IL VANGELO SECONDO GIOVANNI

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi


SECONDA PARTE DEL VANGELO DI GIOVANNI

IL LIBRO DELLA GLORIA


CAP. 20

L'ora compiuta: la risurrezione,
una convulsa corsa
alla ricerca della fede nel Risorto


Note generali

Il Gesù giovanneo in 12,32 attestava: “e io, quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso”. L'espressione verbale “sarò elevato” è resa in greco con “Øywqî” (ipsotzô). Un verbo equivoco o forse è meglio dire polivalente. Esso significa innalzare, elevare, ma anche glorificare, esaltare. Un verbo che nel contesto di 12,32 era riferito all'elevazione di Gesù sulla croce (12,33), ma nel contempo proiettava il lettore verso un'altra elevazione, che andava a completare il cammino di glorificazione intrapreso da Gesù con il suo innalzamento sulla croce: quello della sua risurrezione, che lo colloca nuovamente in quel Padre, da cui era uscito e verso cui ora tornava (16,28). Un Padre verso il quale il Logos era rivolto fin dall'eternità (1,1) e verso il quale era continuamente teso durante la sua missione terrena (4,34; 5,19.30; 17,4). “Ipsotzô”, un verbo che sintetizza in se stesso ed esprime al meglio il senso dell'ora, le cui dinamiche, iniziatesi con il cap.18, terminano ora con con il cap.20. Tre capitoli che raccontano e contemplano un cammino di innalzamento, che vede, infine, la glorificazione di Gesù da parte del Padre con quella gloria di cui il Logos, divenuto poi carne (1,14a), godeva fin dall'eternità, ancor prima che il mondo fosse (17,5).

Il cap.20 nel suo snodarsi narrativo è apparentemente semplice e lineare, scandito in due parti: la scoperta della tomba vuota (vv.1-10), fatta seguire dal racconto di tre apparizioni (vv.11-29): una a Maria di Magdala (vv.11-18) e due ai discepoli, rinchiusi in casa (vv.19-29), a cui si aggiungono i vv.30-31, posti a conclusione dell'intero vangelo giovanneo. Una lettura più attenta, tuttavia, rivela la complessità di questo cap.20, la cui composizione presenta non poche difficoltà, che costringono a ripensare e a rimodulare l'intera struttura narrativa.

I primi diciotto versetti, che comprendono la scoperta della tomba vuota e la prima apparizione del Risorto alla Maddalena, costituiscono un'unica unità narrativa delimitata dall'inclusione data dal nome “Maria Maddalena”, dal verbo “andare” e dagli stessi movimenti della Maddalena, uguali e contrari, che aprono e chiudono questa prima sezione del cap.20: al v.1 Maria va alla tomba, mentre al v.18 se ne allontana e va dai discepoli ad annunciare il suo incontro con il Signore. All'interno di questa prima sezione si inseriscono i vv.2-10, che non facevano parte del racconto originale, ma sono stati inseriti successivamente o forse è meglio dire che sono stati sviluppati all'interno del racconto della Maddalena, dove erano già presenti nella loro forma breve, come vedremo più sotto. La loro interpolazione, infatti, costituisce il problema e il loro inserimento rivela il contesto storico che li ha originati. In altri termini, perché l'autore giovanneo ha ritenuto di dover sviluppare una breve pericope, la corsa di Pietro al sepolcro, probabilmente originariamente inserita immediatamente dopo il v.18, in un racconto autonomo in cui è stato associato anche il Discepolo Prediletto? Alcuni elementi, infatti, lo denunciano come estraneo al racconto originale: a) al v.2 Maria Maddalena corre ad avvertire Pietro e il Discepolo Prediletto, che si recano di corsa alla tomba. Non viene detto che essa li segue, anzi è completamente ignorata; tuttavia al v.11 essa ricompare piangente alla tomba, come non se ne fosse mai andata via da là; una ricomparsa in cui la sua staticità (v.11) stride con il suo correre iniziale (v.2); b) i due discepoli, dopo la loro ispezione alla tomba, se ne tornano a casa, ignorando completamente la presenza della Maddalena, che invece, “stava fuori piangendo presso la tomba”; c) al v.8 si dice che il Discepolo Prediletto “vide e credette”, dando così a vedere che egli deve aver intuito o compreso quanto è successo; tuttavia non condivide la sua scoperta con nessuno; d) al v.18 Maria, lasciata nuovamente la tomba, va ad annunciare “ai discepoli” il suo incontro con il Risorto, ma stranamente non vi è nessuna reazione da parte del gruppo dei discepoli al suo annuncio; è qui che doveva inserirsi originariamente la corsa di Pietro al sepolcro, conseguente all'annuncio della Maddalena, come similmente è avvenuto in Lc 24,9-12, che da Giovanni è dipendente; e) Maria, come i due discepoli, si china verso la tomba, ma soltanto lei vede gli angeli, mentre i due vedono soltanto delle bende (v.12). Perché questa apparizione angelica non è condivisa anche dai due discepoli, ma solo da Maria? Inoltre la presenza dei due angeli è silenziosa ed è irrilevante ai fini dell'economia narrativa, poiché non fa progredire la narrazione. Non vi è infatti nessun annuncio e nessun messaggio rilasciati da loro, di cui le donne dovevano farsi carico. Se questi venissero tolti non cambierebbe nulla nel racconto. Una presenza quindi inutile o forse, come personalmente ritengo, svuotata del suo ruolo originario per dare spazio al racconto della corsa dei due discepoli alla tomba. Per Giovanni infatti la scoperta della risurrezione non viene affidata a delle angelofanie come per i Sinottici, ma più credibilmente alla ricerca dei discepoli, che si interrogano sul senso della tomba vuota e delle bende trovate per terra. L'annuncio angelico della risurrezione alle donne è qui sostituito dall'apparizione di Gesù alla Maddalena.

Altri particolari denunciano come questi primi diciotto versetti abbiano subito profonde manipolazioni, conseguenti all'interpolazione dei vv.2-10: a) al v.1, infatti, Maria, inverosimilmente, corre al sepolcro da sola, quando era ancora buio. Ma al v.2, rivolta ai due discepoli, dice “non sappiamo”. Un chiaro indizio come in origine le donne corse al sepolcro fossero più di una; b) vi è uno sdoppiamento della corsa della Maddalena: dapprima per annunciare il furto di cadavere, ma solo a Pietro e al Discepolo Prediletto, quando questi dovevano trovarsi insieme agli altri discepoli, dai quali mancava soltanto Tommaso (v.24); e poi una seconda corsa per annunciare il suo incontro con il Risorto; c) vi è anche uno sdoppiamento della successione verbale: i tre verbi del vedere, caratteristici di Giovanni, che qui indicano, come vedremo nel commento, un'evoluzione della comunità giovannea nella comprensione dell'evento della risurrezione: “blšpw” (blépo), “qeoršw” (tzeoréo) e “Ðr£w” (oráo), si ritrovano parimenti con lo stesso ordine sia nel racconto dei due discepoli (vv.2-10), sia nel racconto dell'apparizione alla Maddalena (vv.1.11-18); d) il v.1 si ricongiunge bene con il v.11, dando al racconto dell'apparizione della Maddalena una migliore logica e scorrevolezza narrative, evitando in tal modo la doppia corsa al sepolcro e la doppia ripetizione della successione dei tre verbi del vedere.

Il racconto originario di Giovanni1 doveva prevedere questa sequenza narrativa: la visita di un gruppo di donne al sepolcro (se ne trova traccia in quel “non sappiamo” del v.2); la scoperta della tomba vuota; l'annuncio della risurrezione da parte degli angeli (qui ancora presenti, ma ora silenti e il cui annuncio è sostituito dall'apparizione alla Maddalena); la corsa delle donne ad annunciare la loro scoperta sconvolgente ai discepoli (ora doppiata con il v.2 per introdurre la pericope 3-10); l'annuncio delle donne ai discepoli, presente questo solo in Lc 24,9-10 e in Gv 20,18, al quale manca la reazione stupefatta dei discepoli, presente questo solo in Lc 24,11. Comprensibile quest'assenza perché mentre per Luca la reazione stupefatta dei discepoli provoca la corsa di Pietro al sepolcro (Lc 24,12), in Giovanni il racconto della corsa di Pietro viene elaborato diversamente in modo molto più complesso e collocato all'inizio del racconto. Originariamente il racconto giovanneo della corsa di Pietro al sepolcro doveva trovarsi subito dopo il v.18 ed avere, all'incirca, la stessa consistenza di quello di Lc 24,12, che qui segue la tradizione giovannea: “Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l'accaduto”. Luca, che in 23,53, seguendo la tradizione sinottica parlava di avvolgimento del corpo di Gesù in un lenzuolo (sindóni), ora, in 24,12 parla di “otzónia”, cioè di bende, usando lo stesso termine di Giovanni, e riportando, come l'originario Giovanni, la corsa di Pietro al sepolcro, ignorata invece da Mt e Mc. Compare inoltre, qui in Lc 24,12, lo stesso verbo “parškuyen” (parékipsen, si chinò), usato soltanto da Giovanni in 20,5.11. È dunque evidente la dipendenza di Luca da Giovanni.

L'intero quadro narrativo del cap.20 è posto all'interno di una cornice temporale rilevabile nei vv.1.19.26, che colloca gli eventi della scoperta della tomba vuota e delle prime due apparizioni (vv.11-18.19,23) all'interno del “primo giorno della settimana”, mentre la terza apparizione, dal sapore più didattico e parenetico, otto giorni dopo. La sua funzione principale sembra essere quella di distinguere i contenuti fondativi e dottrinali della fede, posti tutti nella sezione vv.1-23 (attestazione della risurrezione, il dono promesso dello Spirito e la missione di riconciliazione assegnata ai discepoli) da quelli meramente di ammonimento ed esortativi dei vv.26-29.

Nell'aprire la nostra dissertazione sull'interpolazione dei vv.2-10 ci si interrogava sulle motivazioni che avevano spinto l'autore giovanneo a tale inserimento (pag.2). Per poter comprendere quanto è successo è necessario rifarsi al contesto storico in cui tale integrazione è avvenuta e come sia stato possibile che una semplice corsa al sepolcro di Pietro, che non doveva occupare originariamente più di un breve versetto, di cui troviamo traccia in Lc 24,12, si sia trasformata poi in un vero e proprio racconto composto da ben nove versetti, in cui accanto a Pietro viene affiancato il Discepolo Prediletto, posti in parallelo e in concorso tra loro. La comunità giovannea2, piccola ed elitaria, formata da persone di elevata cultura, raccolta attorno al suo maestro, che non a caso qualificava come il Discepolo Prediletto o il discepolo che Gesù amava, mettendolo in tal modo in una posizione di privilegio rispetto a Pietro, aveva tratti squisitamente carismatici e male si integrava con le comunità credenti palestinesi. Queste, infatti, a motivo della graduale scomparsa dei discepoli, si erano rapidamente istituzionalizzate e riconoscevano il primato petrino, a cui la comunità giovannea contrapponeva quello del loro maestro, l'ultimo superstite tra i discepoli e testimoni diretti di Gesù, con il quale il Discepolo doveva avere un particolare legame di affetto e di profonda sintonia spirituale. Lui, dunque, e non Pietro era per questa comunità il diretto erede spirituale di Gesù, dal quale ha ricevuto l'ufficiale investitura ai piedi della croce. Questo, dunque, lo sfondo storico di contrapposizione tra la carismatica comunità giovannea e quelle palestinesi istituzionalizzate. Segnali di questa tensione compaiono qua e là nel vangelo giovanneo: vi è un ripetuto confronto tra Pietro e il Discepolo Prediletto, dal quale Pietro esce sempre malconcio. Non si tratta di una mera occasionalità, ma di una precisa intenzionalità, che rivela, come si diceva poc'anzi, un malcelato conflitto tra le chiese istituzionalizzate della Palestina, che riconoscono in Pietro il loro capo, e l'ancora carismatica comunità giovannea, stretta attorno al suo maestro e unico testimone diretto ancora vivente all'epoca della narrazione dei fatti e della formazione del vangelo. Per la comunità giovannea, infatti, è Giovanni, il loro capo carismatico, l'erede spirituale di Gesù: lui è il discepolo prediletto da Gesù, che è vicino a Gesù e posa il capo sul suo petto (13,23.25; 21,20); lui che fa da tramite a Pietro nei confronti di Gesù per sapere chi è il traditore (13,24); lui che qui ha alte conoscenze e le frequenta abitualmente e soccorre Pietro, lasciato fuori dal palazzo, dove egli, una volta entrato, viene associato ai servi, mentre si lascia intendere che il Discepolo Prediletto segue Gesù fin dentro il palazzo di Anna; è il Discepolo Prediletto, dunque, che è vicino a Gesù, mentre il timoroso Pietro lo rinnegherà pubblicamente; lui e non Pietro, scomparso assieme agli altri dalla scena della crocifissione, si trova ai piedi della croce e riceve l'eredità spirituale da Gesù morente (19,25-27); lui che corre più veloce di Pietro verso la tomba vuota ed intuisce per primo ciò che è avvenuto (20,4.8); ed infine è sempre lui che riconosce il Risorto e lo indica a Pietro (21,7), mentre quest'ultimo è chiamato a fare ammenda del suo tradimento dichiarando il suo triplice “ti amo” al Risorto (21,15-17), mentre al Discepolo che Gesù amava viene riservata una sorta di apoteosi e di eternità con la quale si concluderà il racconto giovanneo (21,21-23).

Il cap.20 si divide in due ampie sezioni, la prima, comprendente i vv.1-18, al cui interno si sono autonomamente sviluppati i vv.2-10, per dare spazio al confronto tra Pietro e l'altro Discepolo, ha come protagonista principale la Maddalena, attorno alla quale si sviluppa l'intera narrazione di questa prima sezione. La seconda sezione, comprendente i vv.19-29, riporta due autonome apparizioni ai discepoli, la cui finalità è dottrinale per quanto riguarda la prima apparizione (vv.19-23); parenetica la seconda apparizione (vv.24-29). Le due sezioni, nonostante lo sforzo del redattore finale, che cerca di dare loro continuità narrativa, agganciando il v.19 al v.1, tuttavia risultano tra loro scollegate per almeno due evidenti incongruenze: il messaggio di 20,17 non dà spazio a successive apparizioni; quanto ai discepoli, questi sembrano ignorare del tutto sia l'annuncio della Maddalena in 20,18 sia il “vide e credette” (20,8) dell'altro Discepolo3.

Il cap.20 e con questo l'intero vangelo giovanneo, si chiudono con i vv.30-31, in cui si precisa la finalità del vangelo stesso e il criterio di selezione dei segni narrati.

Commento ai vv.1-18

Testo a lettura facilitata

La scoperta della tomba vuota

1- Ora, il primo giorno della settimana, Maria Maddalena va alla tomba di mattino, quando c'era ancora buio, e vede la pietra tolta dalla tomba.
2- Corre dunque e va da Simon Pietro e dall'altro discepolo che Gesù amava e dice loro: <<Hanno portato via il Signore dalla tomba e non
sappiamo dove lo hanno posto>>.
3- Uscì dunque Pietro e l'altro discepolo e andavano alla tomba.
4- Ora i due correvano insieme; e l'altro discepolo corse davanti più veloce di Pietro e giunse per primo alla tomba
5- e chinatosi vede le bende che stavano a terra, tuttavia non entrò.
6- Arriva dunque anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nella tomba e osserva le bende che stavano a terra,
7- e il sudario, che era sulla sua testa, il quale non stava a terra con le bende, ma riavvolto in un luogo in disparte.
8- Allora dunque entrò anche l'altro discepolo, che giunse per primo alla tomba, e vide e credette;
9- infatti non avevano ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti.
10- I discepoli dunque se ne tornarono di nuovo presso di loro.

L'apparizione alla Maddalena

11- Ora Maria stava fuori piangendo presso la tomba. Mentre dunque piangeva, si chinò verso la tomba
12- e vede due angeli in bianche (vesti), seduti uno presso la testa e uno presso i piedi, dove giaceva il corpo di Gesù.
13- E quelli le dicono: <<Donna, perché piangi?>>. Dice loro: <<Hanno portato via il mio Signore, e non so dove l'hanno posto>>.
14- Dette queste cose, si volse indietro e vede Gesù che stava (lì) e non
sapeva che è Gesù.
15- Le dice Gesù: <<Donna, perché piangi? Chi cerchi?>>. Quella, credendo che fosse l'ortolano, gli dice: <<Signore, se lo hai portato via tu, dimmi dove l'hai posto, e io lo prenderò>>.
16- Le dice Gesù: <<Maria>>. Quella, giratasi, gli dice in ebraico: <<Rabbunì>>, che significa maestro.
17- Le dice Gesù: <<Non mi toccare, poiché non sono ancora salito presso il Padre; ma va dai miei fratelli e dì loro: <<Salgo al Padre mio e Padre vostro, e Dio mio e Dio vostro>>.
18- Maria Maddalena va, annunciando ai discepoli: << Ho visto il Signore>> e ciò che le disse.


La scoperta della tomba vuota
(1-10)


Note generali

Un racconto che lascia senza fiato e crea una forte tensione. Qui tutto è una corsa affannosa e un muoversi agitato quando ancora era buio. Numerosi sono i verbi di movimento: va, corre, uscì, andavano, correvano insieme, corse davanti più veloce, giunse per primo, non entrò, arriva, entrò Pietro, entrò anche l'altro discepolo, se ne tornano a casa senza una risposta. È un agitarsi nel buio, quando ancora la luce non illuminava gli animi dei discepoli, travolti dal dramma della morte di Gesù. Tutti si fermano davanti ad una tomba vuota in cui ci sono dei panni, lasciati lì per terra. L'autore incentra l'attenzione del suo lettore tutta su questi due elementi fondamentali. A differenza dei racconti sinottici, qui non vi è nessun annuncio della risurrezione, nessuna apparizione angelica, che fornisca la soluzione dell'enigma, ma soltanto una riflessione che si è sviluppata all'interno della comunità giovannea e che è scandita per due volte dagli stessi verbi posti nello stesso ordine in entrambi i racconti, che formano questo primo ampio quadro narrativo (vv.1-18): quello di Pietro e dell'altro discepolo (vv.2-10) e quello della Maddalena (vv.1.11-18), quasi a voler sottolineare con forza come si è giunti a comprendere la risurrezione di Gesù e a fondare la fede in essa: “blšpw” (blépo), “qeoršw” (tzeoréo) e “Ðr£w” (oráo)4. “blšpw” (blépo) è il verbo del vedere fisico, che constata l'evento, ma non va oltre a ciò che vede. Esso è attribuito sia alla Maddalena che al Discepolo Prediletto nel loro primo impatto con la realtà della tomba vuota e delle bende per terra (20,1.5). Si è qui nella prima fase della ricerca, allorché la chiesa nascente si trova di fronte all'enigma della tomba vuota e dei panni per terra. C'è dunque la constatazione di un evento storico, che ancora non si sa come leggere. Tutto infatti è ancora avvolto dal buio. Il secondo livello di ricerca è simboleggiato dal verbo “qewršw” (tzeoréo), che definisce una particolare modalità del vedere, che esprime una specifica attività intellettiva: osservare, esaminare, investigare, riflettere, valutare, soppesare. Questo verbo è qui assegnato a Pietro in 20,6, mentre osserva attentamente le bende per terra; e due volte alla Maddalena in 20,12.14, allorché vede i due angeli e, in modo inconsapevole, Gesù. Entrambi sono in un'unica fase di ricerca, suggerita anche dalla domanda di Gesù rivolta alla Maddalena in lacrime: “Chi cerchi?” (20,15). Il terzo ed ultimo livello di ricerca è rappresentato dal verbo “Ðr£w” (oráo), che significa sempre vedere, ma in Giovanni assume un particolare significato di un vedere pieno, che è stato capace di trascendere le apparenze e di cogliere l'essenza della Verità. Esso è presente in 20,8, dove l'altro discepolo “vide e credette”, cioè giunse a comprendere il messaggio che quella tomba vuota e quei panni stesi per terra gli avevano lanciato; e in 20,18 dove la Maddalena, al termine della sua esperienza angelica e dell'ortolano giunge infine a comprendere, anch'essa, la Verità di quella tomba vuota e l'annuncia ai discepoli: “Ho visto il Signore” (20,18). Niente dunque di trascendentale, nessuna teofania, nessuna angelofania, ma soltanto un faticoso cammino storico di ricerca e di riflessione porta la prima comunità credente a concludere che Gesù è risorto, confortata in questo dalle Scritture.

Questa prima parte del racconto (vv.1-10) è costruita attorno ad uno stretto confronto tra due figure poste l'una accanto all'altra, in concorrenza tra loro: Pietro e il Discepolo Prediletto, i due capi che rappresentavano le comunità palestinesi già istituzionalizzate, il primo; quella ancora carismatica, il secondo. Il motivo di fondo di questo antagonismo non è soltanto il modo diverso di concepire la struttura della comunità credente e le relazioni tra i suoi membri, ma alla base di tutto ci sta il primato o, in altri termini, chi è l'erede spirituale e morale di Gesù dopo la sua dipartita. Benché all'interno di questo primo racconto si senta questa tensione, tuttavia essa è ormai sopita. Siamo infatti in un'epoca di passaggio tra la struttura carismatica della comunità giovannea a quella della sua istituzionalizzazione, che richiede il riconoscimento del primato petrino.

È difficile individuare la struttura narrativa di questo primo racconto, per la stretta concatenazione degli eventi che si susseguono a ritmo serrato senza sosta, dando l'idea di una corsa affannosa che non conosce soste, formando in tal modo un unico blocco narrativo. Tuttavia si può tentare di suddividere, sia pur artificialmente, il racconto in tre parti: a) vv.1-2: la scoperta e l'annuncio della tomba vuota; b) vv.3-8: la constatazione dell'evento e i primi tentativi di comprensione; c) vv.9-10: l'insufficienza del semplice ragionamento umano e la necessità del ricorso alle Scritture.

Commento ai vv. 1-10

Il v.1 si inserisce nella tradizione sinottica, benché vengano apportate alcune significative modifiche: mentre per i Sinottici a recarsi al sepolcro sono da due a tre donne (Mt 28,1; Mc 16,1), molte di più per Luca (Lc 24,10), per Giovanni le donne sono soltanto una: Maria Maddalena, l'unica presente in tutti gli evangelisti. Una scelta quella dell'autore inverosimile: una donna sola che si reca al sepolcro quando ancora c'era buio. L'ora poteva essere tra le 3 e le 6 del mattino. Le due donne matteane, invece, si mossero al sorgere del sole (tÍ ™pifwskoÚsV, tê epifoskúse); le tre marciane andarono “di buon mattino” (l…an prwˆ, lían proì), mentre le numerose donne lucane “al primo albore” (Ôrqrou baqšwj, órtzrus batzéos). In tutti i Sinottici si allude all'albeggiare, ad un giorno che si sta aprendo alla luce, quasi a preannunciare in qualche modo quella della risurrezione, che stava per illuminare il giorno dell'intera storia dell'umanità. Soltanto Giovanni sottolinea, invece, che c'era ancora buio; soltanto Giovanni fa muovere la sola Maddalena in questo buio. Non si dice, poi, perché essa si rechi alla tomba; in Marco e Luca le donne vanno a completare la sepoltura con olii ed aromi, mentre in Matteo le donne si recano in visita al sepolcro, un'usanza che lo stesso Gv 11,31 sottolinea raccontando come Maria, la sorella di Lazzaro, si rechi al sepolcro del fratello per piangere. In tutti i racconti si evidenzia il motivo del recarsi alla tomba dei singoli personaggi, ma non qui. Sono tutti elementi questi che nel loro insieme lasciano intuire come la Maddalena, che si muove nel buio attorno alla tomba senza la specificazione di un motivo, sia la metafora della stessa comunità giovannea, che smarrita dopo i drammatici episodi del Golgota sta quasi vagando nel vuoto (senza motivo), priva di ogni luce (c'era ancora buio), completamente disorientata. Ancora non sa cosa possa essere successo. I verbi qui posti tutti al presente indicativo, “va alla tomba” e “corre da”, dicono come questo suo muoversi sia un continuo andare e un continuo correre, senza un preciso motivo. Il presente indicativo greco, infatti, esprime un'azione durativa nel tempo, lasciando intuire l'irrequietezza di questa comunità, che si sta muovendo attorno ad una tomba vuota al cui interno giacciono dei panni, ma senza cogliere il messaggio che in essa era racchiuso. Ciò che la Maddalena vede è la pietra tolta dalla tomba. Il verbo vedere è qui espresso con “blšpei” (blépei), che definisce il primo livello di comprensione, che non va oltre a ciò che si vede fisicamente: una pietra tolta e un sepolcro aperto. Che cosa può significare tutto ciò? Sarà il v.2, che qui funge da elemento di transizione dal racconto originale della Maddalena, vv. 1.11-18, a quello successivamente interpolato dei due discepoli (vv.3-10), che darà la risposta: “Hanno portato via il Signore dalla tomba e non sappiamo dove lo hanno posto”. Quest'ultima espressione riproduce sostanzialmente il v.13. Un altro segnale che dice come il v.2 sia stato mutuato dal precedente racconto e qui adattato per collegare il v.1 ai vv.3-10. Di fronte ad una tomba aperta la prima interpretazione che viene data è quella di un furto di cadavere. Non deve stupire questo primo livello di comprensione poiché, in particolar modo nel I sec. d.C. i furti di cadavere erano frequenti e tali da dover far decidere la stessa autorità imperiale centrale a decretarne la condanna. In tal proposito è stata rinvenuta a Nazareth agli inizi del XIX sec. un'epigrafe, la cui autenticità è ora largamente accettata, con cui l'imperatore “Cesare”, qui non ben identificato, perseguiva penalmente anche con pena capitale i violatori di tombe e i trafugatori di cadaveri5. Un'ulteriore testimonianza ci proviene dallo stesso Mt 27,63-66 dove i Giudei esprimono a Pilato le loro titubanze circa la possibilità di un furto di cadavere da parte dei discepoli di Gesù. L'interpretazione data in prima istanza dalla Maddalena è dunque storicamente giustificata. Questa deve essere stata, storicamente, la prima comprensione all'interno della comunità giovannea, che qui si tradisce in quel “oÙk o‡damen” (uk oídamen, non sappiamo). Un verbo questo caratteristico di Giovanni, in cui ricorre 18 volte, e rappresenta sempre dei gruppi contrapposti: c'è il sapere dei Giudei, legato alla loro Tradizione e talvolta alla loro presunzione, che si contrappone a quello della comunità giovannea, il cui sapere, invece, esprime sempre la penetrazione del Mistero. Questo “oÙk o‡damen”, benché nella nostra critica letteraria l'avessimo indicato come un residuo di un precedente versetto che vedeva più donne accorse al sepolcro, va ricompreso all'interno di un secondo livello di lettura e non è da escludersi che la “dimenticanza” del redattore finale, in realtà sia stata voluta per consentire al lettore un secondo accesso di comprensione di quel “oÙk o‡damen”. Quel “non sappiamo”, dunque, assume il significato di una iniziale incapacità di leggere l'evento della tomba vuota e di penetrare quel Mistero che lì vi era nascosto. Per questo la comunità credente si rivolge ai suoi responsabili: Pietro e l'altro discepolo che Gesù amava. Non è un caso che accanto al tradizionale nome di Pietro compaia ora anche quello del Discepolo Prediletto. Sono loro, infatti, i due rappresentanti delle due aree di appartenenza delle comunità credenti: Pietro, punto di riferimento delle comunità palestinesi, ormai istituzionalizzate; il Discepolo Prediletto, punto di riferimento e di aggregazione della comunità giovannea. Vedremo subito come i due personaggi siano qui posti ora in collaborazione ora in competizione tra loro. Questa alternanza sta probabilmente ad indicare come l'epoca d'inserimento della pericope (vv.2-10) si collochi in una fase di avvicinamento non ancora compiuta tra le due aree di appartenenza delle comunità credenti. I punti di avvicinamento sono indicati nel nominare per primo Pietro e poi l'altro Discepolo, il loro correre insieme, il cedere il passo a Pietro da parte del Discepolo Prediletto; i punti di concorrenza sono nel correre più velocemente da parte del dell'altro Discepolo, il suo giungere per primo alla tomba, il suo comprendere per primo che cosa è successo e il suo giungere per primo alla fede nel Risorto.

I vv. 3-8 presentano la scena di due figure poste tra loro a confronto: Pietro e il Discepolo Prediletto. L'iniziativa è presa da Pietro, qui citato per primo, seguito dall'altro Discepolo. Quel “uscì” dice come a rompere gli indugi e a trascinare fuori dallo smarrimento le comunità credenti, cercando di comprendere i drammatici eventi del Golgota e di darne un senso, sia Pietro. L'altro discepolo si pone qui al seguito di Pietro. Entrambi tuttavia “andavano” alla tomba. L'uscire di Pietro è quindi condiviso dal Discepolo ed entrambi hanno un'unica direzione: “la tomba”; una direzione, rimarcata dalla particella di moto verso luogo “e„j” (eis). La direzione quindi è univoca. È da lì che è necessario ripartire. Nessuna divergenza dunque tra loro. Quel “andavano”, posto all'imperfetto indicativo dice la persistenza di questo loro comune e concorde andare, che viene confermato dal v.3a: “Ora i due correvano insieme”. Non vi è dunque contrasto, ma collaborazione, anche se il correre del Discepolo Prediletto è decisamente più sollecito di quello di Pietro: egli infatti corre davanti e più veloce di Pietro e giunge per primo alla tomba. Un segnale questo che evidenzia in qualche modo la superiorità del Discepolo su Pietro. Il suo comprendere le cose è più immediato e intuitivo, sembra quasi lui a condurre la ricerca, ma non gli consente, tuttavia, di entrare nel Mistero di quella tomba vuota. Il v.5, infatti, attesta che egli non entrò, perché “vide” le bende che stavano a terra. Ed è proprio questo suo modo di vedere, espresso in greco dal verbo “blšpei” (blépei), che definisce un vedere ancora difettoso, che non sa andare oltre a ciò che egli vede, che denuncia il limite iniziale del Discepolo Prediletto, la sua inintelligenza; egli non ne sa ancora cogliere il significato, per questo “non entrò”, cioè non seppe cogliere il mistero che quella tomba nascondeva. Non fu dunque un gesto di cortesia o di deferenza nei confronti di Pietro quello di fermarsi fuori dalla tomba, ma una incapacità, denunciata dal verbo “blépei”.

Se l'attore principale dei vv.4b-5 vedevano come protagonista emergente il Discepolo Prediletto, qui ai vv.6-7 l'attenzione è incentrata sulla figura di Pietro, definito come Simon Pietro, un modo caratteristico di Giovanni nell'indicare Pietro, che ricorre 19 volte nel suo vangelo. Questo abbinamento del nome di origine con il nome impostogli da Gesù al momento della sua chiamata (1,42) sembra quasi voler denunciare una mancata trasformazione di Pietro che da Simone ancora non è riuscito a diventare soltanto Pietro. Il nome presso gli antichi esprimeva l'essenza e l'identità stessa della persona. L'imposizione di un nome nuovo, infatti, dice il cambiamento di identità in funzione di una missione. In Simone di Giovanni questo non è ancora avvenuto. L'accostamento del nome profano a quello sacro denuncia questa sua mancata integrazione e piena evoluzione da Simone a Pietro. La cosa viene qui meglio evidenziata dall'espressione verbale “¢kolouqîn aÙtù” (akolutzôn autô) riferita a Pietro: “che lo seguiva”. Il verbo è usato negli evangelisti per indicare la sequela di Gesù ed indica il porsi al suo servizio, essere suo seguace, lasciarsi guidare. Pietro dunque è posto qui in secondo piano rispetto al Discepolo Prediletto, anzi ne è quasi un suo seguace, come dire che il primato non spetta a Pietro, ma questi si pone in seconda posizione rispetto all'altro Discepolo. È questi infatti che ai piedi della croce ha ricevuto l'eredità spirituale di Gesù (19,25-27), per questo Pietro si pone alla sua sequela. È una stoccata piuttosto pesante da parte del redattore finale giovanneo, che denuncia la difficile integrazione della carismatica comunità giovannea in quella istituzionalizzata, che invece riconosce il primato di Pietro. Ma è comunque Pietro che qui in 6b prevale nuovamente. Egli infatti è colui che dà una sterzata significativa alle indagini sulla scomparsa del corpo di Gesù, inizialmente compreso come furto di cadavere (v2). Il salto qualitativo è significato da due verbi: l' “entrò” di Pietro, che si contrappone al “non entrò” del Discepolo; e il verbo “qewre‹” (tzeoreî), riferito a Pietro, che si contrappone al “blépei” dell'altro Discepolo. Pietro, dunque, diversamente dal Discepolo, entra nel Mistero della tomba vuota e il modo del suo entrare è definito dal verbo “tzeoreî”, che dice un particolare modo di guardare e di porsi nei confronti delle cose: scorgere, osservare, meditare, investigare, esaminare, valutare. Vi è quindi un nuovo atteggiamento che va profilandosi all'interno della comunità credente, che comincia a indagare sul significato di quella tomba vuota, ma in particolar modo l'attenzione del lettore viene qui accentrata su due elementi, che devono essere stati decisivi nel comprendere quanto è realmente successo: “le bende che stavano per terra” e il “sudario […] riavvolto in un luogo in disparte”. Già lo si è detto sopra, come il termine “ÑqÒnia” (otzónia) sta ad indicare delle fasce di lino, delle bendature con cui veniva avvolto il cadavere. Queste “stavano per terra”. Un giacere per terra che, in qualche modo implicitamente, si contrappone ad un corpo che per terra ora non giace più, ma si è “drizzato, sollevato, risorto”. Tutti significati questi che derivano dal verbo “¢nsthmi” (anístemi), un verbo che si contrappone al “giacere delle bende”; un verbo tecnico che nella chiesa primitiva definiva la risurrezione di Gesù. Le bende dunque “stavano per terra”. Il verbo, qui posto all'imperfetto indicativo, dice la persistenza e quindi la definitività della loro posizione: esse non avvolgono più il corpo di Gesù, non lo trattengono più, come invece era accaduto per Lazzaro, che uscì dalla tomba ancora avvolto dai segni della morte (11,44a) e ne fu liberato non da una potenza sovrannaturale, ma dagli uomini (11,44b). Qui le cose cambiano radicalmente: il corpo di Gesù non c'è più e il potere della morte, simboleggiato dalle fasce che “stavano per terra”, è stato vinto da lui. Una piccola quanto importante immagine questa, che richiama da vicino il Sal 116,2-6: “Verso di me ha teso l'orecchio nel giorno in cui lo invocavo. Mi stringevano funi di morte, ero preso nei lacci degli inferi. Mi opprimevano tristezza e angoscia e ho invocato il nome del Signore: <<Ti prego, Signore, salvami>>. Buono e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso. Il Signore protegge gli umili: ero misero ed egli mi ha salvato”. Un contesto questo che richiama da vicino Rm 6,9: “sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui”.

Ma in quale posizione queste fasce si trovavano? Erano completamente sciolte, srotolate; oppure erano afflosciate su loro stesse, come se stessero ancora avvolgendo un corpo che ormai non c'era più? In quest'ultimo caso il corpo deve aver trapassato le bende, lasciandole svuotate per terra e questa sarebbe stata la prova per eccellenza, che avrebbe attesta la risurrezione. Ma molto probabilmente queste bende erano soltanto sciolte, considerato che l'autore sottolinea come il sudario, invece, era “riavvolto”, contrapponendo la posizione delle bende a quella del sudario, quasi a dire che le bende invece non lo erano, cioè non erano riavvolte, ma sciolte. E che questa fosse l'intenzione dell'autore, cioè quella di suggerire al suo lettore lo stato delle bende, lo rileva la sottolineatura del v.7 in cui si dice che il sudario “non stava a terra con le bende, ma riavvolto in un luogo in disparte”. Vi è dunque una contrapposizione tra lo stato delle bende e quella del sudario.

Qual'è stata dunque la conclusione di questa duplice considerazione: bende sciolte per terra e sudario accuratamente riavvolto in un luogo a parte dentro ad una tomba vuota? Di certo non poteva trattarsi di un furto di cadavere. Se ci fosse stato un furto di cadavere, come creduto inizialmente dalla Maddalena (20,2b), perché sciogliere le complicate bende che avvolgevano il cadavere di Gesù con il rischio concreto di essere scoperti? Se poi è vero il racconto matteano delle guardie poste a custodia della tomba (Mt 27,62-66), chi mai si sarebbe azzardato ad avvicinarsi ad essa? Perché poi portare via un cadavere nudo, contaminandosi gravemente e rendendosi in tal modo ritualmente impuri? E qui si era nel pieno delle festività pasquali. Infatti era “il primo giorno della settimana” (20,1a), cioè il giorno dopo il sabato, in cui quell'anno cadeva la pasqua (19,31a). Il giorno successivo, quindi, per l'appunto “il primo giorno della settimana”, cadeva la festa degli Azzimi, la cui durata era di una settimana (Es 12,18). Infatti, in questo contesto festivo, anche i Giudei non entrarono nel pretorio di Pilato per non contaminarsi e poter così celebrare la pasqua (18,28b). Infine, se ci fosse stato furto di cadavere, che senso avrebbe avuto ripiegare accuratamente il sudario, mettendolo ordinatamente in un luogo in disparte? Tutto questo non quadra con la logica di un furto. Cosa dunque può essere successo? A chi poteva interessare un cadavere, seppur di un controverso ed ambiguo sedicente Rabbi? E perché sottrarlo a quel modo? Queste riflessioni devono aver spinto alla comprensione del Mistero che racchiudeva quella tomba vuota con le sue bende e il suo sudario. Fu sufficiente questa semplice riflessione perché anche l'altro Discepolo, dapprima incapace con il suo “blépei” di entrare nel mistero della tomba vuota, ora, aiutato dal “tzéorei” di Pietro, entrasse nel mistero di quella tomba … “e vide e credette”. Pietro, quindi, viene qui presentato come il grande interprete dell'evento, da cui dipende la fede anche della comunità giovannea. Qui tutto cambia. La formula qui usata dall'autore è “e vide e credette”. I due “kaˆ” (kaì, e) che precedono i due verbi, legano l'azione del vedere, il primo “kaì”, ai vv.6-7, e ne fanno la logica conclusione. Qui il “vedere” del Discepolo non è più espresso con “blépei”, ma con “Ðr£w” (oráo), il verbo che in Giovanni indica un vedere superiore, un vedere che trascende la mera fisicità delle cose per coglierne, infine, il significato più vero e profondo. Da questa comprensione superiore, generata dal “tzéorei” di Pietro, dipende anche la fede, legata all' “oráo” dal secondo “kaì”. La comprensione dell'evento dunque genera la fede. La formula “e vide e credette” è espressa in greco con due aoristi incipienti, che radicano l'inizio della fede alla constatazione della risurrezione, il cui mistero era racchiuso in quella tomba vuota e nei lini funebri che in essa giacevano.

I vv.9-10, posti a conclusione del racconto, stridono fortemente e risultano sostanzialmente incompatibili con il racconto stesso. Il racconto infatti termina con il Discepolo Prediletto che “e vide e credette”. Questo significa che il Discepolo ha compreso cosa è successo e quel “credette” dice tutta la certezza di quel suo comprendere, che non ha lasciato dubbi in lui. Perché mai dunque si conclude che invece ancora non avevano capito niente? Nessun entusiasmo, nessuna emozione traspare da questa loro scoperta, ma soltanto un mesto e silenzioso ritorno a casa. È molto probabile che questi due versetti facessero parte di un racconto precedente, successivamente modificato dal redattore giovanneo, in cui oltre che a Pietro vi era anche un qualche altro discepolo, che lo aveva accompagnato nella corsa alla tomba, ma tutti senza comprendere ciò che è successo. Tracce di questo precedente racconto si trovano in Lc 24,12.24, dove si parla di una doppia corsa: dapprima da parte di Pietro (Lc 24,12), poi da parte di altri discepoli (Lc 24,24). Il redattore finale giovanneo ha preferito mantenere i vv.9-10, adattandoli al suo racconto, per lasciare probabilmente la testimonianza di come si è giunti alla comprensione e alla certezza della risurrezione: non solo attraverso un procedimento squisitamente umano di indagine e di riflessione, ma anche con il conforto delle Scritture. Testimonianza esplicita in tal senso si ha nello stesso Lc 24,27 dove Gesù apre al Mistero della sua risurrezione i due discepoli di Emmaus, proprio attraverso le Scritture: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”. È dunque la Scrittura che dà un conforto determinante alla ragione, aprendo il credente al mistero di una risurrezione, che, per sua natura, non è storicamente raggiungibile. Non vengono precisati qui i passi scritturistici riguardanti la risurrezione6, ma l'espressione “non avevano ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti” sembra lasciar intendere come agli inizi della fede nel Risorto i discepoli non avevano ancora imboccato la strada della rivisitazione delle Scritture in senso cristologico. Del resto l'autore inizia il suo racconto affermando che “c'era ancora buio”, esprimendo uno stato di smarrimento e di disorientamento. Soltanto successivamente, attraverso l'indagine, la riflessione e prendendo la strada scritturistica, rivisitata in chiave cristologica, giunsero al comprensione del Mistero.

L'apparizione alla Maddalena (vv.11-18)

Note generali

La ricerca di Pietro e del Discepolo Prediletto presso la tomba aveva portato a concludere che Gesù è risorto: “e vide e credette” (v.8). Non vi è tuttavia qui nessun annuncio che Gesù è risorto e nessuna esperienza del Risorto, proprio perché la finalità di questo racconto (vv.3-10) non era né l'annuncio né l'esperienza, ma il confronto fra Pietro e il Discepolo disputato sul tema della ricerca del Risorto. Questo annuncio e l'esperienza del Risorto, invece, erano riservati nel racconto originale alla Maddalena. I vv.3-10, pertanto, successivamente inseriti, sono una sorta di doppione narrativo, creato appositamente dall'autore per dare spazio al confronto tra Pietro e l'altro Discepolo, che si struttura sullo stesso schema narrativo di questo racconto della Maddalena, che ha per oggetto la ricerca, l'esperienza e l'annuncio del Risorto. Tornano infatti qui, nello stesso ordine, i tre verbi, che già abbiamo incontrato in 3-10; essi, come già si è detto sopra (pag.6), costituiscono i tre livelli di ricerca della comunità giovannea, qui simboleggiata dalla Maddalena (v.pag.7): “blšpw” (blépo), “qeoršw” (tzeoréo) e “Ðr£w” (oráo)7. Il tema della ricerca viene poi evidenziato dalla stessa domanda, posta centralmente al racconto: “Chi cerchi?”. È questa domanda che la comunità giovannea deve porsi per indirizzarsi nella sua ricerca: ancora il Gesù della storia o un diverso Gesù, fin qui mai conosciuto e sperimentato? Una ricerca che porterà alla scoperta di un nuovo Gesù; una scoperta che apre ad un nuovo rapporto con il Risorto, completamente diverso da quello precedente del Gesù della storia (vv.14-17); e da qui all'annuncio, che è una vera e propria confessione di fede: “Ho visto il mio Signore” (v.18b), che verrà ripresa e completata nella formula di fede posta sulle labbra di Tommaso: “il mio Signore e il mio Dio” (v.28), riconoscendo nel Risorto la sua divinità.

Commento ai vv. 11-18

Il v.11 riprende la narrazione della scoperta della tomba vuota, iniziatasi con il v.1 e poi sospesa per l'interpolazione dei vv.2-10. Tre elementi rilevano in questo versetto: Maria “stava fuori”, “piangendo” e “si chinò”. Il primo elemento (“stava fuori”) dice come la donna, che in questo racconto rappresenta la comunità giovannea, non era ancora entrata nel Mistero della tomba vuota; per questo se ne stava fuori. Il verbo qui posto all'imperfetto indicativo dice la persistenza di questo suo “stare fuori”, di questo suo smarrimento. Del resto al v.1 l'autore già aveva descritto il contesto in cui questa comunità si stava muovendo dopo la morte di Gesù: “c'era ancora buio”. Un buio che dice smarrimento e disorientamento, ansia e delusione. Il secondo elemento è costituito dal verbo “piangere”, che si ripete ben quattro volte in pochi versetti (vv.11.13.15). Questa ostinata sottolineatura del piangere dice il dolore e la delusione per la perdita del Gesù storico; dei rapporti che si erano fin lì costruiti e che ora non ci sono più se non nel ricordo. Un pianto che lega questa donna ad un passato che non c'è più e la rende prigioniera di dolorosi ricordi. C'era, infatti, ancora buio (v.1). In questo contesto di smarrimento e di sofferenza ha inizio la ricerca di questa comunità. Ed ecco il terzo elemento: “si chinò”, che descrive l'atteggiamento proprio di chi si avvia ad una ricerca; dice un accentrare l'attenzione sull'oggetto della ricerca; un cercare di metterlo a fuoco, avvicinandosi ad esso, quasi per vedere meglio. Maria infatti si china “verso la tomba”. La particella di moto verso luogo “e„j” (eis, verso) descrive questo avvicinamento all'oggetto delle proprie ricerche. Il verbo greco “parškuyen” (parékipsen), che qui compare, infatti non significa soltanto “chinarsi”, ma “chinarsi per guardare, osservare” ed anche guardare, spiare, osservare di soppiatto. Dice quindi tutto il timore e la titubanza con cui è iniziata questa ricerca, quasi in sordina, perché ancora non si sapeva a cosa avrebbe portato. C'era, infatti, ancora buio. La sua prima comprensione, infatti, fu quella del furto di cadavere (v.2), poiché il suo vedere era ancora imperfetto: “vede la pietra tolta dalla tomba”, dove il verbo “vedere” è espresso con “blépei”, il verbo del vedere imperfetto, che non sa andare oltre a ciò che esso vede.

Il v.12-13 sono alquanto singolari. Riportano una visione angelica, che sembrerebbe allineare il racconto giovanneo a quello sinottico, dove angeli appaiono alle donne e annunciano loro la risurrezione di Gesù. Ma il racconto giovanneo si stacca nettamente da quello sinottico poiché viene descritta una scena che lascia sconcertati: la Maddalena scorge, seduti “due angeli in bianche (vesti), seduti uno presso la testa e uno presso i piedi, dove giaceva il corpo di Gesù”. Già la descrizione della posizione di questi due angeli, le cui bianche vesti dicono la loro provenienza divina, lascia alquanto perplessi: un angelo è seduto dove c'era la testa di Gesù; l'altro dove c'erano i suoi piedi. Nessun dialogo con la donna se non una domanda: “Donna, perché piangi?”; nessun annuncio di risurrezione. Sembrerebbe una visione fine a se stessa; forse un pezzo di un qualche precedente racconto, dimenticato lì dal redattore finale. Ma da una più attenta analisi del contesto in cui si colloca questa visione angelica, si rileva come questi due versetti racchiudano in loro stessi un potente messaggio alla comunità giovannea. Il contesto dell'intero racconto, che meglio apparirà proseguendo nell'analisi, è quello di una comunità che è racchiusa e ripiegata su se stessa e che vive di nostalgici quanto dolorosi ricordi dei bei tempi andati, allorché Gesù era ancora in mezzo ai suoi. Ora questa è una comunità che piange e rimpiange questo passato ed è ancora legata alla corporeità del suo Maestro, ai racconti di quello che egli faceva, cercando in questi ricordi di ricostruire un nuovo rapporto storico con Gesù. Ora l'autore con questa visione angelica richiama la comunità a reimpostare dei nuovi rapporti non più con il Gesù della storia, ormai non più raggiungibile, egli ha fatto il suo tempo, ma con il Risorto, nella sua nuova dimensione dello Spirito, raggiungibile attraverso la fede e la sua Parola, ora caricata di tutta la potenza di Dio e ricolma del suo Spirito. Tutto questo viene detto in modo singolare: un bancale in pietra, dove giaceva il corpo di Gesù, e due angeli, che siedono alle due estremità. In mezzo a loro il vuoto. È esattamente questa l'immagine che ci viene descritta in Es 25,17-19 dell'Arca dell'alleanza: “Farai il coperchio, o propiziatorio, d'oro puro; avrà due cubiti e mezzo di lunghezza e un cubito e mezzo di larghezza. Farai due cherubini d'oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del coperchio. Fa un cherubino ad una estremità e un cherubino all'altra estremità. Farete i cherubini tutti di un pezzo con il coperchio alle sue due estremità”. Il propiziatorio o coperchio dell'Arca era il luogo che, durante la festa dell'espiazione, veniva asperso con il sangue dell'agnello, grazie al quale i peccati del popolo venivano perdonati. Paolo vedrà in questo rituale lo stesso sacrificio di Cristo, nuovo strumento cruento di espiazione per i peccati degli uomini (Rm 3,25). Quel bancale in pietra tra i due angeli posti alle estremità richiama, dunque, da vicino il propiziatorio, dove un altro agnello immolato (19,14) ha sparso il suo sangue per togliere “il peccato del mondo” (1,29); ma nel contempo, come il propiziatorio dell'antica Arca dell'alleanza, questo nuovo propiziatorio, similmente a quello, si colloca tra due angeli posti alle due estremità e nel loro mezzo il vuoto. Infatti l'autore tiene a precisare “dove giaceva il corpo di Gesù” (v.12). Il vuoto, dunque, posto tra due angeli esprime al meglio la presenza di Dio, inesprimibile, irriducibile e irraggiungibile attraverso una qualsiasi immagine. Il Dio d'Israele, infatti, è il Dio della Parola, che può essere ascoltata, e diviene raggiungibile solo lasciandola risuonare nel proprio cuore. Dio, infatti, è puro spirito e può essere raggiunto dall'uomo soltanto attraverso l'ascolto accogliente della sua Parola e la fede. Già nel racconto della Samaritana l'autore tracciava i parametri di un nuovo culto e di una nuova spiritualità non più legata al tempio, ma allo spirito: “Le dice Gesù: <<Credimi, donna, che viene l'ora allorché né in questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete; noi adoriamo ciò che conosciamo, poiché la salvezza è dai Giudei. Ma viene l'ora ed è adesso, allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano. Dio è spirito, e bisogna che quelli che lo adorano (lo) adorino in spirito e verità” (4,21-24). Sono questi i due elementi essenziali, fede e Parola, che dovranno, d'ora in poi, a informare e sostanziare i nuovi rapporti con il Risorto, ora, alla pari di Jhwh, reso irraggiungibile attraverso la strumentazione storica dei sensi e dei ricordi. Il Risorto è entrato in una nuova dimensione esistenziale, quella di Dio stesso, a cui appartiene per natura, per questo la comunità giovannea è chiamata a desistere dal suo cercar di far rivivere il passato, di cui rischia di rimanere prigioniera e di rendersi incapace di raggiungere il suo Maestro ed ora Signore. La domanda che gli angeli pongono alla Maddalena ha proprio questo senso: “Donna, perché piangi?”. In altri termini, perché cerchi di far rivivere in te un Gesù che non esiste più e che non puoi più raggiungere; il pianto infatti esprime il dolore per una perdita, a cui si è ancora fortemente legati e che ci ancora nel passato, togliendoci ogni prospettiva futura. Sostanzialmente è lo stesso rimprovero che gli angeli lucani rivolgono alle donne: “Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: <<Perché cercate tra i morti colui che è vivo?>>” (Lc 24,5). la risposta che la Maddalena dà è significativa e riprende quella del v.2: “Hanno portato via il mio Signore, e non so dove l'hanno posto”. La donna, dunque, sta ancora cercando un corpo; se lo vuole riprendere per poterlo piangere e celebrare sulla sua tomba il rito funebre e il culto del ricordo. Una comunità dunque rivolta al passato, perché priva di ogni speranza che la apra ad un nuovo futuro. C'era infatti ancora buio.

Ma è proprio da questa visione del vuoto, che parte la riflessione. Infatti l'autore attesta che Maria “vede due angeli in bianche vesti”. Qui il verbo è espresso non più con “blépei” come al v.1c, dove Maria “vede la pietra tolta dalla tomba”, per cui conclude che il corpo di Gesù è stato rubato (v.2). Un vedere, quindi, ancora imperfetto, che non sa cogliere il messaggio nascosto in quella pietra rotolata via e in quella tomba vuota. Qui il verbo vedere viene espresso con “qewre‹” (tzeoreî), che esprime un vedere che si interroga, che si apre alla ricerca e all'indagine. Una spinta decisiva verso la ricerca della Verità racchiusa in quella tomba vuota, ma non ancora raggiunta. Un passo importante per staccarsi dal passato alla ricerca non più di un corpo, ma del Risorto. La ricerca d'ora in poi non è più rivolta all'immagine storica di Gesù, ormai storicamente irraggiungibile, ma si comincia a pensare in termini nuovi, che consentano di ristabilire in modo completamente diverso dei nuovi rapporti, che il nuovo stato di vita di Gesù richiede.

I vv.14-18, preceduti dalla considerazione (vv.12-13) introdotta dal verbo “tzeoreî” del v.12, consentono ora alla Maddalena di incontrarsi con il Risorto e di farne, sia pur ancora in modo imperfetto, l'esperienza (vv.14-17), che la trasformerà in una vera credente e testimone della sua risurrezione (v.18). Il verbo vedere con cui ella vede Gesù, infatti, qui è ancora “tzeoreî” (v.14) e soltanto al v.18, dopo l'esperienza del Risorto, si trasformerà in “Ðr£w” (oráo), il verbo della fede pienamente raggiunta e compiuta, attestata da una formula di fede: “Ho visto il mio Signore”.

Il v.14 si apre con una nota redazionale (“Dette queste cose”), che dà continuità narrativa a questo secondo episodio, ma nel contempo rende dipendente l'esperienza del Risorto dall'esperienza dell'apparizione angelica, che ha indicato a Maria la via da seguire nella ricerca: quella dello spirito e della fede. Tuttavia il cammino per giungere alla meta di un nuovo rapporto con il Risorto, nello spirito e nella fede, è ancora lungo. Essa pertanto, ancora una volta, “si volse indietro”, alla ricerca nel passato di un qualche aggancio che la possa illuminare, anziché ripartire da un proprio rinnovamento interiore. È significativa infatti l'espressione greca tradotta qui con “si volse indietro”: “™str£fh e„j t¦ Ñp…sw” (estráfe eis tà opíso). Essa letteralmente significa: “si volse verso le cose di dietro”, cioè verso le cose che erano ormai passate. Significativa è la particella di moto verso luogo “eis”, che dice l'orientamento esistenziale della Maddalena, rivolta verso il passato, così da non vedere le cose nuove che le si stanno parando davanti. Essa “vede, pertanto, Gesù che stava lì”, ma ancora non riesce a coglierlo, perché lei è rivolta al passato. Il verbo qui è ancora “tzeoreî”, che parla di un vedere che si interroga, osserva, indaga, valuta e soppesa. Un vedere che è ancora avvolto dal dubbio, ma giunge comunque in qualche modo a vedere “Gesù che stava lì e non sapeva che è Gesù”. Non si tratta dunque di un Gesù scomparso, ma di un Gesù che in realtà era sempre stato presente: “stava lì”, soltanto che non era ancora percepibile per il comportamento involutivo della Maddalena, che anziché guardare avanti era tutta protesa a cercare e a conservare il Gesù della storia: “si volse verso le cose di dietro”. Per questo lei lo vede, ma “non sapeva che è Gesù”. Ancora una volta torna qui il verbo “sapere”, caratteristico di Giovanni, con cui indica sempre la capacità penetrativa del Mistero da parte del credente; ma se posto, come qui, al negativo dice l'incapacità di penetrare tale Mistero che si è compiuto e manifestato nel Risorto. Entrambi i verbi qui sono posti all'imperfetto indicativo per dire, da un lato, la persistenza e la continuità di questa presenza; dall'altro, la persistente incapacità di saperla cogliere. Del resto, Gesù stesso aveva in qualche modo preannunciato questo evento di smarrimento, di dubbio e di incomunicabilità degli uomini e dei credenti di fronte al suo nuovo stato di vita, indicando, tuttavia, la strada per raggiungerlo nuovamente: “Non vi lascerò orfani, vengo a voi. Ancora un poco e il mondo non mi vede più, ma voi mi vedete, poiché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi conoscerete che io (sono) nel Padre mio e voi in me e io in voi” (14,18-20). Quindi soltanto quando i credenti si saranno messi in sintonia con la nuova dimensione in cui Gesù è entrato e di cui ora fa parte, soltanto allora “conoscerete che io (sono) nel Padre mio e voi in me e io in voi”. Il credente dunque ritroverà Gesù in se stesso, nel suo stesso credere. Tutto ciò chiede una trasformazione interiore e una risintonizzazione e riqualificazione dei propri rapporti con Gesù, adeguandoli al suo nuovo stato di vita: dalla storia allo spirito; dal toccare e sentire al credere.

Di fronte al voltarsi indietro della Maddalena e alla sua cecità persistente, Gesù la spinge a riflettere: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. La prima parte della domanda riprende quella già postale dagli angeli. Viene dunque ripresa la riflessione precedente (vv.12-13) a cui si aggiunge un ulteriore stimolo: “Chi cerchi?”. In altri termini, si rende necessario definire l'oggetto della propria ricerca: si cerca il Gesù della storia? Si vuole fare un culto della sua memoria? Fare della sua tomba un luogo di pellegrinaggio? Insomma continuare a far rivivere un passato che non c'è più, riducendosi ad un rapporto sterile con l'uomo Gesù, ormai reso storicamente irraggiungibile? Oppure è necessario ricomprendere la persona di Gesù non solo attraverso la ricerca storica condotta sulla tomba vuota e sui lini funerari, che hanno acceso una luce (v.8), ma anche attraverso le Scritture (v.9), dove Dio ha lasciato traccia del suo progetto di salvezza e dove il credente trova la conferma e il fondamento della sua fede. Nonostante gli stimoli della continua ricerca, la Maddalena non riesce ancora a superare lo scoglio del Gesù della storia, che ormai non cerca più come persona, come essere vivente, ma soltanto il simulacro del suo corpo, a cui è ancora aggrappata: “Signore, se lo hai portato via tu, dimmi dove l'hai posto, e io lo prenderò”. Tutta questa enorme fatica della comunità giovannea, ma non di meno anche dell'intera primitiva comunità credente (Mt 28,17; Mc 16,11.13; Lc 24,11.16.25.37), non può che essere superata se non attraverso l'esperienza e il culto della Parola lasciata da Gesù ai suoi. Una Parola, che ora acquista, grazie al suo nuovo stato di vita, una valenza di eternità. Gesù dunque lo si può ora trovare, incontrare e sperimentare sacramentato nella sua Parola, che diviene luce e guida per tutti i credenti. Questo è il nuovo modo di essere di Gesù, raggiungibile nella sua Parola attraverso la fede. La duplice esperienza che i due discepoli di Emmaus ebbero di Gesù sia come Parola (Lc 24,32) che come sacramento (Lc 24,30-31) aprì loro gli occhi e compresero il nuovo modo di essere di Gesù e i nuovi luoghi per ritrovarlo, incontrarlo e nuovamente sperimentarlo.

I vv.16-18 raccontano la trasformazione della Maddalena a seguito dell'incontro con il Risorto, con il quale, finalmente, essa è riuscita a stabilire un adeguato contatto. Tutto ha inizio allorché Gesù chiama per nome la Maddalena: “Le dice Gesù: <<Maria>>”. Il chiamare per nome nel linguaggio biblico equivale ad una scelta che Dio opera sul suo consacrato; una chiamata finalizzata a compiere una missione8. Una chiamata che presuppone una sequela9. Così avviene anche per i primi discepoli: essi chiamati per nome sono destinati a diventare pescatori di uomini (Mt 4,18-22; Mc 1,16-20). A tale chiamata Maria “si gira” (strafe‹sa, strafeîsa). Si tratta dello stesso verbo del v.14, ma qui le cose cambiano radicalmente e sostanzialmente. Mentre al v.14 Maria si gira verso le cose del passato (estráfe eis tà opíso), qui essa si gira verso il Risorto, verso il nuovo Gesù, che la sta chiamando perché ad essa sta per assegnare una missione: quella di testimoniarlo nella sua novità di vita (v.17b). Maria dunque ha abbandonato il Gesù della storia e si proietta nel nuovo Gesù, quello trasformato dalla potenza dello Spirito. Per questo ora lo riconosce. Certo dovrà fare ancora un cammino di perfezionamento verso una fede più piena e completa. Essa infatti si rivolge al Risorto ancora con la titolatura antica: “Rabbunì” e il richiamo di Gesù a non toccarlo dice che il rapporto con lui ora è radicalmente cambiato e si pone su di un piano completamente diverso da quello della corporeità. Il verbo qui usato, infatti, è “¤ptw” che significa “toccare” nel senso di prendere, afferrare, abbracciare, avere relazioni intime con qualcuno. Ancora una volta Maria, pur avendo riconosciuto il Risorto, tende a continuare con lui il rapporto di prima, quasi che nulla fosse avvenuto nel frattempo. Certo finalmente i suoi occhi le si sono aperti, ma la sua mente e il suo cuore non hanno ancora compiuto il salto di qualità necessario per instaurare delle nuove relazione con il Risorto.

L'espressione che segue il comando “non toccarmi” si trova in una posizione alquanto equivoca, poiché sembra specificare la motivazione per cui Maria non deve toccare il Risorto: “poiché non sono ancora salito presso il Padre”. Se questa fosse la motivazione per cui Maria non deve toccare Gesù, allora non si capisce perché essa non possa farlo, visto che egli deve ancora salire al Padre e, quindi, sembra essere ancora in questa dimensione. Maria, quindi, poteva toccarlo almeno per l'ultima volta. In realtà l'espressione è preparatoria alla missione di cui Maria sta per essere investita: “ma va dai miei fratelli e dì loro: <<Salgo al Padre mio e Padre vostro, e Dio mio e Dio vostro>>”. Come dire: non sono ancora salito, ma sto per farlo, quindi, va dai miei fratelli e annuncialo loro. Ma se questo è il senso non si capisce perché tale espressione sia stata posizionata subito dopo il comando. Si tratta di un'espressione fuori posto comunque la si metta e il cui senso è difficilmente comprensibile. Non resta che pensare che essa sia una glossa erroneamente interpolata da un qualche copista. Il testo originale, pertanto, doveva suonare così: “Non mi toccare, ma va dai miei fratelli e dì loro: <<Salgo al Padre mio e Padre vostro, e Dio mio e Dio vostro”10.

La questione, poi, del “salire” o del “non essere ancora salito” è del tutto incongruente con il nuovo stato del Risorto, poiché la sua risurrezione lo colloca, ipso facto, già in seno al Padre. La distinzione quindi tra i due tempi, risurrezione e ascensione, ha una valenza meramente didattica (Lc 24,50-51; At 1,3.9), poiché risurrezione e ascensione sono il medesimo atto. Tuttavia, se una qualche distinzione si volesse produrre, si potrebbe pensare alla risurrezione come al costituirsi di un nuovo stato di vita, acquisito attraverso una trasformazione da carne corruttibile a carne spiritualizzata o incorruttibile (1Cor 15,42-44a), per la potenza dello Spirito Santo (Rm 1,4); mentre l'ascensione sottolinea maggiormente le conseguenze di questa trasformazione, che colloca il Risorto nella stessa dimensione di Dio, in seno al Padre, da dove era uscito e dove ora è ritornato (16,28).

La risurrezione-ascensione sottrae Gesù alla storia e non lo rende più in alcun modo raggiungibile in essa. Per questo egli sollecita Maria a “non toccarlo”, a non, cioè, relazionarsi più a lui, in modo anacronistico, come per il passato, poiché egli ora fa parte di una nuova dimensione e vive in una nuova condizione di vita, a cui i discepoli e gli uomini in genere non possono ancora aver accesso. Con la risurrezione-ascensione cessa quindi la missione storica di Gesù e ha inizio quella dei discepoli, gli eredi spirituali del Risorto. Ecco, quindi, il comando: “ma va dai miei fratelli e dì loro”. Quel “ma” (de, ) si contrappone al tentativo di Maria di continuare il suo anacronistico rapporto con il Risorto, quasi a volerlo prolungare qui nella storia. Questo tempo è ormai finito e tocca a lei, e come lei a tutti i discepoli, continuare la missione che egli ha iniziato. Alla missione di Gesù ora si sostituisce quella dei discepoli, creando una sorta di continuità storico-spirituale. Il comando è costituito da due verbi propri della missione: “andare” e “dire”; un andare che si fa annuncio e che in qualche modo richiama il Gesù matteano, che rivolto ai suoi titubanti e dubbiosi discepoli (Mt 28,17b), li sollecita: “Andate dunque e ammaestrate” (Mt 28,19a). L'annuncio, infatti, costituirà l'elemento essenziale su cui si fonda la fede. Dalla parola, infatti, nasce la fede: “La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,17).

Il comando di Gesù dato alla Maddalena è rivolto per “miei fratelli”. Un appellativo inconsueto, che in tutto il N.T. troviamo soltanto qui e che in qualche modo preannuncia il messaggio, che Gesù lascia a Maria: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, e Dio mio e Dio vostro”. Il nuovo stato di vita in cui viene ora a trovarsi Gesù, produce anche nuovo tipo di relazione con i credenti: essi non sono più servi, non sono neppure più amici (15,15), ma fratelli. Se l'essere servi o discepoli comporta una chiamata di predilezione che produce sequela; se l'essere amici significa aver raggiunto un livello di intimità tale da condividere ogni cosa con Gesù; l'essere suoi fratelli significa andare oltre: possedere in lui e per lui lo stesso DNA di Dio. Il nuovo stato di vita di Gesù ha creato questa nuova condizione nel credente: “Ma quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati” (1,12-13). Se qui vengono sottolineati gli effetti della fede, quale forza generatrice della stessa vita di Dio nel credente, il v.12,32 dice come ciò sia stato possibile: “e io, quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso”. L'elevazione di Gesù, cioè la sua morte e la sua risurrezione, è stato lo strumento attraverso il quale Gesù ha accorpato a sé l'umanità credente, associandola al suo destino di morte e risurrezione. Paolo elaborerà questo concetto in Rm 6,6-9: “Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui”. Ora grazie a lui siamo diventati figli nel Figlio e quindi eredi della sua stessa vita divina. Un progetto questo che era racchiuso nello stesso disegno salvifico del Padre: Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio” (Gal 4,4-7). Tutto ciò è significato dall'espressione i “miei fratelli”, la cui giustificazione è resa nel messaggio lasciato alla Maddalena: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, e Dio mio e Dio vostro”, con cui Gesù condivide la sua stessa paternità con noi e la sua stessa vita divina. Significativo, qui, come Gesù non dice “Padre nostro e Dio nostro”, ma tiene a distinguere come pur essendo unico il Padre, che è Dio, Gesù e i suoi fratelli si pongono su posizioni essenzialmente e sostanzialmente diverse: lui è il generato dal Padre; e noi soltanto suoi figli nel Figlio, figli e fratelli di adozione.

Il v.18 attesta la profonda trasformazione della Maddalena: essa va e annuncia ciò che il Risorto le disse. Essa, pertanto, diventa non solo testimone della sua risurrezione, ma anche apostolo, cioè l'inviata a compiere una missione di annuncio (“va dai miei fratelli e dì loro”) chiamata ad annunciare ciò che le è stato detto. Il termine tecnico proprio dell'annuncio, “¢ggšllw” (anghéllo) non lascia dubbi: la Maddalena è stata inviata dal Risorto a testimoniare la sua esperienza con lui e ad annunciare la sua parola (“ciò che le disse”). La trasformazione viene segnalata non soltanto dall'essere stata chiamata per nome (v.16a) e dalla stessa missione assegnatale (testimone della risurrezione: “Ho visto il Signore”; e annunciatrice della sua parola: “va e dì loro”), ma anche nel dichiarare la sua nuova ed inedita posizione nei confronti del Risorto, riconosciuto inizialmente come “Rabbunì”; ed ora come “il Signore”. Una breve quanto sintetica formula di fede, che in 20,28, sulle labbra dell'incredulo Tommaso, troverà la sua completezza: “il mio Signore e il mio Dio”. Anche qui il verbo “vedere” cambia radicalmente di contenuto: non è più il pedestre “blépei”, che non sa andare oltre a ciò che vede; non più il dubbioso “tzéorei”, che si tormenta in una ricerca senza fine; bensì “oráo”, il verbo della fede finalmente raggiunta e compiuta. Soltanto in quest'ultima fase la Maddalena potrà rivolgersi al Risorto con il titolo di “Signore”. Significativo, qui, il tempo verbale con cui è stato definito quest'ultimo “vedere”: “`Eèraka” (Eóraka, ho visto), posto al perfetto indicativo, che dice come l'azione del presente sia il frutto di una posta nel passato. Come dire che questo vedere, che le consente ora di cogliere finalmente il Risorto come “il Signore”, è frutto di un lungo cammino di fede, che, iniziatosi nel “blépei”, passando attraverso lo “tzéorei” è giunto infine alla luce di “oráo”. Vi è dunque racchiuso in quel “`Eèraka” un cammino evolutivo verso la pienezza della luce della risurrezione.


Le apparizioni ai discepoli
(vv.19-29)

Testo a lettura facilitata

I nuovi frutti della risurrezione: la riconciliazione e il dono dello Spirito

19- Essendo dunque sera, in quel giorno, il primo della settimana, ed essendo chiuse le porte dove erano i discepoli per la paura dei Giudei, venne Gesù e stette nel mezzo e dice loro: <<Pace a voi>>.
20- E detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. Gioirono dunque i discepoli vedendo il Signore.
21- Disse dunque di nuovo Gesù a loro: <<Pace a voi! Come il Padre ha inviato me, anch'io mando voi>>.
22- E detto questo, soffiò e dice loro: <<Ricevete lo Spirito Santo;
23- Qualora abbiate rimesso i peccati di alcuni, sono loro rimessi; qualora abbiate ritenuto (i peccati) di alcuni, sono ritenuti>>.

La beatitudine dei futuri credenti

24- Ora, Tommaso, uno dei Dodici, detto Dídimo, non era con loro quando venne Gesù.
25- Gli dicevano dunque gli altri discepoli: <<Abbiamo visto il Signore>>. Ma egli disse loro: <<Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e (non) metto il mio dito nel segno dei chiodi e (non) metto la mia mano nel suo fianco, non crederò>>.
26- E dopo otto giorni, di nuovo i suoi discepoli erano dentro (in casa) e Tommaso con loro. Chiuse le porte, viene Gesù e stette nel mezzo e disse: <<Pace a voi>>.
27- Poi dice a Tommaso: <<Porta il tuo dito qui e vedi le mie mani e porta la tua mano e metti(la) nel mio fianco, e non essere incredulo, ma credente>>.
28- Rispose Tommaso e gli disse: <<Il mio Signore e il mio Dio>>.
29- Gli dice Gesù: <<Perché mi hai veduto, hai creduto. Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto>>.

Note generali

Se nella prima sezione prevalente era il tema della scoperta della tomba vuota e della ricerca, scandita da una progressività definita dal triplice uso del verbo greco vedere, che dall'iniziale “blépo” giunge al finale “oráo”, passando attraverso la ricerca e la riflessione di “tzeoréo”, qui, in questa seconda sezione (vv.19-29), si impone la presenza del Risorto, che come tale è immediatamente riconosciuto e accolto. Nessun dubbio sulla sua presenza e sulla consistenza della sua nuova condizione. Non a caso qui, in questa seconda parte, compare soltanto il verbo “oráo” per indicare la visione del Risorto, il verbo della fede compiuta, che risuona per ben sei volte.

Con questi due racconti di apparizioni Giovanni, benché a modo proprio, si allinea alla tradizione sinottica, che lega la missione dei discepoli all'apparizione del Risorto11, ponendo in tal modo la loro autorità e la loro stessa missione sotto il suo diretto mandato, dando in tal modo una sorta di continuità storica e teologica a quella di Gesù. In loro, quindi, investiti dalla potenza dello Spirito del Risorto (Gv 20,22), opera Gesù stesso. Il contenuto del primo episodio di apparizione (vv.19-23), pertanto, ha una valenza squisitamente dottrinale, poiché su di esso si fonda ed è giustificata l'intera missione della Chiesa, che opera con autorità ed efficacia nel nome e per conto del Risorto. Il secondo episodio (vv.24-29), in cui si narra la pervicace incredulità di Tommaso, potremmo considerarlo come una sorta di drammatizzazione dell'incredulità e dei dubbi dei discepoli di fronte al Risorto, narrati nei Sinottici12, ma qui, in Giovanni, estesi a tutti i futuri credenti (20,29).

Entrambi i racconti sono incorniciati sia dalla dimensione temporale (vv.19a.26a) che da quella spaziale (vv.19b.26b). Il primo si colloca nel primo giorno della settimana, quello della scoperta della tomba vuota, ma è posto al termine di questo primo giorno; mentre il secondo otto giorni dopo. In entrambi i racconti la spazialità è caratterizzata da un luogo chiuso dove Gesù si impone con la sua presenza, portando con sé un duplice dono: la pace, che qui risuona per tre volte e che, come vedremo, va intesa nel senso della riconciliazione tra Dio e gli uomini e gli uomini tra di loro; una pace che deve informare e sostanziare la missione stessa dei discepoli, colta qui come azione di riconciliazione e come continuazione di quella storica di Gesù. Il secondo dono è quello dello Spirito, che qui infine viene rilasciato dopo un lungo cammino, segnato da tre tappe: lo Spirito che discende e rimane su Gesù agli inizi della sua missione (1,32-33); la restituzione dello Spirito al Padre al termine della sua missione, segnata dalla sua morte in croce (19,30); ed infine, qui dove lo Spirito è donato ai credenti. Tra questi due estremi, inizio e fine della missione terrena di Gesù, si pone la promessa dello Spirito13, che trova qui il suo compimento, così che potremmo dire che l'intero racconto giovanneo è sotteso da una forte tensione verso lo Spirito, il cui termine è ricorre 24 volte.

I nuovi frutti della risurrezione: la riconciliazione e il dono dello Spirito

Commento ai vv.19-23

Il v.19 si apre con una particolare attenzione alla dimensione temporale, triplicemente definita: “Essendo dunque sera, in quel giorno, il primo della settimana”. L'espressione “in quel giorno”, nel linguaggio biblico, in particolar modo sapienziale e profetico, inerisce al tempo riservato al giudizio di Dio; lo spazio temporale in cui si manifesta la sua potenza salvifica; esso assume toni escatologici ed è legato in qualche modo all'effusione dello Spirito sugli uomini (Gl 3,2). Ebbene, questo giorno è il primo di una nuova settimana, che si contrappone a quella vecchia, che si è consumata definitivamente sulla croce (12,32; Rm 6,6.8). È l'inizio della settimana di una nuova creazione segnata profondamente dall'azione dello Spirito, che dal Risorto viene effuso sull'intera umanità credente. Paolo ricorda questo passaggio dalla vecchia alla nuova creazione, che geme sotto l'azione dello Spirito, che la spinge, assieme ai credenti, verso la novità di vita, già presente, ma non ancora pienamente e definitivamente compiuta (Rm 8,19-23). Se questo è il contesto teologico entro cui vengono collocati i due racconti di apparizioni, queste avvengono soltanto la sera. Quest'ultima segnalazione di tempo rimanda il lettore al v.1, allorché ha avuto inizio la ricerca di buon mattino, quando c'era ancora buio, quando ancora non era chiaro cosa fosse successo in quella tomba vuota, che conservava soltanto qualche lino funerario. Soltanto ora, la sera, cioè in un tempo ormai lontano ed opposto al primo, quando, al mattino, cioè agli inizi della ricerca, c'era ancora buio, appare chiaro che Gesù è risorto. Questa luce, che si manifesta soltanto la sera, dice come la comprensione certa dell'evento della risurrezione non fu una cosa semplice e immediata, ma laboriosa e contrastata, che la presenza del triplice modo di vedere14 la tomba vuota e i lini funerari in essa contenuti, lascia intuire. Lo stesso clima entro cui si collocano le due apparizioni è opprimente e dice i dubbi che dovevano attanagliare le prime comunità credenti: le porte sono chiuse (vv.19.26) e i discepoli vi sono dentro, oppressi dalla paura dei Giudei, che avevano assunto un comportamento ostile e persecutorio nei confronti dei discepoli di questo sedicente Rabbi15, finito sulla croce, condannato non solo dagli uomini, ma su cui pesava anche la maledizione stessa di Dio. La Torah era esplicita in tal senso: “il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità” (Dt 21,23). Anche nei racconti lucani delle apparizioni, il Risorto è finalmente riconosciuto soltanto a tarda sera del giorno in cui iniziarono le ricerche sulla tomba vuota (Lc 24,29.33). È in questo clima difficile, che appare e inizia a consolidarsi la fede nel Risorto: “venne Gesù e stette nel mezzo e dice loro: <<Pace a voi>>”.

La venuta di Gesù e il suo rimanere in mezzo ai discepoli si contrappone qui al vuoto della tomba che aveva gettato la chiesa nascente nel buio del dubbio e dell'incertezza. Ora, dopo un lungo cammino di ricerca e di riflessione sull'evento della tomba vuota e dei lini funerari qui ritrovati, si impone la presenza di Gesù o per meglio dire un nuovo modo di essere presente di Gesù. Quel “venne” dice l'emergere, l'uscire della nuova presenza di Gesù dai dubbi, dalle incertezze, dalle esitazioni, dalle ambiguità e dal disorientamento, che si erano venuti a creare tra i discepoli, allorché era ancora buio. La scoperta quindi di una nuova presenza di Gesù si andava sempre più affermando in mezzo a loro. Quel “stette”, infatti, dice l'imporsi di questa nuova presenza. Ci troviamo, qui, di fronte ad un aoristo ingressivo o incipiente (œsth, éste, stette), che dice come il venire di Gesù e il suo stare in mezzo ai discepoli ha avuto inizio dalla scoperta dell'evento risurrezione e da questa nuova ricomprensione del Gesù della storia alla luce delle Scritture, ora risorto, nuovamente in seno al Padre, dal quale è uscito e al quale è ritornato (16,28), ma presente comunque in mezzo a loro attraverso il dono dello Spirito16 e della sua Parola e nello spezzare il pane (Lc 24,30-32; At 2,42). Sono questi i nuovi luoghi dell'incontro e dell'esperienza del Risorto da parte della chiesa nascente, realizzando quindi la promessa di 14,18: “Non vi lascerò orfani, vengo a voi”. Un venire e uno stare che porta con sé il dono della pace: “Pace a voi”, che se da un lato dice l'effetto della scoperta della risurrezione e della nuova presenza del Risorto che si è imposta in mezzo ai discepoli, tormentati dal dubbio; dall'altro indica il primo dono della risurrezione: la pace, cioè la riconciliazione tra Dio e gli uomini e degli uomini tra loro nel Risorto, divenuto il luogo di incontro e di rappacificazione universale (Ef 1,10; 2,14).

Il v.20 va a completare il v.19, rilevando la natura del Risorto (v.20a) e la nuova relazione che si instaura con lui da parte dei credenti (v.20b): da un lato si racconta come Gesù mostrò le mani e il fianco; dall'altro la gioia dei discepoli nel vedere il Signore. Significativa la sottolineatura del Gesù che mostra le mani e il fianco ai suoi, forate dai chiodi le prime e dalla lancia il secondo, quasi che ciò costituisca una sorta di carta d'identità di riconoscimento, venendo a crearsi in tal modo una continuità tra il Gesù della storia e quello della metastoria. Il Risorto non è un qualcosa di diverso o d'altro rispetto al Gesù della storia, ma è esattamente questi, ora, trasformato. La risurrezione, pertanto viene a costituirsi come un passaggio tra la storia e la metastoria, attraverso la trasformazione di una carne decaduta e corrotta dal peccato ad una carne risanata e spiritualizzata dalla potenza dello Spirito (Rm 1,3-4), che colloca il Gesù della storia, ormai così trasformato, in seno al Padre da cui era uscito, quale Logos coeterno al Padre (1,1-2.14). Viene dunque qui esaudita la preghiera di Gesù al Padre: “E adesso, Padre, tu glorifica me con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse presso di te” (17,5). Questa sottolineatura della corporeità storica di Gesù ora trasformata è comune anche a tutti i Sinottici. In Mt 28,5b-6a l'angelo rivolto alle donne dice loro “So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto”; in Mc 16,6 è sempre l'angelo ad annunciare alle donne “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano deposto”; ed infine, in Lc 24,39, più vicino a Giovanni nel racconto delle sue apparizioni al gruppo dei discepoli, racconta di Gesù che dice ai suoi: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”. La risurrezione dunque non trasforma Gesù in un fantasma, una sorta di spirito decorporeizzato, ma gli lascia la sua consistenza corporea, benché trasformata: da carne decaduta e corrotta dal peccato a carne spiritualizzata. Una corporeità che non è altra da prima, ma è quella, ora, trasformata. Viene dunque qui a costituirsi una nuova creazione dell'uomo, in cui la carne del vecchio Adamo, assunta dal Logos nella sua incarnazione (1,14a), viene distrutta sulla croce (Rm 6,6), sulla quale Gesù ha portato l'intera umanità e l'intera creazione (12,32; 1Cor 15,21-22), per poi trasformarle in nuove creature. Gesù viene a costituirsi, pertanto, principio di una nuova creazione, (1Cor 15,23) alla quale è associata l'intera umanità credente e con lei la stessa creazione, per un principio di solidarietà che lega l'uomo al suo habitat (Gen 6,5-13; Rm 8,19-23).

Il nuovo stato di vita in cui si trova ora Gesù è colto immediatamente dai discepoli. Lo lasciano intendere due verbi: “gioirono” e “vedendo”. L'apparizione del Risorto, a differenza delle teofanie o angelofanie, che gettano nella costernazione, nella paura e nel timore l'uomo, qui, invece, lo stato d'animo esclusivo è la gioia, che non va intesa come una sorta di esaltazione emotiva, ma come l'espressione di una condizione di vita che colloca i credenti nel Risorto, rendendoli partecipi della stessa vita divina, per mezzo del loro credere, espresso qui dal verbo “vedere”, reso in greco da “oráo” („dÒntej, idóntes, vedendo), il verbo della fede compiuta che va oltre al semplice vedere fisico delle cose; un vedere in cui ormai non vi è più nessun dubbio e ogni ricerca è terminata. Ci troviamo qui di fronte ad un participio presente causativo “idóntes”, cioè è il vedere che causa la gioia; in altri termini l'aver raggiunto la pienezza della fede nel Risorto, colloca il credente nella sua stessa vita, che è vita eterna, che in Giovanni definisce la vita stessa di Dio. Questo, infatti è il senso della missione di Gesù, dono di amore del Padre: “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna” (3,16). Una fede, quindi, capace di generare figli di Dio, partecipi della sua stessa vita: “Ma quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati” (1,12-13). La fede nel Risorto, dunque, se da un lato riallaccia i rapporti con il Gesù della metastoria, dall'altro colloca il credente nella sua vita.

Il v.21, a motivo del suo peso dottrinale, si colloca al centro della pericope in esame (vv.19-23) e lega la missione della chiesa al mandato del Risorto, che, a sua volta, lo fa risalire direttamente al Padre. L'apostolicità della chiesa, intesa nel suo senso etimologico di inviata o mandata, risale pertanto direttamente al Padre, che in essa opera nello stesso Risorto; come dire che la chiesa rientra nel progetto salvifico del Padre e in quel mandato si costituisce come il naturale prosieguo del Gesù della storia, che continua la sua azione storica nella chiesa stessa.

Il v.21 si apre con una costruzione redazionale che introduce un nuovo elemento: “Pace a voi! Come il Padre ha inviato me, anch'io mando voi”. Risuona qui nuovamente l'augurio di pace, che è dono di pace, primario frutto della risurrezione, al quale è legata la missione stessa della chiesa e ne costituisce il contenuto e l'obiettivo. È significativo, infatti, come al dono della pace segua immediatamente il mandato che si sviluppa attraverso un parallelismo: “come il Padre ha mandato me, così io mando voi”. Si tratta dunque di un mandato a cascata, che parte direttamente dal Padre, cade sul Figlio e da qui rimbalza sulla chiesa, radicando la missione della chiesa nella stessa volontà salvifica del Padre. Come dire che la chiesa rientra ed è legata al progetto salvifico del Padre, attuatosi in Gesù, che ora prosegue in essa.

I vv.22-23 potremmo definirli come l'esplicitazione del v.21, nel quale si è parlato di una missione, e qui il dono dello Spirito ne costituisce una sorta di unzione consacratoria, che dà efficacia alla missione stessa, divenendo essa luogo di azione di Dio. Viene qui a crearsi una sorta di parallelismo con la missione di Gesù, i cui inizi furono segnati dall'unzione dello Spirito, che discese su di lui e vi rimase per tutto il tempo della sua missione terrena (1,32-33). Un'azione missionaria che ha un'efficacia generatrice e rigeneratrice e l'obiettivo di ricollocare l'uomo in seno a Dio, da dove tragicamente era uscito. Il soffiare di Gesù sui discepoli, infatti, richiama da vicino il soffio che Dio infuse in Adamo, rendendolo un essere vivente (Gen 2,7). Un Soffio dunque capace di generare l'uomo alla vita stessa di Dio. Un Soffio che ha in qualche modo accorpato l'uomo a Dio, rendendolo sua immagine e sua somiglianza. Ed è proprio questo il senso del dono di questo Soffio, che investe tutti i credenti, rendendoli partecipi della vita stessa di Dio, ma anche capaci di generare e rigenerare la vita stessa di Dio in mezzo agli uomini, non per loro intrinseca capacità, ma perché in essi, investiti e rivestiti dello Spirito, opera efficacemente lo Spirito stesso. Anzi l'azione missionaria della chiesa è il luogo stesso dell'azione dello Spirito, che è Spirito del Risorto, il cui intento è quello di ricondurre l'uomo in seno a Dio, così come era nei primordi dell'umanità, allorché “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). Ecco dunque il senso primario di quel “Pace a voi”, che qui viene dettagliato dal v.23: “Qualora abbiate rimesso i peccati di alcuni, sono loro rimessi; qualora abbiate ritenuto (i peccati) di alcuni, sono ritenuti”. Si tratta dunque di una riconciliazione definitiva tra Dio e gli uomini e, conseguentemente, degli uomini tra loro, poiché non vi può essere riconciliazione e pace fatta con Dio, se questa non si riflette fattivamente anche nei nostri cuori e in mezzo agli uomini, poiché l'amore verso Dio passa necessariamente attraverso l'amore verso i fratelli. Proprio in tal senso 1Gv 4,20 sentenzia: “Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”. E così similmente il Gesù matteano insegna a pregare ai suoi, chiedendo al Padre: “e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12), legando saldamente il perdono e la riconciliazione di Dio verso di noi alla nostra stessa capacità di saper perdonare e riconciliarsi con gli altri. Infatti, continua: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15), poiché “col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati” (Mt 7,2). Quel “pace a voi” dunque è carico di riconciliazione e di perdono, che viene affidato ai credenti, che sono chiamati con la loro vita a testimoniare questa pace del Risorto e a donarla fattivamente agli altri, poiché in questa riconciliazione fluisce la vita stessa di Dio; questa pace ricevuta e donata, infatti, è sostanziata dall'azione stessa dello Spirito, che opera efficacemente nella chiesa e in ogni credente. Per questo il perdonare o il ritenere da parte della chiesa e dei credenti produce la sua efficacia anche presso Dio.

La beatitudine dei futuri credenti

Commento ai vv.24-29

Se la pericope precedente (vv.19-23) presentava l'apparizione del Risorto alla comunità dei discepoli, che, senza esternare il benché minimo dubbio, nessuna incertezza e nessuna esitazione, ha riconosciuto e accolto con gioia il suo Maestro e Signore, dal quale è stata investita di una missione di riconciliazione, sancita con il dono dello Spirito, qui, in 24-29, l'autore accentra la sua attenzione su di una figura emblematica di discepolo, che nel vangelo giovanneo ricopre un ruolo critico all'interno della comunità credente: egli è colui, infatti, che non accetta con facilità la sequela di Gesù e non teme di esternare la sua critica e le sue riserve verso un personaggio alquanto inquietante, come era Gesù. Nel racconto della risurrezione di Lazzaro egli è quello che non comprende ciò che sta per accadere e legge il recarsi di Gesù nuovamente in Giudea, presso Lazzaro, come un inutile rischio, al quale controvoglia si associa (11,7-8.16); e similmente in 14,5, non comprendendo il discorso che Gesù stava facendo, gli chiede di indicargli la via dove si stava incamminando, a lui sconosciuta. Ed ora qui, in modo più palese, egli è colui che si tira fuori dal mazzo; non era infatti presente insieme agli altri all'apparire di Gesù; egli è colui che non accetta di buon grado una testimonianza, ma preferisce seguire la logica del prima vedere e toccare e poi credere (v.25). Insomma, una figura quella di Tommaso che funge da Bastian contrario, uno non facile da convincere e che frappone tra sé e l'evento numerosi ostacoli17. Egli diviene, quindi, la figura del credente dubbioso e critico, che a fronte di un annuncio o di una testimonianza esprime tutte le sue riserve. L'annuncio, infatti, avviene otto giorni dopo l'evento della risurrezione, un tempo che vede il frapporsi di sette giorni tra la prima e la seconda esperienza del Risorto, in cui il sette dice un tempo ormai compiuto, un tempo che vede il compiersi di un annuncio (v.25a), sul quale il nuovo credente è chiamato a porre la sua fiducia; un annuncio che, invece, spesso si scontra con una critica di tipo razionalistico e positivistico, in cui il vedere e il toccare prendono il posto del credere (v.25b). Siamo qui in un tempo e in un contesto storico ormai lontano dalla prima esperienza; infatti, pur affermando che i discepoli erano dentro a porte chiuse, non viene più detto che è per timore dei Giudei. Il quadro storico, quindi, qui è mutato. A confermarlo poi è la proclamazione della beatitudine con cui si chiude il racconto, rivolta a tutti i futuri credenti (v.29b), di cui Tommaso è qui la metafora. Infatti, l'esperienza di Gesù qui avviene soltanto nell'ottavo giorno, quello che per i nuovi credenti è la domenica, il primo giorno dopo il sabato, allorché i primi discepoli si ritrovavano “assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42). Questo è ormai il luogo privilegiato dove ora si può incontrare e fare esperienza del Risorto. Non si può più aspettarsi, quindi, di abbracciare il corpo del Risorto, come desiderava la Maddalena, quasi a trattenerlo per sé e continuare il rapporto con lui come era prima dei drammatici eventi del Golgota; un Risorto che non è più percepibile con l'ormai imperfetta strumentazione dei sensi, adatta a cogliere realtà fisiche, collocate all'interno della storia, ma non quelle metafisiche, poste nella metastoria. Per questa tipologia di realtà serve la ragione illuminata e rafforzata dalla fede, radicata nelle Scritture. Solo in tal modo si può nuovamente incontrare il Risorto e farne una nuova e personale esperienza di vita.

La struttura di questo secondo racconto di apparizioni, che vede come protagonista Tommaso, è scandita in due parti: a) i vv.24-25, che potremmo considerarli di transizione, perché creano una continuità narrativa tra il primo e il secondo racconto; b) mentre i vv.26-29 riportano il racconto di Tommaso, che si conclude con la proclamazione di una beatitudine, che apre ai nuovi e futuri credenti.

I vv.24-25, nel creare una continuità narrativa tra i due racconti di apparizioni, fungono da introduzione al racconto di Tommaso, che qui è presentato dall'autore come “uno dei Dodici”, dimenticando che nel frattempo Giuda, il traditore, ormai non faceva più parte del Gruppo. In tal senso i racconti sinottici sono più coerenti, perché parlano, dopo la defezione di Giuda, sempre di “Undici”18. Va tuttavia tenuto presente come Giovanni, contrariamente ai Sinottici, mostra scarso interesse per il gruppo dei Dodici, tradizionalmente definito come “i Dodici” e fa riferimento alla istituzionalizzazione delle comunità palestinesi, a cui quella carismatica giovannea era del tutto estranea e a queste contrapposta. Pertanto, l'espressione “uno dei Dodici” più che una imprecisione storica è un riporto, da parte dell'autore giovanneo, della tradizione palestinese che vedeva nel collegio dei “Dodici” il fondamento della chiesa, in cui il primato spettava a Pietro.

Tommaso, dall'aramaico tĕ'ōmā' che significa gemello ed ha il suo corrispondente greco in dídimos, è presentato come assente dal gruppo dei discepoli alla venuta di Gesù: “non era con loro”. Significativa questa espressione che indica come questa figura di discepolo non si allineava perfettamente con il gruppo degli altri discepoli; non era, infatti, con loro. Probabilmente l'autore giovanneo ha voluto fare di questo discepolo la metafora di tutti quei credenti, la cui fede era critica e che non accettavano passivamente i dettami di questa fede. Il riferimento, probabilmente, era qui rivolto sia alla componente giudeocristiana che a quella ellenistica della comunità giovannea; il nome del discepolo infatti è riportato sia in aramaico che in greco. La prima aveva certamente problemi nel riconoscere la divinità di Gesù e il suo messianismo sofferente, mentre concepiva la risurrezione come una sorta di prolungamento della vita terrena (Mt 22,23-28) e questo potrebbe spiegare l'attaccamento della Maddalena al Risorto, nei cui confronti essa tendeva a continuare il rapporto precedente gli eventi del Golgota; la seconda mal sopportava la risurrezione di Gesù. Una testimonianza in tal senso ci viene direttamente da At 17,32, dove gli ateniesi seguono attentamente i ragionamenti di Paolo sul Dio Ignoto (At 17,19-30), ma giunto ad affermare la risurrezione di Gesù (At 17,31), se ne vanno ironici e sdegnati: “Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: <<Ti sentiremo su questo un'altra volta>>” (At 17,32). La risurrezione della carne era un tema inconcepibile nella cultura greca, che aveva una visione negativa della materia, che riteneva incompatibile con la divinità, estranea al mondo degli uomini.

L'annuncio che viene fatto dal gruppo dei discepoli, testimoni dell'evento del Risorto è molto esplicito: “Abbiamo visto il Signore”. Il verbo vedere è espresso in greco con “Ðr£w” (oráo), il verbo del vedere superiore, con cui l'autore giovanneo designa l'esperienza della fede compiuta, che sa andare oltre alle apparenze e sa cogliere il Mistero. Qui il verbo è posto significativamente al perfetto indicativo: “`Ewr£kamen” (Eorákamen), che dice come uno stato presente di fede sia conseguente ad un'azione passata, la scoperta della risurrezione e la ricomprensione del Gesù della storia nel Gesù della metastoria, ora presente nella Parola e nello spezzare il pane. La fede nel Risorto, che qui viene dunque annunciata a Tommaso da parte dei discepoli, testimoni del Risorto, si radica nella loro stessa esperienza dell'evento della risurrezione (1Gv 1,1-4). E ciò che qui i discepoli hanno visto non è Gesù, ma “il Signore”, termine con cui nella chiesa primitiva veniva chiamato il Risorto, per indicare la sua signoria universale. E quindi un Gesù trasformato. Ed è proprio a questa particolare visione di fede che Tommaso si oppone. Il v.25a, infatti, si apre con un'espressione avversativa molto forte: “Ð dš” (o dé), letteralmente “ma questi”, cioè Tommaso, che si contrappone agli altri discepoli. Egli infatti è quello che si pone fuori dal gruppo e che non si allinea molto facilmente. Una contrapposizione che assume toni molto duri: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e (non) metto il mio dito nel segno dei chiodi e (non) metto la mia mano nel suo fianco, non crederò”. Il verbo qui tradotto con “metto” è reso in greco con “b£llw” (bállo), che letteralmente significa getto dentro, butto dentro, spingo dentro, che dice tutta la durezza dell'espressione. Non si tratta di un semplice toccare, ma di immergere la mano, quasi a voler verificare la consistenza di quel corpo, penetrandolo con il proprio; mentre quel insistere sul vedere e sul mettere il dito e la mano dice tutta la durezza e la resistenza della sua incredulità di fronte ad un evento soltanto annunciato.

I vv.26-29, introdotti dai vv.24-25, narrano la seconda apparizione del Risorto al gruppo dei discepoli. Il v.26 ricrea in qualche modo lo stesso contesto della precedente apparizione con quel “di nuovo” (p£lin, pálin) e in particolare il v.26b, che riproduce sostanzialmente il v.19. Tutto qui richiama la prima esperienza del Risorto, ma in realtà qui le cose sono radicalmente cambiate. Il v.26a, infatti, colloca questa seconda apparizione otto giorni dopo ed associa al gruppo dei discepoli anche Tommaso. Già si è sopra accennato come questo ottavo giorno corrisponda alla domenica, in cui le prime comunità credenti si ritrovavano insieme per celebrare la memoria del Signore nell'ascoltare la parola e nello spezzare il pane (2,42). Ed è proprio in questo contesto che Tommaso si trova questa volta in comunione con gli altri discepoli: “e Tommaso con loro”, che si contrappone al precedente “non era con loro” (v.24). Inoltre, benché le porte anche qui siano chiuse, tuttavia scompare la motivazione “per la paura dei Giudei”. Le porte chiuse e l'essere dentro dei discepoli richiamano da vicino le prime celebrazioni eucaristiche, i primi incontri di preghiera dove si ascoltava la Parola, all'interno delle case chiesa; case di normale abitazione messe a disposizione dei primi credenti per le assemblee celebrative domenicali, allorché non vi erano ancora pubblici luoghi di culto. È dunque in questo contesto di fraternità domenicale che si impone nuovamente la presenza del Risorto: “viene Gesù e stette nel mezzo e disse: <<Pace a voi>>”. Qui il “venire” di Gesù non è più espresso con un aoristo come nella precedente apparizione (“venne Gesù”), ma con un presente indicativo: “viene Gesù” per indicare la persistenza di questa venuta, che continua nel tempo. Il presente indicativo in greco esprime, infatti, un'azione durativa. Una persistenza che è strettamente legata al culto, dove il credente fa nuovamente l'esperienza del Risorto, nell'ascolto della Parola e nello spezzare il pane. È questa nuova esperienza, questo nuovo modo di esperire il Risorto, nella Parola e nel Pane, che crea un nuovo rapporto con il Gesù della metastoria. Il pressante invito di “non essere incredulo, ma credente” dice come l'esperienza del Risorto non passa più attraverso i sensi del vedere e del toccare, ma attraverso la fede. Si rende pertanto necessario una nuova modalità di approccio con Gesù, che richiede un passaggio, una conversione che va dall'incredulità al credere. Un cambio quindi di indirizzo esistenziale, che chiama il credente a sublimare la sua conoscenza sensuale in conoscenza spirituale.

Il v.28 riporta la risposta di Tommaso ed attesta la sua radicale e profonda trasformazione interiore: da una mente positivistica e razionalistica, ad una mente mistica, capace ora di vedere e di esperire veramente Gesù, quale suo Signore e suo Dio, al di là dei sensi. Significativo l'articolo determinativo davanti ai nomi: “Signore” e “Dio”, che attribuiti al Risorto lo rendono in modo esclusivo ed unico “Signore” e “Dio” per il discepolo; mentre l'aggettivo possessivo “mio” dice come l'esperienza di Gesù quale Signore e Dio appartiene ora anche a Tommaso. Finalmente anche questo discepolo, emblema della difficoltà del credere, entra in perfetta comunione con il gruppo dei discepoli e condivide con loro la comune esperienza e conoscenza del Risorto.

Il v.29 chiude il racconto di Tommaso con una sentenza dal sapore sapienziale, quasi una sorta di testamento e di promemoria lasciato ai futuri credenti e che in qualche modo anticipa i vv.30-31: “Perché mi hai veduto, hai creduto. Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto”. Si crea qui un parallelo tra due tipologie di credenti o forse è meglio dire tra due generazioni di credenti: coloro che hanno veduto e quindi, per questo, hanno anche creduto (verbi posti qui al perfetto indicativo, che radicano lo stato presente del saper cogliere il Mistero e del credere in esso alla primitiva esperienza del Risorto). Il riferimento qui è quello della prima generazione di credenti, posti a ridosso degli eventi storici allorché c'erano ancora i testimoni diretti. È la generazione del “vide e credette” del Discepolo Prediletto (v.8), che dà la sua testimonianza in 1Gv 1,1-4, dove viene sottolineata l'esperienza sensoriale del Verbo della Vita, colto come tale fin dal suo principio storico (1Gv 1,1a). A questa prima generazione di credenti si affianca ora quella venuta “otto giorni dopo”, la generazione dell'esperienza cultuale del Risorto. Questa generazione è dichiarata “Beata”, un'espressione che designa lo stato di vita nella sua stretta relazione con Dio, il Beato per eccellenza, collocando in tal modo il credente nella vita stessa di Dio. Una beatitudine che viene riservata in particolar modo ai credenti futuri, la cui fede poggia soltanto sull'annuncio e non più sull'esperienza diretta. Ci troviamo qui di fronte ad un aoristo gnomico (oƒ m¾ „dÒntej kaˆ pisteÚsantej, oi mè idóntes kaì pisteúsantes), usato nelle sentenze e nei proverbi, che esprime un'esperienza acquisita a prescindere dal tempo e, pertanto, valida per ogni tempo.

La conclusione del vangelo e le sue finalità

Testo

30- Dunque Gesù in presenza dei [suoi] discepoli fece certamente molti e altri segni, che non sono stati scritti in questo libro;
31- ma questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome.

Commento ai vv.30-31

Questi due versetti si pongono a conclusione dell'intero quarto vangelo e in quanto conclusione generale, questi vanno colti e ricompresi con esclusivo riferimento all'intera opera, senza particolari rimandi a specifici contesti immediatamente precedenti, benché, cedendo ad una lettura più restrittiva, ma, a nostro avviso impropria e deviante, il v.30 possa essere riferito in qualche modo nell'immediato alle apparizioni. Tuttavia questo apparente legame con quanto precede va compreso come il tentativo del redattore finale di dare una sorta di continuità narrativa anche a questi due ultimi versetti, ma certamente questi non vanno letti e compresi alla luce di quanto li precede nell'immediato. Qui, infatti, non ci troviamo alla conclusione del cap.20, ma dell'intero vangelo giovanneo; conclusione che è soltanto collocata nel cap.20, ma non vi appartiene.

Questi due versetti finali sono scanditi in due parti: il v.30 crea il contesto conclusivo generale, una sorta di sommario generico, in cui si fa riferimento in senso lato a “molti e altri segni” compiuti da Gesù, ma non compresi in questo testo scritto, lasciando in tal modo intendere la complessità del manifestarsi storico di Gesù, certamente non riducibile alle poche, seppur ricche e profonde pagine del racconto giovanneo. Su questa linea si pone anche il redattore finale del cap.21, che nella sua conclusione, la seconda di questo vangelo, dirà in modo iperbolico: “Ma ci sono anche molte altre cose che Gesù fece, se queste fossero scritte una per una, credo che lo stesso mondo non conterrebbe i libri scritti” (21,25). Contrariamente al v.30, il v.31 allude, invece, ad un'opera di selezione di questo manifestarsi storico di Gesù, che ha un duplice obiettivo, l'uno conseguente all'altro e l'uno dipendente dall'altro: a) sollecitare la fede nel lettore verso la persona di Gesù, definito Cristo e Figlio di Dio. L'espressione dipendente qui dal verbo credere è oggettiva e quindi ci si trova di fronte ad un contenuto dottrinale, che sostanzia la fede stessa; b) conseguentemente, credendo in lui come Cristo e Figlio di Dio si abbia a conseguire in tal modo la vita eterna nel suo nome, cioè per suo mezzo. In questo secondo passaggio ci si trova di fronte ad un contenuto dottrinale che interpella la vita di ogni credente e decide della sua stessa salvezza. Il v.31, pertanto, inerisce alla fede che si snoda su di un duplice livello, che, usando il linguaggio di S. Agostino, potremmo definire come “fides quae creditur”, che definisce l'oggetto dottrinale che costituisce il contenuto della fede; e “fides qua creditur”, in cui l'oggetto della fede, incarnato esistenzialmente nella vita del credente, diviene per lui salvifico19.

Se questo sembra essere il senso di questa conclusione, un po' meno evidente appare nei suoi contenuti più specifici.

Il v.30 allude a molti ed altri segni compiuti da Gesù in presenza dei discepoli, ma qui non riportati. Questa espressione va compresa all'interno dei criteri sopra citati: qui ci troviamo in un contesto conclusivo che riguarda l'intero vangelo giovanneo e quindi l'espressione non può che riferirsi ad uno spettro più ampio che non siano i racconti delle apparizioni. Per comprendere il significato del termine “segni” in questo contesto di sommario generale è necessario rifarsi al combinato dei vv. 2,11 e 1,14. In 2,11, posto a conclusione del racconto delle nozze di Cana, l'autore commenta come “Gesù fece questo inizio dei segni in Cana della Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. I segni, dunque, sono finalizzati alla manifestazione storica della gloria di Gesù, perché i discepoli vedendoli credano in lui. Questi segni, che nel linguaggio giovanneo definiscono i miracoli, assumono, invece, qui, nel contesto di conclusione generale dei vv.30-31, un nuovo significato che viene assegnato loro dal v. 1,14: “E la Parola divenne carne e si attendò tra noi, e contemplammo la sua gloria, gloria come unigenito da Padre, piena di grazia e di verità”. In altri termini il Logos eterno del Padre, che Giovanni ha contemplato nella sua coeternità con il Padre ai vv.1,1-2, si è fatto carne e, in quanto Logos Incarnato, l'autore attesta che noi “contemplammo la sua gloria”. L'intero racconto giovanneo, pertanto, si qualifica come una contemplazione del dispiegarsi storico della gloria del Logos Incarnato, gloria intesa come manifestazione storica del Logos Incarnato. Ed è proprio questo dispiegarsi storico, questo manifestarsi storico, cioè l'intera missione di Gesù, il suo agire e il suo dire che costituiscono i segni di cui parlano i vv.30-31.


Giovanni Lonardi



N O  T E

1Sulla composizione originaria di Giovanni cfr. le diverse teorie riportate dal R.E. Brown, pagg.1251-1254; op. cit.

2Per un'ampia trattazione sulla formazione della comunità giovannea, la sua natura e i suoi rapporti con il mondo giudaico, pagano e in particolare con le stesse comunità credenti della Palestina cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 30-38

3Cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, pag.1178; R.E. Brown, Giovanni, pag.1294 – tutte le opere citate

4Sul tema del “vedere” in Giovanni cfr. la Parte Introduttiva del presente studio, pagg. 80-83

5Per uno studio scientifico dell'epigrafe e della sua autenticità cfr. l'articolo di Gianfranco Purpura, L'editto di Nazareth, De violatione Sepulchrorum, stampato e rilegato nella tipografia di Agnano, Agnano Pisano (Pisa), marzo 2012 – Cfr. anche M. Sordi, I cristiani e l'impero romano, edito Jaca Book, Milano I edizione 1984; edizione riveduta ed aggiornata 2004

6Passi scritturistici utili per una lettura cristologica del Risorto possono essere Sal 16,9-10; Os 6,2; Gn 2,1-11, richiamato espressamente da Mt 12,40; Lc 11,29

7Cfr. pag 6 del presente studio del cap.20

8Cfr. Es 33,12-14.17; Is 41,25; 43,1; 45,3.4

9Cfr. Mt 4,19; Mc 1,17; 2,14; Lc 5,27

10Sulla questione cfr. R.E. Brown, Giovanni, pag.1247 e pagg.1270-1279

11Cfr. Mt 28,18-20; Mc 16,16-18; Lc 24,46-48

12Cfr. Mt 28,17b; Mc 16,11.13-14; Lc 24,9-11.16.25.37-38.41

13Cfr. 7,39; 14,17.26; 15,26; 16,13

14Il riferimento è ai tre verbi blépo, tzeoréo, oráo, che scandiscono il progressivo avanzamento della ricerca e le difficoltà in essa incontrate.

15Cfr. 7,13; 9,22; 12,42; 16,2; 19,38

16Cfr. Gv 7,39; 14,16.17.26; 15,26; 16,7.13; 20,22

17Sulla figura di Tommaso cfr. il commento al cap.14, pag.9 ultimo capoverso della presente opera.

18Cfr. Mt 28,16; Mc 16,14; Lv 24,9.33; At 1,25; 2,14

19La distinzione delle due tipologie di fede “fides quae” e “fides qua” compare per la prima volta nel De Trinitate di S.Agostino, 13, 2, 5. Con la prima formula viene definito l'oggetto del credere; con la seconda l'approccio esistenziale da parte del credente all'oggetto del credere.