa qui lascia alquanto a desiderare, non lo è quella tematica, che costituisce uno sviluppo applicativo del tema precedente, quello dell'acqua viva. Non è da escludersi che questo stacco traumatico sia stato voluto espressamente dall'autore per costringere il lettore ad accentrare la sua attenzione sul tema, spingendolo a interrogarsi sul suo significato.

Questa breve pericope costituisce il preambolo al tema del nuovo culto e qui sottopone a critica il culto che i samaritani rendevano a Jhwh; un culto inquinato dalla presenza di diverse divinità, simboleggiate nei cinque mariti35, mentre nel sesto marito, che tale tuttavia non era a motivo di un culto non purista, si raffigura Jhwh. Un culto fondato, dunque, su sei divinità, sottolineando con quel “sei” tutta l'imperfezione e l'inefficacia del culto samaritano. E che qui si tratti di culto lo si evince dalla presenza del termine “marito” che si impone con prepotenza per ben cinque volte in tre versetti, sottolineando l'importanza del termine e riconducendo in tal modo il lettore al tema del matrimonio o meglio del rapporto sponsale, che ha sempre caratterizzato il rapporto Jhwh/Israele36. Un rapporto che viene richiamato fin da subito nell'incontro di Gesù con la Samaritana presso il pozzo, tradizionalmente luogo del corteggiamento amoroso (cfr. pag.11) e che richiama quello , che caratterizzò il rapporto tra Jhwh e il suo popolo durante il periodo del deserto (Dt 32,9-18; Ez 16,8-14). Gesù, dunque, diviene per il mondo samaritano, disprezzato e rigettato dal purismo giudaico, la nuova mano tesa di Dio, il nuovo corteggiamento di Jhwh che cerca di recuperare quella parte di Israele, che le vicende storiche avevano portato lontano da lui, proponendo un nuovo culto spirituale, che superando i limiti della storia (v.21) va a radicarsi nel cuore di ogni credente.

I vv.19-26 si muovono parallelamente ai vv.10-15 e ne completano il tema: là si parlava del dono dello Spirito, che vivifica il credente proiettandolo in una nuova dimensione, quella della vita stessa di Dio, ponendolo in una nuova relazione con Lui, non più per mezzo della Legge, incapace di mettere il credente nella giusta relazione con Dio (v.13; Rm 7,7-10), bensì per mezzo dello Spirito (v.14), che, invece, assimila il credente alla stessa vita divina. Ed è proprio a motivo di questo processo di spiritualizzazione e di “deificazione” del credente che si rende necessario un nuovo tipo di culto, non più secondo le regole mosaiche, inefficaci per una definitiva salvezza (Eb 9,6-10; 10,1-4.11), ma attraverso lo Spirito, che colloca il credente in Dio per mezzo di Cristo, rendendolo partecipe di una definitiva salvezza37.

I vv.19-20 riportano la risposta della Samaritana scandita in due tempi: il primo (v.19) costituisce una deduzione tratta dai vv.16-18; il secondo (v.20), conseguente al primo, pone la questione del doppio e contrapposto luogo di culto, giudaico e samaritano, che affonda le sue radici in antiche diatribe. Questo versetto, benché facente parte della risposta della Samaritana, va letto in stretta relazione ai vv.21-24, in cui è riportata la risposta di Gesù e con i quali forma letterariamente un'unica unità narrativa delimitata dall'inclusione data dal verbo “de‹” (deî, bisogna). Il v.20, infatti, imposta il tema del “luogo dove bisogna adorare” ed ha la sua risposta conclusiva nel v.24, che riprende il “bisogna” della donna: “bisogna che quelli che lo adorano (lo) adorino in spirito e verità”. Tra questi due “bisogna”, che sottendono un progetto divino che preannuncia il superamento dei limiti storici per aprire il credente agli spazi di Dio, si collocano i vv.21-23, i quali, riprendendo il tema annunciato nel v.20, attraverso un pensiero avvolgente, traghettano il lettore al vertice della riflessione sul nuovo culto (v.24). Il tema del nuovo culto si muove all'interno di una doppia struttura: a parallelismi contrapposti e convergenti in C), accentuando in tal modo la contrapposizione e la diversa natura dei due culti, e nel contempo si esprime attraverso un pensiero a spirale, che si muove in un crescendo di un continuo approfondimento, man mano che il pensiero procede. Si ha pertanto:


A) v.20: viene introdotta la questione storica che contrappone i Samaritani ai Giudei: in quale luogo bisogna adorare, su questo monte o in Gerusalemme. Questo versetto annuncia il tema che percorrerà l'intera unità narrativa ( vv.20-24);

B) v.21: riprende il tema del v.20, ma in senso negativo: “né in questo monte, né in Gerusalemme”, che prelude ad una terza via, e introduce un elemento nuovo di tipo temporale: “viene l'ora”;

C) v.22: viene introdotta una sorta di parentesi riflessiva, che muovendosi su di uno sfondo polemico, apre un confronto tra la comunità giovannea e il mondo samaritano, riconducendo alla sua verità storica il filone della salvezza: essa, dopo la caduta del Regno del Nord (722 a.C.), di cui i samaritani facevano parte, ha proseguito storicamente con il resto del Regno di Giuda (Is 10,20-22; 37,32);

B') v.23: viene ripreso il tema del v.21 e, accentrando l'attenzione sull'annotazione temporale “viene l'ora”, si precisa che “è adesso”, alludendo alla presenza della persona di Gesù, da cui trae origine il nuovo culto in Spirito e Verità, la terza e nuova via non prospettata dalla Samaritana, legata ancora a schemi di contrapposizione storica.

A') v.24: il pensiero a spirale trova qui il suo vertice, che costituisce anche la motivazione su cui poggia il nuovo culto: “Dio è spirito, e bisogna che quelli che lo adorano (lo) adorino in spirito e verità”.


Con il v.19 la donna fa una constatazione: “Signore, vedo che tu sei un profeta”. Il verbo vedere è reso in greco con “qewrî” (tzeorô), che esprime un modo particolare di vedere, che va ben al di là del semplice vedere fisico, per la quale cosa l'autore avrebbe usato il verbo “blšpw” (blépo)38. Esso implica un guardare che comporta l'investigazione, l'osservazione, la meditazione; è un guardare sotteso da una ricerca, un guardare che si interroga. L'essere giunta, dunque, alla conclusione che Gesù è un profeta dice il cammino di fede di questa donna, che lentamente sta scoprendo la verità di quello che inizialmente aveva chiamato con disprezzo “giudeo” (v.9). Tuttavia, il termine profeta non va inteso secondo i parametri del giudaismo, che concepiva i profeti come la voce di Dio in mezzo al popolo; una voce che fungeva da sua coscienza e da sua guida, quindi, un uomo che si muoveva in mezzo al popolo con l'autorità di Dio. I samaritani respingevano i libri profetici (Neviìm) e gli altri scritti (Ketuvìm) della Bibbia giudaica, ritenendo valida soltanto la Torah scritta o Pentateuco, in cui compariva la figura messianica di un profeta, pari a Mosè, che Dio avrebbe fatto sorgere in mezzo al suo popolo (Dt 18,15.18). Tuttavia, il fatto che qui davanti al sostantivo “profeta” non vi sia un articolo determinativo, che avrebbe definito in tal modo il profeta della Samaritana come quello annunciato dal Deuteronomio, ma soltanto un articolo indeterminativo, il termine profeta va qui compreso soltanto come “uomo illuminato da Dio” o “inviato da Dio”, riconoscendo, quindi, in Gesù autorevolezza morale e spirituale. Il “tzeorô” della donna, dunque, non le permetteva di andare oltre, poiché il suo vedere è ancora imperfetto; è un vedere che si sta ancora interrogando e i dubbi sulla figura messianica di Gesù lo stanno a dimostrare (vv.25.29).

Con il v.20 la Samaritana sottopone a Gesù una lunga e insanabile diatriba religiosa che contrapponeva, fin dal IV sec. a.C., i Giudei ai Samaritani39: qual'era il vero luogo di culto in cui bisognava adorare Dio: “I nostri padri adorarono in questo monte; e voi dite che è in Gerusalemme il luogo dove bisogna adorare40. Il monte di cui parla la Samaritana è il “Garizim” su cui sorgeva il tempio samaritano. La questione era rilevante poiché Dt 12,5-7 imponeva un unico luogo di culto: “ma lo cercherete nella sua dimora, nel luogo che il Signore vostro Dio avrà scelto fra tutte le vostre tribù, come sede del suo nome; là andrete. Là presenterete i vostri olocausti e i vostri sacrifici, le vostre decime, quello che le vostre mani avranno prelevato, le vostre offerte votive e le vostre offerte volontarie e i primogeniti del vostro bestiame grosso e minuto; mangerete davanti al Signore vostro Dio e gioirete voi e le vostre famiglie di tutto ciò a cui avrete posto mano e in cui il Signore vostro Dio vi avrà benedetti”. Per una religione come quella ebraica, che lega l'efficacia del culto ad una meticolosa ritualità e ad un rigoroso rispetto della norma, sbagliare luogo di culto significava inficiare la validità dello stesso41. E poiché la disposizione di Dt 12,5-7 non precisava quale fosse il luogo dove si doveva rendere culto a Dio, limitandosi a dire “là andrete. Là presenterete”, i samaritani, in contrapposizione ai Giudei, pretendevano che il luogo scelto da Jhwh fosse presso di loro e certamente avevano delle buone ragioni per sostenere la loro tesi. Secondo la tradizione samaritana, infatti, il tempio fu costruito da Giosuè, distrutto da Nabucodonosor (605-562 a.C.) e ricostruito da Sanballat42 dopo il ritorno dei giudei dall'esilio di Babilonia (538 a.C.). Ma altri elementi concorrevano alla sacralità di questo monte. Sul monte Garizim, infatti, vi fu la benedizione del popolo da parte di Dio (Dt 11,29) e secondo la tradizione samaritana il monte è connesso con alcuni eventi biblici importanti, che lo consacrarono come il monte su cui bisogna adorare: la creazione di Adamo, la costruzione dell'altare di Noè dopo il diluvio, il sacrificio di Isacco, il sogno di Giacobbe, la sepoltura dei patriarchi e dello stesso Giuseppe. Su questo monte, infine, secondo la loro credenza, Mosè avrebbe nascosto gli arredi sacri della Tenda43.

I vv.21-24 riportano la risposta di Gesù alla Samaritana e sviluppano il tema da questa impostato: qual è il “luogo dove bisogna adorare”. La risposta di Gesù si apre al v.21 con un'esortazione: “Credimi, donna”, che di certo non è una sollecitazione alla fede, ma serve soltanto a confermare la verità e la credibilità di quanto Gesù sta per dire. Potremmo assimilare questa esortazione all'espressione, caratteristica di Giovanni, “In verità in verità ti dico”, che se da un lato dà un tono di solennità a quanto si sta per dire, dall'altro gli imprime un marchio di veridicità. Gesù nel riprendere il quesito della donna, nega entrambe le alternative propostegli, lasciando trasparire, quasi in filigrana, una terza via, che non è ancora attuata, ma che verrà (“adorerete”) e che è scandita e preceduta dalla venuta di un'ora: “viene l'ora”. L'uso del presente indicativo (œrcetai, érchetai, viene) lascia intendere come questa ora si stia compiendo e come, quindi, in qualche modo essa sia già presente. Un'ora che indica il compiersi di un tempo, nato dal disegno del Padre, più volte richiamato da quel “de‹” (deî, bisogna) in questo cap.4 (vv.1.20.24). Non si tratta ancora dell'ora di Gesù44, cioè l'ora della sua glorificazione, ma qui si indica soltanto il realizzarsi di un tempo, quello delle attese compiute. Questa “ora”, quindi, è assimilabile al “tempo compiuto” di Mc 1,15 o alla “pienezza del tempo” di Gal 4,4, di Ef 1,10 o di Eb 9,6. Si tratta di un'ora, che è strettamente legata non alla glorificazione di Gesù, per la quale egli è venuto (18,37), bensì alla presenza stessa di Gesù, che dice il compiersi delle attese. Si tratta, dunque, del tempo del compimento, della pienezza della rivelazione, che è Gesù. Non a caso l'autore annota come l'incontro con la Samaritana era avvenuto verso l'ora sesta (v.6), cioè verso mezzogiorno, il tempo della pienezza di luce, che è metafora della pienezza della manifestazione di Gesù alla donna. È sempre l'autore, poi, che al v.23 precisa che quell'ora significa “adesso” (œrcetai éra, kaˆ nàn ™stin, érchetai óra, kaì nîn estin, viene l'ora ed è adesso), cioè il tempo della presenza di Gesù.

Con il v.22 l'autore pone una pausa di riflessione, che gli servirà sia per porre a confronto il mondo dei samaritani con la propria comunità, sia per definire i “veri adoratori” del successivo v.23, sia per precisare storicamente il cammino della salvezza: “Voi adorate ciò che non conoscete; noi adoriamo ciò che conosciamo, poiché la salvezza è dai Giudei”. Il “voi” e “noi” qui contrapposti, già lo si è detto, aprono un confronto tra la comunità giovannea e quella dei samaritani, i quali adorano ciò che non conoscono. L'accusa qui mossa fa riferimento ai sei mariti dei vv.16-18, cioè al culto sincretico dei samaritani, che assieme al culto a Jhwh avevano adottato anche quello di altre divinità. La purezza del culto a Jhwh, quindi, era andata perduta e pertanto il sesto marito, cioè Jhwh, non poteva essere definito tale in via esclusiva (Es 20,2-5; 34,14-17). Di conseguenza qui Giovanni accusa i samaritani di adorare ciò che non conoscono più, proprio per il loro sincretismo cultuale. Non potevano, quindi, pretendere di essere loro gli eredi dell'autentico culto a Jhwh. Il vero culto, invece, è reso da quel “noi”, cioè dalla comunità giovannea, che rivendica per sé l'autenticità del culto. È sempre quella stessa comunità che già si era confrontata in 3,11 con il mondo giudaico: “In verità, in verità ti dico che (noi) diciamo ciò che conosciamo e testimoniamo ciò che abbiamo visto, e (voi) non accogliete la nostra testimonianza” e che ora si confronta con il mondo samaritano, arrogando a se stessa la vera conoscenza da cui nasce l'autentico culto: “Voi adorate ciò che non conoscete; noi adoriamo ciò che conosciamo”. Il motivo che sottende l'autenticità del culto della comunità giovannea verrà esposto ai successivi vv.23-24. Il v.22 si chiude con un'affermazione di tipo storico: “poiché la salvezza è dai Giudei”. Già si è visto sopra (cfr. pagg.13 e 21) come a motivo di complesse situazioni storiche i samaritani si staccarono dal mondo del giudaismo e vi si contrapposero, costituendo un proprio culto sincretico. Il filone storico delle promesse, tuttavia, non si interruppe con la caduta definitiva del Regno del nord (722 a.C.), di cui i samaritani facevano parte, ma continuò con il Regno di Giuda e dopo la sua caduta (597-582 a.C.), con quel resto di Israele che fece ritorno in patria (Is 10,20-22; 37,32) restaurando il culto a Jhwh, puntando al purismo cultuale e alla ricostruzione dell'identità giudaica, grazie ad Esdra e Neemia. Quindi storicamente la salvezza proveniva dai Giudei. L'ultima battuta del v.22, pertanto, ristabilisce la verità storica degli eventi, dando in tal modo la risposta al quesito posto dalla Samaritana (v.20).

Con il v.23 il Gesù giovanneo inaugura la terza via, che già aveva lasciato in qualche modo trasparire, quasi in filigrana, al v.21, in cui si affermava che “né in questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre”. Dove, dunque, rendere l'autentico culto a Dio se questo non è più riferibile né al tempio sul monte Garizim, né a quello di Gerusalemme? “Ma viene l'ora ed è adesso, allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano”. Il v.23 si apre con una preposizione avversativa “Ma” (¢ll¦, allà), che dà un senso di contrapposizione all'intero versetto. Tutto ciò che questo dice non solo si contrappone alla questione posta dalla Samaritana (v.20), ma la supera, prospettando una terza via: al Garizim e a Gerusalemme, luoghi storici del culto ebraico, rivali tra loro, si contrappone ora “lo spirito e la verità” come luoghi propri di Dio. Vi è quindi uno svincolarsi del culto dai parametri storici, proiettando i “veri adoratori” nella dimensione stessa di Dio.

Il nuovo culto reso nello Spirito e nella Verità è il frutto del sopraggiungere dei tempi nuovi: “viene l'ora ed è adesso”. Riprendendo l'espressione “viene l'ora” del v.21, il v.23 precisa come questa sia “adesso” (nàn, nîn). L'ora, il tempo, dunque, è “adesso”; un “adesso” che dice come il tempo del nuovo culto sia strettamente legato alla presenza di Gesù e alla sua persona e si radichi in essa, anche se questo nuovo culto non è ancora pienamente e definitivamente compiuto; infatti i verbi dell'adorare sono posti al futuro indicativo: “adorerete” (v.21) e “adoreranno” (v.23), legati al dono dello Spirito, conseguente alla morte-risurrezione di Gesù (7,39). Le prospettive, quindi, sono escatologiche, legate all'effusione dello Spirito negli ultimi tempi, di cui il nuovo culto è parte integrante e li esprime. Tra il presente di Gesù (“adesso”) e il futuro dei nuovi credenti chiamati al nuovo culto vi è, infatti, lo scarto dell'ora di Gesù, l'ora del compimento della sua glorificazione, dalla quale sgorgherà lo Spirito di Verità (16,7), che condurrà e conformerà i credenti alla verità tutta intera (16,13); ma da quell'ora nascerà anche un nuovo tempio (Gv 2,19.21; Ap 21,22), in cui si celebrerà un nuovo culto. Un culto che non è più fatto di animali continuamente sacrificati, ma dallo stesso Gesù glorificato, morto e risorto, che ha offerto se stesso una volta per tutte: “Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli; che non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso” (Eb 7,26-27). Se sono cambiati i parametri del nuovo culto, quali il tempio, il sacerdozio, i sacrifici e le modalità dell'offrire, confluiti tutti nell'ora di Gesù e da questa superati e sostituiti (Col 2,16-17; Eb 9,11-12), allora è cambiata anche la modalità di rendere il culto da parte dei nuovi credenti, i quali devono rapportarsi ora in modo nuovo al nuovo culto inaugurato nella persona del Gesù glorificato: “allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”. Premesso che il nuovo culto ha a che fare con lo Spirito, effuso sugli uomini negli ultimi tempi (Gl 3,1-2; Gv 19,30; 20,22) e, per questo, culto escatologico e, pertanto, vero, proprio perché ultimo e definitivamente compiuto per e nel Risorto; considerato che è un culto radicato nella Verità di Dio, manifestatasi e portata a sua pienezza in Cristo (1,14.17), in quale modo questi adoratori si possono definire “veri”. Essi sono tali perché ontologicamente “veri” e perché esistenzialmente conformati alla verità. Essi sono ontologicamente “veri” perché “[..] quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati” (2,12-13). In quanto generati da Dio essi non solo gli appartengono, ma con Lui condividono la sua vita, ne possiedono in qualche modo il DNA, poiché con e nel Risorto ne condividono anche la paternità (20,17b). “Veri” lo sono anche esistenzialmente, poiché la loro vita, ormai conformata a Cristo (12,32; ), non gli appartiene più (Gal 2,20) e il loro vivere è un convivere con e in Cristo per Dio: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria” (Col 3,1-4). Così trasformato dalla potenza dello Spirito e così conformato alla Verità, a cui appartiene, ogni credente è per sua natura sacerdote, chiamato ad offrire se stesso al Padre in un nuovo culto spirituale, che lo trasforma esistenzialmente: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,1-2). Il nuovo culto, dunque, non si celebra più su questo monte o in Gerusalemme, ma nello Spirito e nella Verità; in uno Spirito che è la Verità di Dio (16,14-15), che ci porta alla sua pienezza (16,13). Non più dunque un luogo, ma una modalità di adorazione; un culto non più legato ad un luogo, ma al proprio essere, permeato dallo Spirito e nutrito dalla Verità della Rivelazione e ad essa conformato; un culto che non si esprime più nel tempio, ma nella vita, quale luogo privilegiato dove si celebra questo culto. Non è forse il corpo il nuovo tempio dove ha la sua dimora lo Spirito?: “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1Cor 6,19-20); non era proprio questo il lamento di Gesù e ancor prima del profeta circa l'antico culto che Israele rendeva a Dio, fatto con le labbra, ma non con il cuore e la sincerità della vita?: “Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani” (Is 29,13; Mt 15,8; Mc 7,6).

Ogni credente, dunque, trasformato dallo Spirito e conformato alla Verità, collocato per questo nella Santità di Dio, che in Cristo gli appartiene così come lui appartiene a Cristo (1Cor 6,19; Gal 3,29), è chiamato a celebrare esistenzialmente questo nuovo culto in novità di vita: “Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi; profittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi. Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere la volontà di Dio. E non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo.” (Ef 5,15-20). La vita, dunque, trasformata in una liturgia di lode e di ringraziamento, in un vivere per il Signore (Rm 14,6-8); è questo il nuovo culto pensato dal Padre per i nuovi credenti: “e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano. È racchiuso in queste parole, con cui si chiude il v.23, il progetto del Padre pensato per l'intera umanità e significato in quel “dove bisogna (de‹, d) adorare” dei vv.20.24; un progetto che già si era prospettato nel momento in cui Dio ha voluto consacrare a sé Israele: “voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,5b-6a).

Il v.24 costituisce, da un lato, il vertice e la conclusione del tema sul “dove bisogna adorare”; dall'altro, fornisce la motivazione del perché “bisogna adorare in spirito e verità”: “Dio è spirito”. Non si tratta di una precisazione sulla natura di Dio, ma esprime il modo di essere di Dio, che in quanto tale, condiziona i nostri rapporti con Lui. Per questo il nostro rapporto con Dio deve essere sotteso da un culto spirituale in conformità alla Verità della rivelazione manifestatasi in Cristo; una Verità, che incarnandosi nella nostra vita si fa culto a Dio e rende la nostra vita il luogo naturale del nuovo culto, facendone una liturgia di lode e di ringraziamento. Si tratta, quindi, di un culto che pur esprimendosi attraverso la sacramentalità dei segni e della ritualità liturgica, tuttavia li trascende e li prescinde. In altri termini, Dio non si formalizza sulle modalità di culto stabilite dagli uomini, ma guarda quale centralità ha il culto che l'uomo gli rende nella sua vita, poiché a Dio, al di là delle regole cultuali o liturgiche, interessa esclusivamente il cuore dell'uomo: “Dice il Signore: <<Poiché questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani [...]>>” (Is 29,13); per questo Paolo, rivolto alla comunità di Roma, l'esorta ad un culto spirituale attraverso l'offerta vivente di se stessa a Dio, che comporta un continuo rinnovarsi nello Spirito: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,1-2). Si tratta, dunque, di un culto, che ancor prima di esprimersi nella sacralità delle liturgie, si forma nell'intimità del cuore, ponendo al centro della propria vita gli interessi di Dio, coltivando (da qui culto) le cose spirituali (Col 3,1-2), mossi dallo Spirito, in conformità alla Verità della rivelazione.

I vv.25-26, come già si è sopra accennato (cfr. pag.18), formano inclusione per titolatura con il v.19, al cui interno si colloca l'intero dialogo sul “luogo dove bisogna adorare” (vv.20-24). Il tema del nuovo culto, così collocato, lascia intendere come esso si radichi nella Verità della persona di Gesù, che lentamente si sta manifestando, dapprima come profeta (v.19), poi come messia (v.25) e infine come Dio (v.26), imprimendo al nuovo culto tutta l'autorità divina, che già era stata sottolineata dal doppio “de‹” (bisogna) dei vv.20.24, che lasciavano tralucere un piano divino a questo finalizzato. La titolatura, quindi, in particolar modo quella del v.26, funge da firma di autenticità del nuovo culto celebrato nello Spirito e conforme alla Verità della Rivelazione. I vv.25-26 creano uno stacco narrativo netto con il racconto del nuovo culto, concludendolo, così come una firma che chiude uno scritto, ma nel contempo lo avvalora, imprimendogli tutta l'autorità e l'autorevolezza di chi firma.

Il v.25 riporta le parole della Samaritana: “So che viene il Messia, detto Cristo; allorché quello sia venuto, ci annuncerà tutto quanto”. Torna qui nuovamente il verbo sapere, “So” (Œda, oîda), come quello di Nicodemo (“noi sappiamo” v.3,2), ma si tratta sempre di un sapere imperfetto, legato a tradizioni elaborate da uomini e non ancora illuminate dallo Spirito di Verità. Ciò che la Samaritana “sa” è che deve venire un Messia, che l'autore per la sua platea di ascoltatori etnico-cristiani traduce in greco come Cristo. Il messia dei samaritani, tuttavia ha dei connotati leggermente diversi da quello delle attese giudaiche. Il messia samaritano era definito con l'espressione “taheb”, cioè “colui che viene”, “colui che torna” o “che fa ritornare”. Espressioni queste che non indicano il messia davidico-regale, ma profetico con riferimento a Dt 18,15, sulla linea di Giosuè45. Il compito di questo taheb è quello di riferire, riportare, esporre ogni cosa; questo è il significato prevalente del verbo “anaggšllw” (ananghéllo). Il suo compito, dunque, più che rivelativo è informativo e didattico nell'insieme, ma non ha nulla di divino. Tuttavia, Giovanni con sottigliezza ironica fa dire alla Samaritana: “So che viene il Messia” ( Œda Óti Mess…aj œrcetai, oîda óti Messías érchetai). Il verbo venire è posto qui al presente indicativo, dando attualità e immediatezza a questa venuta, che non è collocata nel futuro, ma qui nel presente, lasciando quindi intendere, in qualche modo, come questi sia lì presente. E la risposta di Gesù ne da conferma: “Sono io, colui che ti parla” (v.26). L'espressione greca è molto più significativa della sbiadita traduzione italiana: “'Egè e„mi, Ð lalîn soi” (Egó eimi, o lalôn soi), letteralmente: “Io sono, il parlante a te”. Quel “Io sono”46, che in Giovanni ricorre in vario modo 23 volte, rimanda alla rivelazione che Dio fece del proprio nome a Mosè: “Dio disse a Mosè: <<Io sono colui che sono!>>. Poi disse: <<Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi>>” (Es 3,14). Lo sfondo, quindi, è veterotestamentario su cui si muove, del resto, l'intero racconto giovanneo, che lo reinterpreta alla luce del Risorto. Accanto all' “Io sono” viene posto un participio presente preceduto da un articolo determinativo “o lalôn”, lett. “il parlante”, che ne fa una sorta di appellativo di Dio. Egli non è soltanto l' “Io sono”, racchiuso nel suo mistero, ma si qualifica, in quanto Logos (Parola), come “il parlante”; un participio presente che indica non soltanto la sua natura di comunicazione e, quindi, di rivelazione, ma dice anche come questa sua capacità di comunicazione sia costante e persistente nel tempo, per cui egli non è soltanto “colui che parla”, ma “che continua a parlare”, in cui si autorivela in un continuo dono di Sé attraverso una continua comunicazione che, una volta accolta, si fa comunione. Ma il suo “parlare”, la sua autocomunicazione non è una voce sparsa nel vento, ma è un parlare diretto, che stabilisce un rapporto salvifico personale, raggiungendo l'altro nella sua individualità personale: “colui che parla a te”. E che qui si tratti di un'autorivelazione lo dice il verbo “lalen” (laleîn, parlare), che in Giovanni, quando compare sulle labbra di Gesù ha a che fare con la sua autorivelazione47.

I vv.27-42 formano la seconda parte del racconto della Samaritana, in cui la Samaritana non è più l'attrice principale, ma la sua presenza ora diviene più silenziosa, la sentiremo parlare per l'ultima volta al v.29, poi essa si muoverà sullo sfondo, lasciando la scena ad altri attori: i discepoli e i samaritani. Si tratta di due racconti paralleli a scene intrecciate, che si alternano tra loro secondo questo schema: a) Gesù e i discepoli: vv. 27.31-38; b) La Samaritana e i suoi concittadini: vv.28-30.39-42. Il tema è unico, ma colto da due diverse prospettive: la missione di Gesù che prosegue nei discepoli (vv.37-38); l'annuncio accolto di Gesù si diffonde per “passa parola”, in cui si riflette, la modalità di proselitismo della stessa comunità giovannea48.

Con il v.27 rientrano in scena i discepoli, che l'avevano precedentemente abbandonata al v.8 per lasciare spazio alla Samaritana. Il v.27 costituisce una sorta di introduzione al tema che verrà trattato poi nella pericope vv.31-38: la missionarietà. Il v.27 è scandito in due parti: la prima serve da un lato per richiamare sulla scena gli attori precedentemente usciti; dall'altro per denunciare uno stupore da parte dei discepoli nel vedere Gesù a parlare con una donna; secondo gli usi del tempo, infatti, era disdicevole per un rabbì soffermarsi a parlare in luogo pubblico con una donna. Uno stupore, tuttavia, che denuncia un qualcosa di inatteso. La seconda parte del v.27 rileva come nessuno dei discepoli si sia posto degli interrogativi su questo comportamento sconveniente di Gesù. L'autore suggerisce anche che cosa essi avrebbero dovuto chiedersi: “Che cosa cerchi?” e “Che cosa dici con lei?”. Il primo interrogativa riguarda una domanda di senso, che sottende un progetto, una missione da scoprire e da compiere e in qualche modo richiama quel “che cosa cercate”, che Gesù rivolse ai due discepoli di Giovanni, alla ricerca di una loro nuova identità spirituale (1,38); la seconda domanda riguarda il contenuto di questa missione “Che cosa dici”, cioè l'annuncio; e che si tratti di una missione da compiere lo lascia in qualche modo intuire quel “met' aÙtÁj” (met'autês, con lei). La preposizione “met£” (metá), + il genitivo, dice molto di più che un semplice parlare con qualcuno: lascia intendere che si sta condividendo con qualcuno ciò che si dice, farlo partecipe di qualcosa, elaborare assieme a lui un progetto, facendo una sorta di comunione con questi. La preposizione, infatti, significa “con, insieme, unitamente, in accordo”. Lo stupore, quindi, dei discepoli nasce da una loro inintelligenza di Gesù, della sua identità e della missione a cui egli è chiamato: “Dice loro Gesù: <<Mio cibo è che faccia la volontà di colui che mi ha mandato e compia la sua opera ...>>” (v.34). Saranno, dunque, i vv.31-38 che dipaneranno non soltanto il senso dell'operare di Gesù, ma anche come loro, i discepoli, ne siano direttamente coinvolti loro malgrado.

vv.28-30 : se il v.27 ha in qualche modo introdotto il tema della missione di Gesù, che si estenderà ai discepoli, i vv.28-30 aprono in parallelo l'identico tema, ma colto da un'altra prospettiva: la missione del credente nei confronti degli altri. In altri termini, l'annuncio e la testimonianza non è roba da preti o da specialisti, ma ogni credente è chiamato in prima persona a rendersi annunciatore e testimone della sua esperienza del Cristo: “mi ha detto tutte quante le cose che ho fatto; che non sia lui il Cristo?”.

La pericope (vv.28-30) è scandita in tre parti:

  1. v.28: la conversione della Samaritana e la sua missione annunciatrice;

  1. v.29: l'annuncio;

  1. v.30: la conversione dei suoi concittadini


Il v.28 è a sua volta cadenzato in tre parti:


  1. La donna lascia la sua brocca con cui era venuta ad attingere all'acqua del pozzo. Il termine usato per dire “brocca” è “Ødra” (idría), lo stesso che Giovanni ha usato per indicare le sei idrie nel racconto delle nozze di Cana (2,7) e che in quel contesto indicavano il culto giudaico. La brocca qui ha sostanzialmente un simile significato: essa rappresenta la fede della Samaritana, che si alimentava al pozzo di Giacobbe, metafora della Torah. Si parla, infatti, della “sua brocca”, quindi una brocca personale con la quale lei personalmente andava ad attingere al pozzo, alimentando la sua brocca con quell'acqua. Ora, questa brocca viene lasciata presso il pozzo. In altri termini la Samaritana lascia la sua antica fede per lanciarsi, con l'entusiasmo del proselita, ad annunciare la sua esperienza di un'acqua viva, che si autogenera in lei, ma non soltanto per lei, ma anche per gli altri. Lei stessa, dunque, diventa sorgente di acqua viva per gli altri (v.14);

  1. la Samaritana torna in città da dove essa proveniva; essa compie il movimento esatto contrario dei suoi concittadini, che al suo annuncio, invece, escono dalla città per andare verso Gesù (v.30). Essa proviene da Gesù e va verso la sua città, nel luogo dove essa rendeva l'antico culto; è una sorta di rivisitazione di quel culto alla luce del nuovo evento che si è prodotto in lei: essa ha bevuto di quell'acqua viva, che l'ha trasformata in sorgente incontenibile e dissemina la sua città di quest'acqua vivente. È questa probabilmente un'esortazione che Giovanni rivolge alla sua comunità: ogni proselita, ogni credente deve farsi propagatore dell'acqua viva che si è autogenerata in lui. Era, infatti, questo il tipo di missionarietà praticato dai componenti della comunità giovannea, fondato sul passa parola, sul racconto della propria esperienza cristiana.

  1. La donna, pertanto, dice agli uomini. Ci troviamo di fronte ad una vera e propria azione missionaria, rivolta in senso generale “agli uomini” e fondata sull'annuncio (“dice”), che ha come tema non la grande predicazione del Risorto, ma l'esperienza personale che questa donna ha fatto di Gesù: “mi ha detto tutte quante le cose che ho fatto”.


Il v.29 contiene l'annuncio che la Samaritana ha rivolto ai suoi concittadini: “Orsù, vedete un uomo che mi ha detto tutte quante le cose che ho fatto; che non sia lui il Cristo?”. Anche qui il versetto è scandito in tre momenti:

  1. Vi è un'esortazione della donna: “Orsù, vedete un uomo”, il cui corrispondente greco suona così: “Deàte ‡dete ¥nqrwpon” (Deûte ídete ántzropon). Si tratta di un'esortazione rafforzata da quel “Deûte” (Orsù) iniziale e che va a cadere su quell'imperativo “ídete” (vedete). Il verbo usato dall'autore è “Ðr£w”, che nel linguaggio dei vangeli esprime il vedere proprio di una fede matura, una fede che sa andare oltre alle apparenze49. L'oggetto del vedere è qui “un uomo”, colto qui nella sua genericità indeterminata (¥nqrwpoj, ántzropos), ma è proprio la forza di questa esortazione (Deûte ídete, orsù vedete) che spinge ad andare oltre all'umanità di Gesù. L'uso di questo sostantivo “uomo” applicato a Gesù, forse nasconde una frecciata contro il docetismo serpeggiante nella comunità giovannea50, che deve imparare a vedere la divinità di Gesù non prescindendo dalla sua umanità, ma attraverso questa.

  1. Il secondo passo è l'esperienza che la donna ha fatto di Gesù e che lei ora offre sotto forma di testimonianza ai suoi concittadini: “mi ha detto tutte quante le cose che ho fatto”. Ed è proprio questa onniscienza di Gesù che fa nascere nella donna il dubbio: “che non sia lui il Cristo?”. Una delle caratteristiche del Messia, infatti, era la sua onniscienza e la conoscenza profonda degli uomini51.

  1. Il v.29 si conclude con un interrogativo: “che non sia lui il Cristo?”. Se l'esperienza di Gesù smuove la donna verso la fede, facendola un'entusiasta testimone (lascia la brocca e corre in città), tuttavia la maturità di questa fede è ancora lontana. Il Brown sottolinea come la particella interrogativa “m»ti” (méti) implica di per se stessa una improbabilità52 che Gesù sia il Cristo. Il dubbio su Gesù, dunque, non è ancora sciolto, perché ciò avvenga è necessario andare verso di lui, farne un'esperienza prolungata in prima persona, soltanto allora il dubbio lascia spazio alla certezza. Sarà, infatti, questo il cammino che intraprenderanno i samaritani, che dopo aver incontrato Gesù gli chiedono di soffermarsi un qualche tempo con loro (v.40), al termine del quale giungono alla pienezza della fede: “questi è veramente il Salvatore del mondo” (v.42).

Il v.30 riporta la risposta dei samaritani all'annuncio della donna: “Uscirono dalla città e andavano da lui”. La città è il luogo del loro vivere e dove celebravano i loro culti. Ora, questa città viene abbandonata per andare verso di lui, creando in tal modo una rottura con il passato. Sono significativi i verbi e i tempi verbali usati. “Uscirono da” (™xÁlqon ™k, exêltzon ek) un verbo formato k + rcomai (ek + ércomai) seguito e rafforzato nuovamente dalla particella “k” che indica l'origine, la loro provenienza da una situazione di sincretismo religioso (i 5+1 mariti), al quale erano profondamente radicati e che li contrapponeva al mondo dei Giudei, dai quali proviene, invece, la salvezza (v.22c). Ed è proprio quest'ultima osservazione, che squalifica il culto samaritano, dichiarato incapace di salvezza. Il verbo è posto all'aoristo incipiente, che indica proprio nell'annuncio della parola il momento in cui essi uscirono dalla città per andare verso Gesù: “andavano da lui” (½rconto prÕj aÙtÒn, érconto pròs autón). Il verbo andare qui è posto all'imperfetto indicativo per indicare il ripetersi e la persistenza di questo andare verso Gesù. L'incontro con Gesù, dunque, non fu un fatto episodico, ma l'inizio di una nuova vita, una rigenerazione ad una nuova vita, che li ha reinseriti nel filone della vera salvezza. “L'uscire da (™k) per andare verso (prÒj)” indica, pertanto, un riorientamento spirituale ed esistenziale dei samaritani, che quell'imperfetto indicativo rende ormai definitivo; un passaggio da un sincretismo religioso paganeggiante verso Gesù, riconosciuto, dopo l'esperienza dell'incontro con lui, come il vero salvatore.

vv.31-38: se con i vv.28-30 l'autore, da un lato, ha evidenziato il primo frutto raccolto da Gesù (v.28a) dopo il suo incontro con la Samaritana, dall'altro, rileva anche un'incipiente azione missionaria da parte della Samaritana, divenuta sorgente di acqua viva per i suoi concittadini (vv.28b-30). Ed è proprio questa missionarietà, generata dall'incontro con la Parola, che, ora, viene riconsiderata da un'altra prospettiva, con riferimento ai discepoli e della quale si specifica la natura (vv.32-34). Una missionarietà che qui perde l'elemento della spontaneità, che ha caratterizzato l'annuncio della Samaritana, per assumere la configurazione di un vero e proprio mandato (v.38).

Lo schema del dialogo con Gesù, destinato a sfociare in un monologo, come quasi tutti i dialoghi giovannei, che in ultima analisi altro non sono che riflessioni contemplative del Logos incarnato, si sviluppa in tre momenti, formati da una precisazione del concetto di missione con riferimento a Gesù (vv.32-34) e da un'analisi della sua dinamica, collocata all'interno di un progetto divino di salvezza (vv.35-38). Quest'ultimo aspetto è a sua volta scandito in altri due momenti, introdotti entrambi da detti proverbiali (vv.35a.37) seguiti da un loro commento (vv.35b-36.38), finalizzato ad approfondire il concetto di missione in rapporto a Gesù e ai discepoli. Il ritmo di questi ultimi due momenti (vv.35-38) è di tipo sapienziale, atto a sviluppare una riflessione sulla missionarietà.

vv.31-34, questa pericope, che potremmo considerare come una sorta di preambolo ai vv.35-38, si apre con il v.31 che, per il tema trattato, il cibo, si aggancia al v.8, in cui i discepoli se ne erano andati in città per comprare dei cibi (trof¦j, trofàs). “Rabbi, mangia”, questa è l'esortazione che innesca il dialogo, che si sviluppa, secondo una tecnica caratteristica di Giovanni, sul malinteso, che gli consente di rilanciare il dialogo a livelli sempre più alti, creando un efficace contrasto narrativo da cui il tema si staglia nitido sullo sfondo. La risposta di Gesù è provocante, punta sulla misteriosità di un cibo che lui possiede e che loro, i discepoli, non conoscono; ma nel contempo denuncia anche la loro inintelligenza, creando una contrapposizione tra Gesù e i discepoli (Io-voi); tra l'avere/essere di Gesù e il sapere/conoscenza dei discepoli, definita come “non conoscere”: “Io ho un cibo da mangiare, che voi non conoscete”. La misteriosità di questo cibo (brîsin, brôsin), come si vedrà subito, ha attinenza con il mistero di Gesù; mentre il non sapere/non conoscere dei discepoli denuncia la loro incapacità di comprendere tale mistero, che si esprimerà in un fraintendimento. Con il v.34 Gesù chiarirà ogni equivoco dichiarando che “Mio cibo (brîm£, brôma) è che faccia la volontà di colui che mi ha mandato e compia la sua opera”. Ho volutamente evidenziato in grassetto il termine cibo, che in italiano suona sempre identico, ma che in greco assume tonalità e significati diversi. Il cibo che i discepoli vanno a procurare in città viene definito con il termine generico di “trofàs”, che significa provviste, viveri, vettovaglie; il cibo sconosciuto ai discepoli, che Gesù dichiara di avere da mangiare, è indicato con il sostantivo greco “brôsin”, che significa pasto, cibo, vitto, con riferimento a un cibo specifico, anche se non nominato, ma pensato da chi lo dice; infine, il cibo rivelato da Gesù come volontà del Padre è indicato con il termine greco “brôma”, il cui significato primario è nutrimento. Questi ultimi due termini (“brôsin”,“brôma”) hanno la loro radice in “bibrèskw” (bibrósko), che esprime il mangiare avidamente, il divorare, l'ingoiare. Già dal confronto di questi tre diversi significati si può evidenziare la differente posizione che il cibo assume se riferito ai discepoli (trofàs) o se, invece, riferito a Gesù (“brôsin”,“brôma”) e questo già lascia tralucere qualcosa del mistero di Gesù e la sua inintelligenza da parte dei discepoli. Al v.32 Gesù dichiara di avere “un cibo da mangiare”, che tradotto alla luce del successivo v.34 significa “una volontà da compiere”, ma ancora sconosciuta ai discepoli, che al v.33 fraintendono, perché ancora non hanno colto il mistero di Gesù. Essi dovranno aspettare il dono dello Spirito che li porterà alla pienezza della verità (16,13). Cogliere il mistero che si agita in Gesù non è, del resto, una questione di volontà umana, ma di dono divino (6,65) e soltanto coloro che sono stati generati da Dio (1,12-13) e rinati dall'alto (3,3), dall'acqua e dallo Spirito (3,5) vi possono accedere, perché solo questi hanno capacità di intendere il linguaggio di Dio. Infatti, “Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito” (3,6).

Il v.34 costituisce il vertice della pericope in analisi (vv.31-34), poiché definisce la natura della missionarietà di Gesù, mettendo, quindi, le fondamenta per quella affidata e trasmessa ai discepoli (v.38; 20,21): “Mio cibo è che faccia la volontà di colui che mi ha mandato e compia la sua opera”. Il termine “cibo” è qui doppiamente qualificato dall'aggettivo possessivo “mio”, che dice come questo cibo appartiene a Gesù in via esclusiva e fa parte del suo essere costitutivo; e dal significato di cibo, qui espresso con il sostantivo greco “brôma”, che significa “nutrimento”, esplicitando in tal modo come questo cibo ha a che fare con la vita stessa di Gesù e come questa ne sia alimentata e intessuta, assumendo i contorni della stessa persona di Gesù, così come il cibo, una volta assunto e metabolizzato, diviene parte integrante del corpo. Non vi è più quindi distinzione tra Gesù e il Padre (sia pur nella distinzione e diversità di ruoli, che qualificano i due) così che a Filippo, che gli chiede di mostrargli il Padre, Gesù risponde: “Sono con voi da tanto tempo e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre; come tu dici: “mostraci il Padre”? Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere. Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no, credete(lo) per le stesse opere” (14,9-11). E la connessione con il Padre è tale che “[...] il Figlio non può fare da se stesso niente, se non ciò che vede fare il Padre; infatti, quelle cose che quello fa anche il Figlio ugualmente queste fa” (5,19). L'operare di Gesù, dunque, è l'operare del Padre, che si compie in lui (5,17), così che Gesù diventa lo spazio storico in cui il Padre opera e tende la mano all'uomo.

La volontà di cui Gesù si nutre è qualificata in duplice modo: essa è “di colui che mi ha mandato” e consiste nel “compiere la sua opera”. Gesù non dice che è del Padre, nel quale caso avrebbe evidenziato soltanto la sua origine e la sua appartenenza divina, bensì afferma che essa è “di colui che mi ha inviato” legando questa volontà ad un invio, così che il suo esserci è frutto di questo invio; e se vi è un invio vi è anche un mandato che lo sottende e lo sostanzia; questo si esplicita nel “compiere la sua opera”. Di quale opera si parli e in che cosa essa consista viene indicato al v. 6,29: “Questa è l'opera di Dio, che crediate in colui che egli ha mandato”. Questa, dunque, è la missione di Gesù, che l'autore già aveva letto in 3,16 come un invio-dono a favore dell'umanità, perché questa si salvasse per mezzo del credere in lui; una missione, quella di Gesù, che coincide con la stessa finalità del racconto giovanneo: “questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome” (20,31).

vv.35-36: se con i vv.31-34 si è definita la natura della missionarietà di Gesù, con i vv.35-36 se ne definiscono i tempi e la loro natura. Il v.35 è scandito in due parti: la prima riporta un detto proverbiale (v.35a), tratto dal mondo agricolo o, più semplicemente, si rifà alla tradizione contadina dell'epoca, che scandiva i tempi agricoli legando a questi i lavori da farsi in ogni tempo stabilito. Un esempio molto significativo in tal senso lo troviamo nel calendario di Gezer53. La seconda parte (v.35b), riprendendo il detto, annuncia che il tempo della mietitura è giunto e sollecita i discepoli a prenderne coscienza: “Ecco, io vi dico, alzate i vostri occhi e guardate i campi poiché sono bianchi per la mietitura”. L'espressione “alzate gli occhi e guardate”, infatti, vuole soltanto incalzare i discepoli a porre attenzione e a riflettere su ciò che sta accadendo davanti a loro. Non credo che l'invito abbia un qualche contenuto teologico. Il verbo che segue l'esortazione ad alzare gli occhi, infatti, è “qe£sasqe” (tzeásastze, guardate)54, che definisce un guardare che si interroga, un guardare da cui scaturisce una riflessione. Il senso dell'esortazione pertanto è “fate attenzione, osservate e riflettete su cosa sta succedendo attorno a voi”; e ciò che sta succedendo è la conversione del mondo samaritano, anche se il senso e i contenuti dei vv.35-38 superano l'evento specifico della conversione dei samaritani per accedere ad un senso più generale e universale della missionarietà, di cui Gesù e successivamente i discepoli sono investiti. Si parla di messi già mature e che biancheggiano, riflettendosi sulle spighe la luce del sole; messi quindi pronte per la mietitura, il cui significato qui non è di tipo escatologico, di giudizio finale, ma inerisce soltanto alla missione di Gesù e dei discepoli ed ha un suo parallelo in Mt 9,36-38: “Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: <<La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!>>”; e in Lc 10,1-2: “Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: <<La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe>>”.

Un ultimo appunto va posto sulla contrapposizione delle due parti di cui è composto il v.35. La prima si apre con l'espressione “Voi non dite che ...”; la seconda inizia con “Ecco, io vi dico”, quasi a dire che i tempi scanditi dall'uomo (“ci sono ancora quattro mesi e viene la mietitura”) non coincidono con quelli di Dio (“guardate poiché i campi sono bianchi per la mietitura”). In altri termini, il tempo di Gesù, qualificato dalla sua presenza, è il tempo della raccolta. Non vi è più lo scarto dei quattro mesi di attesa, che qui richiamano in qualche modo le attese veterotestamentarie, in cui i profeti e il Battista hanno preparato e seminato il terreno degli uomini, predisponendoli a portare frutto in vista della venuta del Mietitore assieme ai suoi collaboratori. Il tempo di Gesù, dunque, e quello successivo della chiesa sono i tempi della mietitura e della raccolta.

Il v.36 è scandito in due parti: la prima riguarda la ricompensa di chi miete, il quale raccoglie frutti per la vita eterna. La ricompensa, come sottolineerà il v.36b, è la gioia della mietitura, gioia propriamente missionaria; mentre il frutto per la vita eterna sono i nuovi credenti, il terreno fertile, preparato dai profeti, dal Battista e, da ultimo, anche da Gesù, che oltre a seminare ha anche raccolto il frutto preparato dal mondo veterotestamentario. Un versetto questo che descrive il tempo missionario di Gesù e dei suoi discepoli, un tempo di semina e di mietitura nel contempo. La gioia della mietitura, infatti, è condivisa anche da chi ha seminato (v.36b). Tutti i verbi, non a caso, sono qui posti al presente indicativo. Si sente qui tutta la freschezza del palpito gioioso della chiesa primitiva, che sta raccogliendo i suoi primi frutti, di cui Luca, sia pur nella sua visione irenica delle cose, ci dà un qualche breve spaccato nei suoi Atti degli Apostoli (At 2,41-48; 6,7; 12,24; 13,49).

I vv.37-38 accentrano la loro attenzione sugli attori principali di questa missionarietà (“altro è chi semina e altro chi miete”), la quale esprime in se stessa il progetto salvifico di Dio e che, a buona ragione, non può essere considerata un'esclusiva di Gesù e dei suoi discepoli, proprio perché il disegno di salvezza non è cominciato con loro, ma essi ne costituiscono il vertice e il suo prolungamento. Il v.37 con enfasi introduttiva (“in questo la parola è vera”) presenta la dinamica della missionarietà, che è dinamica della stessa storia della salvezza, che viene giocata su due categorie di persone, alle quali sono assegnati ruoli distinti: “altro è chi semina e altro chi miete”, che riflettono in loro stessi i due tempi della storia della salvezza, avuta inizio con il Primo Testamento, quale fase preparatoria e pedagogica e, quindi, propria di semina; e il Secondo Testamento, definito dagli autori neotestamentari come la pienezza dei tempi55, in cui tutto è giunto a compimento e a pienezza56. Tempo, dunque, questo di mietitura e di raccolta. Immagini queste che ricorrono simili anche in Paolo circa l'azione missionaria avuta presso i Corinti, anche se il contesto è completamente diverso da quello giovanneo: “Ma che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Ora né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere. Non c'è differenza tra chi pianta e chi irriga, ma ciascuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio” (1Cor 3,5-9).

Con il v.38 si passa dalla teoria alla pratica. Le prospettive qui sono postpasquali e riflettono i tempi della chiesa. I tempi verbali (aoristo e perfetto), infatti, richiamano tutte azioni che si collocano nel passato dei discepoli e di altri, ai quali, si sottolinea, i discepoli sono subentrati. I discepoli, infatti, sono coloro che sono stati mandati da Gesù (v.38a). Si riflette qui quanto il Risorto dirà nella sua seconda apparizione (20,19-23): “Disse dunque di nuovo Gesù a loro: <<Pace a voi! Come il Padre ha inviato me, anch'io mando voi>>” (20,21). Un mandato che trova la sua origine nel Padre e che da Gesù fa scivolare sui discepoli, che subentrano a Gesù (v.38b) e ne costituiscono un prolungamento nella storia. Insistente è il richiamo alla fatica, tre volte in un solo versetto: “voi non avete faticato”, “altri hanno faticato”, “siete subentrati alla loro fatica”. Il verbo usato per indicare l'affaticamento, già lo si è visto nel commento del v.6 (pagg.9-10), è “kopi£w” (kopiáo), che significa essere stanco, spossato, affaticato; è un verbo che nella chiesa primitiva era strettamente legato all'attività missionaria, ma che riferito a Gesù lascia intravvedere sullo sfondo, quasi in filigrana, la sua passione e morte. Il v.38 si conclude con una indicazione: “altri hanno faticato e voi siete subentrati alla loro fatica”. Chi sono questi “altri”? Già lo si è detto sopra come la missionarietà, che percorre l'intera storia della salvezza (chiamata e invio dei Patriarchi e dei Profeti), non è un'esclusiva di Gesù, ma prima di lui altri furono chiamati e inviati: Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Aronne, Giosuè, i Profeti, lo stesso popolo d'Israele, al quale è stata conferita ai piedi del Sinai una nuova identità e una missione (Es 19,5-6) e, infine, lo stesso Battista. Gesù raccoglie in sé tutta questa eredità e sulla croce, la sua ultima fatica, la porta a compimento: “e io, quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso” (12,32). E a questa fatica, in cui l'intera umanità è stata riscattata (Ef 1,7), subentrano i discepoli, forniti del mandato del Risorto (Mt 28,18-20; Lc 24,46-48; Gv 20,21-23).

I vv.39-42, riprendendo i vv.28-30, portano a compimento l'annuncio della Samaritana e illustrano gli effetti da questo originati. L'attenzione ora si sposta dalla Samaritana, la cui presenza rimane sempre sullo sfondo, e dai discepoli ai Samaritani. Questa breve pericope è strutturata su due poli che indicano gli estremi del percorso di fede dei samaritani. Si passa dal v.39, in cui si attesta che i samaritani giungono a Gesù per mezzo della parola della loro concittadina, al v.42, in cui la parola della samaritana viene superata dall'esperienza diretta di Gesù, giungendo alla pienezza di fede. Tra questi due poli estremi si snodano i vv.40.41, che spiegano la dinamica di avvicinamento e di conversione a Gesù, incentrata sul “rimanere” con lui, verbo che si ripete due volte nel v.40.

Il v.39 riassume sinteticamente i vv.29-30 e da qui riparte il racconto lasciato in sospeso: “Ora, da quella città molti dei Samaritani credettero in lui per la parola della donna, la quale testimoniò che “mi ha detto tutte le cose che ho fatto”. Il v.39 tuttavia presenta delle novità rispetto ai vv.29-30. Al v.30 si affermava che “Uscirono dalla città e andavano da lui”, un'espressione metaforica per indicare l'abbandono dell'antico culto sincretico e l'avvicinamento a Gesù, imprimendo alla propria vita un nuovo orientamento. Ora, qui, al v.39 questo nuovo orientamento esistenziale diventa “credettero in lui” (“™p…steusan e„j aÙtÕn, epísteusan eis autòn”). La particella “in” è resa in greco con “e„j” (eis), che indica un moto verso luogo, imprimendo al credere dei samaritani un dinamismo, che si trasforma in un cammino di vita: da una fede sincretica, metaforicamente indicata dall'espressione “da quella città”, si passa ora alla nuova ed unica fede in Gesù. La Samaritana, poi, che al v.29 annunciava la sua personale esperienza con Gesù, ponendosi l'interrogativo circa la sua messianicità e divenendo fonte di attenzione per i suoi concittadini (v.30), qui al v.39 si trasforma in testimone, che nel linguaggio giovanneo ha a che fare con gli aspetti rivelativi capaci di smuovere alla fede: “la quale testimoniò che “mi ha detto tutte le cose che ho fatto”; non a caso la fede incipiente dei samaritani, espressa significativamente con un aoristo ingressivo (credettero in lui) scaturisce proprio dalla parola della Samaritana, che diviene per i suoi concittadini il luogo attraverso il quale essi giungono alla fede: “per la parola della donna” (di¦ tÕn lÒgon, dià tòn lógon). La particella “dià” + accusativo indica, infatti, un moto attraverso luogo e nel contempo anche la causa originante della loro fede. Per questo le parole della Samaritana sono ora inquadrate nello statuto della testimonianza.

I vv.40-42 si agganciano in qualche modo al v.30b dove si dice va che i samaritani andavano da lui. Qui, ora, si spiega in quale modo ciò sia avvenuto e in che cosa sia consistito. È significativo, infatti, come il v.40 si apra riprendendo proprio il v.30b, ma cambiando il tempo del verbo: si passa dall'imperfetto indicativo (andavano da lui), che indica la persistenza di questo andare e quindi un nuovo orientamento esistenziale, all'aoristo (andarono da lui), che designa un fatto compiuto e che consente, quindi, di fare il passo successivo determinante che porterà a pienezza la loro fede: “lo pregavano di rimanere presso di loro; e rimase là due giorni”. Anche qui compare un imperfetto indicativo “lo pregavano di rimanere”, che indica il passaggio ad una fase successiva nel loro cammino di fede: la necessità di una conoscenza più approfondita di Gesù, e che si acquisisce solo rimanendo con lui e che prelude al loro discepolato. Compaiono, infatti, nel v.40 due verbi significativi propri dello statuto del discepolato: “andare” da Gesù e “rimanere” con lui, che già abbiamo trovato in 1,39: “Dice a loro: <<Venite e vedrete>>. Andarono, pertanto, e videro dove sta e rimasero presso di lui quel giorno; era circa l'ora decima”. L'andare da Gesù, l'esperirlo nella propria vita, apre il credente alla luce del suo Mistero, ma ad una condizione: è necessario rimanere con lui. Nel v. 1,39 compaiono tre elementi che ritroviamo anche qui: i due verbi e un numero: là (1,39) era l'ora decima, l'ora della pienezza della luce, che consentiva ai due discepoli di vedere, cioè di entrare nel Mistero; qui al v.40 ritroviamo i due verbi propri del discepolato e un numero: due giorni, il tempo che Gesù rimane con loro. Se narrativamente il due indica un tempo breve, simbolicamente viene caricato di importanza richiamandosi in qualche modo a Os 6,2: “Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza”. Il due, quindi, richiama il tempo della vita e prelude ad un terzo, il tempo della definitiva pienezza. Ed è proprio questo l'effetto dei due giorni durante i quali Gesù rimane con loro e loro con Gesù. Un'intimità di vita che si fa comunione di vite. Un rimanere che richiama il cap.15 dove il verbo compare dieci volte e parla il linguaggio della comunione di vita con Gesù, che là assume la forma di simbiosi, propria del tralcio legato alla vite.

Il v.41 attesta come l'incontro personale e diretto con la Parola sia molto più efficace di qualsiasi altra testimonianza: “E molti di più credettero per la sua parola”. Quel “molti di più”, infatti, innesca un confronto con la testimonianza della Samaritana, che ne esce perdente rispetto alla parola di Gesù. La cosa viene confermata anche al v.42 in cui i suoi concittadini attestano che “Non crediamo più per il tuo discorso; infatti noi stessi (lo) abbiamo udito”. Si noti come in questi due versetti l'attenzione va a cadere sulla parola, segno che siamo in un tempo ormai lontano dal Gesù della storia; in un tempo in cui l'esperienza di Gesù si ottiene soltanto attraverso la parola. È significativa, infatti, la particella “di¦” (dià), che significa “per mezzo” o “attraverso”. La parola quindi è divenuto l'unico strumento che apre il nuovo credente all'esperienza con Gesù e da cui si trae la sua vera conoscenza e, quindi, si acquisisce la capacità di entrare nel suo Mistero; non a caso il sapere è conseguente all'udire: “infatti noi stessi (lo) abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo”. Torna nuovamente la seconda persona plurale, che rimanda alla comunità giovannea che qui dà la sua testimonianza. Significativo quel “noi stessi”, che sottolinea tutto il peso di una testimonianza fatta in prima persona e non per sentito dire; una testimonianza che si radica nell'esperienza diretta, significata da quel “abbiamo udito”, che lascia intendere come l'ascolto della Parola sia determinante per la conoscenza di Gesù e conseguente alla sua accoglienza: “sappiamo” (o‡damen, oídamen) rafforzato dall'avverbio “veramente” che sottolinea non solo la veridicità della testimonianza, ma anche la vera natura di quel giudeo impertinente e trasgressivo: “questi è veramente il Salvatore del mondo”. Un'attestazione di fede, che testimonia la valenza universale dell'azione redentiva di Gesù e costituisce il vertice di un lungo cammino di fede, in cui quasi certamente si riflette l'azione missionaria condotta presso i samaritani57, testimoniata anche da At 8,5-8.14-17.


Il racconto della guarigione del figlio del funzionario regio (vv. 43-54)


Il Testo

43- Ora, dopo i due giorni, se ne andò via di là verso la Galilea;
44- Infatti Gesù stesso asserì che un profeta non ha stima nella propria patria.
45- Allorché dunque andò nella Galilea, lo accolsero i Galilei, avendo visto tutte quante quelle cose che fece in Gerusalemme durante la festa, anch'essi, infatti, vennero alla festa.
46- Venne pertanto di nuovo a Cana della Galilea, dove fece l'acqua vino. E vi era un un funzionario del re, il cui figlio era infermo a Cafarnao.
47- Questi, avendo udito che Gesù era giunto in Galilea dalla Giudea, andò da lui e (lo) pregava affinché scendesse e guarisse suo figlio, perché stava per morire.

48- Pertanto Gesù disse verso di lui: <<Se non vedete segni e prodigi, non credete>>.
49- Il funzionario del re disse verso di lui: <<Signore, scendi prima che il mio bambino muoia>>.
50- Gli dice Gesù: <<Vai, tuo figlio vive>>. L'uomo credette alla parola che gli disse Gesù e se ne andava.
51- Ora, mentre egli già discendeva, i suoi servi gli vennero incontro dicendo che suo figlio vive.
52- Si informò pertanto presso di loro dell'ora in cui ebbe il miglioramento; gli dissero, dunque, che la febbre lo lasciò ieri all'ora settima.
53- Il padre riconobbe che quella era l'ora in cui Gesù gli disse: <<Tuo figlio vive>>, e credette lui e tutta la sua casa.
54- Ora, Gesù fece di nuovo questo secondo segno, quando venne dalla Giudea alla Galilea.


Note generali alla sezione 4,43-54


Quest'ultima sezione del cap.4 presenta non poche difficoltà non solo strutturali, ma anche interpretative. Quanto alla struttura narrativa, questa è abbastanza semplice e immediata:

vv.43-45 formano il preambolo al racconto di guarigione del figlio del funzionario regio;

vv.46-47: versetti introduttivi al racconto;

vv.48-50: il dialogo tra Gesù e il funzionario regio;

vv.51-53: la constatazione dell'avvenuta guarigione e la risposta di fede;

v.54: nota redazionale conclusiva, che con l'espressione “venne dalla Giudea alla Galilea” funge da inclusione sia con il v.3 che con il v.47. Quest'ultima inclusione delinea l'unità narrativa in questione.


All'interno di questa struttura narrativa si pongono delle incongruenze, che urtano con la logica del racconto e suonano come una stonatura, così che se venissero tolte la narrazione non solo non ne risentirebbe, ma il suo flusso diverrebbe più scorrevole e armonico. Tuttavia queste ci sono e vanno, nei limiti del possibile, spiegate. Mi sto riferendo ai vv.44.45.48.49, che affronteremo nell'apposito commento.

Il racconto sembra essere stato mutuato dai Sinottici58 e poi elaborato a modo proprio da Giovanni. Vi sono, infatti significativi punti di contatto in particolar modo con il racconto lucano59: il luogo comune a tutti e tre è Cafarnao; in tutti tre i casi la guarigione avviene a distanza e in tutti tre il richiedente è una persona di posizione elevata; in tutti tre i casi il beneficiario dell'intervento di Gesù è un ragazzo; sia in Matteo che in Giovanni si rileva che il ragazzo/figlio è stato guarito proprio a quell'ora; in tutti e tre si stigmatizza la fede scadente del mondo giudaico, ma per quest'ultimo aspetto Giovanni ha pasticciato non poco, creando problemi interpretativi. Infatti, se nei Sinottici il confronto è dichiarato, arrivando in Matteo ad una condanna netta del giudaismo (Mt 8,11-12), più attenuata in Luca, che si limita a sottolineare la grandezza di fede del centurione, che non ha eguali in Israele (Lc 7,9), in Giovanni le cose si complicano notevolmente. Giovanni punta direttamente il dito contro le modalità del credere dei Giudei, i quali sono chiusi nei confronti di Gesù e per credergli pretendono dei segni e dei prodigi. Questo biasimo viene espresso dal Gesù giovanneo nei due vv.44.48 ed è posto sotto forma di lamento nel v.44 (nessuno è profeta in patria) e sotto forma di rimprovero nel v.48 (“Se non vedete segni e prodigi non credete”). Sennonché i due vv.44.48, che vogliono esprimere questa critica alla fede dei Giudei, sono stati collocati nel racconto di guarigione in modo improprio. Entrambi i versetti, infatti, come vedremo nel corso del loro commento, fanno riferimento non al contesto del racconto, ma a situazioni diverse, che esulano dal racconto stesso, ma che Giovanni ha qui erroneamente richiamate, in parte facendone una forzatura, come per il v.44; in parte per una svista o per una cattiva lettura del v.45, che ha determinato l'inserimento del v.48. Non devono stupire queste cose, considerata la lunghissima gestazione del vangelo giovanneo e le numerose mani che vi hanno lavorato sopra60.

Questo racconto di guarigione ha delle somiglianze con quello delle nozze di Cana. È lo stesso autore che lo colloca in questo contesto e vi crea un doppio legame con il v.46, in cui da un lato crea una inclusione con l'espressione “Cana della Galilea”, che si ritrova in 2,1 e qui in 4,46; dall'altro si dice che Gesù “Venne pertanto di nuovo a Cana della Galilea, dove fece l'acqua vino” (v.46a) e in questo contesto colloca il funzionario regio: “E vi era un un funzionario del re, il cui figlio era infermo a Cafarnao” (v.46b). E similmente l'accostamento viene sottolineato al v.54, in cui si attesta “Ora, Gesù fece di nuovo questo secondo segno, quando venne dalla Giudea alla Galilea”. Un accostamento certamente non casuale. È dunque lo stesso autore che suggerisce al suo lettore di leggere assieme questi due racconti. Tra i due racconti, del resto, vi è una certa somiglianza stilistica e narrativa: entrambi hanno il medesimo contesto geografico: Cana di Galilea; in entrambi vi è una richiesta da parte di Maria e di un funzionario regio, che Gesù inizialmente sembra respingere, ma che la loro insistenza porta ad esaudire. In entrambi i racconti, dopo il miracolo vi è il riscontro che esso è avvenuto. Grazie a questo, discepoli e funzionario regio con la famiglia giungono alla pienezza della fede. Entrambi i racconti non sono seguiti né commentati da discorsi-riflessioni, che spingano il lettore ad un loro approfondimento61.

I punti di contatto tra i due racconti, letti in prospettiva teologica, sembrano essere i seguenti:

  1. In nozze di Cana si dice che “al terzo giorno […] Gesù manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”; nel racconto di guarigione questa avviene nel terzo giorno o comunque va a cadere in un terzo tempo, dopo i due giorni dei Samaritani e in cui per tre volte si sottolinea che “tuo figlio vive”. In entrambi, quindi, vi è un richiamo alla risurrezione, non solo fonte di vita e fondamento del credere, ma anche di trasformazione e rinnovamento cultuale ed esistenziale;

  1. In nozze di Cana si sottolinea la trasformazione dell'acqua del culto giudaico nel vino della nuovo culto; nel racconto di guarigione Gesù trasforma un pagano o un giudeo, non è chiaro a cosa alluda il termine “basilikÕj” (basilikòs, funzionario regio) in un nuovo credente;

  1. In nozze di Cana il racconto termina con i discepoli che di fronte alla manifestazione della sua gloria (allusione alla risurrezione) credettero in lui; anche il racconto di guarigione termina con un'attestazione di fede di fronte al manifestarsi di una vita rinnovata del figlio che, ormai nelle mani della morte, ora invece vive.


Il racconto (vv.46-54) si snoda su di una struttura a parallelismi concentrici in E), così come di seguito:

A) v.46: si attesta la venuta di Gesù a Cana di Galilea dove si compirà il secondo segno, preannunciato dallo stato di bisogno del padre e del figlio, che versa in pericolo di morte;

B) v.47: il padre del ragazzo moribondo si reca da Gesù e lo supplica perché guarisca suo figlio;

C) v.48: Gesù si lamenta perché non si crede se non si vedono segni e prodigi;


D) v.49: Il funzionario regio invita Gesù a scendere a Cafarnao in soccorso del figlio morente;


E) v.50): il versetto costituisce il cuore dell'intero racconto. Qui si evidenzia da un lato la potenza della parola di Gesù, fonte di vita; dall'altra la risposta di fede del funzionario regio nella parola onnipotente di Gesù capace non solo di restituire la vita al figlio, ma anche di mettere in un cammino di vita lo stesso funzionario (“e se ne andava”);

D') v.51: I servi salgono da Cafarnao verso il funzionario regio e gli attestano l'esaudimento della sua preghiera;

C') v.52: Il padre si informa presso i servi quando il figlio ha incominciato a migliorare. Soltanto dopo aver constato l'efficacia della parola di Gesù egli crede; cioè soltanto dopo aver toccato con mano il miracolo;

B') v.53: il padre riconosce che quella era l'ora in cui Gesù guarì suo figlio;

A') v.54: si attesta che Gesù, venuto a Cana di Galilea, fece questo secondo segno.


Commento al cap. 4,43-54


I vv.43-45 costituiscono il preambolo introduttivo al racconto della guarigione del figlio del funzionario regio e ne forniscono in qualche modo la chiave di lettura. Il v.43, infatti, allude in qualche modo alla vita che sgorga dalla risurrezione di Gesù e investe ogni credente, benché il v.44 avverta della difficoltà dell'accogliere questa vita che proviene da Gesù; mentre il v.45, in una prospettiva positiva, riagganciandosi a 2,23-25, segnala la favorevole evoluzione dei galilei verso Gesù, che nel cap.4 vengono in tal modo associati ai samaritani, segnando assieme ad essi un progresso positivo della missione di Gesù. Tutti elementi questi che si riscontrano all'interno del racconto dove si parla della potenza di vita che esce dalla parola di Gesù, capace di rigenerarla nel credente (v.50); dove il padre indaga presso i suoi servi per sapere se siano state proprio le parole di Gesù ad aver guarito suo figlio e, constata la verità dell'evento (vv.51-52), solo allora si apre alla fede con la propria famiglia (v.53).

Il v.43 chiude il racconto della Samaritana e rimette in cammino Gesù verso la Galilea; un viaggio che intrapreso con il v.3 si era subito interrotto al v.4, che deviava Gesù in Samaria, sottolineando con quel “bisognava” come anche i samaritani rientrassero nel progetto salvifico del Padre, che si stava attuando in Gesù.

Il v.43 si apre con un'annotazione di tempo, “Dopo due giorni”, che riprende il v.40, dove si attesta che Gesù “rimase là due giorni”. Il richiamo temporale se da un lato dà continuità logica e cronologica alla narrazione, dall'altro, lascia intendere che il racconto della guarigione è posto al terzo giorno, richiamando da vicino la risurrezione di Gesù, il giorno in cui prende forma la nuova vita. L'espressione “Dopo due giorni” ricorda da vicino Os 6,2: “Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza”; un versetto attorno al quale sembra costruito questo racconto di guarigione. Al figlio del funzionario regio morente (vv.47.49), infatti, la vita viene restituita “dopo due giorni” (v.43), mentre al terzo giorno “ci farà rialzare”, che nel nostro contesto narrativo fa pensare sia al padre che al figlio guarito, del quale si dice per tre volte che “vive”, lasciando intendere l'instaurarsi di una nuova vita. Anche il padre, poi, viene rialzato dalla sua condizione di non credente, aprendolo ad una nuova vita, così che “noi vivremo alla sua presenza”, che sempre nel nostro contesto narrativo allude alla definitiva conversione del funzionario regio e della sua famiglia. Il v.43, quindi, lascia intendere come la guarigione del figlio del funzionario regio ha in qualche modo attinenza con la risurrezione di Gesù e come la nuova vita che si è generata in loro provenga dalla potenza della parola del Risorto, che si è fatto Parola di vita. Vedremo, infatti, come questo racconto di guarigione diventa una sorta di metafora dell'uomo, che incontrando la potenza della parola del Risorto, pregna della sua stessa vita, viene generato alla nuova vita credente, che lo colloca in Dio, rendendolo partecipe della sua stessa vita, così che “chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (3,16b).

Il v.44 costituisce un problema, poiché si pone in un contesto narrativo sbagliato. Il versetto, infatti, si apre con un “g¦r” (gàr, infatti) dichiarativo che lo lega al v.43, in cui Gesù lascia la Samaria e prosegue il suo viaggio verso la Galilea. Esso sembra fornire il motivo per cui Gesù lascia la Samaria: “Infatti Gesù stesso asserì che un profeta non ha stima nella propria patria”. Ma il racconto della Samaritana e in particolar modo i vv.28-30.39-42 dicono esattamente il contrario: Gesù è stato accolto molto bene, anzi i samaritani lo hanno supplicato di rimanere con loro e al termine dei due giorni essi giunsero a confessare Gesù come il vero salvatore del mondo. Un pieno successo! Perché, dunque, Gesù si lamenta “che un profeta non ha stima nella propria patria”? L'espressione la troviamo sostanzialmente identica anche nei Sinottici62 ed è inserita in un contesto di diffidenza, di incredulità e di inintelligenza nei confronti di Gesù e della sua parola. Per trovare un simile contesto in Giovanni dobbiamo fare un salto indietro al 2,18-20, in cui Gesù si scontra con le autorità del tempio dopo la cacciata dei venditori; in 2,23-25 in cui Gesù si lamenta della superficialità della fede di coloro che hanno assistito ai suoi segni; in 3,1-10 dove si trova la difficoltà di comprendere da parte di Nicodemo (3,1-10); e, infine, in 3,23-26 in cui si segnala la rivalità tra Gesù e il gruppo dei battisti (3,23-26), che consiglierà a Gesù di lasciare la Giudea per la Galilea (4,3). L'insieme di queste cose formano il contesto di delusione e di amarezza in cui Gesù è venuto a trovarsi e con questo contesto si sposa bene il suo sfogo: “un profeta non ha stima nella propria patria”. Se il contesto, dunque, a cui si riferisce il v.44 sono i capp.2 e 3, perché la sentenza si trova fuori da questo contesto ed è collocata, qui al v.4,44, in un contesto del tutto positivo? Nasce il sospetto che il racconto originale non comprendesse quello della Samaritana (vv.4-42), aggiunto in un secondo momento, dopo i successi della predicazione in Samaria (At 8,5-8.12.14-17.25)63. Se si togliesse, infatti, il racconto della Samaritana il testo, che riteniamo originale, suonerebbe così: “Quando dunque il Signore apprese che i Farisei udirono che Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni, sebbene Gesù stesso non battezzasse, ma i suoi discepoli, lasciò la Giudea e di nuovo andò in Galilea. […] Infatti Gesù stesso asserì che un profeta non ha stima nella propria patria. Allorché dunque andò nella Galilea, lo accolsero i Galilei, avendo visto tutte quante quelle cose che fece in Gerusalemme durante la festa, anch'essi, infatti, vennero alla festa. Venne pertanto di nuovo a Cana della Galilea, dove fece l'acqua vino. E vi era un un funzionario del re, il cui figlio era infermo a Cafarnao”. In tal modo tutto torna al suo posto: la logica narrativa è rispettata e la narrazione diviene più scorrevole. Un segnale di questo inserimento sono i vv. 4 e 43, che aprono e chiudono il racconto della Samaritana, per poi riprendere quel viaggio iniziato al v.3 e interrotto con il v.4.

Un appunto, infine, va fatto al sostantivo “patria” del v.44, che non va inteso come il luogo di origine geografica di Gesù o di sua appartenenza etnica, ma come il luogo elettivo a cui il Gesù giovanneo ha dedicato gran parte della sua missione e in cui si sono compiuti i misteri della salvezza. La salvezza, dirà infatti Gesù, viene dai Giudei (4,22). È la Giudea, infatti, l'erede delle promesse64, che si sono compiute in Gesù (Mt 5,17) e Gesù è il frutto di queste promesse. In questo senso la Giudea diviene la patria di Gesù, una patria teologica.

Il v.45 è singolare, poiché inaspettatamente richiama qui i vv.2,23-25, in cui si diceva che “molti credettero nel suo nome, osservando i suoi segni che faceva. Ma egli, Gesù, non si fidava di loro poiché egli conosceva tutti [...]”. Gesù non si fidava della fede di queste persone; una valutazione, quindi, del tutto negativa. Perché, dunque, richiamare qui in 4,45 quei “molti” di cui Gesù non si fidava? È indubbio che questi galilei del v.4,45 facessero parte di quei “molti” indicati ai vv.2,23-25, poiché quel contesto là viene richiamato qui al v.4,45: “[...] lo accolsero i Galilei, avendo visto tutte quante quelle cose che fece in Gerusalemme durante la festa, anch'essi, infatti, vennero alla festa”. Il richiamo non è casuale, poiché l'autore, come ha messo in luce la positività dei samaritani convertitisi alla sua parola (vv.41-42), ora vuole rilevare l'evoluzione positiva che ha avuto il suo annuncio presso i galilei, per reputazione assimilabili in qualche modo ai samaritani. In altri termini, sono proprio loro, gli eretici, i lontani dalla purezza della Tradizione, i pagani che si aprono all'annuncio, che viene, invece, rifiutato dai Giudei. Il v.45, infatti, parla di un'evoluzione spirituale positiva di quei giudei che erano presenti a Gerusalemme ed avevano visto le opere di Gesù. Infatti vi sono nel v.45 due elementi rilevanti che suggeriscono questo: a) si attesta che i galilei “accolsero” Gesù, indicando la loro apertura accogliente nei suoi confronti; b) si afferma che essi “videro” tutte quante le cose che Gesù fece a Gerusalemme. Il verbo greco usato qui per esprimere il vedere dei galilei è “˜wrakÒtej” (eorakótes), participio perfetto del verbo “Ðr£w” (oráo), che nel linguaggio degli evangelisti e in particolar modo di Giovanni65 indica un vedere superiore, che travalica l'apparenza delle cose e dice il vedere proprio della fede giunta a sua pienezza. La forma verbale qui usata è il perfetto indicativo, che indica uno stato presente come conseguenza di un'azione passata; in altri termini il loro vedere, oggi, è frutto di quel vedere ancora imperfetto di cui al v.2,23. In 2,23, infatti, il verbo greco usato per indicare il vedere i segni di Gesù è “qewroàntej” (tzeorûntes), che indica un vedere inadeguato, un vedere che se da un lato si lascia ancora prendere dalle apparenze delle cose, tuttavia, dall'altro, segnala che si sta interrogando sugli eventi che si vedono, costituendo in tal modo un prodromo al vedere proprio della fede, che compare qui al v. 4,45 in tutta la sua pienezza.

Da un punto di vista teologico e narrativo, pertanto, il v.45 crea un alone di positività attorno ai personaggi che si muoveranno nel racconto della guarigione del figlio del funzionario regio, che si concluderà, infatti, molto positivamente con la conversione dello stesso funzionario e della sua casa.

I vv.46-47 formano la parte introduttiva del racconto di guarigione. Il v.46a attesta che Gesù “Venne pertanto di nuovo a Cana della Galilea, dove fece l'acqua vino”. Questa precisazione non è casuale, ma intende legare questo racconto a quello delle nozze di Cana e la sottolineatura “dove fece l'acqua vino” spinge a leggere il racconto di guarigione come una trasformazione da morte a vita (vv.50.51.53), che porterà gli attori dell'episodio ad una rinascita spirituale (v.53). La seconda parte del v.46 presenta sia gli attori principali che la situazione di gravità in cui padre e figlio versano: il figlio è morente (vv.47.49) e il padre vede nel proprio figlio morire una parte di sé. Le due figure, quindi, sono strettamente legate tra loro nel medesimo dramma. È dunque un padre disperato e impotente di fronte ad una situazione che mina gravemente le loro vite; un padre che da Cafarnao dove il figlio si trovava e dove anche lui probabilmente abitava giunge fino a Cana, percorrendo circa 30 km. Del padre si dice che è un “basilikÕj” (basilikòs), cioè un funzionario regio, quindi un personaggio al servizio di quel Erode Antipa66, tetrarca della Galilea e della Perea, sotto il quale Gesù patirà la sua morte e dal quale fu dileggiato e considerato alla stregua di un saltimbanco (Lc 23,6-9.11). Non è, quindi, da escludersi che la scelta di un funzionario regio al servizio di Erode Antipa e che ricorre a Gesù per ottenere la salvezza di suo figlio non nasconda una sottile ironia lanciata contro Antipa, lui il re potente, che non è in grado di dare la salvezza, mentre i suoi servitori si fanno discepoli di colui che egli aveva disprezzato, deriso e perseguitato. Chi è dunque il vero re? Chi il vero signore? Quanto al figlio si dice che “era infermo”. Il il verbo greco che indica lo stato di infermità è “ºsqšnei” (estzéni, era infermo), posto all'imperfetto indicativo per indicare uno stato di malattia persistente e duraturo; ma il verbo “¢sqenšw” (astzenéo) dice molto di più di una semplice infermità, poiché esso significa “essere debole, fiacco, languido, senza vigore, privo di forze, malaticcio”. Insomma, si tratta di un'infermità che è andata ad intaccare e a corrodere le radici più profonde della vita stessa, esprimendone tutta la debolezza e togliendole ogni speranza. Si tratta, dunque, di un'infermità che era divenuta una sorta di condizione esistenziale di quel povero ragazzo, uno stato di vita, che aveva come unica prospettiva la morte (vv.47.49). Una simile infermità diviene pertanto metafora della condizione di vita, in cui l'uomo era caduto con la colpa originale.

Il v.47 è interamente incentrato sul padre, che è qualificato da tre verbi: “avendo udito”, “andò da lui” e “lo pregava affinché ...”. Ciò che mette in moto il padre verso la salvezza è “l'aver udito” parlare di Gesù. L'ascolto della Parola, dunque, sta all'origine di ogni movimento di salvezza. Ed è proprio questo ascolto che lo muove verso Gesù: “andò da lui” in cui quel “da” è reso in greco con “prÕj” (pròs) + l'accusativo ed indica la direzione, l'orientamento che il funzionario dà alla propria vita: egli si sta muovendo verso Gesù; ed infine “lo pregava” per ottenere la salvezza di suo figlio prostrato da uno stato di debolezza generale che lo stava conducendo alla morte. “Lo pregava”, il verbo greco “rwt£w” (erotáo) significa pregare, domandare ed è posto all'imperfetto indicativo, che esprime l'insistenza e la persistenza di questa preghiera di domanda finalizzata ad ottenere la salvezza per il proprio figlio. I movimenti di questo funzionario regio descrivono il cammino di conversione proprio di ogni credente: l'ascolto della parola muove ed orienta esistenzialmente verso Gesù e l'umiltà del domandare, che nasce dalla coscienza del proprio stato di debolezza endemica, apre alla salvezza l'uomo ad essa disponibile, trasformandolo in vero credente. Padre e figlio, dunque, assurgono a metafora di un'umanità bisognosa di redenzione e di riscatto: il figlio, prostrato dal suo profondo stato di debolezza esistenziale, che gli offre come unico futuro la morte, è metafora dell'umanità colpita dal peccato, che le ha tolto ogni speranza di salvezza. Paolo ricorderà alla comunità di Roma questa condizione propria di ogni uomo: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23). Il padre, invece, è metafora del cammino che ogni uomo è chiamato a percorrere per giungere alla salvezza.

I vv.48-49 costituiscono un serio problema perché all'interno dell'armonia del racconto suonano come una forzatura. Il v.48 costituisce la risposta alla supplica del funzionario regio (v.47), ma vi è già da subito un'incongruenza: Gesù si rivolge a lui, ma il rimprovero è rivolto ad una seconda persona plurale: “Gesù disse verso di lui: <<Se non vedete segni e prodigi, non credete>>”. Forse con questo rimprovero Gesù intendeva riprendere in senso generale la pochezza di fede della gente, approfittando dell'occasione? Ma al di là di questa incongruenza, almeno apparentemente tale, non si capisce bene cosa centri questo versetto con il resto del racconto. L'insieme del racconto, infatti, presenta in termini molto positivi il funzionario regio così che non si capisce bene il senso di questo rimprovero e a chi è rivolto. Forse il senso di questo rimprovero anticipa in qualche modo quella che potrebbe essere l'espressione di una fede debole del funzionario regio, allorché ottenuta notizia sul rinato stato di salute del figlio, questi indaga presso i servi i tempi della guarigione e soltanto dopo essersi accertato che questi coincidevano con le parole di Gesù, egli credette (vv.52-53). Ma anche questa soluzione è debole e non giustifica appieno la presenza del v.48. Quanto al v.49 esso costituisce una sorta di doppione del v.47b. Insomma, a ben guardare questi due versetti sembrano essere pleonastici rispetto all'intero racconto; prova ne è che se questi venissero tolti il racconto non ne risentirebbe se non positivamente, acquistando scorrevolezza e armonia. Ecco, quindi, come diverrebbe il racconto senza i vv.48-49: “Questi, avendo udito che Gesù era giunto in Galilea dalla Giudea, andò da lui e (lo) pregava affinché scendesse e guarisse suo figlio, perché stava per morire. […] Gli dice Gesù: <<Vai, tuo figlio vive>>. L'uomo credette alla parola che gli disse Gesù e se ne andava”. Tutto più conciso, tutto più lineare, una sinfonia. Il sospetto che nasce a questo punto è che l'autore nel ritoccare il racconto abbia dimenticato di togliere i due versetti incriminati. Forse Giovanni aveva dato inizialmente una certa impronta al suo racconto, che poi modificò, ma dimenticandosi di togliere i vv.48-49. Non riusciamo a dare una diversa spiegazione.

Il v.50, molto denso e pregno di significati, costituisce il cuore dell'intero racconto: “Gli dice Gesù: <<Vai, tuo figlio vive>>. L'uomo credette alla parola che gli disse Gesù e se ne andava”. Il versetto, suddivisibile in quattro tempi, inizia con un'esortazione, un comando da parte di Gesù: “PoreÚou” (Poreúu, Vai) e termina con lo stesso verbo, in cui il comando viene eseguito: “™poreÚeto” (eporeúeto, se ne andava). All'interno di questi due verbi, il primo posto al presente indicativo e il secondo all'imperfetto indicativo, si colloca, da un lato, la parola di Gesù, che non è un comando, ma soltanto un annuncio: “tuo figlio vive”; dall'altro, la risposta di fede del funzionario regio: “L'uomo credette alla parola che gli disse Gesù”. Per meglio comprendere il senso dei due verbi, è opportuno partire dall'interno del versetto, contenuto tra i due verbi. Già si è detto che Gesù, come nelle nozze di Cana, non pronuncia un comando, ma compie un annuncio, che ha attinenza con la vita: “tuo figlio vive”; un'espressione che risuona all'interno del racconto per ben tre volte (vv.50.51.53), in cui il verbo compare sempre al presente indicativo, lasciando intendere come questa vivere non solo si colloca qui e ora nel presente, ma continua ad esprimersi come vita nel tempo. Un vivere che, ripetuto per tre volte, possiede in sé un forte dinamismo. Il tre, infatti, compendia in se stesso la dinamica stessa di tutte le cose: un principio, un centro e una fine67, indicando un dinamismo pienamente compiuto; un tre che richiama il tempo in cui si è formata la vita, che si è pienamente manifestata in tutta la sua potenza al terzo giorno, proprio il giorno in cui è posto questo racconto di guarigione. E ciò che il funzionario regio crede non è una promessa fatta da Gesù, ma crede nel suo annuncio: “tuo figlio vive”. Una fede, dunque, che nasce dall'annuncio della parola di Gesù; una parola che possiede in se stessa il dinamismo proprio della vita ed è capace di infonderla, così come la infuse alla Samaritana (vv.13-15) e ai suoi connazionali (vv.41-42); è la stessa parola del Risorto, colui che vive nei secoli: “Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1,17b-18); è quella parola che la lettera agli Ebrei definisce come “viva ed efficace” (Eb 4,12), cioè una Parola che è un essere vivente, una parola che possiede in se stessa la vita ed è efficace, cioè produce ciò che dice; è la stessa Parola che risuonò per la prima volta nel silenzio della creazione: “E Dio disse” (Gen 1,3ss) e da cui prese forma e vita la creazione stessa. Essa è quel Logos che Giovanni ha contemplato nell'eternità del Padre (Gv 1,1-2) e che si è fatto carne ed è venuto in mezzo a noi (Gv 1,14) per infonderci la vita (Gv 1,4) e per mezzo del quale tutto è stato fatto e niente senza di lui fu fatto (1,3). Ed è proprio questa la Parola che contiene in sé l'annuncio, capace di donare la vita. Ed è qui che l'evangelista perde le dimensioni del racconto stesso, facendolo accedere all'universalità di un vero e proprio annuncio. Se si nota, infatti, la risposta di fede all'annuncio di vita non è più dato dal funzionario regio, ma da “Ð ¥nqrwpoj” (o ántzropos), cioè da “l'uomo”, che in greco è espresso con un termine che indica l'uomo in senso generale, anche se l'articolo determinativo posto davanti al termine uomo non si sgancia totalmente dal racconto, alludendo così al funzionario regio.

Chiarito il senso di ciò che sta tra i due verbi, cioè l'annuncio di vita, che trova il suo vertice nel Risorto, la cui parola, se accolta, è capace di trasformare l'uomo in credente, rendendolo partecipe della stessa vita divina, ora diventa più comprensibile anche il significato del verbo “poreÚw” (poreúo), che all'inizio del v.50 si esprime con un comando esortativo da parte di Gesù, mentre al termine del versetto attesta l'esecuzione-attuazione del comando da parte dell'uomo. Il verbo “poreúo” significa “andare, venire”, ma anche “camminare, viaggiare, partire”. L'ordine che Gesù impartisce, dunque, assume la forma di una sorta di mandato: “Vai”, il cui contenuto è l'annuncio della Parola di vita che sgorga dalla risurrezione. Questa non è affidata a dei professionisti dell'annuncio, ma come nel caso della Samaritana, essa è affidata “all'uomo” divenuto credente. Il verbo con cui si conclude il versetto, infatti, è “™poreÚeto(eporeúeto), posto all'imperfetto indicativo, che indica un'azione che si protrae nel tempo, sottolineandone la costanza e la persistenza e, quindi, la fedeltà alla risposta di fede data, e dice come quell'uomo, sul comando di Gesù se ne andava, si era messo in cammino portando con sé l'annuncio di vita. Già nel v.50b si preannuncia l'apertura di fede di questo funzionario regio e dell'uomo. Sullo stimolo della Parola accolta (“Vai”) inizia un viaggio che troverà la sua pienezza al v.53b in cui “credette lui e tutta la sua casa”.

vv.51-53: con questi versetti si chiude il racconto di guarigione del figlio del funzionario regio. L'attenzione è qui accentrata soltanto sul padre e sugli effetti conseguenti al suo aver accolto la parola di vita del Risorto. Sono versetti che parlano di una ricerca della verità, di un riscontro sulla veridicità di quanto Gesù ha detto. Risuona qui in qualche modo il v.48: “Pertanto Gesù disse verso di lui: <<Se non vedete segni e prodigi, non credete>>”. Il momento del grande fervore dato dall'incontro con Gesù e che lo aveva portato a credere alla sua parola ora sta scemando. Sorge il dubbio sulla veridicità di questa Parola. C'è bisogno di un riscontro nei fatti. È ancora una fede debole e fragile, che lo porta ad allontanarsi da Gesù e a discendere a Cafarnao, il luogo dove egli abita. Egli, pertanto, ritorna a casa, ma ora non è più solo con il suo carico di disperazione, l'accompagna la Parola di vita: “Tuo figlio vive”. In lui è stata accesa una forte speranza sulla quale tuttavia grava il dubbio della verità. Una scena simile la si riscontra in chiusura del racconto della scoperta della tomba vuota, dove il discepolo prediletto “vide e credette” (20,8), ma non ancora in modo sufficiente: “infatti non avevano ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti” (20,9); per questo, allontanatisi dalla loro scoperta, l'evangelista constata amaramente che “I discepoli dunque se ne tornarono di nuovo presso di loro” (20,10). Così come avvenne per i due discepoli di Emmaus, che si allontanavano da Gerusalemme con in cuore tanta amarezza e tanta delusione: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute.” (Lc 24,21); ma sul loro cammino incontrano anch'essi la Parola di vita (Lc 24,15), che riaccende la speranza nei loro cuori delusi e tutto cambia, tutto si illumina: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32). Il Risorto ora lo si può incontrare solo nella sua Parola, solo nelle Scritture e l'incontro ti cambierà la vita: dalla delusione alla speranza, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita. Ed è ciò che riscontrerà il padre del ragazzo sul suo cammino di fede ancora incerto: egli incontra i servi e sulle loro labbra risuonano nuovamente le parole del Risorto: “Tuo figlio vive”, quasi come un'eco ormai lontana. Si noti come proprio nel momento in cui il funzionario sembra ritornare al suo mondo antico, incontra “i suoi servi”. Certo, secondo le logiche narrative sono i servi del funzionario regio, ma in Giovanni non di rado le immagini hanno una double face. Sono loro, infatti, i servi della sua casa che gli confermano l'annuncio di Gesù e ne diventano testimoni di prima istanza. Essi sono l'immagine della comunità credente al cui interno il nuovo credente trova conferma alla sua fede e ogni dubbio gli è fugato. Si riaccende, quindi, la speranza nel cuore del padre, che si stava allontanando da Gesù e stava ritornando alla sua casa, alla sua antica vita di sempre, al suo antico mondo, e chiede ai servi l'ora in cui era avvenuto il miglioramento in suo figlio; la risposta è folgorante: “gli dissero, dunque, che la febbre lo lasciò ieri all'ora settima”. L'ora settima, che corrisponde alle una pomeridiane, l'ora della pienezza della luce, l'ora della illuminazione, l'ora della manifestazione e della rivelazione; ma è anche la “settima” ora, in cui la presenza del “sette” parla di compimento, così come Dio nel settimo giorno portò a compimento la sua opera (Gen 2,2). Per tre volte in due versetti ricorre il termine “ora” e si scopre che questa è la settima ora, il tempo in cui Dio portò a compimento la sua opera nel suo Cristo: “Questa è l'opera di Dio, che crediate in colui che egli ha mandato” (6,29). Ed ecco che l'opera iniziata da Gesù viene ora portata a compimento: “Il padre riconobbe che quella era l'ora in cui Gesù gli disse: <<Tuo figlio vive>>, e credette lui e tutta la sua casa”. E per l'uomo e la sua sua casa si aprono le porte della vita eterna, che è vita divina, dono di amore del Padre all'uomo, avvolto nel suo peccato: “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna” (3,16).

Una nota ancora va riservata alla “settima ora”, che costituisce un ulteriore punto di contatto con il racconto delle nozze di Cana. Questo si apre con un'annotazione di tempo: “E al terzo giorno ci fu una festa nuziale in Cana della Galilea” (2,1a). Ma questo “terzo giorno”, già lo si è visto nel commento al cap.2,1 (pagg.3ss), in quanto che prosegue la scansione narrativa dei giorni (1,19.29.35.43), è in realtà il “settimo giorno”, il giorno in cui Gesù manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui (2,11). Vi è, dunque, un forte legame tra i due racconti, poiché tutti due annunciano che è il settimo giorno o la settima ora il tempo della piena rivelazione, il tempo in cui Dio ha portato a compimento la nuova creazione a cui si accede per mezzo della fede.

Un'ultima nota, infine, va posta sull'annuncio dei servi: “gli dissero, dunque, che la febbre lo lasciò ieri all'ora settima”. Similmente Mt 8,14-15 e Mc 1,30-31 raccontano come Gesù accostatosi alla suocera di Pietro la toccò e la febbre la lasciò all'istante. La febbre, dunque, descrive lo stato di prostrazione, che da un lato relega senza speranze la suocera di Pietro a giacere nel letto, mentre il figlio del funzionario regio è da questa ridotto in uno stato di grave prostrazione (ºsqšnei, estzénei) e sospinto verso il baratro della morte. Sono tutte metafore del degrado esistenziale in cui l'uomo versa da dopo la colpa originale, incapace di relazionarsi nel giusto modo con il suo Dio, incapace di intrattenere dei giusti rapporti sociali, mentre tutto il suo vivere è posto sotto il segno della morte e del morire, così come constata amaramente con rassegnazione il Salmista: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo” (89,10). L'incontro con Gesù fa si che questa febbre demoniaca della colpa originale, che ha ridotto l'uomo ad uno stato larvale, lo abbandoni, restituendolo alla vita eterna, che è per Giovanni la vita divina stessa. Sono questi gli effetti della settima ora, l'ora in cui si compie il giudizio di questo mondo; l'ora in cui il capo di questo mondo sarà buttato fuori (12,31; 16,16,11).

Il v.54 è una nota redazionale con cui si chiude l'ampia sezione “da Cana a Cana” (2,1-4,54) e si rileva che “Gesù fece di nuovo questo secondo segno, quando venne dalla Giudea alla Galilea”. Si tratta di un modo un po' contorto per dire che “Gesù fece nuovamente un altro segno qui a Cana di Galilea, il secondo segno”. Il fatto che l'autore sottolinei che questo è il secondo segno che si compie nel medesimo contesto geografico non è certo per numerare i segni, ma soltanto per collegare questo segno di guarigione e di liberazione con quello delle nozze di Cana, che come si è detto ha numerosi punti di contatto con quest'ultimo racconto (cfr. pagg. 35-36). Se sommiamo tra loro i significati dei due racconti vediamo che ne esce un quadro teologicamente rilevante: con le nozze di Cana si attesta il rivoluzionario rinnovamento cultuale che Gesù è venuto a portare all'interno del culto giudaico, sostituendo l'antico culto e i relativi annessi, Tempio e sacrifici, con se stesso e come il suo corpo risorto sia divenuto il nuovo Tempio in cui il nuovo credente è chiamato a celebrarvi un culto nuovo, non più fatto di sacrifici di animali, ma associando la propria vita a quella del Risorto, facendo della sua vita un sacrificio spirituale a Dio gradito (Rm12,1); mentre in quest'ultimo racconto di guarigione si attesta il rinnovamento di vita rigenerante e liberante, che produce nel credente la Parola accolta del Risorto, che ha la sua conferma e il suo sostentamento nella comunità credente. Il tutto è strettamente legato alla vita nuova che è sgorgata e continua a sgorgare dalla risurrezione. Si tratta, dunque, di un'unica grande tematica, che parla di rinnovamento e di vita nuova strettamente legati al Risorto, colto come fonte di vita nuova e rigenerante, che ricolloca il credente nella dimensione divina da cui proviene.



Giovanni Lonardi


N O T E

1A seguito della guerra siro-efraimita (735-732 a.C.), che voleva punire Acaz (735-716) per il suo rifiuto di entrare nella Lega anti-Assira, la Galilea venne assoggettata da Tiglat-Pilezer III all'amministrazione assira e nel 722, con la definitiva distruzione del regno del Nord ad opera di Sargon II, vi rimase definitivamente, passando intorno al 606, con la caduta dell'Assiria ad opera dei Babilonesi, sotto l'impero babilonese; successivamente, nel 538 a.C. passò sotto l'impero Persiano e nel 333 sotto gli ellenisti e da qui fino alle guerre maccabaite di liberazione (167-164 a.C.). Cfr E.R Galbiati-A.Aletti, Atlante storico della Bibbia, op. cit. - Cfr anche A.R. Carmona, La religione ebraica - Storia e Teologia, pag. 138 - Edizioni S.Paolo 2005, Cinisello Balsamo - MI.

2In Luca compaiono due racconti in cui protagonisti sono dei Samaritani: la parabola del “Buon Samaritano” (Lc 10,30-35) e “la guarigione dei dieci lebbrosi” (Lc 17,12-19). Benché in questi racconti lucani i samaritani vengano elogiati, tuttavia non bisogna lasciarsi trarre in inganno, poiché qui l'evangelista sfrutta la notorietà del discredito di questa categoria di persone, per colpire il perbenismo dei Giudei e certamente non intendeva difendere la reputazione dei Samaritani. Nonostante ciò va sottolineato come Luca, proveniente dal mondo greco, avesse una particolare predilezione per il mondo pagano, che affiora prepotentemente in tutto il suo vangelo.

3Il senso di quel “lasciò” è reso in greco con “¢fÁken” (afêken), che significa lasciar andare, mandare via e contiene in sé il senso di abbandonare, respingere.

4Cfr. Gv 1,24; 7,19.25.32; 8,3.6.37.40; 9,22; 11,47-53.57; 12,42

5Sulla questione cfr. il titolo “Il contesto storico e culturale in cui si è formato il vangelo” a pag.3 della Parte Introduttiva della presente opera.

6Vi sono diversi testi importanti, provenienti dall'Egitto che qui traducono “Quando il Signore venne a sapere che ...”; altri importanti codici occidentali presentano la lezione “Gesù”. Secondo il Brown il testo originale doveva essere “Quando egli venne a sapere che ...”, mentre le lezioni precedenti dovevano essere state tentativi degli scribi di precisare il pronome “egli”. Comunque venga posta la cosa l'apertura del v.1 rimane sempre un po' strana e lascia perplesso il lettore e l'esegeta al loro primo impatto. - Sulla questione cfr. R.E. Brown, Giovanni, Ed. Cittadella Editrice, Assisi – quinta edizione 1999 – note al cap.4, nota n.1, pag.216 e Xavier Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, Edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo 1990 – pag.303

7Un'espressione questa di tipo redazionale, che ritroviamo diverse volte nel vangelo di Giovanni. Cfr. 3,22; 5,1.14; 6,1; 7,1; 19,38; 21,1

8Cfr. Gv 3,7.14.30; 4,1.20.24; 9,4; 10,16; 12,34; 20,9

9Cfr. Yves Simoens, Secondo Giovanni, Centro editoriale dehoniano, Bologna 2002 – pag.272

10Cfr. Angelico Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, Ed. Messaggero di S.Antonio, Padova, IV ed. 1998

11Cfr. E.R. Galbiati-A.Aletti, Atlante storico della Bibbia e dell'Antico Oriente, Editrice Massimo, prima edizione 1983

12Cfr. E.R. Galbiati-A.Aletti, Atlante storico della Bibbia e dell'Antico Oriente, Editrice Massimo, prima edizione 1983-Tav. 54, Itinerari di Gesù, pag.177

13Seguendo gli Atti degli Apostoli e le Lettere paoline si evince che Paolo compì tre viaggi: 1) Il primo viaggio missionario fu compiuto tra il 45 e il 48 d.C. e visitò Cipro, Antiochia di Psidia, Listra e Derbe; 2) il secondo viaggio si svolse tra il 49 e il 52 durante il quale visitò Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto; 3) il terzo viaggio impegnò il periodo 53-57 e visitò Efeso, Triade, Filippi, Corinto, Mileto. Fulcro di questo viaggio è Efeso. Compì, poi tre viaggi a Gerusalemme nel 38, 49 e 58-60, cercando di mantenere i contatti con la chiesa madre, spiegando ai responsabili la sua attività missionaria e i suoi successi. In queste occasioni tentò più volte di far accettare alla chiesa di Gerusalemme quelle etnocristiane da lui fondate, ma con scarso successo. È in questo contesto di tentativo di fraternizzazione che si inserisce l'attività della colletta a favore della chiesa madre di Gerusalemme, ma anche qui con scarsi successi, per le eccessive resistenze di quest'ultima, ancora troppo legata al giudaismo mosaico.

14Cfr. Rm 16,12; 1Cor 3,8; 15,10.58; 16,16; 2Cor 6,5; 11,23.27; Col 1,29; 1Ts 2,9; 3,5; 5,12; 1Tm 4,10; 5,17; 2Tm 2,6;

15Cfr. Mt 7,29; 21,23; 28,18; Mc 1,27; 11,28; Lc 4,32.36; 20,2

16Israele o Yzra'el significa letteralmente “Dio combatte”. Giacobbe, dopo aver attraversato il fiume Iabbok, si trova, in piena notte, a dover combattere fino all'alba con uno sconosciuto, che lo vincerà paralizzandogli una gamba. E come segno di quella notte gli cambierà il nome da Giacobbe in Israele: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!” (Gen 32,29).

17Sulla questione dello stile letterario del racconto giovanneo, cfr. la Parte Introduttiva a pag.48ss. In particolare, circa la tecnica del fraintendimento o malinteso, cfr. le pagg. 51-52

18Cfr. Is 54,5; 62,4.5; Ger 2,32; 3,1; Os 2,1-5.20-22

19Sul rapporto tra acqua e insegnamento della Torah cfr. Angela Maria Lupo, La sete, l'acqua e lo Spirito – Studio esegetico e teologico sulla connessione dei termini negli scritti giovannei, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2003 – pagg.170-174

20La Bibbia ebraica è composta da tre parti: la Torah scritta, cioè l'insegnamento che Dio aveva impartito al suo popolo per il tramite di Mosè; i Neviim, cioè i profeti e i Ketuvim cioè gli altri Scritti. Alla Torah scritta si era affiancata nel tempo anche la Torah orale, che costituiva l'interpretazione applicativa di quella scritta e che Gesù definirà come “dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7) e che nel tempo verrà rielaborata da Rabbi Yehudah ha-Nassì in Mishnah (200 d.C.). A sua volta essa fu commentata, generando così la Ghemarah, cioè il commento della Mishnah. L'insieme di Mishnah e Ghemarah andranno a formare, in modo definitivo, tra il IV e il VI sec. d.C., il Talmud. Di tutta questa enorme elaborazione i samaritani accoglievano soltanto la Torah scritta.

21Cfr. Mt 2,23; 4,13; Mc 1,9; Lc 1,26; 2,4.39.51; 4,16; Gv 1,45-46; 18,5.7; 19,19; At 2,22.

22Cfr. la voce “Samaritani” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme spa, Casale Monferrato, 1997.

23Cfr. Santi Grasso, il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma 2008 – nota 18 – pag.194.

24Sulla questione dell'attività missionaria della comunità giovannea a Samaria cfr. pagg.37-38 della Parte Introduttiva.

25Circa l'uso del verbo “conoscere” in Giovanni, cfr. pagg. 57-58 della Parte Introduttiva

26Sulla questione del rapporto del linguaggio giovanneo con la gnosi, cfr. pagg. 15-19 e 34 della Parte Introduttiva.

27Con la nuova traduzione CEI è stato apportata la correzione in “consegnò lo spirito”.

28Con tale espressione o comunque con espressioni che lo legano al dono viene indicato nel N.T. - cfr. Gv 3,4; 14,26; 15,26; 20,22; 1Gv 4,13; At 2,38; 5,32; 8,20; 10,45; 11,17; 2Tm 1,6-7; Eb 6,4

29Cfr. Pvr 1,23; Gl 3,1.2; At 2,17.18; 10,45

30Cfr. Gen 2,7; 1Re 19,12b-13; Gv 3,8; 20,22; At 2,2

31Per il commento sul rapporto acqua e Spirito rimandiamo a quello del cap.3, pagg. 15-16

32In una regione molto siccitosa come la Palestina riveste un'importanza vitale l'approvvigionamento dell'acqua. La creazione di pozzi, alimentati da sorgenti, o di cisterne dove raccogliere l'acqua piovana era, pertanto, indispensabile per la sopravvivenza propria e degli animali. I pozzi scavati si allargavano man mano che scendevano e superavano spesso la profondità di 20 mt fino a raggiungere i 30/35 mt e sovente erano rivestiti internamente di muratura e intonacati di bianco. Nei pozzi meno profondi era possibile scendere con una scala e attingere l'acqua direttamente con le mani, altrimenti ci si aiutava con un secchio. Per evitare incidenti si chiudeva l'imboccatura del pozzo con una lastra di pietra. A motivo dell'importanza che i pozzi rivestivano all'interno di una società dedita all'agricoltura e al pascolo di animali, considerata la scarsità di acqua, che non sempre i pozzi riuscivano a compensare, questi erano spesso motivo di litigi e contese tra i pastori. - Cfr. la voce “Pozzo” in Nuovo dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op.cit.

33Sulla questione si cfr. il titolo “Lingua e stile letterario”, pagg.48-55 della Parte Introduttiva.

34Cfr. Is 44,3; Ez 11,19; 36,26.27; 37,5.6.14; 39,29; Gl 3,1.2

35I vv.16-18, riguardanti il culto dei Samaritani, fanno riferimento a 2Re 17,24-41, che spiegano come ebbe origine l'inquinamento del culto jhawista e il rimescolamento della popolazione di Samaria con altre popolazioni coloniche. Si comprende, quindi, anche il perché i Giudei consideravano i samaritani alla stregua dei pagani. Il numero dei mariti/divinità citati dai vv.16-18 è cinque, con riferimento non tanto alle divinità, che da 2Re 17,29-31 si contano in numero di sette, ma alle diverse etnie che Sargon II (722-705 a.C.) trasferì dai territori babilonesi a quello della Samaria: “Il re d'Assiria mandò genti da Babilonia, da Cuta, da Avva, da Camat e da Sefarvaim e le sistemò nelle città della Samaria invece degli Israeliti. E quelli presero possesso della Samaria e si stabilirono nelle sue città” (2Re 17,24). Ognuna di queste portò con sé le proprie divinità e i relativi culti, che frammischiarono con il culto a Jhwh (2Re 17,29.32-33).

36Cfr. Is 54,5; 62,4.5; Ger 2,32; 3,1; Ez 16,32.45; Os 1,2; 2,4.9.18.21. Per il NT cfr. Ap 19,7; 21,2.9; 22,17

37Cfr. Eb 9,11-15; 10,5-10.12-23;

38Sul molteplice significato e uso del verbo vedere in Giovanni cfr. la voce “Vedere”, pagg. 80-83 della Parte Introduttiva.

39Sulla questione dei Samaritani e delle diatribe con i Giudei cfr. pag.13 del presente commento.

40La centralità del luogo di culto a Gerusalemme non fu un fatto scontato da sempre, ma è stata acquisita nel tempo, al termine di una lunga storia e di una dura lotta contro i santuari concorrenti e contro una forte tendenza alla decentralizzazione. Va tuttavia detto che oltre al tempio di Gerusalemme e quello contrapposto del monte Garizim, vi erano anche altri due templi in Egitto, che servivano due comunità ebraiche: quello di Elefantina, sorto nel VI sec. a.C. e distrutto nel 411 a.C. su richiesta dei sacerdoti egiziani del dio Khnum, il dio ariete patrono di Elefantina. Il tempio ebraico venne ricostruito nel 402 a.C., ma dopo la fine della dominazione persiana in Egitto, gli ebrei furono dispersi e il tempio distrutto nuovamente e non più ricostruito. Un secondo tempio fu quello di Leontopoli, costruito nel 160 a.C su di un tempio egiziano abbandonato, modello di quello di Gerusalemme, benché più piccolo e meno ricco. Esso venne distrutto dai Romani nel 73 d.C. a seguito del fatto che Leontopoli divenne un centro di nazionalismo giudaico. Cfr. Roland de Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Casa Editrice Marietti, Genova, ristampa della III edizione 2002. - pagg. 329 e 337-339

41Cfr. Roland de Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Casa Editrice Marietti, Genova, ristampa della III edizione 2002 – pag.339.

42Sanballat fu governatore della Samaria ai tempi di Neemia (445-432 a.C.) e si oppose alla costruzione del tempio di Gerusalemme e alla centralizzazione del culto, poiché ne temeva la concorrenza. Il suo nome ricorre otto volte in Neemia (Ne 2,10.19; 3,33; 6,1.2.5.12; 13,28 ) ed è ricordato come un determinato oppositore alla costruzione del tempio. Cfr. anche Esd 4,1-5

43Cfr. Santi Grasso, il Vangelo di Giovanni, commento esegetico, pag.201; op. cit.

44Sulla questione dell' “ora” in Giovanni cfr. le pagg. 69-71 della Parte Introduttiva

45Cfr. Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, pag.206; op. cit.

46Sull'espressione “Io sono” cfr. la Parte Introduttiva, pagg. 63-64

47Cfr. Santi Grasso, il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, pag.207 – op. cit.

48Sulla questione cfr. il titolo “La comunità giovannea” nella Parte Introduttiva – pag. 32

49Sull'uso che Giovanni fa del verbo “vedere” cfr. le pagg 80-83 della Parte Introduttiva.

50Sulla questione del docetismo e la comunità giovannea cfr. le pagg. 34-35 e 54.67 della Parte Introduttiva.

51Cfr. Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, commento esegetico e teologico, pag.143; op. cit.

52Cfr. R. E. Brown, Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi – V edizione 1999 – pag. 227

53Gezer o Ghezer, antica città stato cananea, citata numerose volte nella Bibbia, si trovava nella parte settentrionale del Shephelah, circa 30 chilometri ad ovest di Gerusalemme. Qui nel 1908 venne rinvenuta dall’archeologo scozzese R.A.S. Macalister una tavoletta in argilla di circa 11x7 cm. scritta in ebraico arcaico e datata verso la fine del X sec. a.C. Essa riporta, mese per mese le più importanti attività agricole, così scandite: “Due mesi: mietitura.- Due mesi: semina. - Due mesi: ultima erba. - Un mese taglio di lino. - Un mese mietitura dell’orzo. - Un mese mietendo e misurando. - Due mesi: potando (viti). - Un mese frutti d’estate”. Oggi si trova presso il museo dell’antichità di Istanbul.

54Sui diversi significati del verbo “vedere” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva – pagg. 80-83

55Cfr. Mc 1,15; Gal 4,4a; Ef 1,10a; Eb 9,26.

56Cfr. Mt 5,17; Gv 1,16; Col 1,19; 2,9.10.

57Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva, pag.37

58Il racconto si trova soltanto in Mt 8,5-13 e in Lc 7,1-10

59Con Luca Giovanni ha in comune oltre che gli elementi sopra menzionati anche il rilevare che il figlio stava per morire (Lc 7,2; Gv 4,47.49) e il verbo pregare con insistenza (Lc 7,4; Gv 4,47).

60Sulla questione della formazione del vangelo giovanneo cfr. la Parte Introduttiva, pagg.41-46

61Cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag.255; op. cit.

62Cfr. Mt 13,55-58; Mc 6,2-5; Lc 4,23-4

63Sulla questione dell'evangelizzazione di Samaria cfr. le Note Generali di questo cap.4 – pag.5

64Sulla questione cfr. il commento al v.22 del presente cap.4; pag.22

65Sul significato del verbo vedere in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva alle pagg. 80-83

66Erode Antipa (4.a.C. - 39 d.C. circa) era figlio di Erode il Grande e della sua quarta moglie, la samaritana Maltace. Alla morte del padre egli ereditò il governo della Galilea e della Perea. Durante un suo soggiorno a Roma intrecciò una relazione amorosa con la moglie di suo fratello Filippo e, poi, portatala in Galilea se la sposò, separandosi prima da Antea, figlia del re Areta IV, che ferito nell'onore, gli mosse guerra nel 36 d.C. e inflisse una dura sconfitta ad Antipa. Per il suo comportamento libertino Antipa fu oggetto di dure critiche da parte del Battista, che imprigionò e poi uccise nella fortezza di Macheronte. Durante il suo regno, secondo il racconto lucano della passione, ebbe modo di incontrare Gesù, inviatogli da Pilato e dal quale sperava di vedere un qualche miracolo (Lc 23,7-8). Cfr. la voce “Erode” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

67Cfr. Manfred Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline srl, Cinisello Balsmao, 1990 - Voce “Tre”.