IL VANGELO DI MATTEO


Il racconto della passione e morte di Gesù

Capp. 26 – 27


Parte Seconda


Dal processo davanti a Pilato alla sepoltura di Gesù


Cap. 27





Introduzione

Se il cap. 26 presentava il dramma di Gesù, maturato e prodotto all'interno delle pareti domestiche dei suoi discepoli e del suo popolo, il cap. 27 vede questo dramma consumarsi all'interno del mondo pagano e per opera sua, con il concorso delle autorità giudaiche, che formarono il trait-d'uninon tra il mondo giudaico e quello romano. Il punto di passaggio tra i due mondi sono i vv.27,1-2.

Il cap. 27, come del resto il precedente cap. 26, ben lungi dall'essere una compatta ed obiettiva esposizione cronachistica di eventi storici, è formato da undici unità narrative1 imbastite assieme da un apparente svolgersi logico dei fatti, ma, in realtà, esse sono soltanto giustapposte l'una accanto all'altra, sottese da intenti propri dell'autore e che l'autore lascia trasparire senza equivoci. Il filo logico della dinamica storica degli eventi, qui, è molto tenue e, comunque, non costituisce la prima preoccupazione dell'autore. All'evangelista, del resto, non interessano i fatti e il loro logico succedersi, bensì il loro contenuto. Egli, qui, sta parlando alla sua comunità, la sta catechizzando, le sta fornendo le motivazioni per cui credere, nonostante le pesanti obiezioni provenienti dal giudaismo circa la natura e l'identità di Gesù, probabilmente motivo di disagio e di dibattito all'interno della sua comunità, e narrativamente raccolte nei vv. 38-44. Vi è soprattutto in questa seconda parte del racconto della passione, un denso concentrarsi di brevi unità narrative, da cui traspaiono, in modo inequivocabile, gli intenti teologici, apologetici e polemici del racconto stesso. Il cap. 27, infatti, si apre sottolineando le intenzioni omicide delle autorità giudaiche; la stessa morte di Giuda costituisce di fatto un atto di accusa contro di esse; gli unici contrari a Gesù sono le autorità religiose giudaiche e i due briganti, crocifissi con Gesù. Interessante questo abbinamento tra le autorità giudaiche e i briganti (v.44), un'associazione che sembra identificare il comportamento delle prime con i secondi. Il mondo pagano, invece, riconosce ripetutamente l'innocenza di Gesù. Esso si meraviglia, infatti, che Gesù non si difenda dalle accuse dei suoi; cerca di liberarlo con l'escamotage della scelta tra lui e Barabba, sperando, inutilmente, nel buon senso delle autorità giudaiche e della gente; si sottolinea, quasi per inciso, che Gesù fu consegnato per invidia; viene evidenziata ancora l'innocenza di Gesù, definito giusto dalla moglie di Pilato; il quale, lui, un pagano, diventa qui l'inascoltata e imbarazzata coscienza morale del popolo dell'Alleanza: “Ma, dunque, quale male ha fatto?” (v.23), in cui riecheggiano le parole di Michea 6,3; è sempre il mondo pagano, alla fine, che riconoscerà nel Crocifisso, offeso, beffeggiato e respinto dai Giudei, il Figlio di Dio e la sua regalità e lo proclamerà apertamente. Si viene, in tal modo, ad innescare un serrato confronto tra il giudaismo e il paganesimo, quest'ultimo ben disposto nei confronti di Gesù; mentre il giudaismo ne esce con una pesante condanna. Si potrebbe ben dire che il cap. 27 più che la narrazione del processo e della condanna di Gesù sia, in realtà, un processo e una condanna contro il Giudaismo, a motivo del suo pervicace rifiuto di Gesù, riconosciuto e accolto, invece, dal disprezzato mondo pagano. E sarà proprio il riconoscimento da parte di quest'ultimo, che costituirà un'ulteriore condanna per i Giudei. Essi, infatti, avevano tutto, la Legge, i Profeti, l'Alleanza, la Tradizione dei Padri; ma tutto ciò non è servito a loro per riconoscere il tempo dell'azione di Dio nel suo Cristo. Lo hanno riconosciuto, invece, i pagani. Sarà proprio questo, infatti, il cruccio che tormenterà Paolo, che cercherà di darsi delle risposte (Rm 9-11).

I vv.1-2, come si è accennato nell'introduzione, sono di transizione, poiché chiudono il ciclo narrativo del cap.26 (v.1), che ha visto il nascere e il prendere consistenza del dramma di Gesù in seno ai suoi discepoli e al suo popolo, e traghettano il lettore verso l'evolversi dello stesso dramma presso il mondo pagano (v.2). Questi due versetti, quindi, formano una sorta di ponte tra il giudaismo e il paganesimo, congiungendo tra loro i due mondi. Il v.27,1, inoltre, formando inclusione con i vv.26,3-4, delimita la sezione narrativa riguardante le vicende interne al giudaismo, mentre il v.27,2 apre la sezione del mondo pagano. Questo binomio giudaismo-paganesimo, entrambi coinvolti in vario modo e per diverso titolo nella condanna e nella morte di Gesù, evidenzia l'universalità dell'evento passione-morte di Gesù. Con il passaggio di Gesù dalle autorità giudaiche a quelle romane, la morte di Gesù non è più una vicenda che interessa esclusivamente il popolo ebraico, ma coinvolge e interpella anche il resto del mondo. Vi è, dunque, qui da parte di Matteo una prima lettura del significato universalistico del soffrire e del morire di Gesù, una premessa indispensabile per comprendere, similmente, il carattere universalistico e cosmico della risurrezione. Sarà proprio questa universalità a cui assurge con la passione, morte e risurrezione la figura di Gesù, che costituirà anche la giustificazione dell'universalità della missione della chiesa (28,18-20).

Il v.1, sia pur implicitamente, introduce anche il tema del cap.27. Il Sinedrio, infatti, tenne un consiglio per far morire Gesù. Che cosa in esso fosse stato deciso e come fu architettato il progetto di far perire Gesù non ci viene detto, creando narrativamente una sorta di suspense nel lettore. Saranno, tuttavia, i fatti che seguiranno a svelare le trame delle autorità giudaiche. Subito, infatti, al v.2, che narrativamente segna il cambio di scena, viene detto che consegnarono Gesù a Pilato; mentre i vv.11.29.37 lasciano capire chiaramente l'accusa con cui Gesù fu presentato a Pilato: ribellione e sovversione contro Roma. È l'accusa più ovvia e forse la più realistica, quella che mette in luce, in ultima analisi, i timori profondi delle autorità giudaiche2: la paura che Gesù, sempre circondato da una grande quantità di persone, che costantemente lo seguivano e che egli ammagliava con i suoi discorsi3, potesse in qualche modo creare dei disordini o dar inizio a delle rivolte4. Non va dimenticato, infatti, che queste folle cercarono Gesù per farlo re5 e che soltanto qualche giorno prima egli era entrato in Gerusalemme tra gli osanna della gente, che lo acclamava figlio di Davide e re d'Israele, il Profeta, l'Inviato di Dio6. Del resto, il Sinedrio non poteva sostenere presso Pilato l'accusa di blasfemia, che lo avrebbe lasciato del tutto indifferente. La consegna di Gesù a Pilato va storicamente letta come l'incapacità giuridica del Sinedrio di emettere sentenze di pena capitale e tanto meno di eseguirle. La cosa verrà ricordata anche da Giovanni in 18,31. Il Sinedrio, infatti, era sottoposto all'autorità di Roma, tanto che i suoi sommi sacerdoti erano nominati o deposti direttamente dal governatore della Siria, che aveva giurisdizione sulla Giudea, o quantomeno soggetti al suo placet. La capacità di condannare a morte e di eseguirne la sentenza, infatti, è espressione della suprema e libera sovranità di uno Stato sui propri cittadini, la quale cosa era sta perduta dalla Giudea dopo essere stata sottomessa a Roma nel 65 a.C. e ridotta a provincia romana nel 6 d.C. In tale data Augusto rimosse dalla sua carica, per crudeltà nell'esercizio dei suoi poteri, Archelao, figlio di Erode il Grande, e lo esiliò, quindi, a Vienne, in Francia. Al suo posto venne nominato un praefectus, Coponio, alle dipendenze del governatore di Siria.

I vv. 3-10 riportano l'episodio del pentimento di Giuda, che Matteo, unico tra gli evangelisti, qui racconta. Si tratta di una pericope molto densa, che ha una quadruplice funzione: la prima, di tipo narrativo, ha il compito di chiudere il racconto sulla triste vicenda di Giuda, che fa la sua prima apparizione nell'elenco dei Dodici in 10,4 per poi tornare nuovamente in 26,25, dove lo si vede protagonista del tradimento di Gesù; la seconda funzione, di tipo polemico, consiste in un atto di feroce accusa contro le autorità giudaiche, che nasce dalla contrapposizione del ravvedimento, quasi commovente, di Giuda, e il freddo cinismo delle stesse. La terza parte svolge una funzione catechetica. Matteo, infatti, si sta rivolgendo alla sua comunità e indica nel sincero pentimento di Giuda e nel suo ravvedimento la strada della speranza per chi, nella sua comunità ha rinnegato o tradito la propria fede. Anche per chi si è comportato come Pietro o, peggio, come Giuda, c'è sempre la possibilità di un ritorno. La quarta parte si muove su di uno sfondo profetico-teologico, non senza una certa forzatura e artificiosità; ma questo non deve stupire in Matteo, che in Gesù vede il realizzarsi delle Scritture. Non perde, quindi, l'occasione.

La struttura della pericope in esame è studiata in modo molto accurato. Essa si scandisce in tre parti:

1) vv.3-5: il pentimento di Giuda e la cinica indifferenza delle autorità giudaiche. Questa prima parte è, a sua volta, strutturata in forma parallela concentrica in B), finalizzata a mettere in rilievo il cinismo dei sommi sacerdoti e degli anziani:

A) v.3: Il pentimento di Giuda;

                                        B) v.4: a fronte della confessione di Giuda d' aver tradito un innocente, le autorità denunciano tutto il loro cinismo e la loro indifferenza;

                                  A') v.5: il pentimento si traduce in ravvedimento e Giuda getta i trenta denari nel tempio. Il gesto suona come un atto di accusa e di condanna 
                                        contro il Tempio e il suo culto;

2) vv.6-8: il consiglio dei sommi sacerdoti e anziani sulla destinazione dei trenta denari, che essi riconoscono essere impuri, perché frutto del sangue e del tradimento. In tal modo il consiglio diventa una sorta di autodichiarazione di colpevolezza;

3) vv.9-10: i vv.6-8 diventano per l'autore l'ennesima occasione per vedere, qui, il realizzarsi di una profezia. Come si vedrà, è una sorta di amalgama, tutto matteano, di citazioni tratte da Geremia e Zaccaria e combinate assieme e adattate, in modo un po' artificioso, per l'occasione.


Il v.3 si apre con una “Allora” (TÒte, tóte), che narrativamente, aggancia l'episodio alla condanna di Gesù, dandone sequenzialità logica. Matteo, qui, presenta un Giuda stupito, incredulo; un Giuda che è stato preso in contropiede dagli eventi: “visto che Gesù era stato condannato”. Questo inciso, nella costruzione matteana dell'episodio, lascia intendere come Giuda non si aspettasse una simile evoluzione delle cose e come forse egli non avrebbe commesso il suo tradimento se ne avesse saputo le conseguenze. Matteo, qui, guarda benevolmente a Giuda e ne presenta i tratti dell'autentica conversione. Giuda non è presentato come il traditore, ma come colui che “ha consegnato Gesù” (Ð paradidoÝj), quasi eseguendo in ciò il piano del Padre, che consegna suo Figlio agli uomini; egli si pente, torna indietro, restituisce il frutto del suo tradimento, prende le distanze dapprima dai sommi sacerdoti e dagli Anziani e poi dal Tempio stesso; infine, fa la sua ammissione di colpa davanti alle autorità giudaiche, che per questo assume una propria solennità; una confessione che è una vera e propria testimonianza a favore di Gesù e che lo stesso Pietro non ha saputo dare, anzi rinnegando ripetutamente quel Maestro, a cui poco prima aveva giurato assieme agli altri fedeltà fino alla morte (26,33-35): “Ho sbagliato consegnando un sangue innocente”. In questo contesto la morte di Giuda assume, più che un suicidio disperato, il valore di un'autoapplicazione della legge del taglione: “Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido” (Es 21,23-25)7. Fu, di fatto, un'autoesecuzione.

La benevola attenzione che Matteo riserva a Giuda non deve, tuttavia, trarre in inganno. Egli, infatti, sta preparando la stoccata finale contro le autorità giudaiche e la compassione che egli riserva a Giuda è per rendere più efficace narrativamente il loro disprezzo e la loro condanna. Giuda, quindi, qui viene usato. Non va dimenticato infatti l'osservazione del Gesù matteano su Giuda: “<<Il Figlio dell'uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!>>” (26,24).

Il v.4, cuore di questa breve pericope, è scandito in due momenti: a) la confessione di colpevolezza da parte di Giuda, che riconosce in Gesù una vittima innocente; b) il freddo cinismo delle autorità religiose, che di fronte al dramma di Giuda e di Gesù rispondono “Che ci importa? Vedetela tu”. Da questo accostamento Matteo punta a far scattare nel suo lettore l'indignazione per i sommi sacerdoti e gli Anziani e la pietà per Giuda, che viene usata contro di loro.

Con il v.5 Matteo conclude il suo duro atto di accusa contro le autorità giudaiche e lo fa attraverso un Giuda che getta le monete nel Tempio. Il gesto, da un lato, indica la rottura di un contratto criminale, che avvenendo nel Tempio, diventa di fatto un atto di accusa davanti a Dio; dall'altro, i trenta denari, resi impuri dal sangue del Giusto, rendono impuro l'intero Tempio, il cui culto ormai non è più gradito a Dio, perché non si radica più nel cuore (15,8), ma è divenuto un semplice rito da eseguire. È l'intero culto a Dio che qui viene criminalizzato, un culto che ha reso insensibili i credenti alle esigenze di Dio, producendo soltanto la morte del Giusto. Non a caso alla morte di Gesù, l'evangelista sottolinea come il velo del tempio si squarciò in due (27,51), per indicare l'abbandono del Tempio da parte di Dio e la fine, quindi, del culto, sostituito da un nuovo tempio (Gv 2,21; Ap 21,22) e da un nuovo culto, poiché quel Tempio era stato ridotto ad una spelonca di ladri (21,13). Le autorità religiose stesse riconoscono l'impurità di quel denaro, che non può essere gradito a Dio, per questo non lo destinano al Tempio, ma all'acquisto di un campo. Il v.5 si chiude con un Giuda che si allontana dal Tempio. Questo suo allontanarsi dice il rinnegamento da parte di Giuda del patto scellerato, lasciando in tal modo sole le autorità giudaiche nella loro unica ed esclusiva responsabilità per il sangue del Giusto, che loro hanno invocato su se stesse e sui loro figli (27,25). Giuda termina, quindi, la sua drammatica vicenda con un gesto che sembra voler riscattare il male fatto: occhio per occhio, dente per dente, vita per vita (Dt 19,21).

I vv.6-10, strettamente legati alle drammatiche vicende di Giuda, portano a compimento il suo ciclo narrativo e consente nel contempo a Matteo di creare le condizioni per una ennesima citazione scritturistica, che in realtà è un mélange di testi variamente tratti da Zaccaria e da Geremia e artificiosamente messi assieme dall'evangelista, per raggiungere i suoi intenti: dimostrare scritturisticamente come l'azione salvifica di Dio sia in atto e per dare un senso compiuto al dramma di Giuda e a quanto ne seguì. Tutti, quindi, Giuda e autorità giudaiche, fanno parte di un unico piano salvifico, che inconsapevolmente attuano. E Matteo lo prova con un riferimento scritturistico da lui adattato appositamente per l'occasione. Il gesto dei trenta denari gettati nel Tempio e l'acquisto con questi del campo del vasaio gli richiamano Zc 11,12-13, là dove il Signore ordina al pastore di gettare nel tesoro del Tempio i trenta sicli d'argento; mentre i denari, frutto del sangue del Giusto, e l'acquisto del campo del vasaio per la sepoltura lo spingono a pensare a Ger 18,2-3; 19,1-2 e 32,6-15. I contesti narrativi di queste citazioni non hanno nulla a che vedere con le vicende narrate da Matteo su Giuda e sulle autorità giudaiche, ma i fatti narrati nelle citazioni lo hanno spinto a collegarli al suo racconto. Si tratta, in buona sostanza, di una esegesi tipicamente rabbinica e midrashica, che cerca di trovare un senso negli avvenimenti accaduti, collegandoli in qualche modo alla Scrittura8.

I vv.11-26 raccontano il processo di Gesù davanti a Pilato. Non si tratta di un reportage cronachistico né, tanto meno, di un provato e fidato documento storico, ma di una costruzione narrativa elaborata da Matteo, il cui intento è triplice: a) accusatorio: mettere in rilievo l'esclusiva responsabilità delle autorità giudaiche e del popolo di Israele nella morte di Gesù; b) cristologico: Gesù è il messia, il re di Israele atteso, il giusto di Dio, condannato ingiustamente, che richiama da vicino il Servo sofferente di Jhwh; c) pastorale: l'insistente soffermarsi sul silenzio di Gesù di fronte alle accuse prodotte nei tribunali del Sinedrio e dei pagani (26,63; 27,12-14) sembra essere un invito alla comunità matteana a fare altrettanto, quando i suoi membri saranno trascinati davanti ai tribunali o nelle sinagoghe (10,17). Essi non devono prepararsi i discorsi (10,19); la miglior linea di difesa è il silenzio. Sarà il Padre che eventualmente suggerirà cosa dire (10,20).

Il processo che qui viene raccontato da Matteo è alquanto singolare, poiché solo in apparenza è un processo contro Gesù; in realtà si tratta di un autentico atto di accusa, che il nascente cristianesimo sta muovendo contro il giudaismo. Pilato, più che un giudice accusatore di Gesù, riveste qui quelle dell'avvocato difensore, mentre sua moglie lo riconosce giusto. È, dunque, il mondo pagano che si interroga su Gesù, ne intuisce la grandezza e cerca di difenderlo. Sul banco degli imputati, dunque, non siede Gesù, ma le autorità giudaiche e il popolo, che non ha saputo dissociarsi da esse. Già al v.27,1 sommi sacerdoti e Anziani rivelano i loro intenti omicidi; ai vv.12-14 essi appaiono come gli accusatori più accaniti; sono sempre essi che manovrano le folle perché Gesù sia crocifisso (v.20); sono sempre loro che insistono sulla crocifissione di Gesù e non accolgono in nessun modo l'appello di Pilato alla ragionevolezza (v.23). Anche il comportamento di Pilato, che cerca in tutti i modi di liberare Gesù, riconoscendolo, assieme a sua moglie, innocente e giusto, diventa indirettamente un atto di accusa contro i Giudei. Di fronte alla morte di Gesù la responsabilità di Pilato scompare completamente, mentre emerge inequivocabile quella del giudaismo (At 3,13). Anzi, Pilato, sua moglie e infine il centurione e la sua scorta costituiscono un atto di accusa contro il mondo giudaico: loro, i pagani, i cani, gli impuri, gli esclusi dalla salvezza hanno saputo riconoscere in Gesù il Giusto, il vero Figlio di Dio e l'hanno difeso e testimoniato. Israele, invece, che possedeva la luce delle Scritture, i Profeti, l'Alleanza, la Tradizione, non ha saputo riconoscerlo come tale. Per questo il Gesù matteano sentenzierà: “vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (21,43).

La struttura della pericope non è molto elaborata, riducendosi ad una giustapposizione di quattro brevi unità narrative, tra loro scollegate. Sull'accuratezza narrativa, consueta in Matteo, ha prevalso qui l'aspetto polemico e apologetico, che pervade l'intera pericope e che ci ha spinti a definire questo racconto come il processo del nascente cristianesimo contro il giudaismo:


A) v.11: Gesù di fronte a Pilato è riconosciuto “re dei Giudei”;

B) vv.12-14: le accuse delle autorità giudaiche e il silenzio di Gesù;

C) vv.15-23: la scelta tra Gesù e Barabba; Gesù è proclamato giusto dai pagani; la disperata difesa di Pilato;

D) vv.24-26: Pilato prende le distanze dai Giudei e abbandona Gesù alla loro volontà.


Il v.11 riporta il capo d'accusa principale con cui Gesù fu consegnato a Pilato. Gesù si era dichiarato davanti al Sinedrio Cristo e Figlio di Dio (26,63). Il concetto di messianicità presso il giudaismo presentava diverse sfaccettature, tra queste era ricompreso anche quella della regalità su Israele, di discendenza davidica9. Nella sua entrata a Gerusalemme, infatti, Gesù era stato acclamato come “colui che viene” (Ð ™rcÒmenoj, o ercómenos), espressione con cui si indicava il Messia; fu invocato come Figlio di Davide, come il re che doveva sedere sul trono di Davide10, a cui Natan aveva assicurato una discendenza e un regno stabile nel tempo (2Sam 7,8-16). E per gli ebrei questo aspetto di messianismo regale era inteso prevalentemente in senso storico e politico. Erano anche questi aspetti politici, infatti, che preoccupavano particolarmente le autorità giudaiche (Gv 11,48) e che hanno giustificato nei confronti di Gesù l'accusa di pretesa regalità su Israele. Si trattava di un'accusa molto grave, che in base alla Lex Iulia maiestatis comportava la pena di morte mediante crocifissione11. Il tema della regalità di Gesù non è nuovo in Matteo. Già esso compare nei racconti dell'infanzia, dove i Magi interrogano Erode per conoscere dove si trovi il “re dei Giudei” (v.2,2), una ricerca che culminerà sul Golgota; ma ancor prima, in apertura del suo racconto, l'autore associa Gesù alla discendenza davidica (1,1),. Si tratta, dunque, di una regalità davidica, che lega Gesù alla profezia di Natan. L'entrata di Gesù in Gerusalemme, poi, è per Matteo un'altra occasione per testimoniare scritturisticamente la regalità di Gesù (21,5). Ma il suo aspetto regale apparirà in modo intensivo proprio nel contesto del racconto della passione dove l'espressione “re dei Giudei” o “re d'Israele” ricorre ben quattro volte12. Un tema quello della regalità di Gesù, che compare in tutti gli evangelisti, ma sarà Giovanni, che concepisce la morte di Gesù come una sorta di intronizzazione regale, a darne ampio spazio nel dialogo con Pilato, dove ne metterà in luce il significato più vero e profondo: “Allora Pilato gli disse: <<Dunque tu sei re?>>. Rispose Gesù: <<Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce>>” (Gv 18,37).

Con i vv. 12-14 torna nuovamente il tema del silenzio di Gesù di fronte ai suoi accusatori; un silenzio che fece la sua prima comparsa in 26,63a: “Ma Gesù taceva”. Questa insistenza sul tacere di Gesù ha una doppia finalità: teologica e pastorale. La prima richiama il Sal 38,12-16: “Amici e compagni si scostano dalle mie piaghe,i miei vicini stanno a distanza. Tende lacci chi attenta alla mia vita, trama insidie chi cerca la mia rovina e tutto il giorno medita inganni. Io, come un sordo, non ascolto e come un muto non apro la bocca; sono come un uomo che non sente e non risponde. In te spero, Signore; tu mi risponderai, Signore Dio mio”. È l'immagine di un uomo sventurato, abbandonato dai suoi in balia di chi vuole la sua rovina. Ma egli si chiude in se stesso e ripone tutta la sua fiducia in Dio, da cui attende la salvezza. Per questo “Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei tu che agisci” (Sal 39,10). Non meno forte, tuttavia, è il richiamo al sofferente Servo di Jhwh, il quale “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). L'aspetto teologico, oltre che dare una lettura del Gesù sofferente, funge anche da motivazione e da indicazione pastorale alla comunità matteana, vessata da persecuzioni e da pesanti situazioni di vita quotidiana a motivo della scelta di fede fatta (10,17-22): silenzio e confidare nel Signore sull'esempio di Gesù.


I vv.15-23 sono il cuore del processo romano di Gesù, un processo che Matteo ritorce di fatto contro il giudaismo, che egli, qui, mette sul banco degli imputati. La pericope è costruita con cura:

a) vv.15-18: viene preparata la cornice storica entro cui viene collocata la scelta di campo delle autorità giudaiche e del popolo. Nel contempo viene suggerita la vera motivazione del linciaggio di Gesù: l'invidia;

b) v.18: costituisce il cuore della pericope, in cui viene rivelata l'innocenza di Gesù, posta all'interno di un alone sacrale, quasi divino;

c) vv.20-23: la scelta tra due Gesù, in cui anche il popolo viene corresponsabilmente coinvolto.


L'intera pericope è costruita per rendere indiscutibilmente evidente la responsabilità del giudaismo nella morte di Gesù. Vengono, infatti, esagerate le tinte: Pilato, contrariamente a quanto ci racconta la storia13, sembra un timoroso, titubante e sprovveduto governatore in balia di una folla urlante; viene introdotto nel racconto un intervento del numinoso, un sogno con cui viene rivelata la vera natura di Gesù: egli è il Giusto; Pilato pazientemente, quanto inutilmente, cerca di condurre la folla alla ragione; più che un governatore romano sembra un buon padre di famiglia alle prese con dei figli discoli, che non riesce a domare; Matteo, infine, suggerisce al suo lettore il motivo che sottende l'intera intricata vicenda: invidia, gelosia, astio, malevolenza; questo dice il termine greco “fqÒnon” (ftzónon), ma si tratta, in realtà, di una pennellata per mettere in cattiva luce le autorità religiose. Le vere motivazioni, probabilmente, erano altre, questioni di ordine pubblico (Gv 11,48), come si è sopra accennato14.

La cornice storica entro cui Matteo colloca il confronto tra Gesù Barabba e Gesù, detto il Cristo, non ha riscontri storici giunti fino a noi. Tuttavia l'episodio è verosimile, poiché facevano parte dell'ordinamento romano gli istituti giuridici della “abolitio”, cioè la messa in libertà di un prigioniero non ancora giudicato, e della “indulgentia”, cioè la grazia verso un condannato. Da quanto ci viene riferito dai vangeli, tuttavia, sembra che qui, più che l'applicazione di un diritto, vi sia una consuetudine, un atto di liberalità, che probabilmente Pilato concedeva per migliorare i difficili e conflittuali rapporti con i Giudei. Quanto a Barabba, non deve stupire che si chiamasse Gesù, un nome molto comune all'epoca, un nome che troviamo testimoniato in alcuni codici e in alcuni scrittori antichi, come in Origene. Tuttavia, il fatto che solo Matteo riporti il nome Gesù accanto a quello di Barabba sembra voler accentuare polemicamente la responsabilità dei Giudei, che sono arrivati ad un tale punto di perversità da non distinguere più il bene dal male, la luce dalle tenebre, il vero messia da un sovversivo e ribelle. Questo confronto polemico, che di fatto è un atto di accusa (non va, infatti, dimenticato che qui Matteo sta istruendo un processo non contro Gesù, bensì contro il giudaismo), riflette il sentire della chiesa primitiva e delle forti tensioni fra il giudaismo e il neonato cristianesimo. Ne danno testimonianza gli stessi Atti degli Apostoli, che sembrano riportare uno breve spaccato di predicazione, un kerigma circa gli eventi della salvezza, che si muovono su di uno sfondo apologetico e polemico, dai toni accusatori: “Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino e avete ucciso l'autore della vita. Ma Dio l'ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni” (At 3,13-15). Lo stesso Giovanni sembra alludere a questa scelta infelice e drammatica: “E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3,19). Il tema della scelta è predominante in questa pericope per quel ripetersi, quasi ossessivo, “Chi volete che vi liberi?”. E la voce di Pilato, qui, si fa incalzante: “Che cosa farò di Gesù, detto il Cristo?”, “Ma quale male ha fatto?”. È una voce che funge da coscienza di un popolo che sembra aver smarrito la retta via, un popolo che viene mosso dall'astio, dalla malevolenza (fqÒnon), un popolo che è immerso nelle tenebre e non vede la luce che ha davanti a sé, ma la vede la moglie di Pilato. Il v.19 è una inserzione esclusiva di Matteo, il cui intento è sottolineare come il mondo pagano, invece, a differenza di quello giudaico, sia sensibile alla rivelazione, qui metaforizzata dal sogno, uno strumento con cui gli antichi erano soliti ricevere i messaggi divini e comunicare con Dio15 e che lo stesso Matteo utilizza più volte nel suo racconto dell'infanzia16. Una rivelazione a cui il mondo pagano sembra aver aderito con partecipazione e come “per causa sua” avesse accettato anche la sofferenza della persecuzione. Significative, infatti, le parole della moglie di Pilato: “[...] ho sofferto molto oggi per causa sua”, un'espressione che nei vangeli ricorre sempre in riferimento alle persecuzioni, a cui sono soggetti i nuovi credenti17.

Con i vv.24-26 si è giunti alla conclusione del processo romano di Gesù. Di fatto non si parla della condanna a morte di Gesù, benché questa la si intuisca chiaramente. Ma a Matteo non interessa questa, poiché questo processo, in realtà, è intentato contro il giudaismo e non contro Gesù. L'attenzione dei primi due versetti, pertanto, va a cadere sulle responsabilità e, quindi, sulle colpe da attribuire. Già preceduto dal v.19, in cui la moglie di Pilato sollecitò il marito a non aver nulla a che fare con il Giusto, ora, con il v.24b, Pilato prende nettamente le distanze dalle autorità giudaiche e dal popolo. Ma per evitare che tale gesto potesse in qualche modo essere interpretato malamente come un atto di menefreghismo, la quale cosa avrebbe reso Pilato colpevole alla pari del popolo, Matteo lo fa precedere dalla precisazione che, nonostante gli sforzi del prefetto romano, tutto fu inutile per la pervicacia chiusura dei Giudei, che non intendono ragione (“visto che niente giovava”), ma che anzi si ergono sempre più minacciosi contro l'autorità romana stessa (“ma c'era più tumulto”). Loro, quindi, sono i veri sovversivi, non Gesù. Il lavarsi le mani di Pilato, dunque, collocato all'interno di questa cornice, diventa giocoforza comprensibile e quasi giustificato. È un gesto che avremmo veduto meglio se compiuto da un ebreo, esperto in riti di purificazione, ma probabilmente questo è una sorta di rituale, che fa parte della comune cultura dei popoli antichi, che tendono a drammatizzare le proprie posizioni e i propri sentimenti con gestualità e riti, per rendere efficaci con segni le proprie decisioni, circondandole di sacralità18. Con i vv.24-25 Matteo, unico tra gli evangelisti, introduce il lettore nel contesto di una piccola liturgia, celebrata da Pilato e dai Giudei, nella quale egli colloca la colpa dei Giudei e in cui si compie il giudizio di Dio su Israele; un giudizio che peserà sulla sua storia e che pregiudicherà il suo futuro (“... e sui nostri figli”). Tutto qui, infatti, ha una cadenza rituale: c'è un'assemblea, davanti alla quale Pilato si lava con gesto rituale le mani e pronuncia una sorta di formula rituale, che sancisce solennemente la sua innocenza, quella del mondo pagano. Un gesto che richiama da vicino un rito di purificazione19, una sorta di sacramentale, in cui l'acqua che scorre sulle mani, acquista il suo significato e la sua efficacia nelle parole di Pilato. Di contro, l'assemblea riconosce e approva, rispondendo ad una voce sola con un'altra formula rituale, desunta dalle Scritture20. E con questo si sancisce sacralmente la colpa dei Giudei, che viene così consegnata alla storia. Un passo questo che va attentamente compreso nell'ambito del contesto in cui è sorto, quello di una forte polemica tra il nascente cristianesimo e il giudaismo. Di certo non si può fondare su quanto Matteo qui dice la giustificazione di un qualsivoglia antisemitismo, disdicevole e iniquo per sua natura, poiché va ledere il diritto fondamentale di ogni persona, quello del suo esserci e del suo libero esprimersi. Tuttavia, questa è la storia, che va compresa nelle logiche del suo formarsi, senza voler trascenderne i confini, entro cui è nata ed entro i quali va contenuta.

Il v.26 è di transizione, poiché traghetta il lettore dalla fase del processo a quella dell'esecuzione della pena. Esso si apre con un avverbio di tempo, “allora” (tÒte, tóte), che narrativamente lo aggancia ai vv.24-25, dei quali è la conseguenza e ne forma la conclusione. Solo dopo che la colpa è stata assegnata e le sue conseguenze accettate, si dà corso alla scelta criminosa: Barabba viene liberato, Gesù è condannato. La flagellazione21 era una sorta di rituale a cui veniva sottoposto il condannato alla crocifissione per sfibrarne il fisico e accelerarne così la fine. Questa poteva avvenire prima di incamminarsi verso il luogo dl supplizio o durante il percorso.

Parallelamente ai vv.26,67-68, in cui Gesù, dopo la condanna a morte da parte del Sinedrio, venne beffeggiato e offeso come messia e profeta dai servi dei sommi sacerdoti, anche i vv.27-31 inscenano lo stesso maltrattamento da parte della soldataglia di Pilato. Qui il tema degli scherni è la regalità di Gesù, salutato come “re dei Giudei”, dicitura che comparirà nel titulus apposto sulla croce. La scena qui è molto più accurata e si avvicina molto alla recita di una commedia22: vengono, infatti, presentati gli attori e il contesto: Gesù, i soldati23, il pretorio (v.27); c'è il cambio di vesti, da quelle proprie a quelle richieste dalla scena24 (vv.28-29a); c'è la sceneggiata dell'intronizzazione e del riconoscimento della regalità, fatta seguire dai doni, sputi e percosse (vv.29b-30). Alla fine, terminata la recita, gli attori escono dal palcoscenico e si rimettono le proprie vesti (v.31). Come già si era accennato nel commento dei vv.26,67-68, anche qui Matteo sottolinea, sia pur all'interno di un contesto burlesco e gravemente offensivo, la regalità di Gesù, che, sia pur per scherno e inconsapevolmente, viene riconosciuta dal mondo pagano, che, invece, ne proclamerà la divinità sotto la croce (v.54). A Matteo qui interessa mettere in evidenza la reale natura messianica, profetica e regale di Gesù, indipendentemente dal contesto in cui essa viene proclamata. Gesù è comunque messia, profeta e re e lo è anche per il non credente, anche per chi lo rifiuta e lo beffeggia. Ed è proprio in questo suo beffeggiare che egli di fatto accetta la regalità di Gesù e cerca, a modo suo, di deformarla.

Con i vv.32-44 si chiudono definitivamente sia il processo sinedrico che quello romano di Gesù con i loro rispettivi strascici di dileggi, percosse e insulti e si passa ad un'altra sequenza del racconto: quella del cammino verso il Golgota e della crocifissione, anche qui, per la terza volta, con lo strascico di insulti e di dileggi.

Questa nuova sezione narrativa, che potremmo definire come la sezione del Golgota, si struttura essenzialmente su due parti:

A) la prima, vv.32-37, è un'arida e scheletrica narrazione della crocifissione di Gesù. Essenziale nel suo svolgersi narrativo, quasi una giustapposizione di sequenze, il cui intento è informare senza indulgere a compiacimenti o a rammarichi. Eppure, qui, siamo nel cuore del mistero della salvezza e ci si aspetterebbe una parola in più; ma forse proprio per questo l'autore preferisce affidare alla dignità del silenzio la drammaticità di quegli eventi, che narrativamente vengono snocciolati in sei momenti, appena accennati, uno per ogni versetto:

a) v.32: un uomo, ebreo di Cirene25, viene costretto a portare il patibulum, il palo trasversale, su cui Gesù sarà poi inchiodato. Di lui conosciamo il nome, Simone26, e che fu padre di Alessandro e Rufo. Nomi questi, che rispecchiano l'incrocio di tre diverse culture, quella greca (Alessandro), quella romana (Rufo) e quella giudaica (Simone). Egli si imbatté casualmente nel corteo che saliva al Golgota, mentre tornava dai lavori della campagna (Mc 15,21).

b) v.33: il corteo giunge sul Golgota27, che letteralmente significa luogo del Cranio28, dalla parola aramaica gūlgūltā, più credibilmente per la conformazione del terreno, che assomiglia ad una calotta cranica, che per la leggenda che lì vi fosse sepolto Adamo, il capostipite dell'umanità. Esso si trovava a nord di Gerusalemme, fuori dalle sue mura, ma nelle loro vicinanze (Gv 19,20), a circa duecento metri. Secondo la prassi seguita dai Romani per le esecuzioni, vi passava vicino anche una strada molto frequentata29

c) v.34: viene dato a Gesù del vino mischiato a fiele, ma Gesù lo rifiuta. Il Talmud Babilonese, Shanedrin 42a, che si rifà a Prv 31,6-7, afferma che “Quando uno è condotto fuori per l'esecuzione, gli sia dato un calice di vino che contiene un grano di incenso puro, per rattrappire i suoi sensi. Per lui è scritto: “Si dia una bevanda inebriante a colui che sta per morire, e vino a chi ha l'amaro nell'anima”30(Prv 31,6). Ed è stato insegnato anche: “Le donne nobili a Gerusalemme la donavano e la portavano”. Si trattava, dunque, di un'ottemperanza ad una disposizione del Talmud, che imponeva un gesto di pietà verso il condannato. Matteo, qui, parla di una bevanda di vino misto a fiele; Marco di vino misto a mirra (Mc 15,23). La discordanza è probabilmente dovuta ad un adattamento letterario da parte di Matteo, che gli consentisse un'applicazione scritturistica all'assunzione di questa bevanda narcotizzante e analgesica: “Hanno messo nel mio cibo fiele31 e quando avevo sete mi hanno dato aceto” (Sal 69,22). Gesù tuttavia la rifiuta, poiché egli vuole bere fino in fondo l'amaro calice della sofferenza e della morte, nella coscienza della loro forza redentiva e, quindi, per attuare pienamente la volontà del Padre. Assumere una bevanda con effetti inebrianti, narcotizzanti e analgesici significava di fatto fuggire, anche se solo parzialmente, alla volontà del Padre; significava giocare d'astuzia all'interno di una missione redentiva e salvifica; significava che il dono di sé non sarebbe stato pieno e totale, ma qualcosa Gesù se l'era riservato per se stesso. Ecco, perché egli rifiutò anche questa piccola via di fuga.

d) vv.35-36: Gesù viene crocifisso32, le sue vesti sono tirate a sorte e i soldati, seduti nei pressi della croce, facevano la guardia. Giovanni darà una giustificazione logica a questo sorteggio, che viene lanciato unicamente sulla tunica, tessuta tutta d'un pezzo, senza cuciture, quindi, di valore (Gv 19,23b); mentre gli altri indumenti sono stati divisi in quattro parti (Gv 19,23a). Matteo, qui, accenna di sfuggita alla crocifissione di Gesù, quasi vi soprassiede, mentre incentra l'attenzione del suo lettore sulla spartizione delle sue vesti, su cui è stata gettata la sorte, e sui soldati posti a guardia: “Dopo averlo crocifisso, spartirono le sue vesti gettando la sorte: e sedutisi là, gli facevano la guardia”. Due sono gli elementi che spingono Matteo a questa scelta: da un lato la difesa della dignità della sofferenza di Gesù e della sua persona, che di fatto fu massacrata e dissacrata; dall'altro egli vuole sottolineare il realizzarsi di un'ennesima profezia: “Un branco di cani mi circonda, mi assedia una banda di malvagi; hanno forato le mie mani e i miei piedi, possono contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano, mi osservano: si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte” (Sal 22,17-19). E come non vedere in ciò la puntuale realizzazione di questo salmo? Cani, infatti, erano chiamati i pagani, nella fattispecie i romani; mentre il Sinedrio o le autorità giudaiche in genere, definiti “banda di malvagi”, hanno saputo mostrare tutta la loro malvagità e la loro perversione, tanto che Matteo instaura con questo cap.27 un processo contro di loro. La foratura delle mani e dei piedi alludono chiaramente alla crocifissione, mentre il contare tutte le ossa allude forse alla scarnificazione operata dalla flagellazione. Il guardare e l'osservare trovano la loro puntuale attuazione nella guardia posta a custodia dei condannati, così come la sorte gettata sulla tunica di Gesù. Si incomincia, quindi, a comprendere come Matteo e gli altri evangelisti hanno riportato nei loro racconti della passione quegli avvenimenti, storicamente accaduti, che avessero una qualche attinenza con le Scritture, per dimostrare alle proprie titubanti e incerte comunità come l'attuarsi del patire e del morire di Gesù fosse stato scritturisticamente previsto e come tutto ciò attuava le Scritture. Alla base di tutto, quindi, ci sta un disegno di salvezza preannunciato nelle Scritture e attuato in Gesù (Mt 5,17; Lc 24,27).

e) v.37: sopra la testa di Gesù crocifisso fu posto il titulus, che conteneva l'accusa: “Questi è Gesù, il re dei Giudei”. Il titulus, processionalmente portato dal servo di giustizia e gridato per le strade, lungo il cammino verso il luogo del supplizio, ora è collocato sopra la testa di Gesù. È significativo questo particolare, poiché ci indica di quale tipo fosse la croce a cui fu appeso Gesù. I romani utilizzavano quattro tipi di croce: la crux simplex, si trattava di un semplice palo conficcato per terra a cui veniva appeso il condannato. Il termine greco “staurÒj” (staurós) indicava in origine un palo. Soltanto in tempi successivi venne usato in senso tecnico per indicare uno strumento di tortura e di morte. Un secondo tipo di croce era quella a forma di T, la crux commissa; un terzo tipo di croce, a forma di X, era detta crux decussata, conosciuta anche come croce di S.Andrea; infine, vi era la crux immissa, a forma di +. Ed è quest'ultima la croce su cui fu appeso Gesù, perché è l'unica sulla quale il titulus può essere appeso sopra la testa del condannato. Del resto con questa forma di croce concorda anche la più antica raffigurazione di croce cristiana, quella trovata ad Ercolano, risalente al I sec. d.C.33 Per la terza volta compare qui il titolo di “re dei Giudei” assegnato a Gesù, ma qui è l'unica volta che l'evangelista afferma che esso fu posto “sopra la testa di Gesù”. Si tratta, dunque, di una incoronazione, una sorta di pubblica investitura regale.


B) La seconda parte di questa pericope, vv.38-44, è un'unità narrativa delimitata da un'inclusione, data dall'espressione “sono crocifissi con lui due ladroni”, posta nei vv. 38 e 44. Essa raccoglie e ricapitola le tre diverse accuse che furono mosse a Gesù nei due processi, quello giudaico e quello romano. L'evangelista le presenta come bestemmie, insulti profferiti contro Gesù dai Giudei (autorità e gente comune). Tuttavia, questo tipo di insulti così ben definiti, così ben congegnati e per certi aspetti cosi veri e inoppugnabili nella loro formulazione, giustapposti di seguito, l'uno accanto all'altro, senza commento alcuno, assomigliano più che a dei veri propri insulti, a delle critiche mosse dal giudaismo al nascente cristianesimo, a coloro che avevano riposto la loro fede in Gesù, ritenendolo Figlio di Dio, Messia, re d'Israele, onnipotente, capace di distruggere il Tempio e di ricrearne uno nuovo in tre giorni; o capace di salvare gli altri, ma del tutto incapace di salvare se stesso. Accuse che di fronte al potere della morte di croce suonano come una verità inoppugnabile, una verità così vera che non ha bisogno di commenti e di fronte alla quale ogni logica umana viene a cadere e risulta priva di senso; accuse e critiche che sicuramente dovevano mettere a disagio e a dura prova la fede dei primi credenti. Forse proprio per questo il racconto della passione e morte di Gesù è disseminato da citazioni scritturistiche e si muove prevalentemente sullo sfondo del Sal 22 e del sofferente Servo di Jhwh, per aiutare la comunità matteana a ricomprendere nella fede e non nella ragione l'apparente ed umiliante sconfitta di Gesù. Gli evangelisti e i primi scrittori neotestamentari ben comprendono che tutta la credibilità di Gesù, la sua vita, la sua parola, la sua missione si gioca proprio nel senso della suo patire e del suo morire. Era dunque necessario indagare le Scritture, interrogarle per trovare in esse la risposta di un dramma che rischiava di travolgere non solo i primi credenti, ma l'intero progetto di Dio sotto i colpi inferti dai retori pagani e dai polemisti giudaici: Lui che si è dichiarato Figlio di Dio perché non è sceso dalla croce? Perché Dio non è venuto a soccorrerlo e a liberarlo? Si dice che ne abbia salvati tanti, perché allora non è stato in grado di salvare se stesso? Lui che ha affermato di distruggere il tempio e di ricostruirlo in tre giorni, dove stava la sua onnipotenza? Egli è stato appeso alla croce e per questo è un maledetto da Dio (Dt 21,3); è morto insieme a dei sovversivi e a dei malfamati con una morte senza onore e senza gloria, abbandonato da tutti, anche dai suoi. Dove sta, dunque, la sua credibilità? È questo il Messia che doveva liberare Israele? È questi colui che volevate proclamare re d'Israele? Un fallito, un maledetto. Queste dovevano essere le accuse mosse ai primi credenti da parte del mondo pagano e giudaico. Urgeva, quindi, trovare delle risposte, che di certo non potevano venire dalla ragione umana, ma soltanto da una rivisitazione e ricomprensione delle Scritture. E Paolo, proprio sul tema della croce e della debolezza del suo crocifisso, elaborerà una sua teologia, che aiuta a comprendere il controsenso di un piano di salvezza divino, sconfitto dagli uomini: “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,18-25).

Al centro di queste accuse sta lo scandalo della croce. Tutte tre le volte, infatti, si lega la propria fede alla liberazione di Gesù dallo scandalo incomprensibile e inaccettabile della croce. Si torna, quindi, nuovamente all'immagine del Messia vincente ed onnipotente, che si manifesta in una onnipotenza miracolistica e sensazionalistica, proprio quella a cui Gesù aveva rinunciato fin dall'inizio della sua missione. Anche là, nel racconto delle tentazioni (4,1-11), per tre volte, fu sottoposto, come qui, ad una prova: “Se sei Figlio di Dio”. Una prova e una sfida che egli rifiutò sempre, conformandosi, invece, al disegno salvifico del Padre, che voleva che egli operasse una salvezza divina attraverso la fragilità umana e contro ogni logica umana (Fil 2,6-8). Era necessario, infatti, che l'adesione a Gesù avvenisse per fede, poiché la salvezza è dono gratuito di Dio e come tale doveva apparire, e non come opera o conquista umana. Infatti, concluderà Paolo nella sua Lettera ai Romani: “[...] ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù. Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato mediante la fede, indipendentemente dalle opere della legge” (Rm 3,24-28).

I vv.45-56 formano la sezione riguardante la morte di Gesù e sono distribuiti in tre unità narrative, giustapposte l'una accanto all'altra, senza alcuna sequenzialità logica, ma aventi tutte come minimo comune denominatore la morte di Gesù. Si tratta di una chiave di lettura che qui Matteo sta offrendo alla sua comunità circa la morte infamante di Gesù, così difficile da accettarsi da parte della sua comunità:

a) vv.45-50: la morte di Gesù, preceduta da un evento astronomico: l'oscuramento della luce;

b) vv.51-54: descrizione di eventi apocalittici, escatologici e teofanici conseguenti la morte di Gesù;

c) vv.55-56: le prime testimoni di tali eventi.

Tutte tre le narrazioni hanno come unico intento quello propriamente esegetico, riguardante la morte di Gesù. Tutto, quindi, qui ruota attorno alla sua morte ed è in sua funzione; tutto tende ad interpretarla e a ricomprenderla alla luce delle Scritture, assegnando ad essa, attraverso un linguaggio apocalittico ed escatologico, la sua valenza teologica, morale e spirituale. Matteo, infatti, ha davanti a sé la propria comunità e deve farle comprendere il senso della morte di Gesù, che dai suoi avversari è considerata come una vergognosa disfatta senza appelli. Questi racconti, quindi, decisamente impressionanti, non vanno presi come un reportage cronachistico dell'epoca. Matteo, qui, sta facendo una catechesi alla sua comunità, raffigurata nelle discepole dei vv.55-56.

Con questa pericope (vv.45-56) entriamo nel mondo della metafora e del simbolismo, gli unici strumenti letterari che consentono all'uomo di accedere alle realtà spirituali, negate alla ragione, troppo legata e condizionata dalla realtà spazio-temporale. Lo stesso Gesù, del resto, nel parlare delle realtà spirituali non diceva mai che esse erano “così e così”, bensì che esse erano “simili a ...”34. Solo la metafora, la similitudine, il simbolo sono in grado di far intuire quel mondo dello spirito, del quale all'uomo viene negato ogni accesso diretto.

Il v.45 colloca il credente in una dimensione escatologica: dall'ora sesta all'ora nona si fece buio su tutta la terra. Dall'ora sesta, da mezzogiorno, secondo il modo romano di contare le ore del giorno35. È il punto culminante del giorno e indica il tempo che si pone esattamente a metà del giorno. È, dunque, la pienezza del giorno, poiché da questo momento in poi il giorno incomincia a declinare, volge al suo termine, volge verso le cose ultime. Si entra, quindi, nel tempo dell'escatologia. Ed è da questo momento che si fece buio; un buio che durò tre ore. Ed è proprio questo il momento del quale Marco afferma “Pepl»rwtai Ð kairÕj” (Peplérotai o kairòs), il tempo si è compiuto, letteralmente, il tempo si è fatto pieno (Mc 1,15a). E' il tempo della venuta del Regno di Dio. Similmente Paolo, scrivendo ai Galati, in riferimento alla venuta di Gesù nella carne, afferma : “Óte de Ãlqen tÕ pl»rwma toà crÒnou” (óte de êltzen tò pléroma tû crónu), “ma quando venne la pienezza del tempo” (Gal 4,4). Ed è, infine, proprio in questa pienezza del tempo, metaforicamente a mezzogiorno, che il Gesù giovanneo è presentato al popolo da Pilato come il suo re: “Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: <<Ecco il vostro re>>”. La venuta del Regno (Mc 1,15), la venuta di Gesù (Gal 4,4), la manifestazione della sua regalità (Gv 19,14), tutte queste realtà avvengono nell'ora sesta, a mezzogiorno, nel compiersi, cioè, della pienezza della storia umana, sulla quale cala il buio. Ora il tempo dell'uomo viene oscurato da quello di Dio; un tempo, quello umano, sul quale Dio innesta il suo tempo con l'incarnazione di suo Figlio, con il compiersi della sua missione, con il suo rivelarsi agli uomini, con il suo patire e il suo morire. Tre ore dura il buio su tutta la terra, tre sono le ore in cui Dio entra nella storia dell'uomo e l'oscura con la sua presenza. Il tre, infatti, allude ad un tempo compiuto36, poiché il tre scandisce l'inizio, la metà e la fine; scandisce la vita storica e carnale del suo stesso Figlio: nascita, missione, morte. Con la venuta di Gesù, quindi, termina la storia dell'uomo vecchio, fatto di carne adamitica, decaduta e corrotta, e inizia quella di Dio, mentre la storia dell'uomo entra nella sua fase finale, escatologica. Tutto ciò che avviene e si compie da questo momento in poi acquista una forte valenza di giudizio. Un tempo in cui l'uomo è chiamato a prendere posizione nei confronti di Dio, che lo ha interpellato nel suo Figlio, ed è chiamato a compiere una scelta radicale, che non ammette tentennamenti, poiché il tempo dell'uomo si è già compiuto ed egli è già entrato nel tempo di Dio, che ora si manifesta come tempo di giudizio: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30); similmente non c'è più spazio neppure per indifferenze, tiepidezze o accomodamenti, come avvenne per la chiesa di Laodicea: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,15-16). La venuta di Gesù, infatti, se da un lato dice il rivelarsi di Dio agli uomini, dall'altro esprime il compiersi del giudizio di Dio sull'umanità e la venuta di Gesù pone una discriminante in mezzo agli uomini. Giovanni, tra gli evangelisti, si distingue per la sua escatologia presenziale. Egli, infatti, vede compiersi il tempo di Dio ora, nel presente; ed è nell'oggi che l'uomo è chiamato a dare la sua risposta, poiché è qui nell'oggi che si compie il giudizio di Dio su di lui: “Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,18). Non a caso, infatti, Giovanni predilige l'uso dei verbi al presente indicativo, che radica l'uomo hinc et nunc, qui e ora, poiché è qui e ora che si svolge il giudizio divino. Il buio che avvolge tutta la terra, infatti, richiama da vicino anche il giorno di Jhwh, che i profeti presentarono come “Giorno d'ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nubi e di oscurità” (Sof 1,15)37.

Ma questo buio che pervade tutta la terra, l'intera storia dell'uomo e che si sovrappone ad essa, è anche il tempo del silenzio di Dio, che sembra assente dalla storia degli uomini, nonostante la sua promessa di essere con loro fino alla fine del tempo (Mt 28,20b); nonostante che Egli si faccia chiamare l'Emmanuele (Mt 1,23), il Dio con noi. E Gesù grida tutta la sua rabbia, la sua delusione e la sua amarezza al Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”; gli urla in faccia il suo tradimento. Ma nel contempo, nel buio della sua sofferenza e del suo abbandono, egli associa a sé , a questo buio e a questa sofferenza l'intera umanità: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E Paolo ricorderà questa verità, che egli ha sperimentato per primo su di sé (2Cor 11,23-30): “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20a). E il Gesù sofferente e morente sulla croce ci vive tutti nella sua sofferenza e nella sua morte, così che nella carne sofferente e mortale dell'uomo vive il soffrire e il morire di Cristo. Per questo, Paolo continua, “sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Una sofferenza, dunque, che, proprio perché compartecipe a quella di Cristo, diventa essa stessa redentiva, riscattatrice dell'uomo e del cosmo, per quel principio di solidarietà che li lega da sempre. La sofferenza, il dolore, il buio è un passaggio fondamentale e necessario verso la nuova creazione. Lo è stato nella prima creazione, quando la terra era ancora informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque del caos primordiale (Gen 1,2). Ma venne la sua Parola e tutto prese luce (Gen 1,3) e da questa Luce divina scaturì la prima creazione, incandescente di Dio. E quella Parola primordiale, posta all'inizio di tutto, che dimorava presso Dio e ne possedeva la potenza creatrice (Gv 1,1-3), si fece carne e venne in mezzo agli uomini (Gv 1,14), in mezzo alle tenebre per portare nuovamente quella prima Luce divina in cui fu posta la creazione, che nel frattempo aveva perso il suo antico splendore. Ora questa primordiale Parola di Luce creativa è affidata ad ogni credente, perché ad essa associato collabori ad una nuova creazione, che parte dal cuore stesso dell'uomo per espandersi all'intero creato. È questo il tempo della gestazione, il tempo che precede il parto, il tempo del buio, della sofferenza, del dolore, in cui Cristo ci sta vivendo tutti nella sua passione e nella sua morte in prospettiva della sua risurrezione, di una nuova creazione. Ma chiuso nel buio della sofferenza e della morte c'è l'uomo in tutta la sua solitudine. Ora, dunque, egli, associato alla Parola creatrice, è chiamato a partorire una nuova creazione, che ha il suo germe iniziale nel Risorto (1Cor 15,20-23). Nella sua grande visione di mistico, Paolo ricorda ai Romani che “... se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,17-23). Poste in questa prospettiva la sofferenza e la morte non diventano meno dure per l'uomo, ma acquistano la pienezza del loro senso, poiché il soffrire e il morire preludono alla pienezza della vita e al riscatto dell'uomo dal suo decadimento e dal suo degrado morale, poiché il soffrire e il suo morire sono un con-soffrire e un con-morire con Cristo, che in lui vive la sua sofferenza e la sua morte redentrici.

Matteo dedica i vv.46-49 ad un gioco di parole, finalizzato a sottolineare una volta di più lo stato di totale solitudine e abbandono in cui Gesù è morto, mettendo in evidenza il fallimento delle attese e delle speranze riposte in lui dai suoi discepoli. Per fare questo gioco l'autore cita in aramaico il Sal. 22,2a, in cui l'espressione “Dio mio” suona “Elì”. Essa viene interpretata dai presenti come un grido di soccorso rivolto ad Elia (v.49). Questi, secondo una tradizione legata a Ml 3,23, doveva precedere “il giorno grande e terribile del Signore”. Se, dunque, Gesù fosse stato veramente il Figlio di Dio, il Messia preannunciato, come lui sosteneva (26,63-64), Elia sarebbe dovuto venire in suo soccorso. Ma ciò non avvenne. Dunque, Gesù era soltanto un millantatore e mentitore. È probabile che anche questo, come lo fu per i precedenti vv.40-44, fosse un tentativo di screditare la fragile fede della comunità matteana. Matteo, comunque, aveva già edotto la sua comunità indicando nel Battista l'Elia che doveva venire (11,14) e, di conseguenza, Gesù era il vero Messia atteso. Tuttavia, all'interno di questo gioco, in cui si punta il dito contro le pretese credute del sedicente Messia e Figlio di Dio, Matteo, con il v.48, non fa mancare alla sua comunità una chiave di lettura anche per questo tentativo di discredito: un soldato, posto lì di guardia (v.36) prende una spugna, la inzuppa di aceto38 e gliela porge per dissetarsi. Un episodio questo di poco conto, un gesto che si ripeteva comunemente con i condannati al patibolo. Matteo, tuttavia, lo sottolinea, richiamandosi in tal modo al Sal 69,22: “Hanno messo nel mio cibo fiele e quando avevo sete mi hanno dato aceto”. Gesù, dunque, non è un mentitore, poiché in lui si sono compiute tutte le Scritture e tutte, in vario modo, parlano di lui. Questa è la logica che sottende il ragionamento di Matteo e che anima lo spirito della chiesa primitiva, che proprio nel I sec. d.C. sta cercando di rivisitare le Scritture alla ricerca di quelle tracce, che aiutino a comprendere l'evento Gesù39.

Il v.50 è dedicato alla morte di Gesù. Ma in realtà non se ne fa neppure accenno. Si lascia intuire che Gesù è morto. È un versetto equivoco perché dice una cosa, ma ne lascia intendere un'altra. È, di fatto, il linguaggio proprio della metafora e del simbolismo, di cui si accennava sopra. Certo, Gesù è morto, non poteva essere altrimenti. Ma è il modo di presentare questo suo morire, il linguaggio e i termini che vengono usati, che lasciano intendere che altre cose sono avvenute con la sua morte. Ancora una volta Matteo fa della catechesi alla sua comunità e cerca di aiutarla a comprendere il significato della morte del suo Messia, Figlio di Dio.

Il v.50, infatti, è scandito in due parti:

a) Gesù grida di nuovo con grande voce. L'intera pericope (vv.46-50) si muove all'interno di due forti gridi, che formano da inclusione tra loro. Il primo grido non è un semplice suono, ma è articolato ed è rivolto verso il Padre o, forse è meglio dire, contro di Lui. Il secondo grido è strettamente legato al primo dall'avverbio “p£lin” (pálin), di nuovo, che lo rimanda ad esso. Tuttavia, questo secondo grido è inarticolato, è anonimo, ma la sua natura, proprio perché strettamente legato al primo, non cambia. Il primo grido è rivolto contro il Padre ed esprime su di lui, di fatto, un'accusa di abbandono e di tradimento; il secondo grido, conseguente al primo, ma non articolato, proprio per la sua anonimia è lanciato contro i suoi aguzzini, che in vario modo hanno contribuito al suo fallimento. Si tratta, dunque, come per il primo grido, di un atto di accusa e di giudizio contro di loro. Un grido che ha trovato la sua eco nell'Apocalisse, dove i giusti, iniquamente sacrificati dai loro persecutori, chiedono la vendetta divina su di loro: “Quando l'Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l'altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce: <<Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?>> (Ap 6,9-10). Anche qui ritroviamo la medesima espressione, usata da Matteo, “œkraxan fwnÍ meg£lV”, “gridarono con grande voce”. Nella tradizione biblica il grido e il gridare è spesso associato al modo di esprimersi del povero, di chi è iniquamente schiacciato dal prepotente o da uno stato di oppressione. Esso è un grido di soccorso, che chiede giustizia e vendetta, per la triste sorte ingiustamente patita 40 ed è rivolto ad un Dio che sovente non dà risposta o si rifiuta di rispondere41.

b) La seconda parte del v.50 è riservata alla morte di Gesù. Solo due parole: “Rimise lo spirito”. L'umiliazione di Gesù nella morte passa quasi inosservata. Sarà soltanto la successiva riflessione della chiesa primitiva e in particolar modo del pensiero paolino, che sapranno recuperare tutto il valore salvifico e redentivo della morte di Gesù. Qui, quasi per un senso di pudore, non si parla di morte, ma soltanto di rimettere lo Spirito. Soltanto Marco e Luca usano un verbo appropriato “™xšpneusen” (exépneusen), spirare, morire (Mc 15,37; Lc 23,46b), lasciando trapelare tutta la crudezza e l'incredibilità di quanto è successo. Matteo42 e Giovanni, con i loro racconti molto più tardivi di Marco e Luca, ricorrono rispettivamente alle espressioni “¢fÁken tÕ pneàma” (afêken tò pneûma) e “paršdwken tÕ pneàma” (parédoken tò pneûma), che presentano il morire di Gesù già filtrato dalla riflessione teologica. Per Matteo il morire di Gesù non è un semplice esalare l'ultimo respiro, ma un rilasciare, un emettere lo Spirito, mandandolo fuori da sé. Con Matteo ci troviamo di fronte ad una sorta di Pentecoste. Lo Spirito che esce da Gesù è quello Spirito dal quale egli fu concepito (1,18.20), sancendo inequivocabilmente la sua provenienza divina; è quello Spirito nel quale egli immerge e con il quale permea ogni credente, con la forza del battesimo (3,11); è quello Spirito che scese su di lui nel battesimo e che lo ha accompagnato lungo il cammino della sua missione (3,16; 12,18); quello Spirito che lo ha mosso verso il deserto per compiere la sua scelta radicale nell'obbedienza al Padre, accettando l'umiltà e l'umiliazione della sua condizione umana (4,1; Fil 2,6-8); è quello Spirito nel nome del quale saranno battezzate tutte genti (28,19). È lo Spirito che Gesù rilascia, effondendolo su tutti i credenti e gli uomini di buona volontà (At 10,34-35), perché quello Spirito che ha conformato la sua esistenza alla volontà del Padre, così da farne una cosa sola con Lui43, conformi anche la loro, facendoli in lui una cosa sola con il Padre (Gv 17,11.21.22). Così similmente la morte del Gesù giovanneo non è uno spirare, ma un riconsegnare al Padre lo Spirito, che lo ha reso fonte di acqua viva e pane vivo44 per chiunque crede in lui, perché chiunque beve di quest'acqua e mangi di questo pane viva per il Padre, come egli vive per Lui.

I vv.51-54 descrivono con un linguaggio apocalittico-escatologico le conseguenze della morte di Gesù. Non si tratta, dunque, di un reportage cronachistico dell'epoca, ma di una catechesi che Matteo sta impartendo alla sua comunità circa gli effetti della morte di Gesù. Il v.51 è scandito in due parti: la prima riguarda lo squarciamento del velo del tempio; la seconda, preparatoria dei vv.52-53, parla dello scuotimento della terra. Quanto al velo, Matteo precisa che esso fu squarciato in due da cima a fondo. Non si tratta, quindi, di un semplice strappo rammendabile, ma di una irreparabile rottura. Due erano i veli del tempio di un certo rilievo: quello che separava il cortile dei Gentili dal tempio vero e proprio, la cui entrata era riservata esclusivamente agli ebrei, pena la morte; e il secondo velo nascondeva il Santo dei Santi, il luogo della presenza di Dio, a cui accedeva, una volta all'anno, il solo Sommo Sacerdote. Non è ben chiaro a quale dei due veli l'autore faccia riferimento, tuttavia, proprio per il fatto che non lo precisi, è probabile che indichi il velame del Tempio e, quindi, tutti i veli che dividono e separano, creando limitazioni e impedimenti. La morte di Gesù, dunque, segna la fine di tutto questo, la fine dell'antico culto, la fine di tutti i divieti, aprendo tutti i popoli all'unico culto, che ha come unico Sommo Sacerdote e come unico Tempio lo stesso Gesù (Gv 2,21; Eb 9,11; Ap 21,22). L'autore della lettera agli Efesini sottolinea questo passaggio di fondamentale importanza per l'universalità della chiamata alla salvezza, senza limiti o preconcetti, senza divieti; una salvezza libera da regole e da rituali, ma legata soltanto alla fede nel Risorto (Rm 3,21-26.28-30):“Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,11-18).

La seconda parte del v.51 parla della terra che fu scossa e delle rocce che furono spaccate. La scena qui descritta si richiama ai contesti teofanici, dove la presenza e il rivelarsi di Dio era sempre accompagnato da tuoni, fulmini, terremoti, grandine, nubi e fumo intenso. Gli stessi verbi, scuotere e spaccare, sono posti al passivo teologico o divino, che attribuisce l'azione a Dio stesso. Siamo, dunque, qui in presenza dell'agire stesso di Dio, che sta scuotendo le fondamenta della terra, sconvolgendo le sicurezze umane, su cui si innestano, ora, le nuove realtà di Dio, che hanno inizio con la morte di Gesù. Ad essa viene, dunque, associato il vecchio Adamo e il suo mondo decaduto e degradato (Gv 12,32), poiché morendo in croce Gesù ci ha morti tutti quanti. Narrativamente, lo scuotimento della terra e il frantumarsi delle rocce sembrano quasi l'agitarsi del ventre gravido di una donna, che si prepara a partorire una nuova vita. Anche Paolo, parlando della nuova creazione, ricorda alla comunità di Roma “[...] che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8,22), da cui nasceranno i cieli nuovi e la terra nuova, profetizzati da Isaia (Is 65,17; 66,22), contemplati da Giovanni nell'Apocalisse (Ap 21,1) e attesi dalla chiesa primitiva (2Pt 3,13).

Introdotti da questa seconda parte del v.51, i vv.52-53 danno attuazione al nuovo mondo, presentando la risurrezione come un risveglio dal sonno della morte da parte dei santi, da parte cioè di coloro che fanno parte del mondo di Dio, avendo aderito nella fede al progetto salvifico di Dio manifestatosi e attuatosi nel suo Cristo. Il loro risveglio è un preannuncio di risurrezione, che si attuerà soltanto dopo che essa sarà stata inaugurata da Gesù. Egli soltanto, infatti, è la primizia, capace di questa nuova creazione: “Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo” (1Cor 15,20-23). Anche qui, nei vv.52-53, i verbi “aprire” le tombe e “risvegliare” i corpi sono posti al passivo teologico per indicare in questi l'agire di Dio, che è l'autore unico, nel suo Cristo, della nuova creazione, dove sono convocati i santi. Con un'immagine viva ed impressionante Matteo, rifacendosi alla tradizione giudaica, fa uscire i morti dai sepolcri e li fa apparire nella città santa, a testimonianza dell'inizio dei tempi nuovi. Una scena che richiama da vicino Ez 37,12: “Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d'Israele” e similmente Dn 12,1-3: “Or in quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Vi sarà un tempo di angoscia, come non c'era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”. Questi passi scritturistici, elaborati dalla tradizione giudaica, hanno costituito un annuncio di risurrezione in vista dell'era messianica definitiva45. Una traccia in tal senso, che si associa a questa qui di Matteo, è Gv 5,28-29: “Non vi meravigliate di questo, poiché verrà l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene, per una risurrezione di vita e quanti fecero il male, per una risurrezione di condanna”.

Gli eventi seguenti la morte di Gesù non hanno coinvolto soltanto i santi della Tradizione giudaica, patriarchi, profeti, martiri e giusti del passato; non solo la città santa, Gerusalemme, fu testimone della loro risurrezione e degli eventi di quel tempo, ma anche il mondo pagano ne rimane pienamente investito ed è chiamato a dare la sua adesione di fede, che il centurione e il drappello di soldati danno, proclamando Gesù come il vero Figlio di Dio (v.54). La morte di Gesù, dunque, acquista una valenza universale. Tutti, direttamente o indirettamente, ne sono coinvolti.

La scena drammatica della crocifissione e morte di Gesù, fino a questo momento ha avuto quali testimoni e protagonisti soltanto i nemici di Gesù. Ora, i vv.55-56 incentrano l'attenzione del lettore su di un numeroso gruppo silenzioso di donne, che, tenendosi a debita distanza, osservavano impotenti, gli eventi. Si tratta di un gruppo anonimo, caratterizzato da tre verbi che lo qualificano e lo definiscono come un gruppo di discepole, nel cui comportamento Matteo ravvisa quello della sua comunità: “qewroàsai, ºkoloÚqhsan, diakonoàsai”. Il secondo e terzo verbo parlano, infatti, di una sequela operosa, una sequela che si era fatta servizio devoto e fedele fin dagli inizi della fede in Gesù: “dalla Galilea”, la regione da dove è partita la missione di Gesù. Esse, dunque, sono autentiche discepole, che hanno operato la loro scelta esistenziale a favore di Gesù, fin da subito. Ma la passione e morte di Gesù hanno lasciato loro un amaro in bocca, così da rimanerne sconcertate. La comunità matteana, infatti, è formata prevalentemente da giudeocristiani, che ancor prima di essere cristiani sono giudei, con tutto il loro carico culturale e di attese messianiche, che sembrava loro aver scoperto in Gesù, da cui si attendevano la costituzione del Regno (At 1,6). Al contrario si sono trovati di fronte ad un Messia crocifisso, sconfitto, deriso. Per questo la comunità matteana è una comunità che si sta interrogando sul senso della morte di Gesù, che viene ancora vista come una deludente sconfitta, che ha segnato la fine di tutte le sue speranze, mentre le accuse e i dileggi mossile dal giudaismo di certo non facilitavano le cose (vv.39-44.49). Una delusione che Luca ha bene sintetizzato nel suo racconto dei due discepoli di Emmaus: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Lc 24,21). Attese, dunque, deluse, che la comunità matteana stenta a superare. Ed è ciò che vuole esprimere il primo verbo, “qewroàsai” (tzeorûsai), che definisce un vedere che si interroga, un vedere riflessivo, mentre l'avverbio che l'accompagna, “¢pÕ makrÒqen” (apò makrótzen) dice il modo con cui si pongono di fronte agli eventi: “da lontano”. La passione e morte di Gesù, quindi, sono eventi che ancora costituiscono un problema per la comunità matteana, eventi dai quali provengono molti dubbi, così che il loro stesso discepolato si fa titubante e incerto. Per questo il vangelo di Matteo si chiude, e non a caso, con il dubbio che ancora si insinua nell'animo di alcuni discepoli: “Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano” (28,17).

Tra questo folto gruppo di donne, Matteo cita tre donne; le estrae dall'anonimato del gruppo e, come vedremo subito, sembra voler puntare il dito contro di loro o, forse, per meglio dire, verso quella parte della sua comunità, di cui esse sono metafora, volendo stigmatizzarne il comportamento, che forse creava dei seri problemi sia al suo interno che all'esterno. Esse, come l'intero gruppo-comunità, sono state testimoni della passione e della morte di Gesù, testimoni della sua umiliazione, per rendere un servizio di redenzione all'intera umanità. La sottolineatura dei due verbi che indicano sequela per il servizio (ºkoloÚqhsan, diakonoàsai) stanno ad indicare quale deve essere la vera natura dell'intera comunità, lasciando così sottintendere, per contro, come parte della comunità matteana, da parte di certi gruppi, fosse dedita alla prevaricazione sia interna che esterna alla comunità.

Ognuna di queste donne, infatti, è qualificata dalla sua provenienza (Magdala) o dalla maternità. La prima è Maria di Magdala, che è strettamente connessa alla passione, morte e risurrezione di Gesù, comparendo in tutti i vangeli. L'unico dettaglio che abbiamo su questa donna ci proviene da Marco (16,9) e da Luca (8,2), che per inciso sottolineano come essa fosse stata liberata da sette demoni, dopo di che si pose al seguito di Gesù, servendolo; e come essa fosse stata testimone sia della morte che della risurrezione di Gesù. Così, come la comunità matteana fu liberata dall'oppressione della Torah orale, ponendosi alla sequela di Gesù (ºkoloÚqhsan) e al suo servizio (diakonoàsai), divenendo testimone della sua risurrezione. Questo faceva di lei, come lo fu per la Maddalena, una comunità privilegiata. Ma accanto alla Maddalena compaiono altre due donne, definite per la loro maternità: una era la madre dei figli di Zebedeo, quella madre che intercedette presso Gesù perché i suoi figli avessero un posto privilegiato nel regno di Israele, che i discepoli attendevano da Gesù46. Così come nella comunità matteana vi era chi aspirava ad alte cariche e pensava la nuova fede come un'opportunità per emergere, sognando un nuovo regno messianico di Israele. La terza donna è Maria, la madre di Giacomo e Giuseppe. Su questo personaggio e i suoi figli non si può formulare nessuna ipotesi scientificamente e storicamente seria. Possiamo soltanto dire che ci è totalmente sconosciuta. Indubbiamente, anche questa, per Matteo, doveva acquisire una qualche rilevanza metaforica, in cui la sua comunità poteva in qualche modo riflettersi. Messa così a fianco della madre dei figli di Zebedeo, possiamo congetturare che avesse una qualche attinenza. Se la madre dei figli di Zebedeo è metafora di una comunità che cerca al proprio interno dei posti di privilegio, questa, la madre di Giacomo e Giuseppe, forse potrebbe simboleggiare la ricerca della comunità matteana nel voler primeggiare sulle altre comunità. Non va dimenticato, infatti, che la comunità di Matteo era formata da ceti benestanti, latifondisti e ricchi; una comunità dove il denaro girava e gli affari dovevano prosperare47, di conseguenza non è difficile pensare che una simile comunità tenti il colpo di mano, cercando di porsi alla guida di altre comunità più povere. Oltre non ci si può spingere, nella piena coscienza che anche quello che è stato detto è una mera ipotesi, suffragata soltanto dalla fantasia.

I vv.57-61 chiudono la tragica fine di Gesù con un gesto di pietà: la sua sepoltura da parte di un suo discepolo. Il racconto è scarno, essenziale, ma narrativamente molto efficace. Esso si apre con una annotazione di tempo: “Giunta la sera” (“'Oy…aj d genomšnhj”, Opsías ghenoménes), che forma inclusione con l'identica espressione temporale che troviamo in 26,20. Questa inclusione dà narrativamente unità all'intera sezione del racconto della passione e morte di Gesù, racchiudendo tutti i tragici eventi, secondo i Sinottici, all'interno del giorno di Pasqua, iniziato con la celebrazione del banchetto pasquale e terminato con la morte di Gesù. In tal modo, congiungendo i due estremi, la prima con la seconda sera, l'evangelista fa si che quest'ultima, quella che sancisce la morte di Gesù, diventi interpretativa della prima sera, in cui, di fatto, Gesù ha anticipato in qualche modo la seconda sera. La prima sera, quindi, quella della cena, diventa metafora, simbolo della seconda sera. Quanto viene qui narrato, quindi, è racchiuso tra le due sere, cioè esattamente una giornata, secondo il modo giudaico di contare i giorni. La prima sera (26,20) vede Gesù sedersi a mensa con i suoi discepoli per celebrare la Pasqua, in cui reinterpretando alcuni passaggi del Seder48 e riferendoli a se stesso, lega la sua presenza al pane e al vino, riformula con il suo sangue l'antica Alleanza, che ora rifonda su se stesso, significando in tutto ciò il perdono definitivo e universale delle colpe (Rm 8,1), non più legato al ripetersi infinito di sacrifici di animali, ma, una volta per tutte, a se stesso (Eb 7,26-27). La seconda sera (27,57) nel concludere la drammatica giornata, conferma che Gesù è l'Agnello immolato, è pane che si spezza per tutti. Viene fornita così, con la prima sera, quella della cena pasquale, una lettura teologica della morte di Gesù, mentre questa, così ricompresa, verrà perpetuata lungo i secoli. Vi è, dunque, un profondo intreccio tra le due sere, tra la liturgia della prima sera e gli eventi storici, che si concludono con la seconda sera, divenendo questi oggetto di memoria, che ritualizzata nella cena, si perpetua nel tempo. Una giornata drammatica, sottratta alla relatività e alla finitezza del tempo, dal rito che si fa memoria.

Il v.57 presenta la figura di un personaggio che compare una sola volta in tutti i racconti evangelici ed è strettamente legato alla morte di Gesù. Di questo sappiamo che si chiamava Giuseppe ed era originario da Arimatea, l'antica Ramathaim, a circa 35/40 Km a nord-ovest di Gerusalemme49. Era un membro distinto del Sinedrio, un uomo buono e giusto, che attendeva la venuta del Regno di Dio, come altri pii israeliti (Lc 2,25.38); egli non si era associato al voto sinedrita contro Gesù, perché, pur di nascosto, per timore dei giudei, si era fatto suo discepolo. Probabilmente, sia perché discepolo e sia per la sua posizione di rilievo all'interno del Sinedrio, si recò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù50, che altrimenti avrebbe subito l'umiliazione e la profanazione ultima della fossa comune51. Matteo, unico tra tutti gli evangelisti, dice soltanto due cose di questo personaggio: era ricco e si era fatto discepolo di Gesù. Un'osservazione non casuale perché Matteo, qui, si sta rivolgendo alla sua comunità, che sappiamo essere stata molto ricca e benestante52. Un richiamo, forse, ad essere più attenta alle esigenze dei poveri, facendosi carico della loro sepoltura, difendendo i loro diritti anche presso le autorità costituite, senza timore o remore, come questo Giuseppe, che si fece carico della sepoltura di Gesù, esponendosi in prima persona e pagando di tasca propria, rivendicando il diritto ad una dignitosa sepoltura presso Pilato.

Significativi i particolari indicati nei vv.59.60: Gesù viene avvolto in un lenzuolo pulito e posto in una tomba nuova. La tomba poteva essere già stata usata o poteva contenere anche più cadaveri. Erano queste le tombe di famiglia53. Matteo, tuttavia sottolinea il particolare che la tomba era nuova, quindi, mai usata da nessuno e che il lenzuolo era pulito (kaqar´, katzarâ, pulito, immacolato, puro). Tra tutti gli evangelisti Matteo è l'unico che sottolinea che il lenzuolo era pulito e che la tomba era nuova. Marco parla soltanto di una tomba (Mc 15,46); Luca dice che nella tomba non era stato posto alcun cadavere (Lc 23,53), mentre Giovanni dice che la tomba era nuova, ma specificando che era tale perché non era stato posto nessun cadavere (Gv 19,41). Matteo, invece, dice soltanto che era una tomba nuova, incentrando l'attenzione del suo lettore sulla novità di quella tomba e sulla purezza e l'immacolatezza di quel lenzuolo, non ancora contaminato, destinato ad avvolgere il corpo di Gesù. Un lenzuolo, quindi, che era anch'esso nuovo. Questa sottolineatura della novità serve a Matteo per mettere in evidenza come questa morte di Gesù non fosse una morte qualsiasi, ma un tipo di morte nuova, una morte che non era destinata a rimanere tale; una morte, quella di Gesù, che possedeva in se stessa una forza rigeneratrice, poiché assimilando a sé l'intera umanità e con lei l'intero cosmo, li predisponeva ad una nuova creazione. Una morte per la vita, dunque. Nella morte di Gesù, quindi, era avvenuto un qualcosa di nuovo e tale da non poter essere paragonato a un qualsiasi altro funesto evento umanamente conosciuto. Anche questa puntualizzazione serviva a Matteo per aiutare la sua comunità a credere come questa morte non fosse la fine di ogni attesa, ma la premessa di un evento che avrebbe cambiato le sorti della storia. Non una sconfitta deludente, quindi, in cui affogava ogni speranza, ma un progetto divino che in essa si stava attuando. La tomba e il lenzuolo funerario, dunque, non erano la fine, ma l'inizio di un qualcosa di nuovo. Matteo, dunque, da buon pastore, sta aiutando la sua comunità a riconsiderare e a rileggere la morte di Gesù, come strumento di salvezza universale.

Il v.61 presenta presenta le due Marie, la Maddalena e l'altra Maria, cioè la madre di Giacomo e Giuseppe. Esse sono colte sedute davanti alla tomba, così come furono, di lontano, testimoni silenziose della crocifissione di Gesù. Esse sono racchiuse nel loro silenzio; hanno assistito alla crocifissione, hanno assistito alla morte del loro Maestro, hanno assistito alla sua sepoltura. Ora sono immobili, “sedute davanti alla tomba”. Gesù è dentro, loro sono fuori, attonite e perplesse su quanto è successo. Non dicono niente, stanno soltanto lì, quasi come bloccate da quell'enorme pietra. Matteo, qui, sembra descrivere lo stato della sua comunità, che di fronte alla drammaticità della passione e morte di Gesù rimane muta, perplessa, non sa cosa dire. È seduta lì davanti alla tomba e da qui non riesce a muoversi. La morte l'ha ammutolita, l'ha resa incapace di superarla, di andare oltre. È seduta davanti ad una tomba, che racchiude le sue speranze e le vanifica. È una comunità che si trova in una fase di stallo. La morte di Gesù costituisce un ostacolo alla loro fede, così che anche quando Gesù è risorto, Matteo sottolineerà come alcuni ancora dubitavano di lui (Mt 28,17b).

Con i vv.62-66 Matteo innesca, a fini apologetici, l'ennesima e ultima polemica del suo racconto. L'intento principale è quello di tacitare una diceria (28,15b), che doveva essere molto radicata, da almeno 70/80 anni e ancora molto diffusa tra la gente, se l'autore, in 28,15b afferma che “questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino ad oggi”, cioè dal giorno della morte-risurrezione di Gesù (30 d.C.) fino ai giorni, in cui l'autore scrive il suo racconto. Quando l'evangelista scrive queste cose si è già sul finire del I sec. se non oltre, secondo le nostre valutazioni54. La voce persistente, probabilmente divenuta ormai una comune convinzione, che stava certamente disturbando la fragile fede della comunità matteana, era che nottetempo i discepoli di Gesù avessero fatto sparire il suo corpo, affermando, poi, che egli era risorto. La questione, infatti, viene introdotta in 27,74 e ripresa in 28,13. La prima volta viene enunciata in un contesto di timori, che preludevano al fatto; la seconda volta, in un contesto di menzogne. I veri mentitori, quindi, non sono i discepoli, bensì le autorità giudaiche, che in tutti i modi cercano di tacitare un evento di straordinaria portata e incontrollabile nei suoi effetti: la risurrezione di Gesù. I due episodi, tra loro strettamente legati e, a nostro avviso, inventati ad hoc da Matteo, sono dislocati in 27,62-66 e 28,11-15. Vi sono, infatti, non pochi elementi che inducono a pensare a questi come una creazione dell'autore. Per quanto riguarda il primo episodio (27,62-66) va osservato:

a) una delegazione di sommi sacerdoti e di farisei si recano da Pilato nel giorno successivo a quello della parasceve, cioè nel giorno di sabato. Ma secondo la cronologia sinottica, quel sabato, già di per sé giorno di rigoroso riposo, che escludeva di per se stesso una qualsiasi attività lavorativa, era anche il primo giorno degli Azzimi, una solennità giudaica, essendo avvenuta tutta la triste vicenda di Gesù nel giorno di Pasqua55. Se così fosse stato, i componenti della delegazione non solo avrebbero violato l'obbligo del riposo sabbatico, ma si sarebbero anche contaminati, perché venuti a contatto con ambienti e persone pagane. Questo li avrebbe resi ritualmente impuri e non avrebbero potuto celebrare quelle solennità pasquali.

b) Le espressioni usate in questo primo episodio, “ancora vivente” (œti zîn), “dopo tre giorni risorgo”, con l'uso del verbo risorgere al presente indicativo (™ge…romai), per indicare la costante presenza di una risurrezione continuamente operante, che faceva di Gesù l' “ancora vivente”; e infine “terzo giorno”. Tutte espressioni queste che risentono del linguaggio catechetico e dottrinale e messe in bocca alle stesse autorità giudaiche suonano come una stonatura. Le autorità giudaiche, infatti, diverrebbero presso Pilato, come dire presso il mondo pagano, le prime annunciatrici della risurrezione di Cristo. Una caustica ironia di invenzione tutta redazionale.

c) Vi è, inoltre, una sostanziale incongruenza: le autorità giudaiche si precipitano da Pilato il giorno successivo alla sepoltura di Gesù per chiedere un corpo di guardia alla tomba perché essa non venga violata dai discepoli, prospettando poi una improbabile risurrezione. Ma in tal modo le autorità giudaiche lasciano la tomba incustodita tutta la prima notte.

d) Stranamente, infine, sono soltanto i Giudei a ricordarsi delle parole di Gesù circa la sua risurrezione dopo tre giorni, mentre i discepoli, fino a quel momento, le ignorano completamente, non solo, ma già a suo tempo avevano dato da vedere di non aver capito il significato di risurrezione dai morti (Mc 9,10) e che egli sarebbe risorto (Gv 20,9).


L'episodio, tuttavia serve a Matteo per introdurre un elemento di testimonianza della risurrezione, che potremmo definire “super partes” e, quindi, inoppugnabile e lo fa fare (torna qui l'ironia) proprio da quelli che volevano tutelarsi dal pericolo nefasto di un annuncio di risurrezione. Chi poteva essere il miglior testimone della risurrezione di Gesù se non un picchetto di soldati romani e, quindi, dei pagani? Pilato, infatti, cede alla richiesta dei sinedriti e concede loro un reparto armato romano56, come si arguisce da Mt 28,14. Saranno proprio questi, i soldati, che dovevano tutelare la tomba da incursioni notturne e dalla sottrazione del cadavere, impedendo così ai discepoli falsi annunci di risurrezione, che diventeranno i primi imparziali testimoni della risurrezione (28,11). Saranno proprio loro, i pagani, ad annunciare agli increduli giudei la risurrezione di Cristo. Anche il secondo racconto, quindi, lascia alquanto a desiderare circa la sua storicità, in quanto strettamente legato e conseguente al primo, ma soprattutto per la sua specifica finalità polemica e apologetica insieme, che intende a far risalire “la diceria” alle oscure manovre delle autorità giudaiche.

Al di là, comunque, delle sue intenzioni polemiche e apologetiche, Matteo, con questo ultimo episodio, con cui conclude il cap.27, prelude già alla risurrezione, legando strettamente la morte di Gesù a questa e chiamando a sua testimonianza lo stesso mondo pagano, che, dapprima, nella morte lo riconosce vero Figlio di Dio, mentre ora si appresta a sperimentarne la potenza. Anche il mondo pagano dunque è coinvolto nello storico evento. Anche qui vi è un annuncio di universalità che apparirà evidente nel mandato finale con cui si conclude il racconto matteano.


                                                                                                                                    Giovanni Lonardi



NOTE

1Per l'analisi strutturale di questo capitolo si rimanda al precedente cap.26

2Sul tema cfr. lo studio “Ma i Giudei furono veramente perfidi?” che si trova sul presente sito alla Sezione Esegetica, nell'area “Altri Scritti”.

3Cfr. Mt 9,8.33; 12,23; 15,31; 22,33; Mc 1,22; 2,12; 5,20; 6,2.51; 9,15; 12,37b; 6,19; Lc 5,15.26; 8,25.40; 9,43; 11,14.27; 13,17; Gv 7,15.21.31;

4Cfr. Gv 11,47-50; 18,14. Circa lo stato di precarietà dell'ordine pubblico in Giudea ai tempi di Gesù, Giuseppe Flavio testimonia che “La Giudea era piena di brigantaggio. Ognuno poteva farsi re, come capo di una banda di ribelli tra i quali capitava e in seguito avrebbe esercitato pressione per distruggere la comunità causando torbidi a un piccolo numero di Romani e, più raramente, ma provocando una grande carneficina al suo popolo” (Ant. Jud. XVII, 285). In questo contesto di precarietà sociale ben si comprende, dunque, la preoccupazione di Caifa: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione. Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: <<Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera>>” (Gv 11,47-50).

5Cfr. Gv 6,15

6Cfr. Mt 21,8-11; Mc 11,7-10; Lc 19-37-38; Gv 12,12-13

7Cfr. anche Lv 24,18-20; Dt 19,21. I passi citati sono gli unici in cui viene menzionata quella che viene comunemente definita la “Legge del taglione”, il cui spirito non è quello della vendetta, ma dell'equità, evitando una ritorsione sproporzionata o illimitata, degenerando in faide familiari. Sul tema cfr. la voce “Pena, Reato” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

8Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, op. cit.

9Sul tema cfr. le voci “Messia, Messianismo” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

10Cfr. Mt 21,8-9; Mc 11,9-10; Lc 19,38

11La legge fu emanata dall'imperatore Augusto nel 8 a.C. Egli volle riordinare l'intera materia circa il crimine di lesa maestà, cioè di qualunque offesa o minaccia, diretta o indiretta, arrecata all'imperatore e, quindi, alla sua autorità. - In tal senso cfr. anche A.Poppi, I Quattro Vangeli, commento esegetico, op. cit.

12Cfr. 27,11,29,37,42

13Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XVIII, 55-62.85-89; Guerra Giudaica, II, 169-177; Cfr. Filone d'Alessandria, Legatio ad Gaium 299-305; Lc 13,1.

14Cfr. anche lo studio “Ma i Giudei furono veramente perfidi?”, presente su questo sito nella Sezione Esegetica, area “Altri Scritti”.

15Cfr. Gen 20,3.6; 28,12; 31,11.24; 1Sam 28,6.15; 1Re 3,5; Gb 33,15.

16Cfr. Mt 1,20; 2,12.13.19.22

17Cfr. Mt 5,10.11; 10,18.22.39;13,21;16,25; 24,9; 26,31 e passi paralleli.

18In tal senso cfr. le voci “Abluzioni” e “Acqua” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, op. cit.

19Cfr. Dt 21,1-9; Sal 26,6; 73,13; Sir 38,10;

20Cfr. Lv 20,9.11.12.13.16.27; Gs 2,19; Gdc 9,24; 2Sam 1,16; 16,8; 1Re 2,32.33.37; Ger 26,15; 51,35.

21Il condannato veniva legato ad una colonna, alta circa un metro, un metro e mezzo, in modo tale che egli mostrasse il dorso al suo aguzzino. Lo strumento di fustigazione era formato da un bastoncino, da cui si dipartivano delle cordicelle o delle listoline di pelle o di cuoio, in fondo alle quali era fissato un ossicino aguzzo o dei piombini. I colpi cosi inferti andavano ad incidere sulla carne del disgraziato, che veniva lacerata e strappata, con copiosa perdita di sangue. La flagellazione, poi, veniva fatta seguire subito da un bagno in acqua fredda, che serviva sia a ripulire il condannato dal sangue, che farlo rinvenire. Così trattato, talvolta il condannato non era neppure in grado di reggersi o di portare la trave trasversale, il patibulum, al quale veniva crocifisso e poi innalzato sul palo verticale, già conficcato a terra. Sorte questa che capitò a Gesù, così che si rese necessario l'aiuto del Cireneo, ricordato nei vangeli.

22In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo, pagg. 565-566, op. cit.

23Matteo parla di “tutta la coorte”. Si tratta certamente di una esagerazione, poiché una coorte romana era composta di seicento soldati.

24Matteo dice che Gesù venne spogliato dai suoi vestiti e ricoperto di una “clamÚda kokk…nhn” (clamída kokkínen), cioè di una clamide color porpora. Questa, nell'antichità greco-romana, era un mantello corto e leggero di forma trapezoidale, fissato sulla spalla da una fibbia, lasciando scoperto un fianco e un braccio, o, simmetricamente, allacciata sotto la gola. Era l'abito essenziale dei viandanti e veniva usato prevalentemente per cavalcare. L'indumento sembra essere originario della Tessaglia o della Macedonia e in Grecia era il simbolo del comando militare. Gli esemplari più pregiati erano spesso tinti di porpora (clamide purpurea) e faceva parte anche del corredo regale e imperiale. - Cfr. la voce “Clamide” in Enciclopedia Motta, Ed. Federico Motta Editore, quarta edizione, Milano 1968.

25Cirene era una cittadina fondata verso al fine del VII sec. a.C. dai Dori, sulle coste dell'Africa settentrionale. La sua ricchezza si fondava principalmente sul commercio di grano, lana, datteri e silfio, un'erba aromatica medicinale. Nel III sec. a.C. divenne parte del regno dei Tolomei e nl 96 a.C. Cadde sotto il dominio romano e nel 74 a.C. Divenne provincia romana. Secondo le informazioni passateci da Giuseppe Flavio, che a sua volta le ha recuperate da Strabone, la città era composta da quattro classi sociali: i cittadini, gli agricoltori, i forestieri residenti e i Giudei. - Sulla questione cfr. la voce “Cirene” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; e G. Flavio, Antichità Giudaiche, XIV,115.

26Nel 1941, nella valle del Cedron, a Gerusalemme, fu trovato un ossario risalente al I sec. d.C. E contenente le spoglie di una famiglia originaria di Cirene e, in particolare, veniva citato il nome di “Alessandro di Cirene, figlio di Simone”. Gli archeologi ritengono che questi resti appartengano credibilmente alla famiglia di Simone di Cirene, citato dai vangeli.

27Nelle esecuzioni capitali per crocifissione si formava un piccolo corteo, aperto da un centurione a cavallo, sul quale ricadeva la responsabilità del buon fine dell'esecuzione (exactor mortis); seguiva subito il servo di giustizia, che reggeva in mano il titulus, contenente la motivazione della condanna, che annunciava alla folla lungo il cammino verso il luogo del supplizio. Seguiva, poi, il condannato (cruciarius), attorniato da quattro soldati (Gv 19,23). Seguiva, infine, la folla. Secondo il sistema romano, il condannato attraversava le vie della città nudo, mentre veniva schernito, insultato e fustigato. Matteo fa notare che Gesù, dopo la flagellazione, fu rivestito delle sue vesti. È probabile che i romani avessero derogato alle loro abitudini per non offendere il senso del pudore degli ebrei, la cui suscettibilità era loro ben nota.

28Per una trattazione più ampia e approfondita, cfr. la voce “Golgota” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

29Cfr. Mt 27,39; Mc 15,29; Gv 19,20.

30Si tratta della citazione di Prv 31,6.

31La CEI ha qui liberamente tradotto il termine greco “col¾n” (colèn) con “veleno”, mentre il significato greco è “fiele”. Nella traduzione, quindi, ho preferito la fedeltà al testo greco.

32

33Cfr. la voce “Croce, Crocifissione” in Nuovo dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

34Cfr. Mt 7,24.26; 13,44.45.47.52; 18,23; 20,1; 22,2; 25,1.

35Il giorno iniziava alle sei del mattino e declinava alle sei di sera. Da questo momento e fino alle sei del mattino successivo, la notte veniva suddivisa in quattro vigilie da tre ore ciascuna.

36Cfr. la voce “Tre” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, op. cit.

37In tal senso cfr. anche Is 5,30; 13,9-10; Ger 13,16; Am 5,18; Gl 2,1-2.

38L'aceto di cui si parla nelle Scritture è certamente un vino aspro e acidulo, non bevibile normalmente. Presso i Romani si trattava di vero e proprio aceto che veniva mischiato all'acqua e serviva da depuratore, una sorta di disinfettante.

39In tal senso cfr. Mt 5,17 e le sue numerose citazioni scritturistiche disseminate all'interno della sua opera. Similmente si cfr. Lc 24,27.45-48; Gv 20,9.

40Cfr. Sal 5,3; 9,13; 17,7; 21,3; 21,25; 27,1; 33,7.16.18; 71,12; 76,2; 85,3.7; 117,5; Is 5,7; 26,16.17; 30,19; Bar 3,1; 4,21;

41Cfr. Gb 27,9; 30,20; Sal 17,42; 21,3; 26,7-9; 68,4; 76,2-11; Ger 11,11; Mi 3,4; Zc 7,13;

42Sulla questione della composizione del vangelo di Matteo cfr. la Parte Introduttiva della presente opera.

43Cfr. Gv 10,21.30; 17,11.21.22

44Cfr. Gv 4,11.14; 6,51-58

45Sul tema, cfr. O. da Spinetoli, Matteo, pagg. 750-751; op. cit.

46Cfr. Mt 20,20ssnenpassi paralleli.

47Sul tema cfr. la Parte Introduttiva della presente opera.

48Cfr. il commento al cap.26, 26-30

49Cfr. Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù, Ed. Oscar Mondadori, Cles (TN) 2009; cfr. anche la Voce “Arimatea” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia.

50Sulla figura di Giuseppe d'Arimatea cfr. Mt 27,57-58; Mc 15,43; Lc 23,50-52; Gv 19,38.

51La cura dei cadaveri era particolarmente sentita presso gli ebrei. La morte, infatti, per l'ebreo, non era l'annientamento dell'uomo. Finché sussiste qualcosa del corpo, finché ci sono almeno le ossa, l'anima, che nel frattempo continuava a vivere in uno stato larvale di estrema debolezza, come un'ombra anonima stipata nello Sheol assieme alle altre anime, continua a sentire ciò che viene fatto al corpo. Per questo l'essere abbandonati senza sepoltura, in preda agli animali, era la peggiore maledizione ed un gravissimo oltraggio. Presso gli ebrei il corpo non veniva mai bruciato, né imbalsamato, ma deposto, per i ricchi, in una grotta naturale o scavata nella roccia o, per i più poveri, affidati alla terra, in genere in fosse comuni, assieme ai cadaveri dei condannati a morte o degli stranieri senza patria. La cremazione, considerata un oltraggio, era riservata ai grandi delinquenti o ai nemici, di cui si voleva distruggere il ricordo o li si voleva annientare. Il cadavere in genere non era posto in una bara chiusa, ma su di una barella e così trasportato al luogo della sepoltura, di modo che tutti lo potessero vedere. Subito dopo il decesso, seguiva un rituale particolare: al cadavere venivano chiusi gli occhi, veniva abbracciato o baciato per l'ultima volta e poi lavato, strofinando sul corpo profumi e aromi e bruciando incensi o resine profumate. I profumi più usati erano il nardo, la mirra o l'aloe. Il corpo, in tempi antichi, veniva rivestito con i suoi abiti e le insegne di quella che era la funzione propria del morto. Tuttavia, il morto per violenza non veniva né lavato né trattato come gli altri defunti, ma lo si seppelliva con i suoi abiti insanguinati, avvolto in un lenzuolo, ciò che avvenne per Gesù. Ai tempi di Gesù, tuttavia, si procedeva in modo molto simile. Il cadavere veniva avvolto in un grande lenzuolo, che lo ricopriva completamente e poi avvolto in bende, per tenere ben compattato il corpo, affinché non si smembrasse durante la decomposizione. Il cadavere, poi, veniva portato nella camera alta della casa per consentire ai parenti, agli amici e ai vicini un ultimo saluto. Nello stesso giorno della morte veniva, dopo poche ore, sette/otto ore circa, seppellito senza alcuna cerimonia religiosa. Il corteo funebre si snodava dalla casa verso il luogo della sepoltura. Il cadavere era portato in genere i barella, preceduto da delle donne, perché, si diceva, una donna, Eva, aveva introdotto la morte nel mondo e, quindi, era doveroso che delle donne accompagnassero le loro vittime alla sepoltura. Le dimostrazioni di dolore erano ritualmente chiassose. Si elevavano grandi grida di dolore, ci si cospargeva il capo di polvere, si assumevano delle lamentatrici di professione, che lanciavano alte grida, mentre suonatori di flauto emettevano lugubri suoni. Ci si strappava i vestiti e il Talmud stabiliva quale fosse lo strappo minimo conveniente per l'occasione. Non vi erano luoghi di sepoltura assimilabili ai nostri cimiteri, soltanto l'uso e la consuetudine comune portava a raccogliere le tombe in determinati luoghi, alla distanza legale di almeno cinquanta cubiti dalle abitazioni. Così nei pressi di Gerusalemme, vi era la valle del Cedron che per buona parte era un cimitero, il cimitero di Giosafat, dove i pii ebrei desideravano di essere sepolti, perché il profeta Gioele aveva detto: “Si affrettino e salgano le genti alla valle di Giòsafat, poiché lì siederò per giudicare tutte le genti all'intorno” (Gl 4,12 – Cfr. anche Gl 4,2). - Cfr. R. de Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento; H. Daniel-Rops, la vita quotidiana in Palestina ai tempi di Gesù; la voce “Sepoltura” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; J. S. Jeffers, Il Mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento. Tutte le opere citate.

52Sulla comunità di Matteo cfr. la Parte Introduttiva della presente opera.

53 Come già si è accennato sopra, alla nota 50, la sepoltura avveniva per i più poveri in anonime fosse comuni. Soltanto i ricchi riuscivano a procurarsi una tomba su misura, che in genere veniva scavata nella roccia o nel tufo o sfruttando grotte naturali opportunamente adattate. In genere la tomba israelitica si presentava come una sorta di camera funeraria, scavata nella roccia a cui si accedeva attraverso un cunicolo molto stretto e basso, per cui era necessario chinarsi per passare. Lungo i lati della grotta scorrevano delle panche o su di un ripiano scavato nella roccia, su cui venivano posti i cadaveri. Talvolta una stessa entrata dava accesso anche a più sale funerarie. Si trattava in genere di tombe collettive di famiglia o di clan.. In queste camere funerarie vi era anche una cavità in cui venivano riposte le ossa, per lasciar spazio ad altre salme. Soltanto tra il I sec. a.C. E il I sec. d.C. Le ossa venivano raccolte in urne di calcare tenero, sulle quali veniva posto il nome del defunto. Le tombe meno ricche erano chiuse con un muretto di pietre, ma quelle più belle e distinte venivano sigillate con una pietra a mo' di macina da mulino, che si faceva scorrere in una scannellatura e, poi, bloccata con una zeppa di legno. Le tombe erano sparse sui pendii vicini alla città o si raggruppavano in luoghi che la natura del suolo rendeva idonei per tale funzione. - Per la bibliografia, cfr. nota 50.

54Sulla questione della datazione e formazione del vangelo di Matteo cfr. la “Parte Introduttiva” della presente opera.

55Sulla questione cfr. il commento al cap.26, ai titoli “Ma quando cadeva la Pasqua giudaica?” e “La data dell'Ultima Cena: problemi di calendario o diverse comprensioni teologiche?”.

56Cfr. anche G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Ed. OscarMondadori, ristampa Cles (TN) 2009.