IL VANGELO DI MATTEO

Il racconto della passione e morte di Gesù

Capp. 26 – 27


Parte Prima


Dall'annuncio della consegna del Figlio dell'uomo

al rinnegamento di Pietro


Cap. 26




Introduzione

Il racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù costituisce il vertice teologico e dottrinale del Vangelo, poiché tutto, la predicazione, l'operare, la missione e la stessa figura di Gesù acquistano significato e peso salvifici soltanto alla luce del morire e del risorgere di Gesù. Lungo l'intero cammino del racconto evangelico sinottico vengono disseminate qua e là delle pietre miliari, che ricordano qual'è la meta finale di Gesù1. Luca, in particolar modo, struttura l'intero suo racconto attorno al viaggio di Gesù verso Gerusalemme2, percepito come il luogo dove si compie il mistero della sua passione, morte e risurrezione. Un viaggio che dura ben dieci capitoli. Nel racconto sinottico tutto converge verso il Golgota e su tutta la missione di Gesù si estende l'ombra della croce, che si contrappone per ben tre volte alle fantasie di un messianismo trionfalistico, segretamente coltivato nel cuore dei discepoli, che li vede in concorrenza tra loro nella spartizione dei posti nel regno3. Incomprensioni, abbandoni, tradimenti, ostilità aperte, congiure sono le costanti che sottendono l'intera missione di Gesù e che formano una sorta di anticipazione di quella passione e morte, che troverà il suo culmine e la sua conclusione sul Golgota e la sua giustificazione nella risurrezione. Vi è, infatti, all'interno del racconto evangelico una doppia lettura retrospettiva della missione di Gesù: la prima vede l'agire di Gesù costantemente adombrato, in vario modo, dalla tema del suo patire e del suo morire; la seconda lettura, sostanziata dalla risurrezione, legge la figura di Gesù, il suo operare e il suo predicare in chiave divina e salvifica4. Su questi due elementi fondamentali, passione-morte e risurrezione, viene imbastito l'intero racconto evangelico e senza questi elementi non solo la missione di Gesù, ma la sua stessa persona viene svuotata di senso e perde di significato. Il peso e la valenza di questa passione-morte e risurrezione è tale che non solo pervade la vita di Gesù, ma coinvolge direttamente lo stesso discepolato, che non può sfuggire alla logica della croce, posta a fondamento e a condizione della sequela5. Potremmo, quindi, pensare all'intero racconto evangelico come un cammino verso la croce e la risurrezione; un racconto, quindi, che si struttura e prende forma attorno a questi due pilastri fondamentali non solo della vita di Gesù, ma della stessa nostra salvezza. Proprio su questi due elementi fondamentali Paolo sviluppò una sua teologia, che non solo approfondisce il senso della morte e risurrezione di Gesù, ma ne rivela anche il contenuto salvifico e in quale modo il credente ne è direttamente coinvolto6, sottolineando la centralità di Cristo nel piano salvifico di Dio7.

La fondamentale importanza della morte e risurrezione di Gesù venne immediatamente colta dalle primissime comunità credenti e venne rielaborata sotto forma di riflessione teologica, che ci è testimoniata in modo ineguagliabile da alcuni inni cristologici, che Paolo ha riportato nelle sue lettere, e dallo stesso pensiero paolino8. Proprio per questa sua fondamentale importanza il racconto della passione e della morte di Gesù e della sua risurrezione non va pensato come un reportage cronachistico dell'epoca, ma come una testimonianza di fede, che lascia intravvedere la comprensione teologica che questi eventi hanno avuto presso le prime comunità credenti, il cui racconto, tuttavia, si radica saldamente nella storia e nella verità dei fatti. Ma per l'evangelista non sono questi l'importante dell'intera vicenda, bensì il loro contenuto, che egli cerca di far tralucere da un racconto, che solo in apparenza, come vedremo, sembra narrare una drammatica vicenda accaduta circa duemila anni or sono. In realtà non si narrano dei fatti, ma la comprensione che si è avuta degli stessi. Non si tratta, quindi, di una narrazione neutra od oggettiva degli eventi storici, ma della loro ricomprensione alla luce delle Scritture e della fede e, in particolar modo, alla luce della stessa risurrezione. Indagare, quindi, in modo ossessivo la cornice storica degli eventi salvifici entro la quale essi si sono prodotti, dimenticando che qui ci troviamo di fronte a dei racconti, il cui intento è aiutare a comprendere il senso degli eventi, rafforzando la fede nel Risorto, si rischia di non arrivare da nessuna parte o di scontrarsi con barriere storiche e logiche difficilmente superabili, come avremo modo di vedere più avanti.

Già all'inizio del suo racconto Matteo, infatti, non lascia dubbi sul significato che intende dare al suo racconto della passione, morte e risurrezione, associandolo fin da subito alla pasqua ebraica, assegnandole, in tal modo, non solo un nuovo significato, ma lasciando intuire come questa fosse figura di quella di Gesù (26,2). Il racconto è, inoltre, disseminato da titoli cristologici9, la cui finalità è mettere in luce la vera natura di Gesù e, di conseguenza, la valenza di quanto è successo sul Golgota e dintorni. Non mancano le citazioni bibliche, poste a commento di eventi o di frasi dette da Gesù, legando in tal modo il loro accadimento alle Scritture e suggerendo così una lettura teologica degli eventi stessi. In tal modo l'evangelista forniva alla sua comunità il senso del patire, morire e risorgere di Gesù, mettendone in rilievo il peso salvifico per l'intera umanità. Non dunque una sconfitta di Dio, ma un progetto di salvezza, che proprio in quell'apparente sconfitta, trova la pienezza della sua vittoria (Mt 26,54.56).

Il racconto, ricco di drammatici eventi, narrati in modo essenziale, ma con meticolosa attenzione al loro significato teologico, è inquadrato in un arco di tempo di poco meno di quarantotto ore, secondo il nostro modo di calcolare il tempo, ed è scandito da continui richiami temporali, che segnano l'avanzarsi del progetto salvifico di Dio all'interno dei tempi dell'uomo, per dire come la storia della salvezza si intrecci con quella dell'uomo, che in essa viene interpellato dagli eventi e viene spinto a prendere esistenzialmente posizione.

Dopo un preambolo introduttivo (26,1-16), anch'esso caratterizzato dalla presenza di una nota temporale: “fra due giorni viene la pasqua” (26,2), che preannuncia gli eventi, il racconto della passione inizia con la prima espressione temporale: “Nel primo giorno degli Azzimi” (26,17), è il mattino che precede la pasqua; segue quasi subito, al v.26,20, la seconda annotazione temporale: “Giunta la sera”, quella della cena pasquale; la terza nota temporale: “in questa notte” (26,31), la notte del tradimento e dell'arresto, che segna una drammatica svolta nelle vicende di Gesù; il quarto tempo: “Giunto il mattino” (27,1a), quello seguente alla notte dell'arresto e del giudizio davanti al Sinedrio e che vede Gesù davanti a Pilato e poi la sua condanna; il quinto tempo è segnato dalla morte di Gesù: “Dalla sesta ora venne buio su tutta la terra fino all'ora nona. Intorno all'ora nona ...” (27,45-46a); e infine il sesto tempo, che pone fine al dramma: “Giunta la sera”, in cui Gesù, deposto dalla croce, viene sepolto (27,57). L'intero racconto della passione e morte è contenuto nell'arco di questi due giorni.

Con i vv. 27,62 e 28,1 inizia una nuova cronologia, inizia di fatto il tempo di Dio, quello che dà inizio ad una nuova storia, non più fatta da mani di uomo, ma quella pensata e creata da Dio e che Dio ha consegnato all'Agnello sgozzato e dritto in piedi (Ap 5,1-7). È la cronologia di Dio, quella della risurrezione: “Il giorno dopo” è quello dopo la morte e sepoltura di Gesù, quello in cui le autorità religiose paventano la risurrezione di Gesù e, inconsapevoli, la annunciano a Pilato (27,62); “Ora, dopo il sabato, al chiarore del primo giorno della settimana” (28,1): è l'ottavo giorno, con il quale l'umanità credente entra nel tempo di Dio, è il giorno della risurrezione, il tempo della nuova creazione.

All'interno di questa cornice temporale si svolgono i drammatici eventi, che vedono come protagonista principale Gesù, attorno al quale si muovono numerosi altri personaggi, caratterizzati dal loro rapporto con Gesù. È di fatto la storia degli uomini che gira attorno a Gesù e acquista il suo significato a seconda del rapporto che essa intrattiene con l'inviato di Dio. Gesù è sempre lo stesso, è sempre se stesso (Eb 13,8). Egli si muove in mezzo all'umanità e la sua presenza la interpella nelle varie e diverse circostanze e da essa attende la sua libera risposta, quella che essa è in grado di dare e che la rivela, esponendola di fatto al giudizio divino.

I personaggi che compaiono sulla scena della passione e morte di Gesù sono complessivamente ventitré e sono divisi in due contrapposti schieramenti: a pro o contro Gesù. Alcuni compaiono marginalmente soltanto una volta; altri dominano in modo più o meno consistente le diverse scene. Tutti, comunque, all'interno dei contrapposti schieramenti in cui sono collocati, sono caratterizzati da un diverso e contrapposto comune denominatore. Le forze a favore di Gesù10 appaiono sostanzialmente passive, accomunate tra loro da stati di inconsapevolezza, incertezza, titubanza, paura; sono forze che spingono alla fuga, all'abbandono di Gesù, al suo rinnegamento, ma anche alla pietà e all'assistenza. Mentre le forze contrarie a Gesù11 appaiono molto attive e in tutta la loro determinazione nel voler sopprimere Gesù. Esse complottano, tradiscono, si muovono nascostamente, sopraffanno, accusano, inveiscono, sospingono, dileggiano, aggrediscono, torturano e uccidono. Il bene appare qui in tutta la sua debolezza e inconsistenza, lasciando campo libero alle forze del male, perché, ricorderà Luca, unico tra gli evangelisti, “[...] questa è la vostra ora, è il potere delle tenebre” (Lv 22,53,b). E il male emerge in tutta la sua virulenza e si impone, perché il bene gli ha lasciato lo spazio libero. Ma a questa apparente impari lotta, all'apparente fragilità del bene l'evangelista fornisce una chiave di lettura alla sua comunità titubante e smarrita di fronte ad un sedicente messia vergognosamente sopraffatto e crocifisso: “Come, dunque, si compirebbero le Scritture, (le quali dicono) che così deve accadere? […] Ma tutto ciò è accaduto perché si adempissero le Scritture dei Profeti” (26,54.56). Ecco, dunque, spiegata l'apparente debolezza del bene: c'è un piano divino che deve compiersi e conduce tutti gli uomini verso il suo compimento, in cui il bene come il male hanno i loro tempi stabiliti.

L'unità letteraria del racconto è data dall'ordinato susseguirsi degli eventi stessi, concatenati tra loro secondo una logica narrativa propria, sapientemente dosata. Ogni personaggio ha una sua precisa funzione e la sua apparizione non è mai lasciata in sospeso, ma viene portata sempre a conclusione. All'interno del racconto si sentono, qua e là, le varie cadenze catechistiche e liturgiche, apologetiche e parenetiche, che investono le varie unità narrative, che compongono il complesso racconto della passione e morte di Gesù.

La struttura del racconto della passione e morte di Gesù si può articolare in quattro aree narrative con epilogo finale, che raggruppano complessivamente 20 scene, introdotte dal v. 26,2 che funge da chiave di lettura dell'intero racconto.

Pertanto si avrà la seguente struttura:


Prima area: Il preludio alla passione e morte (26,3-16)


1° Scena: il complotto delle autorità religiose, che decretano la morte di Gesù (26,3-5);

2° Scena: l'annuncio della sepoltura di Gesù (26,6-13);

3° Scena: il tradimento del discepolo, che complotta con le autorità religiose (26,14-16).


Seconda area: Dalla celebrazione della Pasqua al Getsemani (26,17-56)


1° Scena: la preparazione del banchetto pasquale (26,17-19);

2° Scena: l'annuncio del tradimento (26,20-25);

3° Scena: il nuovo comandamento: “fate questo in memoria di me” (26,26-30);

4° Scena: verso il monte degli Ulivi e l'annuncio dell'abbandono dei discepoli (26,31-35);

5° Scena: al Getsemani: la fragilità dei discepoli (26,36-46);

6° Scena: l'arresto e l'abbandono da parte dei discepoli (26,47-56).


- Versetti di transizione: dal Getsemani a Caifa (26,57-58).


Terza area: Il processo davanti al Sinedrio e davanti a Pilato (26,59-27,25)


1° Scena: il processo davanti a Caifa (26,59-68);

2° Scena: il rinnegamento di Pietro. Si attua la profezia di Gesù (26,69-75);


- Versetti di transizione: da Caifa a Pilato (27,1-2)


3° Scena: il pentimento di Giuda (27,3-10);

4° Scena: il processo davanti a Pilato (27,11-25);


Quarta area: Dal pretorio al Golgota: la morte di Gesù e la sua sepoltura (27,26-61)


1° Scena: il dileggio di Gesù da parte della soldataglia di Pilato (27,26-31);

2° Scena: verso il Golgota e la crocifissione (27,32-37);

3° Scena: Gesù posto tra due ladroni: il dileggio (27,38-44);

4° Scena: la morte di Gesù (27,45-50);

5° Scena: la morte è vinta e Gesù è proclamato Figlio di Dio; i testimoni (27,51-56);

6° Scena: la sepoltura di Gesù (27,57-61);

L'epilogo: le autorità religiose giudaiche temono la risurrezione di Gesù e inconsapevolmente la annunciano al mondo pagano (27,62-66). Il vano tentativo di fermare gli eventi della salvezza.



Gesù tradito, rinnegato e abbandonato dai suoi,

si consegna alla sua gente, che lo rinnega



Parte Prima



Analisi e Commento al Cap. 26





Premessa


Abbiamo suddiviso il racconto della passione e morte di Gesù in due parti. La prima, cap.26, riguarda il tema della passione colta all'interno, per così dire, delle pareti domestiche: tra i suoi discepoli prima; tra la sua gente poi. Quella gente che lo giudicherà e lo condannerà a morte. La morte di Gesù, quindi, nasce in seno al suo popolo e ha le sue lontane radici in un pervicace e invincibile rifiuto della sua persona e del suo insegnamento. Mentre il tradimento, l'abbandono e il rinnegamento di Gesù da parte dei suoi discepoli si radica nell'incomprensione, che essi hanno avuto, del mistero della sua persona. L'hanno seguito fin che hanno potuto, poi, non se la sono sentita di scommettere la loro vita su Gesù. Soltanto dopo la luce della risurrezione tutto acquisterà la sua giusta dimensione e incomincia allora la ricomprensione del Gesù della storia, ora riletto all'interno della sua glorificazione divina.

La seconda parte, cap.27, riguarda il tema della passione e della morte di Gesù, colte dal versante esterno, quello del mondo pagano. Pilato e sua moglie comprendono la realtà delle cose e intuiscono chi hanno davanti, ne percepiscono, quasi inavvertitamente la divinità, senza rendersene pienamente conto; mentre il centurione e la sua scorta ne riconoscono la figliolanza divina e la proclamano pubblicamente.

Le due parti sono nettamente contrapposte e di fatto formulano un atto di accusa contro Israele, che non ha saputo cogliere la messianicità divina di Gesù, cosa, invece, che ha saputo fare il mondo pagano. Al rifiuto del popolo prediletto fa, dunque, eco l'accoglienza del mondo pagano12. Si realizza qui la minaccia di Gesù: “Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (Mt 21,43).

vv.1-2: questi due versetti sono introduttivi all'intero racconto della passione e morte. Il v.1 è di transizione, concludendo il quinto grande discorso di Gesù (v.1a) e traghettando il lettore verso il nuovo racconto (v.1b). Significativa nel v.1 è l'espressione conclusiva del quinto grande discorso: “[...] quando Gesù terminò tutti questi discorsi [...]”. Nelle cinque conclusioni, che terminano i grandi discorsi di Gesù, l'aggettivo quantitativo “tutti” compare per la prima volta soltanto qui. La sua comparsa nella conclusione dell'ultimo discorso non è casuale. Già si era tratta la questione nella Parte Introduttiva della presente opera13, circa la formazione del vangelo di Matteo, e a questa si rimanda per una più approfondita trattazione. Qui ci limitiamo ad un semplice accenno di richiamo. È nostra convinzione che il vangelo di Matteo abbia subito nella sua formazione redazionale due passaggi fondamentali. Il primo vangelo matteano, apparso intorno agli anni 80, doveva essere formato esclusivamente da una raccolta di detti, sentenze e brevi parabole di Gesù, a cui sembra far accenno anche Papìa parlando di lÒgia (lóghia). Tutto questo materiale fu riordinato da Matteo in cinque grandi discorsi, che tematicamente sono disposti tra loro in forma parallela, concentrica in C) (cap.13 le parabole del Regno). Questi cinque grandi discorsi inizialmente dovevano formare un corpo unico, rilevabile sia dalle identiche conclusioni del primo e del quinto discorso (7,28 e 26,1), che formano inclusione tra loro, dando compattezza e unità letteraria a tutti i discorsi; sia dalla conclusione di questo quinto discorso, che rispetto alle altre conclusioni aggiunge all'espressione “questi discorsi” l'aggettivo quantitativo “tutti”, con chiaro riferimento agli altri cinque discorsi; sia, come si è sopra accennato, alla struttura letteraria dei cinque discorsi, disposti in forma concentrica, formando in tal modo un'opera unica, tematicamente compatta e logica. Soltanto in un secondo momento, da collocarsi a nostro avviso tra fine I sec. e primi decenni del II sec., venne stilata la redazione finale del vangelo di Matteo, così come oggi noi la conosciamo14, alternando i cinque discorsi con i racconti della missione di Gesù, che Matteo ha mutuato in buona parte da Marco.

Quanto al v.2, esso introduce il tema di fondo dei capp. 26 e 27, fornendo loro una chiave di lettura, che da un lato aggancia la passione e morte di Gesù alla Pasqua ebraica, dall'altro le fornisce una nuova interpretazione, alla luce dell'evento salvifico che in essa si compie. È infatti all'interno del contesto della Pasqua ebraica che Gesù viene consegnato per essere crocifisso.

La prima parte del v.2 avverte il lettore che “dopo due giorni viene la Pasqua”, come dire che la Pasqua cadrà nel terzo giorno. Non si tratta, a mio avviso, soltanto di una semplice annotazione temporale, o probabilmente non era questa la primaria preoccupazione dell'autore, considerato che questa prima parte del v.2 è in stretta correlazione al consegnarsi di Gesù, il cui significato vedremo subito. Il terzo giorno è quello del compimento, quello della Pasqua, in cui il consegnarsi di Gesù confluisce e in cui acquista il suo senso. Si tratta, quindi, di una scansione del tempo che va verso il suo compimento, che sta per sfociare nella sua pienezza. Questo modo di scandire il tempo richiama da vicino il profeta Osea: “Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza” (Os 6,2). Il tre, infatti, è il numero del senso compiuto, poiché in esso vi sono compendiati l'inizio, il centro e la fine. Esso è il numero quindi del ciclo completo, il numero della pienezza15. Fin da subito, quindi, il consegnarsi di Gesù viene legato saldamente alla Pasqua ebraica, che, a sua volta, in questo consegnarsi di Gesù trova il suo compimento e la sua pienezza. L'autore della lettera ai Colossesi, infatti, dirà che le realtà del passato erano un'ombra di quelle future (Col 2,17) e così similmente l'autore della lettera agli Ebrei, parlando del sacerdozio ebraico (Eb 8,5).

La seconda parte del v.2 è qualificata da tre elementi, che definiscono la passione e la morte di Gesù nel contesto pasquale: il titolo di “Figlio dell'uomo”, “l'essere consegnato” e “l'essere crocifisso”. Il titolo assume qui il senso del Messia sofferente, già più volte preannunciato nel corso del racconto evangelico16, e che qui spinge a leggere la vera natura di Gesù come il sofferente Servo di Jhwh (Is 50,6; 53,2-12). Non di rado, infatti, nel vangelo di Matteo il titolo di Figlio dell'uomo, che nella sua primaria accezione significava semplicemente uomo, ma che in tempi successivi ha acquisito il significato di Messia, avvolto in una dimensione divina, con riferimento a Dn 7,13-14, viene associato alla passione di Gesù17. Già questa definizione lega Gesù non al mondo degli sconfitti, ma al mondo di Dio, al quale sta rendendo un servizio di redenzione in favore degli uomini e, quindi, fondamentale attore attivo di un disegno di salvezza, che ha la sua origine in Dio stesso.

Significativo è il verbo usato da Matteo per indicare l'arresto di Gesù: “parad…dotai” (paradídotai), un verbo medio-passivo posto al presente indicativo, che viene tradotto con “è consegnato”. Tuttavia la forma verbale usata al medio-passivo esprime con efficacia il consegnarsi di Gesù, colto come libera attuazione del progetto del Padre. Infatti, in quanto forma media, il verbo esprime un'azione riflessiva: “si consegna”; in quanto forma anche passiva rimanda l'azione a Dio stesso18: “viene consegnato”. Questo ambivalente significato del verbo dice sia la volontarietà dell'atto di consegnare se stesso, sia l'azione del Padre che, proprio in quel libero consegnarsi di Gesù, consegna agli uomini suo Figlio, facendone dono. A commento della parabola del buon pastore, il Gesù giovanneo rivela come la sua vita “Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10,18). Ma nel contempo Giovanni vede in Gesù anche il dono salvifico, che il Padre ha fatto agli uomini: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Il consegnarsi di Gesù, dunque, esprime la sua accettazione volontaria del piano di salvezza, che si radica nel Padre, a cui egli si rimette totalmente (Lc 23,46; Fil 2,8). Egli, dunque, trasforma la sua vita in una proesistenza, che trova il suo vertice proprio sul Golgota, anticipato misticamente, ma realmente, nell'ultima cena, in cui egli, Gesù, dono del Padre che si dona, si fa pane che si spezza per tutti.

Il terzo elemento, che completa questa chiave di lettura della passione e morte di Gesù, è “per essere crocifisso” (e„j tÕ staurwqÁnai, eis tò staurotzênai). Questa espressione dà il senso e il significato del dono stesso: Gesù, consegnato dal Padre agli uomini, si consegna “per essere crocifisso”. Si tratta, dunque, di un dono destinato alla croce; di un dono che ha il suo senso soltanto nella croce e che porta impresso in se stesso il segno del sacrificio. Soltanto in tal modo il dono diventa salvifico. Non si tratta, quindi, di una salvezza operata con la potenza messianica fantasticata dai discepoli19, riluttanti di fronte ai progetti di sofferenza e di morte di Gesù20, ma di una potenza che si svela e si attua proprio nella stolta debolezza di Dio, che Paolo dichiara essere più forte e più sapiente della potenza e della sapienza degli uomini. Rivolto alla sua comunità di Corinto, divisa internamente sul modo di intendere Cristo, ridotto ad un semplice motivo di dibattito filosofico, Paolo stigmatizza con vigore questo modo di intendere Cristo, mettendo in luce la forza salvifica della croce: “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,17-25).

Il dono, quindi, è finalizzato alla croce, che si rivela essere una costante presenza nella vita e nella missione stessa di Gesù, così che il muoversi di Gesù in mezzo agli uomini è un muoversi, un camminare verso la croce. Già si è ricordato sopra, nell'Introduzione, come Luca organizzi il suo racconto attorno al viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che occupa ben dieci capitoli (Lc 9,51-19,28); ma non è da meno Matteo che vede l'intera missione di Gesù e la sua stessa vita come un consegnarsi per essere crocifisso. È significativo infatti come nell'espressione “si consegna per essere crocifisso” quel “per” non è reso in greco con la preposizione †na (ína, affinché), che indica soltanto la finalità per cui Gesù si è consegnato, ma con la preposizione “e„j” (eis) che indica un moto a luogo. Quindi il consegnarsi di Gesù non è soltanto una semplice azione circoscritta in quel particolare frangente della Pasqua, ma è tutto un muoversi, tutto un camminare verso la croce, che coinvolge l'intera sua esistenza, che proprio dalla croce e dalla risurrezione viene giustificata e illuminata, e proprio alla loro luce va ricompresa e creduta. Significativo, infine, è il verbo “per essere crocifisso” (staurwqÁnai, staurotzênai). Anche qui abbiamo un passivo teologico o divino, che rimanda l'azione a Dio stesso. Matteo, dunque, invita la sua comunità a leggere la crocifissione di Gesù non come la sconfitta di un falso sedicente messia, come numerosi impervesavano nella Palestina di quel tempo21, che alla prova dei fatti ha rivelato tutta la sua inconsistenza e su cui pende la maledizione stessa di Dio22, ma come l'attuarsi del piano salvifico del Padre, che proprio nella croce ha operato la salvezza per tutti. Non quindi una una sconfitta, ma una vittoria, che troverà la sua piena evidenza nella risurrezione, in cui fu “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,4).

I vv.3-16 presentano una breve trilogia, incentrata sulla passione e morte di Gesù, dando in tal modo attuazione al consegnarsi di Gesù (v.2b). La pericope è composta da tre piccole scene, due di queste, la prima, quella della delibera dei sommi sacerdoti e degli Anziani (vv.3-5), e la terza, quella di Giuda (vv.14-16), sono tra loro concatenate narrativamente dall'avverbio di tempo “Tòte” (Tóte, Allora), che da consequenzialità e sviluppo logico alle due scene. La seconda scena, quella dell'unzione di Gesù da parte della donna (vv.6-13), sembra esse un'interpolazione, che stacca tra loro le due scene, ma nel contempo le unisce, preannunciandone il loro drammatico frutto: la morte e la sepoltura di Gesù. La prima e la terza scena, quindi, convergono in quella centrale, che formerà il tema principale dei due capp. 26-27.

I vv.3-5 riportano la decisione delle autorità religiose giudaiche di catturare Gesù e metterlo a morte. La scena che qui Matteo presenta riprende di fatto il v.2,4, che in qualche modo la anticipava. Anche là Erode riunisce attorno a sé i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, per prendere informazioni e deliberare, quindi, la soppressione del neonato re dei Giudei.

La breve pericope è composta da tre momenti: a) la riunione dei capi dei sacerdoti e degli Anziani del popolo presso il sommo sacerdote Caifa; b) la delibera di uccidere Gesù; c) la definizione del tempo in cui attuare il piano.

Questa pericope, posta qui, all'inizio delle drammatiche vicende, ne evidenzia di fatto i responsabili, individuati nelle autorità religiose e politiche giudaiche, poste ai massimi livelli: i capi dei sacerdoti, termine questo con cui ci si riferiva non soltanto al sommo sacerdote propriamente detto, ma a tutti gli alti funzionari del Tempio, come il capitano del Tempio, il guardiano del Tempio, i tesorieri, ma probabilmente anche i capi dei numerosissimi sacerdoti, circa ventimila, che accudivano al culto del Tempio, suddivisi in ventiquattro gruppi settimanali; e gli Anziani del popolo, che rappresentavano l'aristocrazia laica. Non vengono qui citati gli Scribi, che assieme agli anziani e ai sacerdoti formavano il Sinedrio, un organo istituzionale, composto da settanta membri più il Sommo Sacerdote, che fungeva da presidente. Il Sinedrio aveva funzioni politiche, giudiziarie, civili e religiose ed era l'espressione massima del potere giudaico del tempo. Gli Scribi, tuttavia, compariranno in 26,57 dove si dice che “quelli che avevano arrestato Gesù, lo condussero dal sommo sacerdote Caifa, presso il quale già si erano riuniti gli scribi e gli anziani”. Faranno ancora la loro ultima apparizione in 27,41 dove, assieme ai sacerdoti e agli anziani beffeggiavano Gesù crocifisso. Non compaiono, invece, i Farisei, se non in 27,62 dove assieme ai sacerdoti chiedono a Pilato una scorta armata a custodia della tomba di Gesù (27,61-64). Di fatto sono questi tre gruppi, che formano il Sinedrio, i massimi responsabili della morte di Gesù. Essi si ritrovano nel cortile del palazzo del sommo sacerdote Caifa. Il nome compare complessivamente in tutto il N.T. nove volte, due in Matteo e sei in Giovanni, sempre nel contesto della passione e morte di Gesù. Il nome di Caifa viene citato una volta anche da Luca in 3,2 assieme a quello di Anna, suo suocero, che lo aveva preceduto nel sommo sacerdozio. La citazione lucana servirà soltanto per datare il contesto storico in cui comparve Gesù. Giuseppe, detto Caifa, fu nominato sommo sacerdote nel 18 d.C. dal governatore Valerio Grato23, al posto del suocero Anna, che tenne la carica dal 6 al 15 d.C.24. La riunione nel palazzo di Caifa non aveva i connotati dell'ufficialità, ma fu una riunione informale per concordare una strategia per togliere di mezzo Gesù25, senza che ciò creasse turbamento pubblico (v.5). Significativa è la precisazione, che Matteo fa circa la modalità di impossessarsi di Gesù e di sopprimerlo: “con l'inganno”, che sottolinea la perversità e l'iniquità con cui si è progettato e perseguito il disegno di eliminazione di Gesù e che verrà confermata dall'osservazione, che Gesù farà a quelli che erano venuti ad arrestarlo: “[...] Siete usciti come contro un brigante, con spade e bastoni, per catturarmi. Ogni giorno stavo seduto nel tempio ad insegnare, e non mi avete arrestato” (26,55). Luca aggiungerà “ma questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre” (Lc 22,53b). E il buio, le tenebre saranno la dimensione entro cui si muoverà e si consumerà l'intera drammatica vicenda della nostra redenzione, in attesa della luce della risurrezione (27,45), così come c'era il buio prima della creazione, in attesa a del primo atto creativo divino: “Sia la luce!>>. E la luce fu”.


Una lancia spezzata a favore delle autorità giudaiche


La tradizione cristiana, sull'onda dei Vangeli, ci ha tramandato il ricordo della perfidia degli ebrei, che condannarono Gesù, vittima innocente del loro odio e della loro cecità spirituale. Essa conservò questo ricordo nella preghiera del Venerdì Santo, con cui, fino a qualche decennio fa, invitava i propri fedeli a pregare per i perfidi Giudei26. A distanza di circa due millenni dagli accadimenti di quel tempo è da chiedersi se gli ebrei, o meglio, le autorità religiose e civili del giudaismo di quel tempo fossero veramente perfide e così malvagie e cieche come gli evangelisti ce le presentano; o se, invece, il loro comportamento nei confronti di Gesù fosse in qualche modo comprensibile e giustificato.

Va subito detto che i vangeli furono scritti nel I sec., tra gli anni 65 e 100 circa, in un periodo di rottura tra il nascente cristianesimo e il mondo giudaico. Le conseguenze furono quelle di un inevitabile scontro con conseguente polemica, che in Matteo e, in particolar modo, in Giovanni è palpabile. Di questo clima di scontro ne risentirono i vangeli e le stesse lettere di Paolo27, le quali ci testimoniano delle forti tensioni che intercorrevano tra lui, le sue comunità e il giudaismo in genere28. Quindi, quanto ci viene trasmesso dai vangeli circa la “perfidia” delle autorità giudaiche non va preso interamente come oro colato, ma va rivisitato e ricompreso attentamente alla luce della realtà degli avvenimenti di quel tempo.

Se è vero il contesto storico in cui Gesù operò; se sono veri i suoi comportamenti e le sue parole, sia pur essi passati attraverso il filtro di una elaborazione di fede e alla luce della risurrezione, davanti a noi si presenta un Gesù che non di rado violava apertamente la sacralità del sabato29, non osservava i digiuni prescritti30, non seguiva le disposizioni della legge sulla purità rituale31. Molto spesso si contrapponeva apertamente alle autorità religiose e civili, legalmente costituite, e non di rado denunciava pubblicamente le loro meschinerie e la loro ipocrisia, destituendole di autorevolezza nei confronti della gente32. Non una parola spendeva a favore della loro rigorosa osservanza della Legge, che si imponevano, né un elogio per la loro pietà (Mt 23,2-3). Egli, inoltre, in particolare verso la fine della sua missione terrena, lasciava intendere, quando non lo proclamava apertamente, di essere lui il Messia atteso, l'inviato di Dio33; anzi, dava da capire alla gente e alle stesse autorità, che, preoccupate, seguivano la sua predicazione e il suo operare, di essere, addirittura, Figlio di Dio e Dio lui stesso34. Criticava duramente la Torah orale e la disprezzava, definendola, tout court, precetti di uomini35, come dire che non valeva un fico secco. Egli, poi, si ergeva a giudice divino, che sarebbe venuto a giudicare gli uomini nella potenza della sua gloria36. Criticava il modo di intendere e di praticare la Torah e ne dava una interpretazione tutta sua, completamente diversa rispetto a quella tramandata dai Padri37. Contestava Mosè circa la possibilità di divorziare, sancendo l'indissolubilità del matrimonio38; si dichiarava favorevole a perdonare alle donne adultere, che Mosè, invece, aveva condannato alla lapidazione39. Frequentava volentieri la feccia dell'umanità, banchettando con i peccatori e i pubblicani, verso i quali aveva una particolare attenzione40. Si lasciava avvicinare e toccare dalle prostitute, immonde e reiette per definizione41. Non solo, ma poneva questa feccia in un confronto spiritualmente vincente con le autorità religiose, prospettando alle prostitute e ai peccatori il Regno dei cieli, che, invece, veniva negato ai pii Farisei42. Annunciava apertamente che avrebbe distrutto il Tempio per poi ricostruirlo in tre giorni43. A dispetto della tradizione dei Rabbi del suo tempo, colloquiava pubblicamente con le donne44. Non va, poi, trascurato come quest'uomo ambiguo, difficile da decifrare per i suoi discorsi non sempre facili da comprendere e da accettare45, se non addirittura blasfemi, come quando invitava la gente a mangiare la sua carne e a bere il suo sangue, promettendo loro in tal modo la vita eterna46, fosse costantemente circondato da una folla47, che egli affascinava con i suoi discorsi e il suo modo di operare48. Una folla che già aveva tentato di proclamarlo re49. Era una folla che parteggiava per lui e che le autorità temevano50.

Questo, al di là di ogni considerazione teologica e spirituale intessuta in questi duemila anni, fu sostanzialmente il Gesù della storia. Egli si presentò inaspettatamente ai suoi ignari concittadini e alle autorità civili e religiose del suo tempo, che ne rimasero shoccati e scandalizzati. I suoi stessi intimi parenti, sua madre compresa51, non credevano in lui e lo ritenevano fuori di testa52. Molti suoi discepoli, dopo averlo frequentato, lo hanno abbandonato per i suoi discorsi troppo duri e difficili, se non scandalosi e blasfemi53; qualcuno lo ha tradito e altri lo hanno rinnegato o abbandonato con una fuga ignominiosa; altri, invece, delusi, se ne tornarono alle loro case54. Il dubbio su quest'uomo rimase in molti, anche dopo che si presentò risorto da morte55. Nei suoi confronti le autorità si trovarono in una difficile situazione sia civile che religiosa. Da un lato avevano di fronte un sovversivo dissacratore della tradizione dei Padri e per certi aspetti scandalosamente blasfemo; dall'altro, in quanto responsabili dell'ordine pubblico nei confronti degli occupanti Romani, dovevano trovarsi in forte imbarazzo nei confronti di uno che era attorniato costantemente da folle, che egli ammaliava con i suoi discorsi e poteva manovrare come voleva. Poteva scoppiare anche una sommossa, soprattutto durante le festività, e con l'invasore romano in casa non c'era molto da scherzare. La presenza di Pilato, allora governatore della Palestina e famoso per la sua determinazione e la sua crudeltà nell'affrontare e nel risolvere i problemi56, non lasciava tranquilli gli animi delle autorità. Si doveva, quindi, per la pace della Palestina, risolvere alla radice il problema Gesù, che poteva esplodere da un momento all'altro in modo incontrollabile e ciò avrebbe portato sicuramente alla distruzione delle strutture civili e religiose, dei luoghi di culto e alla perdita di ogni autonomia, che i Romani avevano fin lì concesso ai Giudei. Una preoccupazione che lo stesso Caifa aveva esternato ai suoi e che Giovanni, a mio avviso il migliore storiografo tra gli evangelisti, ricorda: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione>>. Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: <<Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera>>” (Gv 11,47-50; 18,14). Forse per questo hanno deciso di arrestare Gesù sotto le feste di Pasqua e degli Azzimi, perché temevano una qualche azione sovversiva da parte sua. Infatti, solo qualche giorno prima era entrato in Gerusalemme tra gli osanna della gente e da essa acclamato figlio di Davide e re d'Israele, il Profeta, l'Inviato di Dio57. Questa è la vera motivazione che aveva deciso le autorità di farla finita con Gesù. Non sono, dunque, i problemi dottrinali o di rivalità con Gesù, che hanno determinato la sua fine, anche se questi certamente hanno in qualche modo concorso58, ma furono prevalentemente problemi politici, di stabilità e di pace sociale. Le autorità temevano che la crescente notorietà e autorevolezza, che Gesù stava acquisendo presso la gente, portassero le folle, che le autorità giudaiche temevano, fuori dal loro controllo. Questo avrebbe potuto far scatenare una qualche rivolta, che avrebbe spinto i Romani a intervenire pesantemente. Su cosa successe nella guerra giudaica (66-70 d.C.) e in quella successiva, capeggiata da Simon bar Kokheba (132-135 d.C.), ci è testimone la storia. Fu letteralmente una carneficina e un disastro sociale e religioso, che sconvolse e pose fine definitivamente all'assetto sociale e religioso di Israele, operato faticosamente in lunghi secoli di tradizione.

Questo era il personaggio storico Gesù59; questi erano i problemi che le autorità giudaiche si sono trovate a dover risolvere. Si può forse dar loro completamente torto? Si può forse tacciarle di perfidia e di cecità?

Se ancora qualche dubbio persistesse, trasportiamo ai nostri giorni l'anonimo personaggio di allora, un tale di nome Gesù, come tanti si chiamavano a quel tempo, spogliato da ogni riflessione teologica e dottrinale, intessuta in questi venti secoli, e mettiamolo con il suo modo di operare e di predicare e con le sue pretese, che abbiamo visto sopra, in relazione alla Chiesa di oggi. Forse che il papa o i vescovi, il clero in genere, di fronte a questo sconosciuto, che i suoi stessi parenti ritengono fuori di testa, e sul quale i suoi stessi discepoli nutrono molti dubbi, accorrerebbero ferventi di ardore spirituale ai suoi piedi e lo adorerebbero, riconoscendolo vero Dio, solo perché lo ha detto lui? Forse che il papa gli cederebbe il suo trono pontificio, considerato che lui è soltanto il suo vicario, invitando l'intero mondo cristiano e credente ad aderire alla sua parola? Verrebbero accettate pacificamente le sue contestazioni dottrinali e una rilettura diversa se non opposta della Parola di Dio, fin qui elaborata? Si accetterebbe pacificamente la contestazione di certi dogmi o di certe pretese di questo Clero? Verrebbe ben accolta la definizione della Tradizione cristiana, che la Chiesa definisce come parte della Rivelazione, come fantasie di uomini? O piuttosto il papa e i vescovi non condannerebbero un simile personaggio, tacciandolo di sovversione, di eresia e scomunicandolo, ignorandolo e ghettizzandolo in ogni modo? E buon per lui di non essere nel medioevo o dintorni, perché l'avrebbero sicuramente messo al rogo, come avvenne, per molto meno, per altri sventurati, credendo in tal modo di dar lode a Dio (Gv 16,2).

Cambiano i tempi, ma la Parola di Dio non è sempre facile riconoscerla ed accettarla per quello che essa è e per quello che essa intendeva dire, libera da ogni vincolo dottrinale, che se da un lato la conserva, dall'altro la imbriglia, togliendole ogni vitalità e diventando, così come lo fu ai tempi del giudaismo, uno strumento di potere e, di conseguenza, di divisioni. È il rischio di Dio, quando egli si affida agli uomini. C'è sempre chi si appropria della sua Parola e con l'intento di preservala e di praticarla, ci costruisce attorno una religione, crea una tradizione, la colloca in una chiesa, che la identifica con se stessa, la sterilizza in dottrine e dogmi, traducendo il vivo e personale rapporto con Dio in pesanti regole morali, cultuali e rituali, che rischiano di mortificare il vero credente. Non che tutto ciò non debba esserci, ma tutto ciò non deve costituire il filtro essenziale e primario, la “conditio sine qua non” senza la quale non si può accedere a Dio, se non, addirittura, identificando tutto ciò con l'autentico rapporto gradito a Dio. Gesù nella sua missione terrena ha sempre parlato di una religione che doveva nascere dal cuore, radicarsi in esso ed esprimersi in uno stile di vita gradito a Dio. Il culto, il rito, la regola morale devono diventare strumenti importanti, ma non essenziali, di espressione di quel culto che è già presente nell'intimo dell'uomo e che si esprime primariamente attraverso la vita. È forse un caso che i vangeli e tutta la letteratura neotestamentaria parlino molto di un culto interiore (At 10,34-35; Rm 12,1-2) e non presentino mai, neanche una sola volta, un Gesù che si reca al Tempio per compiere dei sacrifici o per pregare o per partecipare a celebrazioni cultuali pubbliche? Quando egli prega si ritira sempre nel silenzio di se stesso ed invita a fare altrettanto60, senza mai correre al Tempio o alla sinagoga, come era consuetudine fare (Lc 18,10; At 2,46a). Anzi, viene presentato un Gesù in conflitto con il Tempio e le sue pratiche; un Gesù che accusa un certo modo di praticare la Legge, che non solo soffoca l'autentico rapporto con Dio, ma allontana il credente da Dio (Mt 23,13).

Gesù era venuto anche per dare un nuovo slancio alla religione, rianimando un culto ormai asfittico, fatto di prescrizioni, di riti, di regole morali, ma non sostanziato dal cuore (Mt 15,8; Mc 7,6). Ma ha trovato un netto rifiuto da parte dei suoi (Mt 23,37; Gv 1,10-11; 12,37).

vv.14-16: Già si è detto come i vv.3-5 siano stati, a nostro avviso, originariamente collegati ai vv.14-16, formando un'unica pericope e soltanto in un tempo successivo inframezzati dal racconto dell'unzione (vv.6-13). I vv.14-16, infatti costituiscono narrativamente la risposta logica ai primi (vv.3-5), divenendone complementari. Entrambi, inoltre, si aprono con l'avverbio temporale “TÒte” (Allora), che oltre a legarli tra loro in modo interdipendente, li fa dipendere entrambi dall'enunciazione del v.2b, costituendone essi l'attuazione. Alla decisione delle autorità giudaiche di far morire Gesù, risponde, quindi, la decisione di Giuda61 di consegnare loro Gesù. Vi è dunque una coincidenza convergente di volontà, una coincidenza logica di tempi (Tòte). È il progredire del progetto salvifico, dominato non dagli uomini, bensì dal Padre. E Matteo lascia intendere come anche Giuda è uno strumento nelle mani di Dio e come il suo operare è soltanto un attuare ciò che è stato stabilito dal Padre. Lo fa, unico tra gli evangelisti, richiamandosi alle trenta monete d'argento, che rimandano al profeta Zaccaria (Zc11,12-13). Ma il richiamo alle trenta monete d'argento rimanda anche al contesto da cui esse sono state mutuate da Matteo. Nella pericope 11,4-17, infatti, Zaccaria presenta la figura di un messia che vuole realizzare il suo progetto di salvezza, simboleggiato nei due bastoni chiamati “Benevolenza” e “Unione”, ma il degrado spirituale e morale del popolo e dei suoi capi è tale che il suo piano fallisce e il messia viene respinto. La sua opera salvifica, infatti, è valutata soltanto trenta monete d'argento, il prezzo stabilito per la morte di uno schiavo (Es 21,32). Vi è, dunque, nelle trenta monete d'argento un profondo senso di disprezzo nei confronti di Gesù e di tutta la sua missione, ma nel contempo vi è anche un implicito richiamo alla punizione che seguì il rigetto del buon pastore. Sorse un altro pastore che devastò e distrusse quel gregge (Zc 11,15-16). Una punizione questa che Matteo aveva già preannunciato in 23,38.

Il v.16 presenta la perversione raggiunta da Giuda che “da allora cercava il momento opportuno per consegnarlo”. Il verbo “cercava” (™z»tei, ezétei) posto all'imperfetto indicativo dice la continuità e la persistenza del tradimento, che ormai si era radicato profondamente in lui. Giovanni, così come Luca, in modo metaforico, ma molto efficace dirà: “E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui” (Gv 13,27a). Non è più Giuda che opera, ma satana. Giuda, quindi, perde, per Giovanni e Luca, ogni configurazione umana, per assumere quella del male. Giovanni, infatti, sottolineerà che Giuda “Preso il boccone, [...] subito uscì. Ed era notte” (Gv 13,30). Questa sottolineatura della notte dice la profondità delle tenebre da cui era pervaso Giuda e in cui egli si muoveva. Le tenebre erano la dimensione di Giuda. Il suo spirito era ottenebrato dal male. Luca rimarcherà questo aspetto, mettendo sulla bocca del suo Gesù che “questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre” (23,53b). Infatti il satana lucano “Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, [...] si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato” (Lc 4,13). Esso ricomparirà al momento della passione, prendendo le sembianze di Giuda: “Allora satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici” (Lc 22,3). Per gli evangelisti, dunque, ciò che avviene attorno a Gesù non è opera dell'uomo, che pur si presta inconsapevolmente al gioco delle parti, ma tutto si muove a livelli superiori. Tutto si muove secondo il piano prestabilito dal Padre.

Giuda cercava il momento opportuno per consegnarlo. Ma questo tempo opportuno è anche il tempo di Gesù, il tempo del Padre, il tempo in cui viene operata la salvezza. Giovanni definirà questo tempo come l' “ora” di Gesù, in cui egli glorificherà il Padre e il Padre glorificherà lui (Gv 17,1). Il tempo per il quale Gesù era venuto (Gv 12,27). Ma è anche l'ora in cui si compie il giudizio sul mondo e il principe di questo mondo sta per essere cacciato (Gv 12,31). Vi è dunque su questo tempo opportuno una convergenza del Bene e del Male, poiché proprio sulla passione e morte di Gesù si giocherà tutto, si compirà il destino di morte del vecchio Adamo, che verrà crocifisso e ucciso nella carne umana di Gesù. Viene distrutta la vecchia creazione adamitica, l'antica umanità di Adamo, corrotta dal peccato e decaduta da quello stato di grazia, che è la stessa vita di Dio, alla quale l'umanità primordiale era stata assimilata per la potenza del soffio divino, che è lo Spirito (Gen 2,7). Gesù lo aveva detto: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). É lui dunque il polo catalizzatore che attrae a sé non solo l'umanità (“tutti”), ma per un principio di solidarietà, anche l'intera creazione62.

I vv.6-13, come si è visto nel commento iniziale della pericope vv.3-16, si collocano al centro della trilogia, in cui il complotto delle autorità giudaiche contro Gesù e la decisione di Giuda di consegnare il suo Maestro alle autorità convergono in questa unità narrativa in esame (vv.6-13), che preannuncia gli effetti di questa alleanza del male contro Gesù: la sua morte. Potremmo, quindi considerare questa trilogia una sorta di prologo al racconto della passione e morte di Gesù.

Il racconto della dell'unzione di Gesù è alquanto singolare perché riportato da tutti quattro gli evangelisti63, ma elaborato in modo molto diverso e dissimile gli uni dagli altri, tanto che qualcuno ipotizza diverse fonti a cui hanno acceduto gli evangelisti. Non è così, a mio avviso. Si tratta, come vedremo, di un unico episodio, elaborato da ciascun evangelista secondo le proprie finalità teologiche e narrative e, in particolar modo, tenendo presente il pubblico dei propri ascoltatori, a cui il racconto era rivolto. Già da un'analisi delle differenze balza agli occhi i diversi obiettivi dei singoli evangelisti, che giustificano, quindi, le loro diverse elaborazioni dell'unico episodio.


Il confronto e le diversità


  1. Il tempo in cui è collocato l'episodio: nei pressi della Pasqua per Mt, Mc e Gv; durante il ministero galilaico per Lc.

  1. La località: Betania per Mt, Mc e Giovanni; un luogo imprecisato della Galilea per Lc.

  1. L'abitazione: quella di Simone il lebbroso per Mt e Mc; quella di Simone, il fariseo per Lc; quella di Lazzaro per Gv.

  1. Il contesto: per tutti gli evangelisti durante un banchetto.

  1. Il personaggio: una donna anonima per Mt e Mc; una nota peccatrice della città per Lc; Maria, sorella di Marta e di Lazzaro, commensale di Gesù per Gv.

  1. Il recipiente: un vasetto di alabastro per Mt, Mc e Lc; una libbra per Gv. - Il contenuto, olio profumato, è identico per tutti.

  1. La parte del corpo unta: il capo di Gesù per Mt e Mc; i piedi per Lc e Gv.

  1. Le critiche: i discepoli per Mt; alcuni presenti per Mc; Simone, il fariseo per Lc; Giuda per Giovanni.

  1. Il contenuto delle critiche: i poveri per Mt, Mc e Gv; la natura profetica di Gesù per Lc.

Che si tratti di un unico episodio, diversamente elaborato, lo si evince dall'identica comunanza del contenuto del racconto stesso: Gesù si trova a mensa quando una donna lo unge con dell'olio profumato. Questo gesto provoca delle critiche a cui Gesù dà adeguate risposte. Questa è l'essenza dell'episodio, che deve essere accaduto realmente, considerato che tutti dicono la stessa cosa, sia pur raccontandola con modalità diverse, per esigenze proprie. Posto fermo l'episodio di base, ora saranno proprio le differenze che diranno gli intenti, gli obiettivi di ogni singolo evangelista e il contesto storico in cui egli lo ha elaborato e che giustifica le variazioni sull'unico tema.

Pur nella sua semplicità narrativa e scarna di particolari, l'episodio matteano dell'unzione si struttura in cinque parti:

A) v.6: viene presentata la cornice spaziale, mentre al v.2a quella temporale: Gesù, a due giorni dalla Pasqua, si trova a Betania, in casa di Simone, il lebbroso;

B) v.7: l'episodio che scandalizza i discepoli: una donna sparge il capo di Gesù con dell'olio profumato di rilevante valore venale;

C) vv.8-9: la protesta dei discepoli per tanto sperpero;

D) vv.10-12: la risposta di Gesù, che si articola su due livelli: i vv.10 e 12 forniscono la lettura corretta del gesto della donna, che potremmo definire profetico; il v.11 costituisce la risposta alle proteste dei discepoli;

E) v.13: la sentenza finale.


L'indicazione temporale del v.2a, che colloca l'episodio a ridosso della pasqua, dice come questo abbia in qualche modo uno stretto collegamento con gli eventi della salvezza. La sentenza finale (v.13), poi, pone questo evento all'interno dell'annuncio stesso del Vangelo, caricandolo di importanza. La sepoltura, cioè la morte accertata di Gesù, che è stata profeticamente preannunciata dall'unzione (v.12), parla anche del silenzio di Dio e della sconfitta del suo Cristo. Proprio questo evento è da considerarsi rilevante all'interno del piano salvifico, che il Padre sta attuando nel suo Figlio. Proprio là dove sembra esserci la sconfitta di Dio, il Padre ha saputo trarre la più sfolgorante delle vittorie. Si tratta, dunque, di un'apparente sconfitta, anzi, di una reale e necessaria sconfitta, ma non tanto di Dio, ma della carne, di cui Dio ha rivestito suo Figlio, poiché in lui è morto l'antico Adamo; in lui è stata distrutta la creazione decaduta e corrotta dal peccato. Con quel giovanneo “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,31) Gesù dice come egli sia diventato il polo catalizzatore non solo dell'umanità credente, bensì dell'intera umanità e della creazione stessa (“tutti”), per quel principio di solidarietà che lega inscindibilmente l'umanità alla creazione. Con lui, dunque, morì la vecchia creazione adamitica. La nuova creazione, pertanto, deve necessariamente passare attraverso la purificazione della morte, che la spoglia del suo passato predisponendola per una nuova realtà. Similmente è successo nel diluvio universale, con il quale Dio distrusse, ma è meglio dire purificò, la terra corrotta dalla colpa dell'uomo (Gen 6,11-13). Non fu, però, una distruzione per la morte, bensì per la vita, poiché proprio da questa creazione purificata dalla morte, spogliata dalla corruzione del male, Dio ha dato inizio ad una nuova creazione. Con Gen 9, infatti, viene ripreso il linguaggio della prima creazione. Siamo, dunque, in presenza di una nuova creazione, la quale ha come nuovo capostipite Noè, che “[...] era uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e camminava con Dio” (Gen 6,9b ).

Anche l'indicazione spaziale richiama da vicino gli eventi della Pasqua. Betania, un villaggio che dista a circa tre Km da Gerusalemme e in cui i pellegrini, durante le festività, erano soliti passare la notte64; nei vangeli esso compare sempre a ridosso delle festività pasquali ed era il luogo in cui Gesù preferiva rifugiarsi. Lì vi erano i suoi amici, Lazzaro con le sorelle Marta e Maria e probabilmente anche Simone il lebbroso, di cui ci occuperemo subito. Il contesto, quindi, è strettamente legato alla Pasqua e quanto qui viene detto, va ricompreso, quindi, come un evento ad essa collegato. Vedremo subito come l'insistenza di Matteo di leggere l'unzione di Gesù come un rito celebrativo legato alla Pasqua o, per meglio dire, alla sua Pasqua, al suo transito, al suo esodo verso il Padre ha probabilmente il suo sitz im leben65 nelle resistenze della sua comunità a celebrare un culto all'uomo Gesù, di cui avevano difficoltà a riconoscer la divinità e il messianismo66.

Il v.6 definisce la cornice spaziale entro cui viene collocato l'episodio dell'unzione: esso avviene a Betania e in casa di Simone il lebbroso. Se, da un lato, il villaggio di Betania lega l'episodio dell'unzione alla Pasqua e alla morte di Gesù, concepita come un passaggio, un esodo dalla morte alla vita, dal mondo verso il Padre (Lc 9,31; Gv 16,28); dall'altro, il suo nome, abbinato a quello di Simone il lebbroso, lascia intravvedere come Matteo stesse probabilmente pensando alla sua comunità. Betania, infatti, significa “la casa del povero” (Bēt 'ānī) o, in diversa interpretazione, “la casa della grazia, della misericordia di Dio” (Bēt hannāh jāh) o “dove Dio fa grazia, misericordia”. Così la citazione dell'espressione “casa di Simone, il lebbroso” sembra essere un riferimento alla comunità matteana. Sovente, infatti, il termine “casa” nei vangeli allude alla chiesa o alla comunità credente67. Questa casa, inoltre, è di Simone, un nome che significa “colui che ascolta”68. È dunque la casa dell'ascolto, cioè dove si proclama e si ascolta accoglienti l'annuncio (At 2,42). Ma questo Simone è conosciuto anche come il lebbroso. Al di là della metafora, Simone il lebbroso era probabilmente un tale, che guarito da Gesù, si fece suo discepolo, rendendosi disponibile ad accoglierlo nella sua casa. Di certo egli era già guarito se Gesù e i suoi discepoli pranzavano nella sua casa e se lui abitava nel bel mezzo del villaggio di Betania69. Ma la casa di Simone, di colui che ascolta la Parola, discepolo di Gesù, guarito dalla lebbra, richiama forse alla mente di Matteo la sua comunità, che come Simone ha bisogno di essere guarita dalla lebbra dell'incredulità e della diffidenza nei confronti di questo uomo Gesù, che deve essere adorato e cultualmente celebrato come Dio e come l'atteso messia sofferente. E che Matteo stesse pensando alla sua comunità lo si evince non solo dai nomi Betania e “casa di Simone”, ma anche dal fatto che la dura critica mossa al gesto della donna proviene esclusivamente dai discepoli. Matteo è l'unico degli evangelisti che indica i discepoli come gli autori delle critiche. Il problema, quindi, è all'interno della comunità di Matteo.

I vv.7-8 costituiscono il cuore del racconto e riportano il problema che affliggeva la comunità matteana: da una parte vi è una donna che versa sul capo di Gesù un olio profumato di grande valore, mentre Gesù è steso a mensa (v.7); dall'altra vi sono dei discepoli che criticano lo sperpero della donna, prospettando una diversa soluzione d'impiego dell'olio profumato, speso a favore dei poveri (v.8). Si tratta delle due contrapposte anime della comunità matteana70. Da un punto di vista storico, l'ungere il capo con essenze profumate era, nel mondo orientale, una consuetudine che il padrone di casa riservava agli ospiti d'onore71. Gesù, infatti, nel racconto lucano dell'unzione, rimprovererà Simone il fariseo per non averlo ricevuto con i dovuti onori e con il dovuto rispetto, ungendogli il capo (Lc 7,46), dandogli il bacio della pace e lavandogli i piedi (Lc 7,44-45). Ma al di là dell'aspetto storico e culturale del tempo, l'unzione del capo con olio profumato richiama da vicino anche la consacrazione sacerdotale, quella regale72 nonché il messianismo di Gesù, l'unto per eccellenza, il consacrato di Dio73. L'unzione del capo di Gesù, dunque, assume significati che travalicano ampiamente il semplice gesto dell'ospitalità. Ci troviamo di fronte ad una donna anonima, che rappresenta, proprio per il suo anonimato, quella parte della comunità matteana che riconosce in Gesù il sacerdote per eccellenza, la sua dignità regale e divina, l'unto di Dio74; e il suo ungerlo parla di ritualità, di culto, di celebrazione di Gesù come il vero messia e vero inviato di Dio e Dio lui stesso. Le attenzioni cultuali nei confronti di Gesù probabilmente non erano ben viste da buona parte della comunità matteana, che aveva ancora difficoltà a riconoscere Gesù come Dio e come messia. Preferiva, invece, volgere le sue attenzioni verso i poveri, per i quali la Torah, alla quale i giudeocristiani si sentivano ancora legati, aveva una particolare attenzione e predilezione75.

I vv.11-12 parlano della ricomposizione delle due contrapposte anime della comunità, che avviene sul richiamo del significato dell'ungere, si badi bene, non più il capo di Gesù, bensì il suo corpo (v.12). Un gesto che rimanda all'unzione del cadavere prima della sepoltura, a cui si richiama espressamente il Gesù matteano. Significativo è il contesto in cui avviene l'unzione e la sua significazione: “mentre (Gesù) stava a mensa”. È lo stesso contesto dell'ultima cena (v.20), a cui Gesù aveva legato, anticipandola misticamente, la sua morte violenta in quel pane spezzato e in quel calice versato. Il rituale dell' “unzione” è, dunque, contestualizzato in un banchetto. È durante questo banchetto, che la donna-comunità unge Gesù, celebrando la sua passione e morte. Un banchetto che Gesù stesso associa alla sua morte. Ricondotto in questo contesto celebrativo, l'occuparsi dei poveri perde ogni sua contrapposizione con il culto a Gesù, poiché nel culto del Gesù sofferente e morto si fa memoria e si celebra l'espressione estrema del dono, che egli ha fatto di sé, all'intera umanità. È, dunque, nell'ambito di questo culto che il credente trova la giustificazione del suo donarsi ai poveri, ed è proprio in questo suo concreto e quotidiano donarsi che egli fa memoria e prolunga verso tutti il donarsi stesso di Gesù, rendendolo nuovamente presente in mezzo ai poveri. In tal modo il credente trasforma la propria vita in una liturgia di lode al Padre, in uno strumento di culto al “Gesù-fatto-dono-per-noi”.

Il v.13 chiude il racconto dell'unzione in forma sentenziale, che rimanda di fatto all'ultima cena: “In verità vi dico, ovunque questo vangelo sarà proclamato in tutto il mondo, sarà raccontato anche ciò che essa ha fatto, in sua memoria”. L'annuncio del vangelo viene qui associato all'azione cultuale della stessa comunità, mentre quel “in sua memoria” dice come la comunità celebrante è l'attualizzatrice di quel morire fatto “dono-per-noi”, che essa perpetua nel tempo, annunciandolo ad ogni uomo. Annuncio del vangelo e culto, pertanto, sono due facce di una stessa medaglia, poiché è proprio nella celebrazione del culto che si rende presente e si dà attuazione a ciò che l'annuncio proclama; mentre, nel contempo, il culto, sostanziato dallo stesso annuncio, diventa esso stesso annuncio, attuando ritualmente ciò che annuncia.

I vv.17-19 fungono da prologo al tema dell'ultima cena o forse è meglio dire della celebrazione della Pasqua del Signore. Non è a caso che ho usato quest'ultima espressione, poiché questo prologo, più che un racconto, costituisce in Matteo, come per gli altri due Sinottici e per Paolo, una sorta di canone celebrativo, che risente della liturgizzazione degli avvenimenti di quel tempo. A differenza di Marco e di Luca, che raccontano con dovizia di particolari, quasi in modo aneddotico, gli avvenimenti che precedono il banchetto pasquale, Matteo, qui, si stacca completamente da loro e il suo racconto si fa scarno, essenziale ed usa un linguaggio che si avvicina più ad una formula liturgica, ad un rituale, ad una formula catechistica più che ad un vero e proprio racconto. Le dimensioni dominanti in questo prologo, immediatamente rilevabili, sono quella cristologica e quella ecclesiologica76. Al v.17, infatti, i discepoli si avvicinano a Gesù. È lui il loro punto di riferimento e di convergenza; da lui attendono i comandi. Non si tratta, poi, di due discepoli, come negli altri due Sinottici (Mc 14,13a; Lc 22,8), ma di tutti i discepoli; a loro tutti, indistintamente, Gesù dà disposizione di preparare la pasqua77 (v.18) e tutti loro eseguono le disposizioni del Maestro (v.19). Questa collegialità dei discepoli evidenzia l'ecclesialità del racconto. L'aspetto cristologico, invece, viene evidenziato dai i discepoli, che convergono tutti verso Gesù (v.17a), indicandone in tal modo la centralità; essi, inoltre, gli chiedono dove preparare la sua pasqua (v.17b), nel mentre Gesù stesso sottolinea come questo tempo sia il suo tempo. Al centro di tutto, dunque, ci sta Gesù. Ma questi due aspetti non sono scissi tra loro, non sono soltanto giustapposti l'uno accanto all'altro, ma vi è un profondo connubio che lega tutti in uno: Gesù e i discepoli tra loro, formando una sorta di nuova entità collegiale, che vede nei discepoli Gesù e in Gesù i discepoli. Si tratta di una associazione, ma forse è meglio dire di un'assimilazione dei discepoli alla stessa pasqua di Gesù, così che il loro fare memoria della pasqua del Signore è un rendere perennemente presente e attuale in mezzo a loro la sua pasqua, anzi loro diventano il segno della Pasqua del Signore: “[...] da te faccio questa pasqua con i miei discepoli” (v.18b). Significativo, infine, e, come vedremo subito, strutturalmente centrale, è il v.18 dove Gesù dà un duplice commando: di andare in città e di preparare la sua Pasqua “dal tale” (prÕj tÕn de‹na, pròs tòn deîna). Come dire che la Pasqua di Gesù deve essere preparata in città presso non “un tale”, ma presso “il tale”. L'articolo determinativo, pur lasciando nell'anonimato il tale, tuttavia lo determina nell'ambito di una categoria di persone presso le quali Gesù ha ordinato di celebrare la sua Pasqua. Questi sono i nuovi credenti: “da te faccio la pasqua con i miei discepoli”. Questo “tale” doveva essere di fatto un discepolo di Gesù, considerato che Gesù si presenta a lui come il “Maestro dice” (v.18b). La Pasqua di Gesù, a cui sono associati e assimilati i nuovi credenti, dev'essere da loro celebrata in città, cioè in mezzo alla gente. Il comando, poi, assume il senso di una vera e propria missione là dove Gesù comanda con un imperativo esortativo: “Andate e dite” (`Up£gete, Ipághete), che da vicino richiama l'affidamento finale della missione ai discepoli da parte del Risorto (28,19-20a). Essi devono portare la sua parola alle genti e in mezzo ad esse celebrare la Pasqua del loro Signore, che trova la sua prima espressione proprio nel battesimo, che assimila il credente alla morte e risurrezione di Gesù (Rm 6,3-5). La Pasqua di Gesù, tuttavia, non si riduce ad un semplice rituale da celebrarsi presso i credenti, ma il suo peso salvifico è agganciato al disegno stesso del Padre, che si attua nella Pasqua del suo Cristo: “Il mio tempo è vicino”, soltanto dopo viene detto “presso di te farò la pasqua con i miei discepoli”. La Pasqua, quindi, rientra nel disegno salvifico del Padre, essa si inserisce in questo tempo e ad esso è agganciata. Il tempo di cui Gesù qui parla è assimilabile, in qualche modo, all'ora giovannea, è lo spazio salvifico di Dio, in cui il Padre glorificherà il Figlio e questi glorificherà il Padre (Gv 17,1b).

La struttura dei vv.17-19 è particolarmente curata ed è a forma di parallelo concentrico in C):


A) v.17a: nel primo giorno degli Azzimi i discepoli si avvicinano a Gesù;

B) v.17b: chiedono dove deve essere preparata la sua Pasqua;

C)b v.18a: il comando, la missione: “Andate nella città e dite”;

B') v.18b: il luogo della Pasqua è presso di te, presso il nuovo credente;

A') v.19: i discepoli, dipartiti da Gesù, eseguono la missione ricevuta e celebrano la Pasqua.

Dallo schema, dunque, si evince come i discepoli, dopo essersi avvicinati a Gesù, cioè dopo averlo seguito, se ne dipartono da lui per attuare la missione ricevuta (A, A'). I discepoli chiedono dove deve essere celebrata la Pasqua e la risposta ricevuta è che essa va celebrata presso i credenti (B,B'). Al centro di tutto ci sta la missione: “Andate nella città e dite” (C). È l'invio del discepolo ad andare in mezzo alla gente per “dire”, per annunciare la Pasqua, rendendo presente e attualizzando in mezzo ad essa l'evento salvifico, diventandone egli stesso segno con il suo nuovo stile di vita, nella coscienza del proprio stato di nuova creatura nel Risorto. La vita del credente è, infatti, una vita essenzialmente pasquale, una vita che è chiamata ad un continuo passaggio dalla morte del vecchio Adamo a quello del nuovo Adamo; dalla soggezione alla legge della carne a quella dello Spirito (Rm 6,1-14), che lo qualifica come nuova creatura in Cristo (2Cor, 5,17; Gal 6,15), come figlio di Dio, che segue gli impulsi dello Spirito e non quelli della carne (Rm 8,14).

Questi versetti, dunque, che formano da prologo al racconto della cena pasquale, sono diventati una sorta di anticipazione del memoriale della Pasqua stessa, la quale affida ad ogni credente la sua celebrazione nella propria vita.

Ma quando cadeva la Pasqua giudaica?78


Da una prima superficiale lettura sembra che la Pasqua nei Sinottici venga fatta cadere o venga identificata con la festa degli Azzimi, se non addirittura posticipata rispetto a quest'ultima79. Solo Luca, invece, confonde la festa della Pasqua con quella degli Azzimi, caratteristico questo di un non ebreo80: “Si avvicinava la festa degli Azzimi, chiamata Pasqua” (Lc 22,1). Ma è significativo quello che Luca dice, perché indica quanto queste due feste fossero tra loro interconnesse, quasi a farne un'unica grande festa, e com'era il sentire popolare in merito alle due festività, anche se mai un ebreo le avrebbe tra loro confuse o sovrapposte.

Le due festività, originariamente, erano sorte in contesti culturali e storici molto diversi e lontani nel tempo. La Pasqua, la cui etimologia è incerta81, era una festa caratteristica dei pastori, che, dopo la fermata invernale, sul far della primavera (marzo-aprile), al sorgere della luna nuova, riprendevano il loro peregrinare in cerca di nuovi pascoli per le greggi. In questo contesto temporale veniva sacrificato un giovane animale per la prosperità e la fecondità degli armenti. Il sangue, messo sui sostegni delle tende, aveva un significato squisitamente apotropaico, serviva per tenere lontane le potenze malefiche, il mašhît, lo Sterminatore, il cui ricordo è conservato nella tradizione jahvista (Es 12,23). Altri particolari accentuano il carattere nomadico della Pasqua come il mangiare la vittima arrostita, senza attrezzi da cucina, con pani non lievitati, ancor oggi usati dai Beduini, e con erbe amare selvatiche, che sono i prodotti tipici del deserto e che servono per condire il pasto frugale, caratteristico del nomade. Questi consumava il pasto con i fianchi cinti e i calzari ai piedi e con il bastone del pastore in mano, come per una lunga marcia. Questo rituale è stato assimilato anche da Israele al tempo del suo nomadismo e soltanto in un tempo successivo venne associato alla sua liberazione e reinterpretato alla luce di quegli eventi, divenendone un rituale e un memoriale (Es 12,14). Una traccia di questa preesistenza presso il popolo ebreo ci viene offerta da Es 3,18; 5,3; 8,23. La Pasqua, dunque, è una festa propriamente pastorale, associata al periodo nomadico di Israele e che certamente Israele ha ereditato da altri popoli nomadi.

Parallela alla festa della Pasqua e, nel tempo, ad essa associata è quella degli Azzimi, massôt, pani senza lievito. Questa festa agricola segna l'inizio della mietitura dell'orzo, che è la prima dell'anno. A partire da questa festa “Conterai sette settimane; da quando si metterà la falce nella messe comincerai a contare sette settimane; poi celebrerai la festa delle settimane82 per il Signore tuo Dio, offrendo nella misura della tua generosità e in ragione di ciò in cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto” (Dt 16,9-10). La festa degli Azzimi, la cui durata era di una settimana, dal 15 al 21 di Abib o Nisan83 (Es 12,18), è una festività che il popolo ebreo ha incominciato a praticare dopo il suo ingresso a Canaan84 (circa 1200 a.C.) e che, probabilmente, Israele ha acquisito dalle popolazioni cananee, adattandola, poi, alle proprie esigenze religiose. Essa, nel suo carattere iniziale, era una semplice offerta delle primizie della terra. Successivamente venne celebrata con un suo proprio rituale, ricordato nel Libro del Levitico: “Il Signore aggiunse a Mosè: Parla agli Israeliti e ordina loro: Quando sarete entrati nel paese che io vi dò e ne mieterete la messe, porterete al sacerdote un covone, come primizia del vostro raccolto; il sacerdote agiterà con gesto rituale il covone davanti al Signore, perché sia gradito per il vostro bene; il sacerdote l'agiterà il giorno dopo il sabato. Quando farete il rito di agitazione del covone, offrirete un agnello di un anno, senza difetto, in olocausto al Signore. L'oblazione che l'accompagna sarà di due decimi di efa di fior di farina intrisa nell'olio, come sacrificio consumato dal fuoco, profumo soave in onore del Signore; la libazione sarà di un quarto di hin di vino. Non mangerete pane, né grano abbrustolito, né spighe fresche, prima di quel giorno, prima di aver portato l'offerta al vostro Dio. E' una legge perenne di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove abiterete” (Lv 23,9-14). Durante la festa di questi sette giorni si mangiava pane con farina nuova, senza lievito e senza nulla che provenisse dal vecchio raccolto. Si trattava, quindi, di un nuovo inizio. Anche questa festa, di origine agricola e quasi certamente cananea, è stata rivisitata e risignificata da Israele e agganciata allo stesso significato della Pasqua (Es 12,15-20), molto probabilmente per la continuità logica dell'unico atto salvifico: liberazione dalla schiavitù egiziana (Pasqua) e insediamento nella Terra promessa (Azzimi).

Le due festività, quella della Pasqua e quella degli Azzimi, l'una, come si è visto, di origine pastorale e nomadica, l'altra agricola e stanziale, venivano celebrate entrambe nello stesso mese di Abib o Nisan. Con la riforma di Giosia (622 a.C.) le due festività vennero tra loro associate, quanto al tempo, e poiché la Pasqua era celebrata anch'essa con pani azzimi e le due festività facevano memoria dello stesso evento salvifico, parve opportuno congiungere le due feste. La prima congiunzione è testimoniata da Es 12,1-18 e Lev 23,5-8, in cui le due festività sono prescritte l'una dietro l'altra. La seconda congiunzione, che sembra essere una vera e propria fusione delle due feste, è data da Dt 16,1-8. Il modo ebraico, poi, di contare i giorni, dalla sera alla sera del giorno dopo, ne ha rafforzato l'aggancio. Questa era la situazione al tempo del giudaismo del I sec. d.C., e a questa situazione fanno riferimento gli evangelisti. Ora, tutti i Sinottici fanno coincidere la Pasqua con il primo giorno degli Azzimi85. Tuttavia, va compreso attentamente il loro modo di esprimersi e, in particolar modo, il loro modo di contare i giorni, poiché le festività della Pasqua e degli Azzimi erano ritualmente distinte, e benché legate allo stesso evento salvifico, tuttavia esse si riferivano a due momenti distinti dello stesso: la Pasqua celebrava il passaggio del Signore, che sterminò i primogeniti, creando quindi la condizione per la liberazione; gli Azzimi, invece, celebravano l'uscita di Israele dall'Egitto (Es 12,17), conseguente alla liberazione. Tuttavia, Matteo, e così similmente dicono gli altri, afferma: “Ora, il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: <<Dove vuoi che ti prepariamo la Pasqua?>>” (26,17). Detto in questo modo, sembra che la Pasqua coincida con il primo giorno degli Azzimi, anzi, per la verità, a rigor di logica, con il secondo giorno degli Azzimi, considerato che la Pasqua veniva celebrata alla sera (26,20a), momento in cui iniziava il giorno seguente86. Infatti, se la richiesta fatta dai discepoli a Gesù avveniva, secondo i Sinottici, nel primo giorno degli Azzimi (26,17a) e la Pasqua doveva essere mangiata alla sera di quel giorno (26,17b.20), già si era entrati nel secondo giorno degli Azzimi. Così ragionando, inoltre, si va incontro ad un'altra incongruenza, poiché, proprio quel primo giorno degli Azzimi, dicono i Sinottici, si immolavano gli agnelli pasquali87, operazione questa che avveniva, invece, nel pomeriggio della vigilia di Pasqua. Un gran guazzabuglio, dunque, se ci accostiamo con la nostra mentalità tecnico-scientifica al modo di esprimersi dei Sinottici. In realtà la Pasqua era celebrata prima che iniziasse la festa degli Azzimi, che, invece, la seguiva immediatamente. Il motivo di questa apparente sfasatura risiede soltanto nel modo popolare di intendere la festività degli Azzimi. Stabiliamo, pertanto, alcune date. La Pasqua doveva essere celebrata la sera del 14 di Abib o Nisan88 (Nm 28,16) e quando si parla di sera si deve intendere la prima sera, quando sorgeva il nuovo giorno; pertanto, quando i discepoli chiedono a Gesù dove desiderava che si preparasse la Pasqua, era il 13 di Nisan, poiché la Pasqua, venendo celebrata la sera di quel giorno (Mt 26,20a), veniva celebrata di fatto all'inizio del nuovo giorno, il 14 di Nisan, la prima sera del 14, essendo il giorno compreso tra due sere. Il nuovo giorno, quindi, il 14 di Nisan, cominciava nel tardo pomeriggio del giorno 13, al tramonto. Similmente, la festività degli Azzimi iniziava al termine della festa di Pasqua, cioè nella seconda sera del giorno 14 di Nisan, quando iniziava il nuovo giorno, il 15 di Nisan. In buona sostanza, ogni giorno aveva due sere: quella con cui iniziava e quella con cui terminava. Perché allora gli evangelisti parlano del primo giorno degli Azzimi, che come abbiamo visto era invece il 13 di Nisan, mentre gli Azzimi incominciavano il 15 (Lv 23,6), cioè alla seconda sera del 14, al suo spirare? Il motivo è duplice: sia perché la cena pasquale si consumava con pane azzimo (Es 12,8; Nm 9,11), che nulla comunque aveva a che vedere con il pane azzimo della festa degli Azzimi, ma che nella mentalità popolare venivano probabilmente assimilati o forse anche grossolanamente confusi, facendo così di tutta l'erba un fascio; sia perché per la sera del giorno 14, al termine della Pasqua, quando iniziava il nuovo giorno, il 15 degli Azzimi, la casa doveva essere perfettamente ripulita da tutta la pasta fermentata e dal pane. Questa pulizia avveniva alla vigilia della Pasqua, cioè il 13 di Nisan, e vi era tutto un particolare rituale da osservare scrupolosamente: Il divieto di mangiare pane fermentato durante la festa di massot, infatti, portava a compiere profonde pulizie della casa, perché non rimanessero resti di cibi fermentati, nessuna briciola spersa in qualche cassetto o addosso a qualche vestito. Terminate le pulizie alla vigilia della Pasqua, il padrone di casa, recitata una benedizione, ispezionava attentamente che fossero state compiute diligentemente; mentre le stoviglie, che avevano contenuto cibi fermentati, venivano rese kosher, cioè rese nuovamente idonee ad essere usate. Per sola estensione, quindi, il giorno 13 di Nisan era convenzionalmente considerato il primo giorno degli Azzimi, ma in realtà ne era soltanto la preparazione, una sorte di parasceve. La vera festa incominciava alla fine della giornata di Pasqua, quando iniziava il nuovo giorno, il 15 di Nisan. Sempre nello stesso giorno, il 13 di Nisan, tra la nona e l'undicesima ora (le nostre 15,00-17,00)89 erano anche immolati gli agnelli al Tempio, in preparazione della Pasqua, che veniva celebrata qualche ora dopo. Si comprende, quindi, anche perché Marco esordisce dicendo: “Era il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la pasqua” (Mc 14,12); e similmente Luca: “Ora, venne il giorno degli Azzimi, nel quale bisognava immolare la pasqua” (Lc 22,7). Rituale questo che era dettato da Es 12,3-6 e che si compiva alla vigilia della Pasqua ed era in sua funzione.

vv.20-56: questa ampia pericope, composta da 37 versetti, è suddivisa in cinque quadri: tre sono nel chiuso del Cenacolo (vv.20-35) e due sono collocati all'esterno, nel Getsemani (vv.36-56). Il quinto quadro (vv.47-56), che racconta dell'arresto di Gesù, potremmo considerarlo come la pericope di transizione, che sposta la scena dall'interno del gruppo dei discepoli a quello degli arrestanti, ai quali Gesù viene consegnato. Vi è, dunque, una transizione di Gesù, dagli uni agli altri. I discepoli vengono espropriati del loro Maestro ed egli non apparterrà più a loro, ma diverrà, attraverso la sofferenza, l'uomo che Dio ha pensato per la redenzione dell'umanità (Eb 2,10). Da qui Gesù incomincerà il suo cammino verso il suo ruolo universale di Salvatore del mondo (Gv 4,42; 1Gv 4,14), che acquisirà definitivamente nella risurrezione (Mt 28,18b).

Le prime tre scene si volgono all'interno del Cenacolo e sono disposte tra loro in modo parallelo, convergente in B):


A) vv.20-25: Gesù preannuncia il suo tradimento, che sarà portato a termine da uno dei Dodici;

B) vv.26-30: Gesù si fa dono per tutti;

A') vv.31-35: Gesù preannuncia il suo rinnegamento da parte dei suoi.


Proprio nel cuore del tradimento e del rinnegamento da parte dei suoi intimi Gesù compie il suo gesto estremo di amore donativo, facendosi pane che si spezza per tutti; calice che si versa per tutti. Là, in mezzo alle tenebre dell'egoismo, dell'incomprensione e dell'ignavia, risalta lo splendore dell'amore di Dio per gli uomini. Paolo, nella sua prima lettera ai Corinti, coglierà proprio questo aspetto così contrastante: “I
l Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: <<Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me>>” (1Cor 11,23b-24).

I vv.20-25 aprono la prima scena con un'annotazione temporale: “Giunta la sera”. È la sera in cui inizia la Pasqua ebraica, il 14 di Nisan. Il contesto, dunque, è quello propriamente pasquale e quanto avverrà in questo quadro va letto nell'ottica della Pasqua. Una Pasqua particolare, che i discepoli hanno preparato non per il gruppo, ma esclusivamente per Gesù: “Dove vuoi che ti prepariamo da mangiare la pasqua?”. Ma l'annotazione temporale dice come il sopraggiungere della sera scandisca anche la fine dell'avventura storica di Gesù e come questa si collochi “nella sera”, nell'ora dei tradimenti, dei rinnegamenti, nell'ora delle tenebre (Lc 22,53b). Sull'intera umanità sta per calare il buio del male (27,45), in cui l'amore di Dio verrà oscurato (27,46). Si tratta, dunque, della Pasqua di Gesù, in cui egli soltanto è il protagonista in senso assoluto. Gli altri, tuttavia, non sono dei semplici spettatori, ma ne sono compartecipi, direttamente coinvolti. Gesù, infatti, si sdraia (¢nškeito, anékeito) “con i dodici” (met¦ tîn dèdeka, metà tôn dódeka) (v.20); ed essi mangiano questa Pasqua (v.21a), che non è loro, ma del loro “Signore”(v.17b). Essi ne fanno dunque parte, la assimilano e diventano essi stessi assimilati al loro Signore, senza alcuna distinzione tra amici e traditori. Anche chi sta per consegnare Gesù è reso, fino all'ultimo, partecipe del destino di morte redentiva del suo Maestro: “[...] Colui che ha intinto con me la mano nel piatto [...]” (v.23). Ma per lui non vi sarà risurrezione: “Ed egli, gettate le monete d'argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi” (v.27,5). Vi è un profondo iato tra Giuda e i Dodici, che Matteo significa nel diverso modo che essi hanno nell'approcciarsi a Gesù. Di fronte alla denuncia del tradimento che sta per compiersi, i discepoli si rivolgono a Gesù chiamandolo “Signore”. Segno di una evoluzione interiore nei rapporti che li legano a Gesù, percepito come loro Signore, evidenziandone in qualche modo la divinità. Giuda, invece, vede in Gesù soltanto un “rabbì” (v.25b), che lo ha deluso. Non c'è stata in lui evoluzione spirituale, ma egli verrà inghiottito nella notte del Male. Con un tocco magistrale Giovanni rileverà come Giuda dopo aver “Preso il boccone, [..] subito uscì. Ed era notte” (Gv 13,30); mentre Luca osserverà: “Allora satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici” (Lc 22,3). Ma il tema di fondo di questa pericope è il precisare il senso della passione e morte di Gesù. Matteo per quattro volte qui usa il verbo “paraddwmi” (paradídomi), che viene di solito tradotto con “tradire”, mentre il senso esclusivo di questo verbo è “consegnare”. Il verbo del tradimento è, invece,“proddwmi” (prodídomi), che non viene mai usato nei vangeli, mentre “paraddwmi” compare 25 volte, sempre con riferimento alla passione e morte di Gesù. Non si tratta, dunque, per gli evangelisti di un tradimento, ma di una consegna che il Padre fa del suo Figlio agli uomini, quale atto estremo del suo amore per loro (Gv 3,16); e il Figlio fa di questo dono di amore il senso della sua esistenza e della sua stessa missione, che toccheranno il loro vertice in quel pane spezzato e in quel calice sparso per tutti.

I vv.26-30 riportano quella che tradizionalmente viene definita come l'istituzione dell'eucaristia e del sacerdozio, ma che in realtà nulla ha a che fare né con l'una, né con l'altro. Di certo sono parole estranee al rituale della Pasqua ebraica (Seder) e che, proprio per questo, Gesù deve averle pronunciate. Quale senso Gesù abbia voluto dare ad esse o quale volontà le sottendesse è difficile stabilirlo, anche se il contesto in cui sono state pronunciate lascia intuire, come vedremo, il livello di coscienza che egli ebbe del suo patire e del suo morire e probabilmente quei gesti e quelle parole hanno voluto fornirne la chiave di lettura e di comprensione. Si è parlato di fondazione dell'eucaristia, che letteralmente significa “rendimento di grazie”, la quale cosa presuppone un rituale apposito, che è qui difficile ravvisare. Così come in quel “fate questo in memoria di me”, riportato solo da Luca e da Paolo90, si è visto l'istituzione del sacerdozio, che aveva il compito di fare memoria dell'ultima cena. Ma è difficile anche qui pensare ad una istituzione sacerdotale voluta da Gesù, che si è presentato come un semplice laico e come tale ha sempre operato, senza mai pretendere ranghi sacerdotali o religiosi o ad essi aspirare in qualche modo. Anzi, furono proprio i sacerdoti e le autorità religiose in genere, che lo perseguitarono fino ad ucciderlo. Per poter comprendere, allora, esattamente cosa Gesù intendesse dire con queste sue parole è necessario porsi nel contesto sia della Pasqua ebraica, sia nel contesto degli eventi che segnarono la fine dell'avventura storica di Gesù. Al di fuori di questi contesti si rischia di trarre conclusioni non appropriate o di vedere cose che Gesù non pensava91. Non vi è nessun problema se il Clero intende giustificare e motivare la sua origine e la propria esistenza, agganciandosi a questo contesto, facendosi Clero eucaristico, fondato e alimentato dall'Eucaristia, facendo dell'Eucaristia il proprio emblema distintivo, anche se, sulla linea dello stesso Paolo (1Cor 1,14-17), personalmente vedrei meglio un Clero annunciatore della Parola più che un Clero celebratore dell'Eucaristia. All'Eucaristia, infatti, ci si arriva grazie all'ascolto accogliente della Parola92, che, dopo aver generato la fede, porta il credente a celebrarla nei sacramenti e, in primis, nell'Eucaristia93. Nessun problema, quindi, se l'ultima cena è vista e pensata come l'alveo naturale da cui sgorga il sacerdozio e l'eucaristia. Il problema sorge là dove si attribuisce a Gesù la volontà specifica e precisa di fondare, con quei gesti e con quelle parole, l'istituzione sia del sacerdozio che quella dell'eucaristia. Quali erano, dunque, le intenzioni di Gesù in quel preciso frangente di celebrazione pasquale? Non è semplice il dirlo, perché ciò che i vangeli e lo stesso Paolo ci trasmettono sono formule ormai liturgicizzate ed espressione di un culto ormai consolidato tra le prime comunità credenti. Tuttavia si deve ritenere che queste formule hanno avuto la loro origine nella storia, che in qualche modo ancora risuona in esse. Il nostro intento, quindi, è quello di riportarle nel contesto storico dove sono nate, cercando di carpire da questo, per quanto ci è possibile, le intenzioni di chi ha pronunciato quelle parole e compiuto quei gesti.

Da quanto ci viene detto dagli evangelisti, il contesto storico in cui Gesù disse quelle parole e compì quei gesti è quello proprio della celebrazione pasquale ebraica94. Anche Giovanni parla di una cena95, che si muove su di uno sfondo cronologico pasquale, benché la cena in se stessa non lasci trasparire nessun riferimento alla celebrazione della Pasqua vera e propria96. Per contro, i Sinottici lasciano, invece, capire chiaramente come quelle parole e quei gesti di Gesù sono inseriti nel rituale della Pasqua ebraica. Essi, tuttavia, incentrano la loro attenzione esclusivamente su quelle parole e su quei gesti di Gesù, che collocati all'interno del rituale della Pasqua ebraica, ne hanno cambiato profondamente il senso, traghettando la Pasqua ebraica in quella cristiana. Il loro stesso tacere sul rituale della Pasqua ebraica o l'accennarvi vagamente dice come questa abbia perso di importanza per le nuove comunità credenti e come questa, invece, sia stata sostituita da un'altra, il cui contenuto è squisitamente cristologico e soteriologico. Ma dice anche come l'antica Pasqua ebraica abbia trovato il suo compimento in quella nuova di Cristo, diventando essa prefigurazione di quest'ultima97. Gli evangelisti, infatti, incentreranno i loro sforzi proprio su questo aspetto, sostituendo gli antichi simboli con le nuove realtà: il pane e il vino sono sostituiti dal corpo e il sangue di Gesù; l'Alleanza tra Jhwh e il suo popolo, espressa nella Torah, è sostituita da Cristo stesso, nuovo punto d'incontro e di mediazione tra Dio e gli uomini; l'agnello, vittima pasquale, è sostituito dal Gesù giovanneo. E mentre la Torah era la fonte di separazione tra il popolo ebraico e il resto dell'umanità, Cristo, invece, è diventato il principio unificatore di tutti per mezzo della sola fede98.

Prima di addentrarci nella riflessione teologica di questa pericope (vv.26-30) vediamo come essa si inserisca nel rituale della pasqua ebraica, in cui trova il suo naturale alveo.

La cena pasquale giudaica si svolgeva al tramonto del sole, dopo le ore 18,00, quando aveva inizio il 14 di Nisan. I partecipanti, perché la cerimonia fosse cultualmente valida, dovevano essere almeno in dieci uomini adulti (minjan), cioè che avessero compiuto almeno tredici anni di età99; il numero dei partecipanti, tuttavia, non doveva essere superiore all'incirca ad una quindicina di persone, per permettere a tutti di mangiare una normale porzione di agnello arrostito.

La cena era regolata dal Seder, cioè dal rituale che scandiva, in modo ordinato, i quattordici momenti della cena pasquale, detti simanim, nel seguente modo:


1) La celebrazione si apre con la benedizione della prima coppa (qaddesh, consacrare), che si berrà al termine della preghiera, appoggiando il gomito sinistro su un cuscino di seta, simbolo della libertà.

2) Segue la lavanda delle mani (urchatz, lavare).

3) Il rito del sedano (karpas, sedano): se ne mangia un pezzo intinto nell’aceto oppure nel succo di limone o in acqua salata, come ricordo dell’amarezza della schiavitù.

4) Il rito dello spezzamento del secondo pane azzimo (yachatz, dividere): il capo famiglia prende tre pani azzimi, spezza in due quello centrale, ricollocando una prima metà al centro e nascondendo sotto la tovaglia o sotto un panno l’altra metà, che verrà consumata al termine della cena.

5) Il rito della narrazione (magghid, narrazione): è il momento più solenne. Si riempie una seconda coppa di vino e prima di berla si racconta la liberazione dall’Egitto spiegandone il senso e l’attualità con brani biblici. È la parte più specifica e importante del Seder pasquale. All’inizio della “narrazione” il più giovane dei partecipanti pone al capo famiglia quattro domande: “perché tutte le altre sere non intingiamo neppure una volta, mentre questa sera intingiamo due volte? Perché tutte le altre sere mangiamo pane lievitato e questa sera solo pane azzimo? Perché tutte le altre sere mangiamo qualunque verdura e questa sera solo erbe amare? Perché tutte le sere mangiamo e beviamo stando seduti e questa sera solo appoggiati sul gomito?” A queste domande risponde il lungo testo della “narrazione”, prima in forma generale e poi in particolare.

6) La seconda lavanda delle mani (rochtzah, lavare): ultimata questa lunga “catechesi” biblica si beve la seconda coppa e si procede ad una nuova lavanda della mani (sesto atto).

7) La benedizione del pane azzimo (motzi matzzah) Si passa quindi alla benedizione dell’azzima. Chi presiede prende l'azzima superiore e l'azzima divisa a metà. Ne prende un pezzo delle due e lo mangia. Poi ne spezza ancora e ne distribuisce ai commensali, che le mangiano assieme.

8) Il rito dell'erba amara (maror, erba amara): i commensali mangiano una lattuga amara intinta nell’ haroset, il dolce composto di mele grattugiate, fichi, noci con un po’ di mattone tritato, segno dei lavori forzati d’Egitto. Il sapore dolce, che predomina, ricorda che, pur nell’oppressione, era sempre accesa la fiaccola gioiosa dell’amore della libertà.

9) Il rito del pane azzimo avvolto nell'erba amara (korek, avvolgere, combinare assieme): viene spezzato il terzo pane azzimo ancora intatto e viene avvolto nell'erba amara e così mangiato.

10) Il rito della cena (shulchan 'oreka, tavolo ordinato): a questo punto si celebra la vera e propria cena dell’agnello, preceduta da un antipasto di uova e di altre pietanze cariche di significato simbolico.

11) Il rito dell'azzima nascosta (tzafun, nascosto): si mangia il pezzo di azzima che era nascosto, in memoria dell’agnello pasquale; dopo questo è proibito prendere cibo fino al giorno seguente. È un momento particolarmente importante soprattutto per i bambini che vengono invitati a cercare quella parte di azzima che era stata nascosta.

12) La benedizione sulla terza coppa (berek, benedizione): lavate le mani, si pronunzia la benedizione sulla terza coppa di vino.

  1.  13)  Il canto dell'Hallel (hallel, lode): si recitano i salmi 113-118 e il 136, detto il Grande Hallel, che canta i momenti salienti della liberazione e dell'entrata nella Terra Promessa. Sono canti di ringraziamento per la cena pasquale, nella quale si è rivissuto il miracolo della libertà. Al termine viene aperta la porta per favorire l’entrata di Elia, il messaggero dell’era messianica, il precursore del Messia, nel grande giorno sperato da ogni Ebreo come imminente. Si termina questo momento con l'augurio rituale “l’anno prossimo a Gerusalemme”: si beve la quarta coppa appoggiandosi sul gomito destro.

14) Il rito conclusivo (nirtzah, accettazione): con il rituale conclusivo si prega Dio di restare sempre il Liberatore di Israele. Insieme a canti e inni religiosi, si recitano o si cantano filastrocche popolari.

A questo rito pasquale, scandito in quattordici momenti, anche Gesù si è di certo adeguato, non solo perché ebreo, non solo per le stesse dichiarazioni dei Sinottici, che collocano questa cena nel contesto pasquale, ma anche perché i pochi versetti, che ci riportano un breve spaccato di quanto è successo quella notte, sono sufficienti per lasciarci intuire come in quel frangente Gesù e i suoi avessero di fatto celebrato una cena pasquale in piena regola, secondo quanto prestabiliva il Seder. I quattro testi dell'ultima cena ci forniscono alcune indicazioni significative che ci rimandano al Seder e al contesto della cena pasquale:


1) Gesù e i discepoli sono presentati “sdraiati” a mensa (Mt 26,20b; Mc 14,18; Lc 22,14b). Questa posizione, che apparentemente sembra richiamare il modo greco e romano di sedersi a mensa, la quale cosa presuppone una profonda ellenizzazione e romanizzazione, molto difficile pensarlo per un ebreo, in realtà è il primo segnale che qui ci troviamo di fronte ad una cena pasquale. Infatti, per la maggior parte della celebrazione del rito pasquale i commensali rimanevano sdraiati sul lato sinistro100, per significare la loro condizione di uomini liberi. Nei tempi antichi, infatti, soltanto le persone libere potevano adagiarsi a tavola mentre mangiavano.

2) Tutti tre i Sinottici rilevano che il traditore è colui che “intinge la sua mano nel piatto101” (Mt 26,23; Mc 14,20). Luca, similmente, dice “la mano di colui che mi consegna è con me sulla tavola” (Lc 22,21). Questo gesto dell'intingere nel piatto fa probabilmente riferimento al punto 3) del Seder o forse al punto 8). Sono questi gli unici due momenti in cui si intinge.

3) Gesù e i discepoli ci vengono presentati in Mt e in Mc “mentre mangiavano”. L'espressione ricorre due volte. La prima volta in Mt 26,21 e Mc 14,18102; la seconda volta in Mt 26,26a e Mc 14,22a. La prima volta, durante la quale segue l'annuncio del tradimento, ha una valenza meramente indicativa, cioè mentre erano a tavola per mangiare. Indica, quindi, semplicemente il contesto in cui è avvenuto l'annuncio. La seconda volta, invece, allude al punto 10) del Seder. Si tratta della cena vera e propria. Mt e Mc, infatti, dicono “mentre essi mangiavano”. Quel “mentre” indica un tempo specifico, mentre il verbo all'imperfetto “mangiavano” indica un'azione che si protrae nel tempo e, quindi, consistente. E l'unico tempo degno di essere definito come il tempo del “mangiare” è quello proprio della cena, il cuore e il punto culminante della celebrazione pasquale.

4) Gesù prende del pane pronuncia la formula di benedizione e di ringraziamento, lo spezza e lo dà ai suoi discepoli dicendo “Questo è il mio corpo” (Mt 26,26b; Mc 14,22b; Lc 22,19; 1Cor 11,23-24). Mt e Mc dicono che questo era avvenuto “mentre mangiavano” e, quindi, durante la cena pasquale vera e propria (punto 10 del Seder). In realtà questo momento del pane, punto 11) del Seder, segue immediatamente dopo il rito della cena. Mt e Mc dicono “mentre essi mangiavano”, alludendo forse agli ultimi momenti conclusivi della cena. Luca, in questo, è molto più preciso poiché fa uno stacco netto con la cena, come dovrebbe essere, non nominandola, poiché con il punto 11) inizia un altro rituale, quello della seconda azzima nascosta. Tuttavia non è il caso di essere pignoli, poiché forse non c'era quella rigidità e quello stacco netto tra il rito della cena e il rito dell'azzima nascosta, che forse noi ci potremmo aspettare, considerato che quest'ultima concludeva di fatto il rito della cena e, quindi, era in qualche modo strettamente legata ad essa. Quest'azzima nascosta, infatti, era detta afikomen, che potremmo considerare come il nostro dessert e, quindi, la parte conclusiva della cena. Era il pane che si mangiava dopo essersi abbondantemente saziati con la cena. Era, dunque, considerato il pane dell'abbondanza. È proprio qui, al punto 11) del Seder, che Gesù compie il gesto che lega la sua presenza viva e reale a quel pane. Si noti come il pane che Gesù prende, benedice, spezza e a cui lega la sua presenza reale è la seconda azzima (v. punto 4) del Seder), quella che simbolicamente rappresenta i Leviti, cioè la classe dedita al servizio del Tempio. Significativa, dunque, la scelta della seconda azzima, quasi che Gesù volesse dire con essa che il suo legarsi al pane è un servizio sacro che egli ha reso e continua rendere ai suoi discepoli, al popolo del Padre, da lui riscatto, redento e a lui offerto.

5)Prese un calice e rese grazie” (Mt 26,27a; Mc 14,23). Lc e Paolo dicono “E (prese) il calice nello stesso modo, dopo aver cenato, dicendo” (Lc 22,20; 1Cor 11,25). Più precisi Paolo e Luca. Essi non parlano di “un calice” come Mt e Mc, bensì di “il calice” indicando quello che nel rito della cena pasquale si prende “dopo aver cenato”, esattamente il punto 12) del Seder, che segue immediatamente il rito dell'azzima nascosta (punto 11 del Seder). Si tratta della terza coppa di vino, quella che è definita come la coppa della Redenzione, che nel rituale della Pasqua ebraica simboleggia il sangue dell'agnello che salvò Israele dall'ultima piaga, quella dello sterminio dei primogeniti. Significativa, dunque, la scelta di questa terza coppa da parte di Gesù, per legare ad essa la sua presenza di Agnello immolato, il cui sangue redime e salva il popolo di Dio, liberandolo dalla schiavitù del peccato. Dunque, questa era la comprensione che Gesù aveva di sé e del suo sacrificio che stava per compiersi.

6) La promessa di un nuovo banchetto messianico, che si realizzerà negli ultimi tempi (Mt 26,29; Mc 14,25; Lc 22,18; 1Cor 11,26). L'ultima cena chiude, dunque, il tempo della storia e proietta l'umanità credente nel tempo messianico, che è il tempo di Dio. Gesù afferma che egli non berrà più del frutto della vite finché non verrà il Regno di Dio. In quale momento del Seder Gesù pronuncia questa frase? E a quale coppa di vino fa riferimento quando dice che non ne berrà più fino all'avvento del Regno di Dio? A nostro avviso i versetti qui citati vanno collocati nel contesto del punto 13) del Seder. È qui, infatti, che si canta l' Hallel, che esalta le prodezze di Jhwh, che con braccio potente, ha traghettato il suo popolo dalla schiavitù egiziana verso la Terra Promessa ai Padri, così come il Padre nel suo Cristo sta per traghettare l'umanità credente verso i cieli nuovi e la terra nuova, che saranno generati nella risurrezione del suo Figlio103. Si canta, dunque, il grande esodo verso la libertà e verso l'affermazione di una nuova identità del popolo (Es 19,5-6), così come in Cristo, potenza di Dio104, ogni credente viene trasformato in creatura nuova105. E sempre in questo contesto si beve l'ultima coppa, la quarta, che chiude definitivamente il banchetto pasquale in attesa della nuova pasqua, così come Gesù afferma che non berrà più di questo vino finché non verrà la nuova Pasqua dei cieli nuovi e della terra nuova del Regno di Dio. Ma nel contempo si versa una quinta coppa, che non viene bevuta, perché riservata al profeta Elia, il messaggero dell'era messianica, il precursore del Messia, che Gesù aveva affermato esser già venuto, indicandolo nella persona del Battista, il precursore del Messia, l'annunciatore dei tempi messianici106. Vi è, dunque, al punto 13) del Seder un forte messianismo e un forte parallelismo con gli eventi che stanno per compiersi in Gesù.

7) “E dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi” (Mt 26,30; Mc 14,26). Già lo si è anticipato, l'inno di cui qui si parla è il canto dell'Hallel (Lode), composto dai Sal 113-118 e 136, detto il Grande Hallel, che conclude il rito della Pasqua ebraica. Dopo questo, infatti, Mt e Mc dicono che Gesù uscì verso il monte degli Ulivi.

Stabilito che l'ultima cena di Gesù fu una cena pasquale (e a mio avviso su questo non vi sono dubbi), ho cercato di individuare i momenti del Seder, ai quali gli evangelisti hanno legato le parole e i gesti di Gesù. Ho cercato di farlo non tanto per una questione meramente storica o per rendere maggiormente realistica l'ultima cena, ma per cerca di capire quale livello di coscienza avesse Gesù di se stesso e della morte che stava per affrontare. Da ciò che ci è stato dato di capire, ci sembra di poter dire, con una discreta tranquillità, che Gesù, almeno in quell'occasione, ha avuto coscienza del significato redentivo del suo morire e del valore salvifico della sua persona. Infatti, il fatto di aver collocato quei suoi gesti e quelle sue parole nel contesto della celebrazione del rito pasquale ebraico, che fa memoria non solo della liberazione di Israele, ma anche della consegna a questo di una sua nuova identità, legandolo a Dio in uno stretto rapporto di Alleanza, facendolo sua proprietà e costituendolo un popolo di sacerdoti e una nazione santa (Es 19,5-6), lascia intendere il tipo di comprensione che Gesù avesse della salvezza, che egli stava attuando con se stesso. Significativo, inoltre, è l'aver legato, come si è visto sopra, i suoi gesti e le sue parole a determinati momenti del Seder, lascia intendere come egli volesse associare in qualche modo il suo patire e il suo morire al significato di quei momenti specifici indicati dal Seder.

Cercheremo, ora, di cogliere attraverso il testo matteano, che segue quasi pedissequamente Marco, la comprensione che Matteo ha avuto di quei gesti e di quelle parole di Gesù.

Il v.26 si apre introducendo il lettore nel contesto di un banchetto: “Mentre essi mangiavano”. Il tema del banchetto e del mangiare torna sovente nel racconto di Matteo. Gesù, infatti, è colto da Matteo a tavola con i pubblicani e i peccatori (9,10-11); e questo non doveva essere per lui un fatto insolito, perché lo accusavano di essere un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori (11,19); egli ancora si sofferma a sfamare le immense folle che lo seguivano e spezza per loro del pane in abbondanza (14,15-21; 15,32-38); così similmente egli racconta del regno dei cieli, equiparandolo ad un banchetto regale in cui tutti sono invitati, anche se non tutti vi aderiscono prontamente e degnamente (22,2-14); ed infine, i suoi discepoli gli chiedono dove vuole che gli sia preparato il banchetto (26,17). È questo l'ultimo banchetto, preceduto e preannunciato da tutti gli altri. Esso è la porta che apre e introduce a quello messianico (26,29), attorno al quale sono convocate tutte le genti e che in qualche modo Isaia aveva indicato: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati” (Is 25,6). Il monte di cui parla qui Isaia è il monte Sion, dove si trovava Gerusalemme. Su questo monte egli annuncia che il Signore preparerà un banchetto, in somiglianza ai banchetti sacri, che accompagnavano i sacrifici di comunione. Questi, il cui rituale è descritto da Lv 3, sono sacrifici di rendimento di grazie a Dio e mezzo di comunione con Lui. Di questo sacrificio si facevano tre parti: la prima, composta dalle interiora e dalle parti grasse, quelle più pregiate, veniva offerta a Dio, consumandola nel fuoco; la seconda, il petto e la coscia destra dell'animale, era riservata al sacerdote; il resto dell'animale veniva consumato dall'offerente con la propria famiglia o con i propri invitati. Tutti dovevano essere in una condizione di purità rituale. Questo particolare lascia intendere come questo banchetto, sia pur gioioso, fosse in realtà una celebrazione rituale sacra, che metteva l'offerente in comunione con Dio107. Ed è ancora una volta, sul monte Sion, in Gerusalemme, che si celebra un banchetto, quello pasquale, che doveva compiersi, secondo la consuetudine, all'interno del perimetro della Città santa. Questo, per l'occasione, considerata la moltitudine di persone, veniva esteso fino al monte degli Ulivi, che dista a circa un Km da Gerusalemme; e fino anche a Betfage, che ne conta tre Km108. L'universalità di questo banchetto, dalle dimensioni redentive, è data dal v.28b in cui viene dichiarata l'universalità dei quella cena, consumata “per molti, per il perdono dei peccati”; mentre al v.27b Gesù sollecita i suoi discepoli a bere tutti da quel calice di vino. Il comando che Gesù dà qui supera i confini storici dei primi dodici, per abbracciare tutti i credenti che verranno dopo di loro: “P…ete ™x aÙtoà p£ntej” (Píete ex autû pántes), “Bevete tutti da questo”. Lo stesso Gesù giovanneo, alludendo alla sua morte di croce (Gv 12,33), darà una dimensione universale al suo morire: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). È dunque nel contesto di questa cena pasquale che Gesù prende il pane109 (siamo al punto 11 del Seder), lo spezza, donandolo ai suoi. Ed ecco il nuovo significato che sormonta e supera l'antico segno dell'afikomen, il pane dell'abbondanza e della sazietà: “Questo è il mio corpo110”. Tutto acquista con queste parole un senso completamente diverso, totalmente nuovo. Non si tratta di una “transustanziazione”, come si è soliti pensare in termini dottrinali, un concetto questo del tutto estraneo al pensiero biblico, ma di una “transignificazione111. Il pane, infatti, resta pane e, similmente, il vino resta vino. Ciò che cambia, e cambierà per sempre, è il significato di quel pane, a cui Gesù ha legato in modo inscindibile la sua reale presenza, al punto tale da creare una sorta di identificazione tra lui e il pane: “Questo è il mio corpo”. Il pane, quindi, non è il corpo di Gesù, ma il segno della sua reale presenza, che si rende immediatamente raggiungibile in quel pane e in quel vino. Ecco, dunque, che lo spezzare il pane e il darlo ai suoi, diventa la chiave di lettura della sua stessa passione e morte, e ancor prima, la chiave di lettura della sua stessa esistenza, che è una pro-esistenza, cioè una vita spezzata, spesa e donata per tutti, che qui, nella sua passione e morte, raggiunge il suo vertice e il suo compimento: Gesù si è fatto pane che si spezza per tutti; il suo vivere, il suo patire e il suo morire è dono di amore, che abbraccia tutti. Lo spezzare il pane, dunque, assume chiari aspetti sacrificali, anticipando in modo mistico, ma reale, quella passione e morte, che spezzeranno Gesù, dono di amore donato dal Padre per tutti (Gv 3,16).

vv.27-28: Similmente al pane, Gesù prende la terza coppa di vino (punto 12 del Seder)112. È questa una coppa significativa, poiché il rito pasquale ebraico vedeva in essa il sangue dell'agnello, che sparso sugli stipiti delle porte delle case degli ebrei non solo ha salvato gli Ebrei dallo Sterminatore, ma con quel sangue Dio aveva anche individuato il suo popolo, il popolo della promessa, che Jhwh aveva fatto ad Abramo113, il popolo che Jhwh aveva riscattato dalla schiavitù del faraone. Si tratta, dunque, di una coppa redentiva, la coppa del riscatto. Ed è proprio su questa terza coppa, che Gesù, ridefinendone il significato, lo riferisce a se stesso: “Bevete tutti da questo (calice); questo, infatti, è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, per la remissione dei peccati”. Matteo, unico tra i Sinottici, aggiunge qui “per la remissione dei peccati”, esprimendo in tal modo il carattere espiatorio del sacrificio di Gesù. Proprio sul tema dell'espiazione Paolo, rivolto alla comunità di Roma, presenta Cristo come lo strumento dell'espiazione (Rm 3,25), definendolo “ƒlast»rion” (ilastérion114, il propiziatorio). Al vino, come per il pane, Gesù lega la sua presenza reale. Il versare il sangue assume qui lo stesso significato sacrificale del pane spezzato; ma se il primo, il pane, Gesù lo riferisce nel contesto della scena ai suoi, con questo secondo, il sangue, si riferisce a tutti: il comando di bere è rivolto a “tutti”, così come lo spargimento di questo sangue è “per molti”. Dalla comunità messianica, dunque, si passa all'universalità dell'intera umanità. La redenzione, pertanto, che abbraccia il cosmo, passa attraverso la mediazione della nuova comunità messianica, che viene investita della missione di “fare questo in memoria di me”115 , di protrarre nel tempo, quasi come un'eco interminabile, lungo il cammino della storia e in mezzo alle genti, la redenzione prodotta da quel pane spezzato e dal quel vino versato. Tuttavia, quel “per molti116” non dice “per tutti”; esso indica una quantità notevole, ma non assoluta. Il “per molti” dice il mondo dei credenti, di coloro che hanno accolto la Parola di Gesù e l'hanno incarnata nella propria vita. Se la redenzione è per tutti, i suoi effetti sono riservati a coloro che credono, che hanno accolto nella fede e nella propria vita quel pane e quel vino, venendo in tal modo assimilati ad essi. La vita del credente, in tal modo, viene a sua volta trasformata in una vita eucaristica, in pane che si spezza per l'altro, in vino che lo disseta, assumendo le dimensioni proprie della redenzione. Agli sventati Corinti, che sull'annuncio del Signore avevano diviso la loro comunità spaccandola in diverse fazioni filosofiche contrapposte le une alle altre (1Cor 1,11-13), Paolo ricorda come “Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,26). Con il termine “annuncio” Paolo allude qui all'assimilazione di ogni credente al corpo e al sangue di Cristo, che deve riflettersi nella condotta della sua vita, la quale diventa annuncio di questa morte. Infatti, egli sostiene: “il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?” (1Cor 10,16).

Matteo, infine, vede nel sangue di Gesù “il sangue dell'alleanza”. Luca e Paolo diranno della “nuova alleanza”117, in contrapposizione a quella antica. Matteo, che qui sta parlando alla sua comunità di giudeocristiani, fa riferimento al rito con cui si suggellò il patto di Alleanza tra Dio e il suo popolo: “Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l'altra metà sull'altare. Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: <<Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!>>. Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: <<Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!>>” (Es 24,6-8). Il sangue di Gesù, sparso sull'umanità suggella, dunque, una nuova alleanza tra Dio e gli uomini, che è definitiva118. I credenti, pertanto, sono entrati definitivamente a far parte del mondo di Dio e a Lui sono assimilati e a Lui appartengono. Essi, dunque, sono diventati definitivamente sua proprietà, popolo santo e regno di sacerdoti (Es 19,5-6). Ogni debolezza umana è stata coperta e sanata in Cristo una volta per tutte, così che, afferma Paolo, “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Infatti, l'autore della lettera agli Ebrei sottolinea come “è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre. […] Poiché con un'unica oblazione egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati” (Eb 10,10.14). E proprio per questo la nostra santificazione dura per sempre, nonostante la nostra fragilità e debolezza; proprio per questo in Cristo non vi è per noi più nessuna condanna.

Il v.29 proietta questa cena pasquale in una dimensione escatologica e messianica. È una cena che ha avuto il suo inizio qui nella storia, ma troverà il suo epilogo e il suo compimento nella metastoria, nello spazio di Dio, dove essa proietta ogni uomo che si nutre di essa, impegnandolo, già fin da oggi, nella sua testimonianza119. Ogni credente, infatti, vive in un già, che non è ancora pienamente compiuto, ma verso il quale egli è in cammino. Egli si muove verso questo spazio di Dio dove lo attende una promessa: “lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”. Si tratta di una definitiva associazione a Cristo di tutti i credenti, grazie alla quale essi potranno partecipare al vero banchetto escatologico, che è la vita stessa di Dio, di cui l'eucaristia è una sorta di prefigurazione.

Il v.30 potremmo definirlo come un versetto di transizione, poiché chiude il racconto della cena pasquale con il canto dell'Hallel120 (v.30a) e traghetta il lettore in una nuova scena (v.30b): dal chiuso della sala si passa al monte degli Ulivi, un luogo che dista circa un Km da Gerusalemme (At 1,12) e presso il quale Gesù era solito sostare e ritrovarsi con i suoi discepoli121.


La data dell'Ultima Cena: problemi di calendario o diverse comprensioni teologiche?


Prima di procedere nella nostra riflessione su Matteo, ci soffermiamo un istante sul tema della data dell'Ultima Cena, su cui tanto si è scritto, ma senza arrivare ad una condivisa e pacifica soluzione. La questione, anche se ha trovato per il passato autorevoli e serie proposte, ad oggi ancora valide122, tuttavia non ha ancora trovato il suo punto fermo. La presente proposta vuole solo fornire un piccolo contributo alla riflessione e non ha alcuna intenzione di essere uno studio esaustivo, la quale cosa comporterebbe una trattazione a parte. L'intenzione qui è quella di dare soltanto una semplice indicazione al lettore.

Prima di affrontare la datazione dell'ultima cena, così come presentata dai Vangeli, ritengo opportuno fare una breve premessa per comprendere il modo che gli ebrei avevano di contare i giorni e il loro modo di esprimersi al loro riguardo. Come vedremo subito, varia molto il concetto di rapporto tra tempo e avvenimenti. Per noi occidentali, figli dell'Illuminismo, il tempo è un contenitore determinato da rigidi calcoli astronomici entro cui si collocano i fatti, prigionieri del tempo. Al contrario, per gli ebrei sono questi ultimi, i fatti, a determinare il tempo; sono gli avvenimenti che consacrano il tempo e lo definiscono, dandogli una sua identità. È necessario, quindi, riferirsi agli eventi per comprendere il tempo del loro accadimento. Per gli ebrei, quindi, è il tempo legato ai fatti e non viceversa. Il calendario, che stabiliva la celebrazione delle feste, era legato all'accadimento di quell'avvenimento salvifico. Nel rispetto di questa logica, vediamo ora i due avvenimenti di cui si parla al cap.12 del Libro dell'Esodo: la Pasqua e gli Azzimi. Secondo Es 12,12.23 la Pasqua celebra la notte in cui lo Sterminatore passò sull'Egitto uccidendo tutti i suoi primogeniti, uomini e animali. Era la decima piaga, quella che dette il colpo di grazia alla pervicace chiusura del faraone e lo costrinse a sbarazzarsi degli ebrei, lasciandoli andare per la loro strada. Era la liberazione (Es 12,29-33). La Pasqua, dunque, celebra l'evento del passaggio del Signore, che avvenne di notte (“In quella notte io passerò”). Ed è quella notte che viene ritualizzata (Es 12,12-14); è la notte di un nuovo giorno, nato poche ore prima, al tramonto del sole. Il tempo che stabilisce la celebrazione della Pasqua, quindi, gira tutto attorno all'evento del passaggio del Signore. Ed ecco, ora, la festa degli Azzimi, che secondo Es 12,17, celebra non la liberazione dal faraone, ma la sua conseguenza: l'uscita dall'Egitto. Si tratta, dunque, di due eventi salvifici diversi, l'uno conseguente all'altro, l'uno dipendente dall'altro, l'uno complementare dell'altro; pertanto, anche i tempi sono diversi, l'uno conseguente all'altro (Nm 28,16-17; 33,3): il quattordici di nisan c'è la Pasqua (Nm 9,2-3), il quindici di nisan gli Azzimi (Lv 23,6).

Ora, soffermiamoci sul modo che gli ebrei avevano di riferirsi al tempo, per noi, figli della scienza, equivoco e imbarazzante, ma per il loro modo di scandire il tempo con i fatti, estremamente chiaro e inequivocabile. Es 12,6; Nm 9,3.5.11; 28,16 affermano che la Pasqua deve essere celebrata alla sera del quattordici. Sennonché Es 12,18 afferma parimenti che alla sera del quattordici ha inizio la festa degli Azzimi, che durerà sette giorni, fino al 21 del mese. All'apparenza Es 12,16 e Es 12,18 ponendo due eventi distinti alla sera del 14 di nisan fanno coincidere la Pasqua con gli Azzimi, celebrando nello stesso momento, la sera del 14 di nisan, due eventi salvifici che hanno avuto tempi diversi, successivi l'uno all'altro. Conoscendo il rigore rituale degli ebrei, ciò sarebbe semplicemente inconcepibile. Ma ciò è anche in netto contrasto con Lv 23,6 che pone l'inizio della festa degli Azzimi il giorno 15 di nisan e ne stabilisce la durata in sette giorni, fino al 21 del mese (Es 12,18). Così che il contrasto si accentua, perché facendo partire la conta dei sette giorni dalla sera del 14 di nisan, come vorrebbe Es 12,18, e fino al 21, i giorni non sono più sette, bensì otto. Inoltre, in modo inequivocabile, Nm 28,16-17 ritualizza due eventi diversi in due tempi diversi: il quattordici la pasqua; il quindici gli azzimi: “Il primo mese, il quattordici del mese sarà la pasqua del Signore. Il quindici di quel mese sarà giorno di festa. Per sette giorni si mangerà pane azzimo” e questo perché, ricorda Nm 33,3, gli ebrei uscirono dall'Egitto il giorno quindici di nisan, il giorno dopo la pasqua. Ci fu, dunque una svista da parte dell'autore, ponendo pasqua e azzimi tutti due la sera del 14 di nisan? No di certo, se pensiamo al modo di contare i giorni, che avevano gli ebrei: dalla sera alla sera successiva. Quindi il giorno era delimitato tra due sere: quella con cui iniziava e quella con cui terminava. È pertanto necessario capire a quale sera facesse riferimento l'autore. Ciò che ci aiuta a capire è la cadenza storica degli eventi celebrati: prima c'è la Pasqua, poi ci sono gli Azzimi, poiché sono due eventi distinti come sottolinea Nm 28,16-17 e 33,3. Quando viene stabilita la celebrazione della Pasqua, alla sera del 14 di nisan, va intesa la sera in cui inizia il 14 e cioè, per noi occidentali, allo spirare del giorno 13 di nisan, intorno alle ore 18,00 circa. Illuminante è il modo di chiamare questo momento di passaggio tra i due giorni: “tra le due sere” (ben harbàym), cioè la sera del giorno che sta per finire e quella del giorno che sta per incominciare. Anche quando viene stabilita la celebrazione degli Azzimi si parla sempre della sera del quattordici, ma evidentemente è la sera in cui termina il 14 e inizia il 15 di nisan. Pertanto, come la Pasqua si pone tra le due sere, fine del 13 e inizio del 14, così anche per gli Azzimi, la loro celebrazione si pone tra le due sere, la seconda sera del 14, in cui finisce la Pasqua, e la prima sera del 15, in cui inizia il nuovo giorno e inizia, quindi, anche la festa degli Azzimi. La sera, dunque, è il confine di passaggio dei due giorni, così come per noi lo è la notte. Pertanto, quando la Bibbia parla della sera del 14 di nisan, talvolta intende dire la sera in cui ha inizio il 14 e, quindi, al termine del 13 di nisan, come in Es 12,6; talvolta intende proprio il giorno 14 di nisan, come in Es 12,8, in cui si parla “In quella notte”, cioè con riferimento al giorno 14, incominciato da qualche ora; altre volte, infine, intende dire il giorno in cui termina il 14 e inizia il 15 di nisan, come in Es 12,18. Ciò che qui è determinante per comprendere i tempi sono gli eventi che si compiono. Sono questi, infatti, che scandiscono il tempo e non viceversa, come per noi occidentali. Per cui, quando la Bibbia parla della sera del 14 di nisan, bisogna cercar di capire di quale sera stia parlando, se della prima, quando inizia il 14 o della seconda, quando termina il 14 e, quindi, di conseguenza inizia il 15. Ciò che determina se è la prima o la seconda è soltanto l'evento che viene celebrato. È l'evento che qualifica il tempo e non viceversa.

Questo modo di ragionare va tenuto presente per il calcolo dell'ultima cena.

Come si è visto nel titolo precedente, tutti i Sinottici esordiscono con il racconto dell'ultima cena affermando che era il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la pasqua, cioè gli agnelli pasquali123. In questo giorno i discepoli chiedono a Gesù dove vuole che si prepari la cena pasquale, che si sarebbe svolta quella stessa sera124, probabilmente tra le 19,00 e le 21,00, quando cioè iniziava la Pasqua. Si era detto anche come in realtà non si trattasse del primo giorno degli Azzimi, bensì della loro preparazione, che consisteva nel ripulire meticolosamente la casa da ogni pasta lievitata e da ogni briciola di pane. Questo avveniva lo stesso giorno in cui si immolavano gli agnelli pasquali al tempio, in preparazione della cena pasquale, che si sarebbe svolta da lì a poche ore, la sera. Stabilendo, dunque, un calendario, tutto ciò avveniva il 13 di nisan, da mezzogiorno fino alle 18,00 circa. Dopo le 18,00 circa si entrava nel nuovo giorno, il 14 di nisan, giorno in cui iniziava la Pasqua, che si apriva con il rito della cena pasquale. La festa degli Azzimi iniziava al termine della Pasqua, cioè intorno alle 18,00 circa della seconda sera del 14 di nisan, quando iniziava il nuovo giorno, il 15 di nisan, il giorno in cui si apriva la settimana degli Azzimi, che terminava allo spirare del giorno 21 di nisan. Si è visto, infatti, sopra, come il giorno per gli ebrei iniziasse con la sera e terminasse la sera successiva. Il contesto, quindi, in cui si svolse l'ultima cena, secondo i Sinottici, era chiaramente quello pasquale e l'ultima cena fu la cena pasquale, celebrata secondo le disposizioni del Seder125 pasquale.

Fino a questo momento, quanto detto dai Sinottici quadra perfettamente con la realtà storica, come si è visto. Ma terminata la cena pasquale, incominciano le incongruenze e tali da generare degli interrogativi sul tempo stesso in cui è avvenuta l'ultima cena e se questa fu veramente una cena pasquale. Va innanzitutto ricordato come il Gesù sinottico celebra la pasqua la prima sera del 14 di nisan126, la notte viene arrestato e subito portato davanti a Caifa, dove subisce il processo; viene condannato, dileggiato e maltrattato dai servi dei sommi sacerdoti127. Il mattino del 14 di nisan si tiene un consiglio tra le autorità religiose, che decidono di portarlo da Pilato, dal quale viene interrogato davanti alle autorità giudaiche, che glielo avevano portato. Pilato subisce le pressioni di queste e alla fine cede e consegna Gesù nelle loro mani perché fosse crocifisso128. Gesù viene crocifisso e muore verso le tre del pomeriggio e sul far della sera viene deposto dalla croce e messo nel sepolcro, nel rispetto di Dt 21,22-23129. Il tutto, secondo il racconto sinottico, è dunque avvenuto il giorno 14 di nisan, il giorno di Pasqua, nell'arco di 24 ore, dalla sera alla sera successiva, quanto dura un giorno, secondo il modo ebraico di contare il tempo. Infatti, la cena pasquale fu celebrata nella prima sera del 14 di nisan, mentre la sepoltura avvenne nella seconda sera del 14 di nisan, quindi, a ridosso dell'inizio del 15 di nisan, con cui iniziava la festa degli Azzimi. Il giorno successivo, presumibilmente il mattino, le autorità religiose si recarono da Pilato per chiedere un corpo armato a custodia del sepolcro, per evitare eventuali trafugamenti del corpo di Gesù e dichiarazioni di risurrezioni130. Quel giorno, va ricordato, era quello successivo alla parasceve, cioè era non solo sabato, ma anche il 15 di nisan, cioè il primo giorno degli Azzimi, che, insieme al 21 di nisan, in cui terminava il periodo degli Azzimi131, era considerato festa solenne. L'insieme del racconto è verosimile e possiede una sua logica interna coerente, che lo rende credibile nello svolgersi dei fatti. Non è nostra intenzione qui disquisire se questo denso svolgersi di avvenimenti sia stato possibile contenerlo in sole ventiquattro ore. Non va mai dimenticato che ci troviamo di fronte non ad una rigorosa cronaca giornalistica, bensì ad un racconto, nel quale i tempi contano relativamente e, comunque, sono sempre in funzione di ciò che si vuol raccontare. Ciò che qui, invece, non quadra per niente sono i due contenitori, in cui sono collocati gli avvenimenti: la Pasqua (14 di nisan) e il primo giorno degli Azzimi (15 di nisan). Pasqua e primo giorno degli Azzimi, infatti, sono definiti dalla Torah come solennità del Signore132 e come tali, così come ogni altra festività, assimilati al sabato. Sono giorni, quindi, consacrati al Signore e come tali gli appartengono e, pertanto, sono sottratti alla disponibilità dell'uomo. I fatti riportati dai Sinottici circa la passione e la morte di Gesù sono in netto contrasto con le disposizioni religiose; dissacrano brutalmente la solennità, che doveva essere giorno di riposo, di preghiera, di celebrazione e di memoria, poiché questi giorni sono stati definiti feste e solennità del Signore. Ma le autorità e il loro entourage non violano soltanto il divieto di lavorare, ma anche la regola della purità rituale, che le rendeva in tal modo inidonee a celebrare le festività (Pasqua e Azzimi). Le autorità religiose, infatti, si sono recate da Pilato, parlarono e trattarono con lui non solo il giorno di Pasqua, ma anche il giorno successivo, il primo degli Azzimi133. I Sinottici tacciono il particolare giovanneo che esse non entrarono nel pretorio per non contaminarsi. L'idea che qui si ha è che esse, invece, trattarono direttamente con Pilato, vennero in contatto con lui e il suo entourage, entrarono nel pretorio. Lo svolgersi dei fatti, inoltre, sono in netto contrasto con quanto esse avevano deciso: di non arrestare Gesù e di non farlo morire nel giorno di festa, cioè la Pasqua. In questa loro valutazione, tuttavia, sorge un'altra incongruenza poiché non si tiene conto che durante la Pasqua e per tutto il periodo degli Azzimi (15-21 di nisan), a motivo della solennità delle feste, era fatto divieto di ogni ogni attività processuale o esecuzione di condanne. La loro preoccupazione è tutta incentrata, invece, sul timore che non scoppiassero dei tumulti tra la gente (26,5). Non viene neppure rispettato il limite del cammino imposto nel giorno di sabato, poco meno di un Km. Se si considerano tutti i movimenti fatti dai diversi personaggi coinvolti, autorità comprese, il limite venne ampiamente superato. Mc 15,21 e Lc 23,26, poi, menzionano un uomo di Cirene, un tale di nome Simone, il quale veniva dalla campagna. Il luogo da dove egli proviene lascia intendere che tornasse dal lavoro, che secondo i Sinottici egli avrebbe svolto durante il giorno di Pasqua, violando in tal modo la sacralità del riposo. Da ultimo, va ricordato che Gesù venne deposto dalla croce e nel sepolcro in giorno di Pasqua e chi lo ha fatto ha violato il proprio stato di purità rituale, rendendosi ritualmente inidoneo a celebrare gli Azzimi, essendo venuto a contatto con un cadavere. È da chiedersi, dunque, se questi accadimenti siano effettivamente avvenuti nel giorno della Pasqua (14 di nisan) o nel primo giorno degli Azzimi (15 di nisan), poiché per un ebreo, in particolar modo per le autorità religiose, non era pensabile una simile profanazione di due così grandi solennità (Pasqua e primo giorno degli Azzimi). Che dire, poi, delle discrepanze con i tempi scanditi dal racconto giovanneo della passione? Per Giovanni Gesù non è morto il giorno di Pasqua, bensì nella sua parasceve, cioè alla vigilia della Pasqua (Gv 19,14.31) e la cena che egli consumò con i suoi non fu la cena pasquale, ma soltanto una cena, che potremmo definire d'addio (Gv 13,1-2). Insomma, i Sinottici pongono l'ultima cena e la passione e morte di Gesù nel giorno di Pasqua, il 14 di nisan, cosa questa che contrasta gravemente con le disposizioni religiose circa l'osservanza delle festività e delle solennità. Nulla cambia anche se queste venissero poste nel 15 di nisan, che essendo il primo giorno degli Azzimi, è considerato tra le festività e le solennità del Signore. Il problema, invece, per Giovanni è esattamente l'inverso: l'ultima cena, la passione e la morte di Gesù vengono a cadere in giorni per così dire feriali, neutri da un punto di vista religioso. Ma così posta la cosa lascia intendere chiaramente che l'ultima cena per Giovanni non fu una celebrazione pasquale, ma soltanto una cena di addio. Quindi, tra le due versioni, Sinottici e Giovanni, i racconti si contrappongono non solo a livello temporale, ma anche sul significato dell'ultima cena: per i Sinottici è chiaramente pasquale; per Giovanni una semplice cena d'addio, fatta tra intimi amici. Comunque si mettano le cose, nascono dei problemi. Personalmente ritengo che non ci sia, di fatto, nessuna soluzione ai contrasti se non si tengono presenti due elementi rilevanti:


A) ci troviamo di fronte non ad un reportage cronachistico dell'epoca; non ad un inconfutabile documento storico, redatto secondo rigorosi parametri scientifici di storia, ma ad un semplice racconto, che noi erroneamente abbiamo affrontato con il nostro concetto scientifico di storia. Il tempo nelle narrazioni non segue mai le logiche rigorose del diario di bordo, ma è finalizzato a mettere in evidenza il contenuto del racconto stesso. È il tempo che viene posto a servizio dell'evento e non viceversa. Il tempo ha qui il compito di mettere in rilievo il significato dell'evento. Il tempo, quindi, è soltanto un elemento narrativo posto in funzione dell'evento. Cercar, quindi, di ricostruire la cronaca entro cui collocare gli eventi, si rischia di non arrivare da nessuna parte. È l'evento che conta, non la scansione del tempo. Per gli evangelisti il tempo è soltanto un elemento teologico, posto al servizio della loro teologia.

B) Il secondo elemento da considerare è che il racconto nei vangeli non è finalizzato a riportare una notizia storica, ma a trasmettere una testimonianza di fede, una comprensione teologica degli eventi di cui si narra e questi in rapporto alla salvezza. Il racconto, quindi, è sostanziato e supportato dalla teologia propria dell'evangelista. Egli cerca, attraverso quel racconto, di trasmettere alla sua comunità il significato profondo di quel evento, perché la sua comunità creda e vinca, nella fede, ogni suo dubbio sull'evento Gesù. In questa ottica, come si è detto sopra, l'evangelista usa del tempo per mettere in evidenza il significato dell'evento, di cui sta parlando. Non ha importanza se evento e tempo sono tra loro incongruenti o stonano, l'importante è che l'abbinamento evento-tempo evidenzi il contenuto dell'evento stesso. Di fronte a queste incongruenze, dopo aver opportunamente verificato che tali siano, bisogna chiedersi che cosa l'evangelista voleva dire con questo abbinamento evento-tempo.

Ora, se applichiamo questi due elementi sopra esposti comprenderemo immediatamente come l'intento dei Sinottici sia quello di presentare Gesù come la nuova e vera Pasqua e come la sua ultima cena pasquale ha mutato profondamente quella ebraica, dandole un senso nuovo e, di fatto, sostituendosi ad essa; non solo, ma in quella cena pasquale Gesù ha fornito anche una chiave di lettura alla sua passione e morte, che sarebbero giunte da lì a poche ore. Tutto il resto perde di significato, anzi, meglio, acquista il suo giusto significato alla luce dell'evento-pasquale-Gesù. Tutto il contorno, quindi, della passione e della morte va letto in questa ottica teologica.

Quanto a Giovanni, la sua narrazione della passione e morte di Gesù è finalizzata ad evidenziare la figura di Gesù come l'Agnello immolato. Egli in 1,29 e in 1,36 definisce per due volte Gesù come l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Associa poi la sua morte al momento in cui nel Tempio venivano immolati gli agnelli pasquali (Gv 19,14). Giovanni comprende, quindi, Gesù come l'Agnello immolato e questa immagine la ripropone per ben 29 volte nella sua Apocalisse, che tradizionalmente gli viene attribuita. Un'immagine questa che doveva essere diffusa nella chiesa primitiva se anche Paolo, richiamandosi al rituale pasquale, sollecita la sua comunità di Corinto: “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!” (1Cor 5,7)134. Giovanni, dunque, aveva bisogno di un quadro temporale diverso da quello dei Sinottici per poter associare la morte di Gesù in croce al sacrificio degli agnelli immolati e così poter dare una comprensione della figura di Cristo, del suo patire e del suo morire.

Abbiamo, quindi, visto come i tempi e come lo svolgersi dell'ultima cena sono in funzione della comprensione teologica, che gli evangelisti avevano avuto di Gesù. La manipolazione, quindi, dei tempi e dei fatti da parte degli evangelisti fa parte del loro concetto di storia, il cui intento non è quello di fornire un rigoroso rapporto storico-scientifico sugli eventi, la quale cosa appartiene a noi, ma non a loro, ma modificandone la cornice temporale e talvolta la forma, è quello di trasmettercene il contenuto, cioè il senso, che è, per loro, la primaria finalità della storia stessa. La parziale discordanza135 sui tempi tra i Sinottici e Giovanni, va quindi ricomposta all'interno del loro racconto e della loro comprensione teologica della figura di Gesù, del suo patire e del suo morire. Se non si tiene conto di questo si rischia di non andare da nessuna parte. In altri termini, non possiamo leggere i vangeli con la nostra mentalità tecnico-scientifica, ma con il concetto di storia che essi avevano: ad essi interessava l'anima degli eventi e facevano di tutto perché questa trasparisse dai fatti, manipolando, se necessario, tempi ed eventi; a noi, invece, importa soltanto la freddezza del corpo.

I vv.31-35 fanno da eco ai vv.14-16: al tradimento di Giuda, che si consuma in 26,47-50, si riflette, o meglio, si completa in qualche modo qui, nell'annuncio del tradimento dei discepoli, che si consumerà anch'esso in 26,56b.69-75. Sono versetti questi ultimi con i quali si chiude il cap.26, questa prima parte del racconto della passione di Gesù. In essa si mette in rilievo da un lato il tradimento, il rinnegamento e l'abbandono; dall'altro il sublime dono di amore, che consacra la vita di Gesù come una proesistenza, la quale trova qui il suo vertice estremo.

Dopo la defezione di Giuda, uno dei Dodici, Gesù preannuncia la defezione anche del resto del gruppo. Questa breve pericope è giocata tutta sulla contrapposizione tra le previsioni di Gesù e la sicurezza dei discepoli. Gesù certo è stato compreso come Messia e Figlio di Dio e tale proclamato (16,16). Ma ora di fronte alla sua disfatta, al suo lampante fallimento, che cosa può sostenere la certezza della divinità e della messianicità di questo uomo perseguitato, vinto e fallito nel peggiore dei modi? Su quella croce sono finite tutte le aspettative, tutte le speranze, che si sono tramutate in delusione. “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Lc 24,21). La sola forza umana, la sola buona volontà non può sostenere un impatto così violento. Qui non ci si trova di fronte a delle logiche umane, che ti spingono soltanto a fuggire, ma ad un incomprensibile disegno divino che vede nella peggiore delle sconfitte una sfolgorante vittoria. Come è possibile questo? “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18) così che “... mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,22-25). Di fronte al fallimento di Dio, vinto dagli uomini, soltanto la pervicace fede nella vittoria finale, nella risurrezione, può sostenere il vero credente. È questa la logica che sottende questa breve pericope, che sembra trovare il suo sitz im leben nelle difficoltà della comunità matteana a credere nel messianismo e nella divinità di un uomo crocifisso e, in particolar modo, di scommettere la propria vita sulla peggiore delle sconfitte. Si ha, quindi, difficoltà a giustificare la propria fede in un uomo crocifisso, del quale non si è ancora colta in pienezza la divinità. Non è sufficiente la buona volontà per aderire ad un Dio crocifisso e vinto, serve la fede, che va al di là di ogni logica umana, perché la sua radice è in Dio stesso. È in lui, infatti, che è racchiuso l'imperscrutabile disegno di salvezza, che chiede soltanto di essere creduto al di là di ogni ragionevolezza umana, poiché la fede non è la conclusione di un bel ragionamento, ma un dono, che ci interpella esistenzialmente e chiede di essere accolto senza condizioni e preclusioni. Di fronte a questo mistero divino Paolo, inchinandosi, esclamerà: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio? Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen” (Rm 11,33-36).

La struttura dei vv.31-35 è tale da mettere in evidenza tutta la fragilità dei Dodici e di ogni discepolo di fronte a questo imperscrutabile mistero di salvezza, contrario ad ogni logica umana, proprio perché scaturisce da quella divina e il cui peso non può essere retto se si fonda sulle sole forze umane. La struttura narrativa si muove su due linee: una tematica e una retorica. La parte tematica si fonda su due termini che dividono la pericope in altrettante parti: lo scandalo (vv.31.33), provocato dalla sconfitta di Gesù, vinto dai suoi nemici; e il conseguente rinnegamento, che porterà all'abbandono del gruppo (vv.34-35). La parte retorica, invece, vede il v.31 contrapposto al v.35: da un lato Gesù preannuncia lo scandalo che provocherà la sua morte tra i suoi discepoli; dall'altro Pietro e discepoli si dichiarano pronti alla morte per il loro maestro. Il v.33 si contrappone al v.34: Pietro si dichiara forte; nessun scandalo lo potrà turbare; ma Gesù preannuncia il suo rinnegamento e il suo abbandono. La certezza della fedeltà a Cristo era fondata soltanto sulla buona volontà, sul senso di amicizia, ma non ancora sulla fede. Questa verrà soltanto dopo la risurrezione. Ed ecco, dunque, la chiave risolutiva, il v.32: “ma dopo essere risorto vi precederò in Galilea”. Sull'intera pericope, intessuta sullo scandalo e sui rinnegamenti, il v.32 si incunea come una nota stonata, ma vincente, perché fa splendere sulla pochezza dei discepoli la forza della luce della risurrezione, l'unica in grado di sostanziare la fede e illuminare il cammino della prima e futura chiesa credente.

I vv. 31-32 descrivono sinteticamente il rapporto dei discepoli con il dispiegarsi dello sconcertante mistero salvifico della morte e risurrezione. Il v.31 si apre con un avverbio di tempo, tutto redazionale (Allora), che aggancia questa pericope al racconto precedente, dando alla narrazione una sorta di continuità logica. Il v.31 si suddivide in due parti: nella prima vi è l'annuncio del dramma, da cui saranno travolti i discepoli; nella seconda l'immancabile citazione scritturistica di Matteo, che vede in Gesù il compiersi delle Scritture. Nella prima parte tre sono gli elementi di rilievo: “Tutti voi”, “in questa notte”, “sarete scandalizzati in me”. Matteo, a differenza di Marco, aggiunge al “Tutti” il pronome “voi”, dando un volto all'anonimo “Tutti”. Matteo sta pensando, infatti, alla sua comunità, intimorita dal disastro della croce; una comunità che non sa trovare in se stessa la risposta, che giustifichi la scelta di fede che ha fatto. È una comunità che brancola nel buio di “questa notte”, la notte della croce, la notte dell'umiliazione, la notte della sconfitta e della fine di ogni speranza, la notte del dubbio che non trova risposta. Non c'è ancora la luce della risurrezione, una luce che essa ha difficoltà di fare propria. Non a caso il vangelo di Matteo si chiuderà all'insegna del dubbio: “Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano” (28,17). La chiesa che nasce dalla risurrezione è dunque una chiesa che si muove ancora nel dubbio e nell'incertezza e che denuncia tutta la fragilità della propria fede. Come rimanere nella fede di un uomo che si è manifestato come Messia e come Figlio di Dio, ma che poi non ha retto alla prova dei fatti? Come reggere all'invincibile incalzante dileggio degli avversari, che sferzano questo uomo, sedicente messia e Figlio di Dio e con lui ogni credente; un dileggio che forse costituiva anche le obiezioni a loro mosse: “<<Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!>>. Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: <<Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. E' il re d'Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!>>” (27,40-43). E' proprio questo lo scandalo della croce da cui fu travolta la chiesa primitiva: “sarete scandalizzati in me” (skandalisq»sesqe ™n ™moˆ, skandalistzéststze en emoì). Come dire che chi rimane in lui, il crocifisso impotente e sedicente onnipotente, sarà travolto e segnato da questo scandalo della croce (skandalisq»sesqe), incomprensibile per tutti, poiché solo la fede, una fede matura riesce cogliere in esso la propria giustificazione e vedere nella tenebrosa notte della sconfitta di Dio la più sfolgorante delle vittorie: “noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,23-24). Ma è una potenza crocefissa.

Matteo, tuttavia, trova anche in questo scandalo, a cui è stata sottoposta la sua comunità e la chiesa primitiva (“Tutti voi”), un realizzarsi delle Scritture, quasi che questo scandalo rientri in una sorta di progetto divino, per provare la genuinità e l'autenticità del discepolo del suo Cristo. Il verbo posto al passivo (skandalisq»sesqe), infatti, dice che autore di quello scandalizzare è Dio stesso, mentre la sua forma al futuro proietta questa prova, la prova del buio della fede nella sofferenza, del silenzio di Dio, sull'intera umanità credente. La citazione scritturista del v.31b viene tratta da Zc 13,7b e il contesto da cui essa è presa è proprio quello della prova, a cui è sottoposto il credente, per verificare la genuinità della sua fede: “In tutto il paese, - oracolo del Signore - due terzi saranno sterminati e periranno; un terzo sarà conservato. Farò passare questo terzo per il fuoco e lo purificherò come si purifica l'argento; lo proverò come si prova l'oro. Invocherà il mio nome e io l'ascolterò; dirò: <<Questo è il mio popolo>>. Esso dirà: <<Il Signore è il mio Dio>>” (Zc 13,8-9). E' dunque la prova della croce che mette in luce il vero credente, l'autentico discepolo: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (16,24). La croce, dunque, è la condizione imprescindibile per un'autentica sequela.

Il buio di quella notte che ha travolto la fragile fede dei discepoli, che fidando nelle loro semplici forze non hanno saputo né vegliare, né rimanere accanto al loro maestro, trova la sua soluzione nella risurrezione. Da essa partirà, infatti, una nuova missione di annuncio e partirà proprio dalla Galilea, da dove partì quella del Gesù storico, dando in tal modo una continuità identitaria tra il Risorto e i discepoli. A capo di essa, infatti, si pone un Gesù rinnovato e ricreato dalla potenza dello Spirito; si pone il Risorto con il quale i discepoli devono imparare a relazionarsi in modo nuovo, non più con un rapporto tangibile, bensì mistico, spirituale, che fonda le sue certezze soltanto nella fede, una fede che va al di là di ogni tangibile certezza e che cerca di sintonizzare e di allineare il sentire del credente a quello di Dio. Non saranno più i sensi, che legano a Gesù in modo effimero, ma la fede nella sua Parola: “Ed essi si dissero l'un l'altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32). Quel “Ma dopo essere stato risorto” indica l'inizio di un tempo nuovo e quel “Ma”, con cui si apre il v.32, dice la contrapposizione di due momenti: quello del buio della fede, che si fonda nella fiducia in se stessi, nelle proprie capacità; e quello della risurrezione, che inaugura la dimensione di Dio, che il nuovo credente è chiamato a testimoniare e di cui già fa parte anche se non ancora in modo pieno. Anche qui il verbo della risurrezione è posto al passivo (™gerqÁna… me, eghertzênaí me) per indicare come nella risurrezione ha operato la stessa potenza divina, che ha fornito, in tal modo, del suo imprimatur la persona stessa di Gesù, la sua missione e la sua parola, traendo il tutto nella dimensione divina stessa (Rm 1,4), che supera ogni relativismo storico.

Se i vv.31-32 costituiscono il nocciolo narrativo e teologico dell'intera pericope (vv.31-35), i vv. 33-35 ne formano lo sviluppo narrativo, ma nel contempo anticipano al lettore tutta la pochezza e tutta la fragilità dei discepoli, che avevano fondato le loro sicurezze non sulla fede in Gesù, ma sulle speranze di una sua onnipotenza umana (Lc 24,21). Egli, dunque, non si stupirà nel vedere dapprima i discepoli incapaci di vegliare (vv.36-46), poi fuggire abbandonando il loro maestro al suo destino (v.56b), fino a rinnegarlo spudoratamente davanti a tutti (vv.69-75).

I vv.36-56 hanno come contesto geografico il Getsemani e sono scanditi in due parti, che vedono, da un lato, l'agonia spirituale di Gesù, a cui egli vorrebbe associati i suoi più intimi, che invece lo abbandonano nel sonno di una fede, che ancora non è giunta a maturazione ed è legata alla sensibile presenza di Gesù (vv.36-46); dall'altro, la drammatizzazione dell'arresto di Gesù (vv.47-56).

La prima parte (vv.36-46) si struttura in quattro momenti. Il primo momento (vv.36-41), che comprende ben cinque versetti, viene circostanziato con ricchezza di particolari, poiché formerà da prototipo per gli altri due immediatamente seguenti, che complessivamente occupano soltanto quattro versetti (vv. 42-45). L'ultimo momento, il quarto (v.46), potremmo considerarlo di transizione, poiché chiude la prima delle due parti, che compongono la narrazione del Getsemani e introduce il lettore alla seconda parte, quella dell'arresto di Gesù (vv.47-56).

Questa prima parte è caratterizzata da un continuo andirivieni di Gesù, che si muove in modo pendolare tra i discepoli e il Padre, denunciando in tal modo tutta l'incertezza, tutta la titubanza, tutta l'insicurezza e la riluttanza nei confronti di una volontà, che egli tende ad eludere, anche se ha coscienza che essa deve, invece, essere compiuta. Quel suo tornare per tre volte verso i discepoli, che inizialmente aveva lasciati dietro di sé, andando verso il Padre, è una sorta di fuga di fronte alla missione di salvezza, che egli deve compiere; il tentativo di ritornare verso il passato, difficile, si, ma rassicurante. Egli, infatti, cerca sicurezze e conforto nei suoi discepoli, che vorrebbe con sé per condividere la croce, ma da essi non ha nulla. La strada verso il passato gli è sbarrata dal sonno della loro inintelligenza, della loro incapacità di comprendere. Ed allora, ecco ritornare con riluttanza verso il Padre, dal quale è uscito e al quale egli deve tornare (Gv 16,28). Per tre volte avviene questo e per tre volte viene sottolineata la sua tentazione alla fuga. Questo triplice tentennamento di Gesù richiama da vicino le tre tentazioni, che, come si è visto136, narrano il dramma di un Dio che è chiamato a svolgere una missione salvifica nei limiti fortemente condizionanti della natura umana, rinunciando totalmente alla sua onnipotenza divina, pur rimanendo pienamente Dio (Fil 2,6-8).

Il v.36a si apre con una annotazione significativa: “Gesù va con loro in un posto chiamato Getsemani”. È l'unica volta, qui, che Matteo usa questa espressione “Gesù va con loro” (œrcetai met'aÙtîn Ð'Ihsoàj, érchetai met'autôn o Iesûs). Non sono più i discepoli che vanno con Gesù, ma è lui che ora va con loro, quasi si lascia trascinare da loro verso il Getsemani, che funge da anticamera al suo dramma. Ma nel contempo vediamo anche come sia Gesù che li accompagna verso il luogo del suo dolore. Matteo, qui, sta parlando, infatti, alla sua comunità perseguita e che sta soffrendo il distacco dal giudaismo e, per questo, l'isolamento sociale e gli scontri all'interno delle stesse famiglie137; ma essa è anche una comunità in preda ai dubbi e ad una fede ancora molto incerta e titubante ed ha bisogno di essere rassicurata e rafforzata nella fede in Gesù. Si viene, dunque, a creare un parallelismo e un aggancio tra il gruppo dei discepoli che Gesù accompagna nel luogo del suo dolore e la comunità matteana.

I vv.36b-45 descrivono il dramma che sta affiorando nella persona di Gesù, un dramma che si muove su due linee: la prima esterna, la seconda interiore. La prima linea, quella esterna, presenta il triplice movimento che Gesù compie nel suo cammino verso il suo destino di sofferenza e di morte: dapprima comanda al gruppo di fermarsi lì, mentre lui prosegue solo con altri tre; poi dice ai tre di fermarsi anche loro; ed infine egli prosegue da solo. Questa prima linea descrive il progressivo distacco, la progressiva spogliazione di Gesù dalle sue sicurezze umane, dai suoi affetti più cari. La seconda linea, quella interiore, descrive il dramma di Gesù, che lo sta distruggendo interiormente. Matteo lo scandisce in due momenti: al v.37 dice che Gesù “incominciò a rattristarsi e a sentire angoscia”; mentre al v.38 dà il senso di questo suo rattristarsi e di questa angoscia. Esse sono legate al suo destino di sofferenza e di morte. Quel “½rxato” (érxato, incominciò) del v.37 dice l'inizio dell'ultimo tratto del suo cammino salvifico, che passando attraverso la sua passione e la sua morte, giungerà al compimento della sua risurrezione. Per descrivere lo stato d'animo di Gesù Matteo usa due verbi, uno al passivo e l'altro all'attivo; e un aggettivo. I verbi sono “lupe‹sqai kaˆ ¢dhmone‹n” (lipeîstzai kaì ademoneîn). Essi hanno un significato sostanzialmente identico: il primo significa affliggere, addolorare, inquietare, angustiare, tormentare; il secondo significa essere inquieto, tormentato, agitato, atterrito. Con il primo verbo ci troviamo di fronte ad un passivo teologico o divino che rimanda l'azione a Dio stesso. Autori del soffrire di Gesù, dunque, non sono gli uomini, bensì Dio, che nel suo Cristo sta attuando il suo piano di salvezza. Non sono dunque gli uomini che conducono la storia, ma Dio. A Pilato che vantava davanti a Gesù il suo potere di liberarlo o di condannarlo a morte, Gesù risponderà che egli non avrebbe nessun potere se non gli fosse dato dall'alto (Gv 19,10-11). Il secondo verbo, sostanzialmente identico al primo, è posto, però, all'attivo. Attore qui non è il Dio, ma Gesù. Il rapporto, quindi, tra i due verbi, passivo il primo e attivo il secondo, parla del rapporto Padre-Gesù: il primo opera, il secondo esegue; il primo progetta, il secondo attua. A Filippo che chiedeva di mostrare il Padre, Gesù risponde “Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere” (Gv 14,10). Gesù, dunque, è l'attuatore di un progetto salvifico, la cui origine è nel Padre. Significativo in tal senso è quanto dice il Gesù giovanneo di se stesso in rapporto al Padre: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34). Nel nostro caso la volontà del Padre è espressa dal verbo al passivo, mentre il fare la volontà del Padre è significato dal verbo attivo. L'aggettivo del v.38, infine, che descrive lo stato d'animo di Gesù è “per…lupoj” (perílipos). Esso parla di un'anima che non è triste, ma avvolta, permeata, imbevuta di dolore, di angoscia, di affanno. Il termine greco usato, infatti, è formato da altri due termini: la particella “per…”, che significa “intorno” + “lupÒj”, che ha la sua radice in lupšw e che significa essere angustiato, afflitto, addolorato. La pesantezza di questo per…lupoj” è significata da quel “fino alla morte”. Un'afflizione, dunque, che conduce alla morte, di cui ne è preannuncio. Si tratta di una prostrazione tale che non gli consente neppure più di sorreggersi, così che egli cade con la faccia a terra. Il termine greco che qui viene usato per indicare la faccia è “prÒswpon” (prósopon), che significa, però in senso generale, anche “persona”. In quella faccia immersa nella terra è significata, dunque, la sua stessa persona, che è svuotata di ogni umanità e di ogni contenuto. Questo stramazzare a terra dice la condizione di annientamento a cui è arrivato Dio. Questa comprensione che la chiesa primitiva ebbe del morire di Gesù e del suo significato teologico venne efficacemente espresso dall'inno cristologico, che Paolo ha riportato nella sua lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11), dove viene descritto il progressivo svuotamento138 di Dio, che dapprima rinuncia alle sue prerogative divine; poi, assume una natura umana corrotta dal peccato e che Paolo definisce “di schiavo”, per poi farsi obbediente fino alla morte di croce. Tutto questo dice quel cadere con la faccia a terra.

Vi è ancora un progressivo abbandono, una progressiva sottomissione al Padre nella stessa preghiera che Gesù gli rivolge per tre volte, che richiama da vicino quel paolino “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). Nella prima preghiera vi è una vera e propria richiesta: “Padre mio, passi oltre a me questo calice” e solo in seconda battuta accetta la sua volontà (26,39b); nella seconda preghiera non vi è più una richiesta, ma un prendere coscienza del disegno del Padre, che si sta compiendo in lui e a cui egli si rende disponibile e si adegua: “Padre mio, se non è possibile che questo calice passi oltre, avvenga la tua volontà” (26,42).

Al tema del progressivo distacco di Gesù dai discepoli; al suo essere travolto dalle angosce della morte, di fronte alla quale egli è solo; alla sua totale prostrazione e umiliazione, spogliato di ogni dignità; al suo riluttante rendersi disponibile al doloroso disegno del Padre, si affianca, ora, anche il tema, che sta particolarmente a cuore a Matteo e che nuovamente ripropone qui alla sua comunità, dopo averlo ampiamente trattato in 24,36-25,30: vigilanza e preghiera, che devono accompagnare la sua comunità nei momenti difficili della persecuzione e dell'isolamento sociale e religioso, in cui essa si trova e che la associa alla passione di Gesù. Il motivo che rende necessaria la vigilanza e la preghiera è la fragilità umana (26,41b). È questa una formula che la chiesa primitiva sembra inculcare quale difesa dai cedimenti e dalle defezioni di fronte agli assalti del mondo pagano e giudaico139. Ne abbiamo una testimonianza eloquente nella prima lettera, che Pietro rivolge alle comunità sparse nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell'Asia e nella Bitinia (1Pt 1,1a): “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi” (1Pt 5,8-9). La vigilanza, verso la quale Matteo sospinge la sua comunità, non si fonda su di una semplice attenzione a non esporre la propria fede a degli inutili rischi; non si tratta di fondare la vigilanza sulla propria determinata volontà di essere fedeli a Cristo. La vigilanza di cui qui parla l'evangelista è il “vegliare con Cristo”. Si tratta, dunque di una vigilanza che affonda le proprie radici, le proprie motivazioni e il proprio alimento in Cristo stesso, nella sua Parola, che deve sottendere e sostanziare lo spirito di vigilanza. Una vigilanza che nasce dalla coscienza della ricchezza di appartenere a Cristo e di essere in e con Cristo. Una coscienza e una robustezza di fede che non possono essere improvvisate, ma abbisognano di una maturazione interiore. Per questo Gesù lamenta più volte l'incapacità dei suoi discepoli a “vegliare con lui”. È questa, infatti, la notte del male, la notte delle tenebre (Lc 22,53), è il momento in cui la fede fondata sui semplici sentimenti umani di amicizia con Gesù o di un semplice fervore religioso vengono meno, poiché di fronte al fallimento di Dio serve una fede che vada oltre alle semplici apparenze e sappia gettare il proprio cuore al di là della barriera di ogni evidenza umana. Per questo, osserva l'evangelista, “i loro occhi erano appesantiti” (26,43b), cioè erano incapaci di vedere in quel fallimento e in quella debolezza di Gesù la vera potenza di Dio. Lo ricorderà Paolo ai suoi di Corinto: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18). Per questo qualcuno ricorrerà alle armi, come unico ed estremo baluardo di difesa del proprio Maestro (26,51), che chiedeva soltanto di vegliare con lui, di unirsi a lui per diventare con lui protagonisti di quel apparentemente assurdo disegno salvifico del Padre. L'incapacità di vegliare con Gesù, cioè l'incapacità di cogliere il disegno divino nel dispiegarsi di quei tragici eventi, è sostituita dall'uso delle armi; alla logica di Dio i discepoli preferiscono ancora le loro logiche umane. Non hanno capito che cosa stava succedendo. E Gesù lo rimarcherà: “Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?” (26,53-54). C'è, dunque, lì un progetto divino che si sta attuando; c'è lì la potenza di Dio in atto. Ed è proprio questo che i discepoli non hanno capito, che lì, nella croce si stava preparando la vittoria di Dio sulla morte. Perché, dunque, tutta questa potenza ammantata di povertà e debolezza? “Perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio”, dirà Paolo in 1Cor 2,5. Torna qui la logica delle tentazioni: “Se tu sei il Figlio di Dio” opera come tale, suggeriva con prepotenza e protervia Satana (4,1-11); se tu sei il Cristo, se sei il Figlio di Dio dillo chiaramente, invocava il sommo sacerdote (26,63); “Se sei il Cristo scendi dalla croce e noi crederemo in te, lo dileggiavano i passanti (27,40b). Risponderà Paolo: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,22-25). È proprio questo che i discepoli non avevano capito; per questo tradiscono, per questo fuggono, per questo rinnegano, perché i loro occhi erano appesantiti.

Con il v.45 si chiude il dramma dell'inintelligenza dei discepoli. Dopo inutili solleciti di Gesù a vegliare, a comprendere, cioè, il mistero della sua passione e morte, egli rimane solo di fronte al suo destino: “Dormite e riposate”. È la metafora dell'incapacità del comprendere il mistero che si sta per compiere: “ecco, si avvicina l'ora e il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani dei peccatori”. “Si avvicina l'ora”. No si tratta di un tempo cronologico, bensì teologico; è il tempo del compiersi del disegno del Padre, è il tempo di Dio, lo spazio che Dio si è riservato e in cui egli consegna suo Figlio ai peccatori, esprimendo con ciò tutto il suo amore per l'umanità corrotta e decaduta; tutta la sua volontà di recuperarla a Sé. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16a) e Paolo, circa 40 anni prima, rifletterà insieme alla comunità di Roma su questo dono di amore: “Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,6-8). È un dono di amore, dunque, quello che si compie in una cornice di tradimenti, di odio e di inintelligenza, poiché questo è il momento delle tenebre, del buio della fede; un dono che si compie nella più totale indifferenza dei suoi: “Dormite, quindi, e riposate”. Una scena questa che richiama da vicino ciò che fu l'inizio della creazione: Dio era avvolto dal silenzio e dalle tenebre e il suo Spirito aleggiava sulle acque, simbolo del caos primordiale (Gen1,1-2). Ed ecco tuonare la voce della potenza divina: “Sia la luce!” (Gen 1,3). E un bagliore folgorante, immenso e potente invase l'universo. All'interno di questa luce divina e avvolta da essa viene intessuta la prima creazione, figura e immagine di un'altra creazione, che vedrà cieli nuovi e terra nuova, e che avrà la sua origine nella luce della risurrezione; essa è il Big Bang del nuovo universo, che ha il suo epicentro in Cristo, in cui il Padre ha ricapitolato tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra (Ef 1,10) e “per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1,16-17). È l'immagine del Cristo cosmico, uscito dal bagliore della luce divina della risurrezione, preceduta dal silenzio delle tenebre e dell'inintelligenza. “Ecco, si avvicina l'ora e il figlio dell'uomo è consegnato nelle mani dei peccatori”: è il preludio di una nuova creazione. Ma i discepoli non l'hanno ancora capito.

Al “Dormite e riposate” del v.45, che indicava lo stato di prostrazione spirituale e l'incapacità di comprendere il mistero da parte dei discepoli, fa ora da contrappeso, al v.46, il commando “Alzatevi, andiamo”. Un comando che richiama da vicino quello che Gesù rivolse al paralitico: “Alzati e cammina” (9,5-6) e che sanciva la riabilitazione spirituale e morale di quell'uomo, spiritualmente paralizzato davanti a Dio, incapace di intraprendere un qualsiasi rapporto sociale e religioso140. Anche qui, come nel versetto che stiamo commentando, il verbo usato è gerw (egheíro), che è il verbo proprio della risurrezione. Quel “Alzatevi”, dunque, sembra voler preludere in qualche modo agli effetti che la risurrezione di Gesù avrà su di loro: essi saranno guariti dalla loro inintelligenza e dalla loro incredulità così da portare Tommaso ad esclamare “Signore mio, Dio mio”. Ma esso è anche un'esortazione a svegliarsi da quel torpore e da quella cecità spirituali, che li rendono incapaci di essere dei veri discepoli, degli autentici seguaci del loro Maestro. Paolo rivolto alla comunità di Roma, la esortava: “Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi (™gerqÁnai, eghertzênai) dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,11-14). Quel “Alzatevi” possiede in sé tutta questa carica spirituale, che rinnoverà e ricostituirà in Cristo i discepoli, assimilandoli a lui. Ecco, perché, all' “alzatevi” segue il comando “andiamo”, che lascia intendere, come dopo essere stati ricostituiti nella fede, dopo la risurrezione essi saranno accorpati a Cristo, saranno costituiti veri discepoli, che sapranno camminare e muoversi in Cristo e con Cristo e il Risorto camminerà con loro: “andiamo”. Cristo e discepolo, un connubio così profondo e così intimo che farà esclamare Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”(Gal 2,20a). Soltanto dopo la risurrezione, infatti, i discepoli, ricevuto il comando della missione con la promessa che Gesù sarà sempre con loro fino alla fine dei tempi (28,19-20), saranno trasformati in apostoli. Ma tutto questo è solo un preludio di luce, che deve ancora venire. Ciò che ora sta davanti a loro è solo la tenebra dell'intelligenza e delle forze del Male: “ecco, si avvicina colui che mi consegna”.

vv.47-57: con il v.46b Gesù annunciava “ecco, si avvicina colui che mi consegna”. Si tratta narrativamente di un versetto aggancio, che preannuncia e introduce una nuova scena, dominata dalla “consegna di Gesù”, attorno alla quale ruotano le altre due. Questa pericope costituisce la seconda parte degli eventi narrati nel Getsemani. Per quattro volte in sette versetti (vv.45-51) si ripete l'avverbio “„doÝ141 (idù, ecco), un avverbio, che Matteo predilige ed usa ben 59 volte nel suo racconto142 per la sua efficacia narrativa; ma nel contempo questo avverbio agisce come un sipario, che si apre, lasciando vedere il realizzarsi della scena sul palcoscenico della storia della salvezza. Questo avverbio, dunque, preannuncia un evento, indica un tempo che si sta per compiere, un disegno, un progetto salvifico che cammina nella storia e appare, come d'improvviso, in mezzo agli uomini; li interpella esistenzialmente e pretende da loro una risposta esistenziale. È il gioco della storia della salvezza, che si fonda su di un continuo dialogo salvifico tra Dio e gli uomini.

I versetti in esame sono strutturalmente suddivisi in tre parti con un'aggiunta finale (v.56b), che li conclude. In tutte tre le parti predominante è la figura di Gesù e ogni parte è qualificata dall'entrata in scena di personaggi diversi, che, di volta in volta, vengono letti e qualificati dalla relazione che essi intrattengono con Gesù:

a) vv.47-50: dominante la figura di Giuda, presentato a capo di una grande folla armata di spade e bastoni. La loro provenienza è dai sommi sacerdoti e anziani del popolo. Qui si compie l'arresto di Gesù;

b) vv.51-54: dominante qui è la figura anonima di un discepolo, che compie un impulsivo intervento armato e che Giovanni identifica con Pietro (Gv 18,10);

c) vv.51-56a: dominanti qui sono le folle, che hanno arrestato Gesù.

Gli eventi qui raccontati, pur nella loro storicità, sono tuttavia fittiziamente costruiti e tutti finalizzati ad una catechesi, che Matteo sta impartendo alla sua comunità, per fornirle le argomentazioni che la supportino non solo nella comprensione dei tragici eventi, ma anche delle linee guida sul come destreggiarsi nei confronti del mondo esterno e come rispondere alle sue aggressioni. Che gli eventi, infatti, siano fittiziamente costruiti e non un fedele reportage storico ne danno testimonianza le loro incongruenze interne. Nella prima parte si parla di una grande folla armata di spade e bastoni; Giovanni addirittura parla di una coorte, seicento uomini, rafforzata dai servi delle autorità religiose, probabilmente guardie del Tempi. Una quantità impressionante, circa 700/800 persone, per arrestare un singolo uomo e che certamente avrebbe creato del trambusto all'interno di una città stracolma di persone convenute da tutto l'impero per le festività della Pasqua; probabilmente una provocazione per quelle fazioni insurrezionaliste dal braccio armato, tanto temute dalle stesse autorità giudaiche (Mt 26,5; Mc 14,2). Se l'arresto, poi, era stato deciso di notte era certo perché si voleva che passasse inosservato e si evitassero dei clamori. Ma una simile enormità di persone, una sorta di esercito in armi, è difficile che passi inosservato. Matteo, poi, nella terza parte (v.55a) non parla più di una grande folla, ma di folle, quindi un assembramento innumerevole; e a queste, in stato di arresto e probabilmente sotto choc, in particolar modo se si pensa ai vv.37-39 o a Lc 22,44, Gesù tiene, senza batter ciglio, la sua arringa difensiva, che rivolge alle folle, ma viene pervicacemente taciuta davanti al Sinedrio e a Pilato, l'unico luogo idoneo alla sua difesa. Che dire, poi, della reazione di quel anonimo quanto sprovveduto e incosciente discepolo che, di fronte ad una folla immensa armata di tutto punto, si scaglia contro di essa con una spada e va a colpire il servo del sommo sacerdote? Di certo lo avrebbero arrestato, se non ucciso all'istante e probabilmente, per prevenire altre azioni simili, avrebbero arrestato anche il resto del gruppo dei discepoli. In un colpo solo avrebbero posto fine a tutti i sogni di gloria e a tutte le pretese di quel sedicente messia e del suo gruppo fanatico di sostenitori. Invece, non si dice nulla sulle conseguenze di quel gesto inconsulto.

Per l'insieme di queste considerazioni non è credibile né sostenibile la ricostruzione dei fatti così come presentata dagli evangelisti143. L'obiettivo, tuttavia, qui, già lo si è accennato sopra, non è quello di dare una testimonianza storica dei fatti, bensì fare della catechesi, rivisitando gli eventi e interpretandoli secondo una logica teologica e cristologica, che doveva sostenere la fragile comunità matteana nei confronti di un mondo aggressivo e denigratore della sua fede.

I vv.47-50 sono l'occasione per riflettere sull'incomprensibile gesto di Giuda. Chi era Giuda nei confronti di Gesù? Un traditore? E nei confronti dei suoi compagni? Un ladro? Un approfittatore, visto che teneva la cassa (Gv 12,6)? Si, certo, tutto questo. Ma come leggere il suo gesto all'interno del piano di salvezza? Come interpretare il suo tradimento? Come spiegare tanta ignominia e perversione spirituale e morale di fronte ai neofiti della fede? Come giustificare un simile scandalo?

Il v.47 si apre presentando i due personaggi tra loro contrapposti: Gesù e Giuda144 e quest'ultimo racchiuso all'interno della cornice di una folla minacciosa ed ostile, che ha le sue origini nelle avverse autorità religiose. Si noti come è la folla che proviene dai sommi sacerdoti e dagli anziani; è lei la loro longa manus; Giuda è soltanto associato a loro, funge da guida, da segnalatore, ma non ha parte al loro progetto criminoso (At 1,16b), che da tempo le autorità maturavano dentro di loro. E quando egli se ne accorge, ormai troppo tardi, viene preso dalla disperazione, si pente e finisce la sua vita tragicamente (At 1,18-19). Vi sono tre elementi che contraddistinguono Giuda: egli non è considerato qui come un traditore; egli infatti non tradisce, ma consegna Gesù nelle mani degli avversari; il verbo al quale Giuda è sempre associato è paraddwmi (paradídomi) e non proddwmi (prodídomi), il primo significa consegnare, il secondo tradire. Giuda, quindi, si muove all'interno del piano salvifico (At 1,16), che prevede che Gesù sia consegnato agli uomini, quale estremo atto di amore del Padre nei loro confronti (Gv 3,16). Giuda è colui che rende possibile tutto ciò. Certo, è un lavoro sporco, ma qualcuno lo doveva fare. Ma egli per questo non è un traditore, ma è chiamato a compiere la consegna di Gesù. Gesù, infatti, gli dirà: “Amico, per questo sei venuto”. Si noti il verbo che Matteo qui usa per dire “sei venuto”, “p£rei” (párei) e non il più ovvio e il più tecnico “œrchtai” (érchetai). Il primo, infatti, non significa soltanto venire, ma anche essere presente, esserci e, quindi, esistere; mentre il secondo è soltanto un verbo di moto, che significa venire, andare. A fronte dell'atto di consegna, quindi, Gesù si rivolge a Giuda, quasi a indicargli quale fosse la sua missione di vita: tu ci sei, tu esisti per questo, perché mi devi consegnare. Giuda, infatti, in questo contesto è trattato bene da Matteo: egli è definito come uno che ha un compito, quello di consegnare Gesù agli uomini ed è sempre qualificato come il “consegnatore” (Ð paradidoÚj, o paradidús; v.26,25.46.48; 27,3), mai come il traditore, nel quale caso avrebbe detto “Ð prodidoÚj” (o prodidús); Gesù lo chiama “amico”, senza alcuna ironia di sorta, rivelandogli subito il senso del suo esserci: per questo, perché mi devi consegnare; e, infine, egli è sempre definito “uno dei Dodici”; egli appartiene ancora a loro e verrà sostituito da Mattia soltanto dopo la sua tragica fine (At 1,25).

I vv.51-54 presentano la seconda scena: l'intervento armato di un discepolo, che costituisce l'occasione per sviluppare una triplice riflessione dal carattere sapienziale la prima, teologico la seconda e scritturistico la terza. Matteo è l'unico degli evangelisti che la compie in modo così dettagliato e sistematico. Giovanni si limiterà ad una breve battuta di ordine teologico, solo mezzo versetto (Gv 18,11b). Marco, invece, si limita riportare soltanto l'episodio (Mc14,47), mentre Luca accenna ad un Gesù che redarguisce debolmente: “Lasciate! Fino a questo punto” (Lc 22,51). Per i Sinottici l'autore del gesto è ignoto: uno dei presenti per Marco; uno dei discepoli per Matteo; uno che stava attorno a Gesù per Luca. Giovanni, l'unico, punta il dito contro Pietro, un gesto che ben gli si addice per la sua impulsività, ma mal si combina con il suo triplice rinnegamento (Gv 18,25-27). Già si è detto sopra dell'inverosomiglianza dell'episodio, che tutti gli evangelisti riportano, e il cui intento era probabilmente quello di colpire quella frangia zelota, che forse, in qualche modo, era presente nelle singole comunità cristiane o che forse faceva simpatizzanti anche tra le fila dei discepoli145. Il fatto, poi, che Matteo, Luca e Giovanni sentano la necessità di accompagnare all'episodio un qualche commento, sia pur accennato, o un una qualche riflessione più articolata, come in Matteo, significa che essi cercarono di motivare il rifiuto della violenza per affermare o difendere la diffusione del cristianesimo. Del resto tutti i vangeli sono stati scritti dopo il 70 e quello di Marco sul finire degli anni 60, e tutti, probabilmente, risentivano dei recenti effetti drammatici e devastanti della guerra giudaica (66-73); ma la voglia di rivalsa e le speranze messianiche per un regno tutto di Israele non si sopirono mai. Il fuoco della rivolta covò sotto per un altro sessantennio fino ad esplodere in una seconda guerra (132-135), che segnò la fine di Gerusalemme e con essa morì ogni speranza messianica. La prima riflessione (v.52), dal tono sapienziale, è sottesa dalla legge del taglione146 (Gen 9,6; Es 21,23-25; Sap 11,16): il sangue chiama sangue. Il perdono è la via migliore per la rappacificazione. Gesù ha offerto liberamente se stesso (Gv 10,18), si è lasciato consegnare e nessuno ha avuto potere su di lui (Gv 19,10-11), poiché su tutto questo dramma della sua passione si riflette soltanto il disegno del Padre. Non è il caso di usare la violenza per affermare Cristo. Tutto è sottoposto al disegno divino, tutto è condotto dalla mano provvidenziale del Padre, che dà forza e illumina i suoi discepoli. Bisogna, dunque, lasciare le logiche umane della violenza e conformarsi, invece, ai disegni del Padre. La seconda riflessione (v.53), di taglio teologico e cristologico insieme, fa entrare in causa l'onnipotenza del Padre, che è capace da solo di difendere i propri interessi e salvaguardare il suo disegno di salvezza. Tutto, dunque, è sottoposto a Lui e di certo egli non ha bisogno di spade o di forza umana per affermare se stesso, poiché, dirà Paolo, la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più potente degli uomini (1Cor 1,25). L'esibizione di dodici legioni di angeli esprime soltanto una quantità enorme di forza ed è sinonimo, quindi, di onnipotenza divina, di cui Gesù stesso è rivestito147. La terza riflessione (v.54) è di ordine scritturistico. Matteo nella sua opera è tutto impegnato a dimostrare come in Gesù si siano realizzate le Scritture e come egli sia venuto per darne compimento (5,17). Più di ogni altro scritto neotestamentario, infatti, Matteo infarcisce il suo racconto di citazioni scritturistiche. Per la chiesa primitiva tutto ciò che riguarda Gesù è stato già in qualche modo preannunciato nelle Scritture148. Lo ricorda anche Luca commentando come Gesù “... cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27); e similmente Giovanni, commentando lo smarrimento dei discepoli di fronte alla tomba vuota, dice “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti” (Gv 20,9). La Scrittura per la nascente Chiesa primitiva era il fondamento vivo e primario per la comprensione del mistero di Cristo, come gli Atti degli Apostoli testimoniano: “Seguendo la via di Anfipoli e Apollonia, giunsero a Tessalonica, dove c'era una sinagoga dei Giudei. Come era sua consuetudine Paolo vi andò e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture, spiegandole e dimostrando che il Cristo doveva morire e risuscitare dai morti; il Cristo, diceva, è quel Gesù che io vi annunzio” (At 17,1-3).

I vv.57-58 introducono l'ultima parte del cap.26. Essi sono una sorta di titoli, quasi un preambolo, che anticipa gli ultimi due racconti di questo capitolo, posti da Matteo in parallelo tra loro, così da farne scaturire una sorta di un confronto tra Gesù, il quale, davanti al Sinedrio dà la sua testimonianza, che si muove su di uno sfondo squisitamente teologico e cristologico; e Pietro, che, invece, rinnega il suo Maestro, prendendo le distanze dalla sua precedente professione di fede, anche questa a sfondo teologico e cristologico (v.16,16). Il v.57 si aggancia alla pericope vv.59-68; mentre il v.58 inerisce ai vv.69-75. Un escamotage narrativo, che serve all'autore per rendere più soft il voltar pagina, il passare da un contesto narrativo ad un altro completamente diverso. Con il v.54, infatti, si chiude la narrazione degli eventi del Getsemani e i vv.57-58 hanno il compito di traghettare il lettore in un nuovo contesto topografico: il palazzo di Caifa. Qui si svolgeranno i fatti preannunciati dai due versetti in questione.

I vv.59-68, preannunciati dal v.57, collocano il lettore nel bel mezzo del palazzo di Caifa, dove si sta svolgendo il processo a Gesù. Il racconto, al di là dei complessi aspetti storici e giuridici, che richiedono uno studio a parte, tradisce il duplice intento del suo autore: quello apologetico e quello teologico-cristologico. Le fasi essenziali del processo sono sostanzialmente rispettate149: a) vi è il Sinedrio al gran completo (vv.57b.59a); b) vi è l'escussione dei testi (vv.60-61); c) il dibattito (vv.62-64); d) la formulazione dell'accusa (v.65); d) il verdetto finale (v.66).

Il racconto si apre con un'annotazione dell'autore che rileva la pregiudiziale, che di fatto inficia l'intero processo. L'intento non è stabilire la verità dei fatti e, quindi, la colpevolezza o meno dell'imputato, ma soltanto farlo fuori. Di conseguenza l'intero processo, pur corretto nella sua forma, è viziato nella sostanza. Qualsiasi decisione, quindi, che ne uscirà sarà di per se stessa nulla e priva di efficacia. L'intento malevolo del Sinedrio è immediatamente messo in rilievo dall'escussione dei molti testi, definiti come falsi. Che cosa questi testi abbiano detto non ci è dato di sapere, ma Matteo, che qui segue Marco, ci riporta soltanto un'accusa, quella che è teologicamente significativa: “Posso distruggere il tempio di Dio e in tre giorni riedificarlo”; Marco riporterà il testo dell'accusa, ma lo farà in modo da lasciar tralucere il senso teologico dell'accusa: “Io distruggerò questo tempio fatto da mani d'uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d'uomo” (Mc 14,58); Giovanni, in un contesto completamente diverso, subito dopo l'episodio della purificazione del tempio (2,14-17), posto all'inizio del suo racconto, riporta sostanzialmente la stessa frase di Matteo (Gv 2,19), fatta seguire dalla sua interpretazione, che in buona sostanza ricalca quella di Marco, inclusa nell'accusa stessa: “Ma egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,21). L'allusione, qui, è chiaramente alla risurrezione di Gesù, che dopo tre giorni ricostruisce il suo corpo attraverso la potenza dello Spirito Santo (Rm 1,4). Matteo, tuttavia, a differenza di Marco e di Giovanni, (Luca non riporta il racconto dei due testimoni), nell'elaborare l'accusa, apparentemente non lascia trapelare nessuna allusione alla risurrezione; tuttavia, molto finemente, all'accusa della distruzione del tempio (v.61), fa seguire al v.62, parimenti a Marco, la reazione del sommo sacerdote e questa, ancor prima che verbale è gestuale: “e alzatosi”, “kaˆ ¢nast¦j” (kaì anastàs). Il verbo ¢nsthemi come gerw sono due verbi tecnici con cui la chiesa primitiva designava la risurrezione. Non è escluso, dunque, che il sollevarsi del corpo del sommo sacerdote, qui in segno di sdegno, alluda in qualche modo al significato di quel ricostruire il tempio, anche perché questa espressione, riportata da tre evangelisti, escluso come si è detto Luca, è sempre proposta come segno di risurrezione. Ma era necessario far capire alle proprie comunità che qui si parlava di risurrezione. E mentre Giovanni lo fa in modo esplicito e diretto usando il verbo teologico “risorgere” (gerw, 2,19.20) e commentando che il tempio era metafora del corpo di Gesù (Gv 2,19), Matteo e Marco usano il verbo tecnico proprio della costruzione edilizia “o„kodomÁsai”, che letteralmente significa “costruire una casa”, ma lasciano tuttavia intendere che qui si parla di risurrezione e non di ricostruzione edilizia, piazzando il verbo “¢nsthemi” a ridosso dell'accusa; e facendo mimare al sommo sacerdote il rialzarsi del corpo; Marco, inoltre, chiarisce che questa ricostruzione non è fatta da mani di uomo, rimandando il proprio lettore ad altre mani non umane.

All'accusa di distruzione del tempio, per la quale, secondo Sanhedrin, è prevista la pena di morte, il sommo sacerdote inveisce contro Gesù, cercando di provocarne una risposta; ma stranamente Gesù tace. Il verbo usato è posto all'imperfetto (™sièpa) per indicare un'azione persistente nel tempo, evidenziando in tal modo l'atteggiamento di Gesù: “Ma Gesù taceva” (“Ð d'Ihsoàj ™sièpa”, o d'Iesûs esiópa). Contrariamente al loquace Gesù giovanneo, che risponde con una certa spavalderia ed arroganza al sommo sacerdote e al servo che lo aveva colpito (Gv 18,20-23), il Gesù matteano si chiude in un persistente silenzio di fronte alle reiterate vessazione. Questo particolare silenzio di Gesù, con cui si apre il v.63, richiama da vicino il Servo di Jhwh, a cui qui è associato Gesù: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7).

Con il v.63b viene introdotta la richiesta del sommo sacerdote a Gesù. Essa possiede in se stessa una forte carica esorcistica con cui si chiama in causa Dio stesso; è quasi una sorta di esorcismo che il sommo sacerdote compie su Gesù in nome di Dio: “Ti scongiuro, per il Dio vivente”. Il verbo usato è “'Exork…zw se” (Exorkízo se), che significa scongiurare, esorcizzare, sottoporre a giuramento. La domanda del sommo sacerdote, dunque, costituisce quella cornice di solennità drammatica entro cui dovrà collocarsi la risposta di Gesù: Dio è stato chiamato a testimone ed Egli sarà giudice. Su Gesù, dunque, è stato posto dal sommo sacerdote il giudizio di Dio. La risposta di Gesù, pertanto, è gravata dalla minaccia di una condanna. Gesù è chiamato, dunque, a pronunciarsi sulla sua identità e la risposta che darà costituirà per lui un giudizio su se stesso. La domanda posta dal sommo sacerdote è se Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio. Una domanda, che riflette la cristologia matteana, in cui risuona la confessione di Pietro (16,16) e che tradisce la preoccupazione di Matteo per la sua comunità, che ha difficoltà di riconoscere nel Gesù crocifisso il Messia e la sua stessa divinità. Proprio nei capitoli della passione e morte (26-27) risuona con molta insistenza l'espressione “Figlio di Dio”, che compare quattro volte su nove complessive in tutto il vangelo matteano. Significativo è anche il fatto che egli, unico tra i Sinottici, elabori qui la formula “Figlio di Dio”, mentre Marco fa dire a Caifa “figlio del Benedetto”, caratteristica espressione con cui l'ebreo si rivolgeva e, ancor oggi, si rivolge a Dio. Luca, invece, limita la domanda del sommo sacerdote sulla sola identità messianica di Gesù: “Se tu sei il Cristo, diccelo” (Lc 22,67a). Probabilmente Luca riporta la domanda autentica che fu posta a Gesù. Infatti la presa in giro di Gesù, che segue immediatamente la sua dichiarazione di identità, non verte sulla figliolanza divina, bensì soltanto sul suo messianismo (26,67-68). Le autorità religiose, infatti, non si preoccupavano della sua figliolanza divina, ritenendola probabilmente una farneticazione; ma la sua pretesa messianica certamente poteva creare dei notevoli problemi sia a livello religioso che politico.

Il v.64 riporta la sconcertante risposta di Gesù. Egli non solo conferma quanto detto dal sommo sacerdote circa la sua identità messianica e divina, ma la completa, rilanciandola con due espressioni che richiamano la sua investitura regale, messianica e divina da parte di Dio stesso, presso il quale egli sarà assunto, avvolto nella pienezza della gloria divina: “[...] d'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo che siede alla destra della Potenza e viene sulle nubi del cielo”. Insomma un'apoteosi in piena regola, che egli para davanti allo sconcertato Caifa e che allude alle conseguenze della sua risurrezione. La risposta che Matteo pone qui sulle labbra di Gesù si richiama sia al Sal 110 sia a Dn 7,13 e va a completare i riconoscimenti dell'identità gesuana, che l'autore già aveva fatto proclamare alle folle osannanti, mentre Gesù entrava in Gerusalemme: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli! […] Questi è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea150 (21,9b.11). Gesù introduce l'annuncio della sua glorificazione con l'espressione: “d'ora innanzi vedrete”. Il verbo qui usato è Ñr£w (oráo), che nel linguaggio neotestamentario allude ad un vedere superiore, al vedere che è proprio della fede e che in qualche modo si aggancia al vedere rivelato; mentre il verbo al futuro (vedrete, Ôyesqe, ópsestze) proietta la nuova realtà Gesù, che avrà inizio “d'ora innanzi”, cioè dal momento della passione e morte, che Giovanni vede già come l'intronizzazione regale e divina di Gesù, nello spazio di Dio stesso. Vi è, dunque, qui la proclamazione dell'apertura dei tempi messianici ed escatologici, che la passione-morte-risurrezione di Gesù inaugura e nei quali la nuova comunità credente è già introdotta anche se non in modo pieno e definitivo; ma questa è una nuova realtà con cui ogni uomo “d'ora innanzi” è chiamato a misurarsi e alla quale egli deve dare la sua risposta esistenziale.

I vv.65-66 riguardano le reazioni sia del sommo sacerdote che del Sinedrio. Ancor prima di parlare Caifa si straccia le vesti, un gesto molto consueto presso gli ebrei151 per esprimere dolore, indignazione, rifiuto, scandalo, pentimento, lutto e simili stati d'animo; quasi una sorta di caricatura di ciò che si sta per dire. La testimonianza di Gesù è accolta come un atto di blasfemia152 poiché con essa egli si era posto alla pari di Dio. Questo supera ogni altra testimonianza poiché la confessione di Gesù ha come testimone privilegiato lo stesso Sinedrio, per questo il sommo sacerdote pone fine al dibattimento, affermando che non c'è bisogno di altra testimonianza. Al sollecito a formulare un verdetto, il Sinedrio risponde unanime che Gesù è passibile di morte, in conformità a quanto disposto da Lv 24,16a.

I vv.67-68 chiudono il racconto del processo con una scena di violenza nei confronti di Gesù. È verosimile che coloro che inveiscono non siano i sinedriti, bensì i servi del sommo sacerdote o le guardie del tempio, che lo tenevano in custodia durante il processo, come dice Luca in 22,63-65. La scena qui si svolge all'interno del Sinedrio stesso. Francamente lascia perplessi che in un luogo solenne e sacro come era il Sinedrio e alla presenza dei sinedriti si svolgessero scene di questa violenza; né sembra verosimile che un condannato sia abbandonato al ludibrio e alle violenze delle guardie solo per il fatto che è stato condannato. È molto probabile, invece, che Gesù, dopo la sentenza di condanna, venisse incarcerato in attesa di ulteriori decisioni, che vennero prese il giorno successivo (27,1). In questo punto è più credibile Luca, che narra della reclusione di Gesù nella casa del sommo sacerdote, dopo il suo arresto (Lc 22,54a), in attesa del processo che sarebbe avvenuto il giorno successivo (Lc 22,66). Nulla, comunque, lascia supporre una sorta di diritto di maltrattare, seduta stante, il condannato da parte delle guardie e, tanto meno, da parte dei giudici stessi. Gli accadimenti e gli intenti di questo episodio di maltrattamento sembrano essere più teologici che reali: da un lato, presentare Gesù come il sofferente Servo di Jhwh, che ha presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che gli strappavano la barba, senza sottrarre la faccia agli insulti e agli sputi (Is 50,6); dall'altro, giocando di ironia, far riconoscere a Israele, suo malgrado, l'identità di Gesù. Egli fu condannato dal Sinedrio perché si è dichiarato Messia e Figlio di Dio. Ma è proprio Israele, che, ora, in questo frangente, si rivolge a Gesù chiamandolo Cristo, cioè l'Unto di Dio, il Messia a cui è legato il suo essere profeta, e, quindi voce e strumento di Dio in mezzo al suo popolo. E tale, sia pur attraverso un gioco crudele, è riconosciuto davanti alla stessa assemblea del Sinedrio, l'organo supremo di Israele. La loro inconscia dichiarazione, pertanto, assume una valenza di solenne confessione. Significativo, inoltre, quell'imperativo esortativo con cui i servi si rivolgono a Gesù: “Prof»teuson ¹m‹n” (Proféteuson emîn). Esso può assumere diversi significati: il primo, per le circostanze, è corretto tradurre: “Profetizza a noi”; ma il verbo consente anche una diversa traduzione: “Sii a noi profeta”, come dire “rivelati a noi come profeta” o “Sii per noi profeta” o, più semplicemente, “Sii il nostro profeta”. Espressioni queste che suonano come una sorta d'invocazione. Si tratta, dunque, di una fine ironia, sullo stile di quella giovannea, il cui intento qui è far professare, sia pur implicitamente, la fede nel Gesù Messia proprio da quelli che la vorrebbero negare; quasi a dire che, alla fine dei giochi, tutti lo dovranno riconoscere come tale, poiché “A lui tutti i re si prostreranno, lo serviranno tutte le nazioni” (Sal 71,11).

Il cap.26 si chiude con i vv.69-75, che narrano del rinnegamento di Pietro. Un racconto emblematico, che si muove all'interno di una cornice pastorale, una sorta di avvertimento ai nuovi credenti, sottoposti a pressioni e a persecuzioni a causa della loro nuova fede (10,16-22; 24,9-12), a non rinnegare o tradire la scelta di vita (10,22b; 24,13). Da un punto di vista narrativo, l'episodio del rinnegamento di Pietro, infatti, non si combina bene con le logiche della passione e morte di Gesù; non aggiunge nulla al racconto della passione e se l'episodio venisse tolto il racconto filerebbe bene comunque. Ma il racconto c'è ed è incuneato proprio qui in modo significativo, all'interno di una cornice di testimonianze. Ed è proprio questa cornice che lascia supporre gli intenti pastorali del racconto. Da una parte, abbiamo Gesù, che dà la sua testimonianza e per questo ci rimette la vita; dall'altra, invece, abbiamo Pietro, che si lascia travolgere dalla sua fragilità e rinnega il suo Maestro, proprio lui, il prediletto di Gesù. Ma vicino alla fragilità di Pietro si sono associati anche gli altri: Giuda, che, abbandonato il suo Maestro, lo tradisce; altri, quelli più vicini a Gesù, non sanno vegliare con lui neppure un'ora; tutti, infine, di fronte alla durezza della prova, lo abbandonano e fuggono. Ma alla fine sarà sempre lui, il Risorto, che con la potenza della sua parola li ricostituirà nuovamente in lui. Giuda e Pietro, due figure di abbandono, la prima di completo e definitivo smarrimento; la seconda di ravvedimento. C'è spazio, dunque, anche per chi ha ceduto di fronte alla prova. Pietro, quindi, diventa uno spazio di speranza per chi ha sbagliato. Gesù, tuttavia, al di sopra di tutti, è posto come l'esempio a cui ogni credente deve ispirarsi: dare la testimonianza della propria identità con fermezza e senza tentennamenti davanti a tutti.

Con questo racconto Matteo chiude il ciclo di Pietro e lascia trasparire tutta la fragilità di quest'uomo, irruente, impetuoso, generoso, avventato e per questo molto fragile, perché il suo aderire a Gesù è fondato sul sentire umano e non sulla fede. Per questo egli non accetterà la figura di un Messia sofferente (16,22); per questo, messo alla prova, cede (14,27-33; 26,69-75). Tra lui e Gesù c'è sempre di mezzo tutta la sua debolezza umana. Lo ha dimostrato sulle metaforiche e minacciose acque di Tiberiade, che in qualche modo preludevano alla prova, a cui i discepoli sarebbero stati sottoposti con l'arresto e la morte di Gesù. Egli vuole raggiungere Gesù su queste acque tempestose, ma la pochezza della sua fede lo ha tradito ed è andato a fondo; ma non ne è stato travolto, perché egli si è rivolto a Gesù (14,30). Soltanto la fede in Gesù riesce a placare il tumulto delle acque e la violenza del vento (14,32); soltanto quando i discepoli lo riconoscono vero Figlio di Dio, tutto si placa, tutto acquista un suo senso, tutto appare in una dimensione diversa (14,33). Solo se si sta con Gesù cessa il tumulto della paura e si è pronti alla testimonianza.

In questo breve racconto, Matteo lascia intravvedere come il rinnegamento di Pietro non sia nato da un momento di paura, ma come esso affondi le sue radici nell'assenza di fede in Gesù. Pietro, infatti, è presentato come uno, che è ormai lontano da Gesù, come uno che ormai lo ha perduto. Il v.58, infatti, presenta un Pietro che segue Gesù, ma da lontano; al v.69 non è nel sinedrio con Gesù a condividerne la sorte, ma siede di fuori insieme agli altri, insieme a quelli che non conoscono Gesù; se ne sta fuori dalla triste vicenda, che ha travolto il suo Maestro, non ne vuole sapere; al v.71 viene presentato un Pietro, che, chiamato alla testimonianza, se ne fugge verso il portone d'uscita; e poi, al v.75 Pietro è completamente uscito di scena, non fa più parte dei seguaci del suo Maestro e non gli resta che piangere amaramente per il suo triste destino.

Anche il suo rinnegamento conosce un progressivo allontanamento da Gesù: dapprima nega semplicemente (v.70); poi, al v.72, rafforza il suo disconoscimento con un giuramento blasfemo, poiché viene in tal modo chiamato in causa Dio stesso a testimoniare la verità di quello che egli dice, ma in realtà è una menzogna; infine, impreca e giura nuovamente (v.74); ma quanto sia travolgente quest'ultima fase e da quale oscurità sia ormai avvolto Pietro, lo lascia intuire il verbo che sorregge l'imprecare e il giurare: incominciò. Questo dice come ormai la vita di Pietro abbia preso una svolta decisiva, che lo ha allontanato definitivamente dal suo Maestro. Infatti, se nei primi due disconoscimenti egli nega di essere mai stato con Gesù, nell'ultimo egli nega la sua identità stessa di discepolo, di seguace di Gesù, rinnega, in ultima analisi, se stesso: “Veramente anche tu sei uno di loro” (v.73). Il racconto del rinnegamento di Pietro ha una cadenza ternaria per indicare la gravità e la pienezza del suo tradimento. Il tre, infatti, dice la pienezza, la completezza di un determinato ciclo, poiché il tre scandisce l'inizio, il centro e la fine153. E con questo rinnegamento Pietro lascia tristemente il racconto matteano.


                                                                                                            Giovanni Lonardi



NOTE

1Mt 12,14; 16,21; 17,9.12b.22-23; 20,18-19; 21,45; 26,4; Lc 9,31

2Cfr. Lc 9,51-19,28.

3Cfr. Mt 16,21-23; 18,1; 20,20-24; Mc 9,34; Lc 9,46; 22,24;

4Cfr. Mt 1,21; 14,33; 16,16; 18,11; 27,54; Mc 1,1; 8,29; Lc 2,11.30; 9,20; 22,70; Gv 3,15.16.17.36; 4,42; 5,24 17,3; 20,31

5Mt 5,11; 10,17.23.38; 16,24; Mc 8,34; 13,9; Lc 9,23; 12,11; 21,12; Gv 15,20; 16,2.

6Cfr. Rm 3,24-25; 5,9-10; 6,3-11; 8,10-11; 1Cor 15; 2Cor 5,14-17;

7Cfr. Ef 1,1-14.20-23; Fil 2,5-11; Col 1,15-20

8Cfr. Fil 2,5-11; Ef 1,5-7; 1Cor 11,23-26; Rm 1,3-4; 6,5

9Per il titolo di “Figlio dell'uomo” cfr. 26,2.24.45.64; per “Cristo” cfr. 26,63.68; 27,17.22; per “Figlio di Dio” cfr. 26,63; 27,40.43.54; per “Re” cfr. 27,11.29.37; per “Pastore” cfr. 26,31.

10I personaggi che ruotano attorno a Gesù in senso favorevole sono i discepoli o gruppo dei Dodici; Simone il lebbroso, colui che ospita Gesù a casa sua (26,6); la donna che versa la mirra sul capo di Gesù (26,7); il personaggio anonimo (“un tale”) che offre a Gesù e ai suoi la sala dove celebrare la Pasqua (26,18); Pietro, che giura fedeltà fino alla morte (26,33), ma non riesce a vegliare con Gesù (26,40), lo segue da lontano (26,58) e alla prova dei fatti lo rinnega (26,69-75); Pilato, che ha comunque cercato di salvare Gesù (At 3,13c), benché la sua reazione sia stata troppo debole, incerta e temendo tumulti cede alle pressanti richieste (27,11-25); la moglie di Pilato, che, illuminata da un sogno, sollecita il marito a non dar ascolto alle autorità ebraiche (27,19); Simone di Cirene, benché costretto, porta comunque la croce di Gesù, sollevandolo sia pur momentaneamente dal suo dolore (27,32); il centurione e il corpo di guardia con lui riconoscono la divinità di Gesù e ne danno apertamente testimonianza (27,54); Giuseppe d'Arimatea, discepolo di Gesù, dà degna sepoltura al suo Maestro (27,59-60); il gruppo delle donne, tra le quali sono nominate Maria Maddalena, Maria, madre di Giacomo e Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo (27,55-56.61). Esse sono una mirabile presenza silenziosa, esempio di un discepolato dedito al servizio e al sostentamento di Gesù e del suo Gruppo.

11I personaggi che si muovono in senso contrario a Gesù sono il gruppo dei Sommi sacerdoti, degli Anziani, degli Scribi e dei Farisei, benché questi ultimi non abbiano mai partecipato direttamente al linciaggio di Gesù, ma compaiono sulla scena solo dopo la sua morte (27,62); Giuda conosciuto come il traditore (26,25;27,3); la folla armata di spade e bastoni venuta per arrestare Gesù (26,47.55); il gruppo dei numerosi falsi testimoni, che non riescono a formulare nessuna accusa idonea a far condannare Gesù (26,59-60); i due testimoni che campano un'accusa, quella della distruzione del Tempio e della sua riedificazione, ma che non prova nulla e, di fatto, non servirà a nulla (26,60b-61); le due serve e i presenti nel cortile del sommo sacerdote, che accusano Pietro di essere parte del gruppo fedele a Gesù (26,69.71.73); Barabba, che Marco accusa di rivolta e di omicidio (Mc 15,7), mentre Giovanni lo definisce un brigante (Gv 18,40). Esso è servito come personaggio da barattare con Gesù; le folle, lì presenti, che assistono anonimamente, si lasciano persuadere dalle autorità giudaiche a scegliere Barabba al posto di Gesù (27,20). Di fatto esse sono usate e si lasciano usare, divenendo un elemento di forza determinante; la soldataglia di Pilato, che esegue la condanna (27,26b-27) non senza prima di averlo dileggiato e percosso duramente (27,28-31); i due ladroni, compagni di sventura di Gesù, si uniscono al gruppo dei dileggiatori e offendono anche loro Gesù (27,38.44); per Luca, invece, soltanto uno si era schierato contro Gesù (Lc 23,39), mentre l'altro lo riprendeva (Lc 23,40-41) e chiedeva a Gesù di essere associato a lui nel suo Regno (Lc 23,42). Il gruppo dei beffeggiatori ai piedi della croce (27,40.41-43). Le guardie dei sommi sacerdoti, preposte a custodia della tomba di Gesù per prevenire il furto del suo corpo da parte dei suoi discepoli (27,66)

12Paolo, nella sua Lettera ai ai Romani (9-11), sviluppa una sua particolare riflessione sui destini di salvezza di Israele in rapporto al mondo pagano. Egli non si rassegna all'idea che il popolo eletto, con un passato di predilezione divina, sia escluso dal ciclo della salvezza, mentre i pagani vi sono inseriti per fede: Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge.” (Rm 9,30-31). Ma Paolo cercherà di giustificare questo stato di cose, per lui dolorosamente incomprensibile (Rm 9,2), e scorgerà in esso un misterioso disegno divino, che alla fine saprà recuperare anche il rifiuto di Israele: “Ora io domando: Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale!” (Rm 11,11-12). E arriverà, dunque, a concludere: “Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe” (Rm 11,25-26).

13Cfr. Parte Introduttiva, al titolo “Luogo e data di composizione”. In particolare cfr. le pag. 14-16.

14 La collocazione così alta della redazione finale è favorita dagli stessi contenuti dei racconti, che intervallano i cinque grandi discorsi. Il contenuto di questi racconti, infatti, presenta una situazione della comunità matteana molto evoluta e una situazione ecclesiale già molto istituzionalizzata, non compatibile con le prime comunità credenti, sorte nel primo secolo. Vi si riscontra inoltre un tipo di linguaggio e di formule liturgiche che non si trovano negli altri sinottici e che presuppongono una elaborazione teologica e liturgica successiva al primo secolo. Quando, poi, Papia, vissuto tra il 70 e il 130 circa, parla di loghia, riferendosi alla raccolta matteana dei detti e parabole di Gesù, questa raccolta doveva essere già molto diffusa e conosciuta tra le comunità, ma non forse ancora ben conosciuta era l'opera completa di Matteo, quella che è pervenuta a noi, visto che Papia non ne parla, mentre riporta come opera di Matteo solotanto i loghia.

15Cfr. la voce “Tre” in Manfred Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, op. cit.

16Mt 16,21; 17,12b.22-23; 20,18-19

17Cfr. Mt 12,40; 17,9.12.22; 20,18.28; 26,24.45

18Già più volte si è detto nel corso della presente opera come nel linguaggio biblico neotestamentario, il verbo al passivo esprime l'agire di Dio.

19Cfr. Mt 18,1; 20,20-24; Mc 9,34.38; Lc 9,46; 22,24

20Cfr. Mt 16,21-22; 17,22-23; 20,18-24

21Cfr. G. Flavio, Antichità Giudaiche, XVII, 285

22Secondo Dt 21,22-23 sul condannato a morte, appeso ad un albero, pesa la maledizione di Dio: “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l'avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità”. In ebraico uno stesso termine designa sia l'albero che il patibolo in legno. Da qui l'applicazione di questo passo alla crocifissione di Gesù e alla sua sepoltura, fatta il giorno stesso della morte. In tal senso cfr. Gal 3,13; Gv 19,31; At 5,30; 10,39b; 1Pt 2,24.

23Il governatore Grato, ritiratosi a Roma, venne sostituito nel 26 da Ponzio Pilato, che tenne la carica di governatore fino all'anno 36 d.C. (Cfr. Ant. Giud. XVIII, 35 e la voce “Pilato” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

24L'arco di tempo che separa la fine della carica di Anna (15 d.C.), deposto dal governatore romano Valerio Grato, e l'inizio di quella di Caifa (18 d.C.) è coperta dai sommi sacerdoti Ismaele, figlio di Fabi, Eleazaro, figlio di Anna, e Simone, figlio di Camitho. Tutti tre questi sommi sacerdoti, tutti deposti dal governatore Grato, durarono in carica un anno ciascuno fino alla nomina di Caifa, la cui carica durò fino al 36 d.C. (Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XVIII, 35).

25Cfr. R. Fabris, Matteo, pag.534 op. cit.

26La preghiera, sorta intorno al VII sec.,erede di antiche formule simili, già esistenti molti secoli prima, probabilmente nate in risposta alla dodicesima maledizione (Birkat ha minim), che gli ebrei formularono intorno all'anno 80 d.C. contro il nascente cristianesimo, fu soppressa nel 1959 da Giovanni XXIII e poi scomparve definitivamente con la riforma liturgica postconciliare. Nel 1970 venne sostituita da Paolo VI con la seguente formula: “Il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell'amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza. Dio Onnipotente ed eterno, che hai fatto le tue promesse ad Abramo e alla sua discendenza, ascolta la preghiera della tua Chiesa, perché il popolo primogenito della tua alleanza possa giungere alla pienezza della Redenzione”. Il testo della precedente preghiera, certamente meno aperta al dialogo, era il seguente: “Preghiamo anche per i perfidi Giudei, affinché Dio e Signore nostro tolga il velo dai loro cuori e anch'essi riconoscano Gesù Cristo, nostro Signore. O Dio, onnipotente ed eterno, che non respingi dalla tua misericordia neppure la perfidia dei Giudei, esaudisci le nostre preghiere, che ti presentiamo per l'accecamento di quel popolo, affinché conosciuta la luce della tua verità, che è Cristo, siano liberati dalle loro tenebre” .

27Le Lettere di Paolo, quelle a lui attribuite, furono scritte tutte tra il 50 e il 58 d.C. di gran lunga molto prima che nascesse il primo vangelo, quello di Marco, datato intorno all'anno 69 e, comunque, prima del 70 d.C.

28Cfr. 2Cor 11,4-5..22-23; 12,11; Gal 1,6-9; 3,1.

29Cfr. Mt 12,1-8.10-12; Mc 2,23-28; 3,1-5; Lc 6,1-5.6-10; 13,10-14; 14,1-4; Gv 5,10-11; 7,23; 9,14.16;

30Cfr. Mt 9,14-15; Mc 2,18-19; Lc 5,33-34;

31Cfr. Mt 15,1-2.11.20; 23,25; Mc 7,2-5.15; Lc 11,39-41;

32Cfr. Mt 7,29; 23; Mc 1,22.27; Lc 4,32;

33Cfr. Mt 16,20; 22,42; 23,10; 26,63-64; Mc 14,61-62; 22,67-70; 23,2; Gv 10,24-25;

34Cfr. Mt 26,63-64; Mc 14,62; Lc 22,70; Gv 5,18; 8,28; 10,33.36; 19,7;

35Cfr. Mt 15,9; Mc 7,7.

36Cfr. Mt 9,6; 13,41-43;16,27.28; 19,28; 24,27.30; 25,31; 26,64; Mc 2,10; 13,26; 14,62; Lc17,24; 21,27; 22,69; Gv 5,27; Gv 9,39;

37Mt 5, 17-18.21-48;

38Mt 19,3-9; Lc 16,18;

39Cfr. Gv 8,3-11;

40Cfr. Mt 9,9-13; 18,11; Mc 2,17; Lc 5,32; 15,1-2.11-32; 18,10-14; 19,10;

41Cfr. Lc 7,37-48;

42Cfr. Mt 21,31-32;

43Cfr. Mt 26,61; Mc 14,58; Gv 2,19

44Cfr. Gv 4,27;

45Cfr. Mt 15,17;16,9.11; 19,11; Mc 4,13; 6,52; 7,18; 8,21; 9,32; Lc 2,50; 9,45; 18,34; Gv 8,27.43; 10,6; 12,16; 16,18;

46Cfr. Gv 6,51-56

47Cfr. Mt 8,1.18; 13,2; 14,13.14; 15,30; 20,29; 21,8; Mc 2,13; 3,8-9; 3,20; 4,1; 5,24; Lc 5,2.19; 6,17;

48Cfr. Mt 9,8.33; 12,23; 15,31; 22,33; Mc 1,22; 2,12; 5,20; 6,2.51; 9,15; 12,37b; 6,19; Lc 5,15.26; 8,25.40; 9,43; 11,14.27; 13,17; Gv 7,15.21.31;

49Cfr. Gv 6,15.

50Cfr. Mt 21,26.45; Mc 11,18.32; 12,12; Lc 20,19; 22,2;

51Sulla questione cfr. “Il racconto di Matteo” al titolo “Maria, donna di fede?”

52Cfr. Mc 3,21.31; Lc 2,19.50-51; Gv 7,5;

53Cfr. Gv 6,60.66

54Cfr. Mt 26,47-49; 26,56b.69-75; Lc 24,21; 20,10.

55Cfr. Mt 28,17b; Lc 24,11.36-38;

56 L'amministrazione di Pilato fu segnata da diversi episodi, che lo videro protagonista di imprudenze, provocazioni, crudeli e spesso cruenti repressioni, che Flavio Giuseppe ci ha testimoniato nelle sue opere "Antichità Giudaiche" e "Guerra Giudaica". Egli ricorda l'episodio dei "ritratti raffiguranti l'imperatore", introdotti nottetempo in Gerusalemme. Il fatto provocò una forte contestazione da parte dei giudei, durata cinque giorni e che poco mancò si concludesse in un bagno di sangue, evitato per la fierezza degli stessi giudei, mostratisi pronti a morire pur di ottenere il proprio riscatto. Pilato, alla fine, cedette e ritirò le immagini profanatrici. L'episodio successivo narra di Pilato che per finanziare la costruzione di un acquedotto prelevò denaro dal tesoro del tempio, provocando una rivolta dei giudei. Pilato diede ordine ai suoi soldati di mimetizzarsi tra la folla tumultuante e, ad un segnale convenuto, cominciarono a bastonare i rivoltosi, provocando un parapiglia generale con molti morti al seguito. Ad onor del vero, però, va detto che quell'acquedotto serviva prevalentemente a portare l'acqua al Tempio, particolare, questo, che viene taciuto da Flavio Giuseppe. Altro episodio, riportatoci da Filone, fu l'affissione di scudi nel palazzo di Erode, in Gerusalemme. Su questi  Pilato aveva fatto incidere il suo nome e quello dell'imperatore, con riferimento alla sua divinità, provocando uno scandalo tra i giudei. Lo stesso Luca nel suo vangelo ci riporta, molto sinteticamente, un episodio sulla crudeltà di Pilato, sconosciuto alle fonti profane: "In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici". Un tale comportamento denota da parte di Pilato non solo crudeltà nei confronti di persone civili inermi, ma anche uno spregio nei confronti del culto ebraico e una profanazione del Tempio stesso. Un ultimo episodio, avvenuto nel 35, riportatoci sempre da Giuseppe Flavio e che costò, questa volta, il posto a Pilato, fu il massacro dei Samaritani sul monte Garizim. I Samaritani denunciarono i fatti al legato di Siria Vitellio, da cui Pilato dipendeva. Vitellio, per non inimicarsi i Samaritani, ritenuti fedeli amici dei romani, destituì Pilato e lo inviò a Roma per rendere conto direttamente a Tiberio del suo operato. Al suo posto venne messo Marcello, amico fidato di Vitellio. - Per gli episodi qui riportati cfr. Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, Libro II, §§ 169-174. 175-177; Filone d'Alessandria, Legatio ad Gaium, §§ 299-305; Lc 13,1.

57Cfr. Mt 21,8-11; Mc 11,7-10; Lc 19-37-38; Gv 12,12-13.

58Cfr. Mt 27,18; Mc 15,10

59Con questa presentazione del Gesù storico non ho inteso esaurirne lo studio. Qui mi sono limitato a qualche accenno molto superficiale e incompleto, finalizzato a dare soltanto una pallida idea di chi potesse essere Gesù, spogliato dal suo rivestimento teologico e dottrinale, imbastito in circa venti secoli di fede; e quali problemi potessero avere, per contro, le autorità giudaiche del tempo nei suoi confronti. Del resto se Gesù è andato a finire sulla croce, con il benestare di Roma, non fu per semplici questioni di gelosia o di invidia, ma perché, dal punto di vista delle autorità giudaiche, dava dei seri problemi sia a livello religioso che sociale.

60Cfr. Mt 6,5-6; 14,23; 26,36.39; Mc 1,35; 6,46; 14,32.35; Lc 5,16; 9,18.28; 11,1;

61Per un'ampia trattazione sulla figura di Giuda cfr. il commento al cap. 10 della presente opera.

62Cfr. Gen 6,11-13; Rm 8,19-23.

63Cfr Mt 26,6-13; Mc 14,3-9; Lc 7,36-48; Gv 12,1-11.

64Cfr. nota 1 del commento al cap.21 della presente opera.

65L'espressione “sitz im leben”, letteralmente “il posto nella vita”, è tecnica e indica il contesto storico entro cui si è generata una determinata unità letteraria del vangelo. La Formgeschichte, o storia delle forme, è un metodo di studio sulla formazione dei vangeli, sorto intorno al 1920 e i cui rappresentanti furono Schmidt, Dibelius, Bultmann, Bertram, Albertz, ritiene che all'origine dei vangeli ci fossero numerose unità letterarie, piccoli racconti su Gesù, creati e utilizzati dalle varie comunità credenti per le loro esigenze cultuali, liturgiche, catechistiche, apologetiche, polemiche e missionarie in genere. Queste unità letterarie vennero in tempi successivi raccolte dagli evangelisti e riordinate assieme secondo una loro teologia e una loro comprensione del mistero Gesù.

66In merito alle difficoltà che la comunità matteana aveva nel riconoscere e accettare Gesù come messia sofferente e come Figlio di Dio e Dio lui stesso, si cfr. i capp. 16 e 17 della presente opera.

67Cfr. il termine “casa” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia e in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici. Tutte le opere citate.

68Il nome Simone, che è una forma tardiva del nome Simeone, viene fatto derivare dal verbo “šāma' ”, ascoltare. Cfr. le voci Simeone e Simone in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

69Con il termine lebbra nella Bibbia si ricomprendevano varie malattie della pelle e non solo la lebbra propriamente detta. Il lebbroso era sempre considerato impuro e non poteva abitare in luoghi abitati. Il Levitico stabilisce le norme comportamentali del lebbroso: “Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento” (Lv 13,45). - Cfr. anche il termine “Lebbra” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, op. cit.

70Cfr. R. Fabris, Matteo, pag.536

71Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, pag. 689 e R. Fabris, Matteo, pag.536; opp. citt.- Cfr. anche Sal 22,5; 91,11; Qo 9,8.

72In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo, pag.536; op. cit.

73Il termine messia deriva dall'ebraico mashiach, che significa l'unto. Il sostantivo verbale venne poi tradotto letteralmente in greco dalla LXX con CristÒj.

74Nell'antichità l'unzione del capo aveva un particolare significato nella consacrazione sacerdotale e in quella regale. In tal senso cfr. 1Sam 10,1; 2Re 9,6; Sal 44,8; Es 29,7; 30,22-23; Lv 8,12; 21,10; Sal 132,2.

75Cfr. Es 23,6; Lv 19,10; 23,22; Dt 15,11; 24,12.15; Cfr. anche Sal 33,7; 68,34; 71,4.12; 81,3

76Cfr. R. Fabris, Matteo, pag 540; op. cit.

77Al di là degli aspetti metaforici e simbolici di questi tre versetti, il preparare la pasqua comportava una serie di adempimenti rituali. Già al 10 di Nisan ogni famiglia o gruppo di 12-15 persone doveva procurarsi un agnello senza difetto, maschio e nato nell'anno. Esso doveva essere immolato nel Tempio tra le 15,00 e le 17,00 del 13 di Nisan e il suo sangue doveva tingere gli stipiti e l'architrave delle porte (Es 12,3-11). Si doveva, poi, procurare una provvista di pane azzimo, di vino rosso, della marmellata, delle erbe amare, del dolce, dell'acqua e l'addobbo festivo per adornare la sala. - Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, pag. 222; op. cit.

78Sul tema della Pasqua e degli Azzimi cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento; e A. R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia. Tutte le opere citate.

79Cfr. Mt 26,17; Mc 14,1.12; Lc 22,1.7-

80Non deve stupire l'affermazione di Luca. Egli, infatti, nel suo vangelo commette molte imprecisioni dando da vedere di non conoscere bene la Palestina, in cui, probabilmente non c'è mai stato; mostra di non capire bene certe espressioni ebraiche o regole grammaticali proprie della lingua; ignora il rituale del Tempio di Gerusalemme, mentre ha una certa familiarità con la sinagoga e ha una discreta conoscenza delle pratiche giudaiche, ma non si interessa dei problemi della Legge, come quello della purità. Nell'insieme dà l'idea di essere un cristiano proveniente dal paganesimo, un ellenista colto, affascinato dal Dio di Israele, forse un timorato di Dio, come ne esistevano tanti all'epoca, che frequentavano le sinagoghe della diaspora, prima di incontrare il Vangelo. Sul tema cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico, Città Nuova Editrice, Roma – III edizione 2001. Tuttavia va detto che anche Giuseppe Flavio, probabilmente adeguandosi ad un modo popolare di esprimersi molto diffuso, chiama la festa degli Azzimi con il termine Pasqua, anche se egli altrove dà a vedere di conoscerne bene la differenza. - In tal senso cfr. Antichità Giudaiche, Libro X,70; XIV, 21; XVIII, 29.

81Il termine Pasqua è detta in ebraico pesah, che esattamente non si capisce bene cosa significhi. La Bibbia la mette in relazione alla radice verbale psh, che significa zoppicare, saltare (2Sam 4,4; 1Re 18,21). Forse vi è l'allusione al fatto che Jhwh ha “saltato” le case con gli stipiti tinti di sangue, dove si stava celebrando la Pasqua (Es 12,13.23.27);.

82La “festa delle Settimane” o Shavuot, è una festa che dura sette settimane dal giorno dopo la Pasqua, durante le quali si ringrazia il Signore per i doni della terra. Festa eminentemente agricola, quello delle “sette settimane” era il tempo della mietitura per eccellenza: iniziava con la mietitura dell'orzo e terminava con quella del grano. La festività veniva celebrata all'ultimo giorno delle sette settimane ed era conosciuta anche come la festa della Mietitura. Gli ebrei di lingua greca chiamarono questo tempo Pentecoste, cioè la festa dei cinquanta giorni, comprendendo anche il giorno della Pasqua. Shavuot, assieme alle feste di Pasqua (Pesach) e delle Capanne (Sukkot) erano e sono le tre feste principali ebraiche, le quali prevedevano il pellegrinaggio a Gerusalemme.

83Il termine Abib, o mese delle spighe, era così denominato prima della deportazione di Israele a Babilonia (597-538 a.C.). Successivamente, risentendo della lingua babilonese, venne chiamato Nisan.

84Cfr. Es 13,3-8

85Cfr. Mt 26,17; Mc 14,12; Lc 22,7

86Come si è già detto il giorno per gli ebrei iniziava al tramonto, intorno alle 18,00 circa, e terminava alla sera del giorno successivo.

87Cfr. Mc 14,12; Lc 22,7.

88Il mese di Abib o mese delle spighe, dopo l'esilio babilonese (597-538 a.C.) venne chiamato con espressione babilonese, mese di Nisan.

89Con la riforma religiosa di Giosia (621 a.C.), che aveva centralizzato il culto della Pasqua a Gerusalemme, trasformando la Pasqua in una festa di pellegrinaggio, l'immolazione degli agnelli pasquali non avveniva più presso l'abitazione privata, ma presso il Tempio di Gerusalemme. Questo portò ad un superlavoro per i sacerdoti e i leviti, per cui non si poté più contenere l'immolazione sul far del tramonto (15,00-17,00), ma si dovettero ampliare i tempi a partire dalla tarda mattinata della vigilia pasquale e fino verso la sera, intorno alle 18,00. Giovanni, ne farà un vago riferimento in 19,14.

90Cfr. Lc 22,19; 1Cor 11,24.25

91 Il compito dell'esegeta è quello di fare da ponte tra l'oggi dell'uomo e l'ieri di Gesù. Sono estranee all'esegeta ogni teologia e ogni dottrina. Il suo compito è quello di creare le condizioni, per quanto possibili oggettive, per consentire ad ogni teologia e ad ogni dottrina di potersi radicare con sicurezza.

92Cfr. Rm 10,14-15.17; Ef 1,13-14.

93Cfr. la costituzione conciliare sulla sacra liturgia “Sacrosantum Concilium” al §10.

94Cfr. Mt 26,2; 26,17.18; 27,15; Mc 14,1.12.14.16; Lc 22,1.7.8.11.13.15;

95Cfr. Gv 13,1-2.4.12

96Cfr. Gv 13,1a; 18,28.39; 19,14

97Cfr. Col 2,16-17; Eb 8,5; 9,24; 10,1.

98Cfr. Ef 2,10-18; Rm 10,12-13; Gal 3,26-28; Col 3,11; At 10,34-35.

99L'età per essere considerati religiosamente adulti era stata fissata in 13 anni di età per i ragazzi e in 12 per le ragazze. Cfr. Günter Stemberger, La religione ebraica, Edizioni Dehoniane , Bologna 1998

100I verbi greci usati per indicare la posizione sono ¢napptw (Lc 22,14), che significa coricarsi, adagiarsi e “¢n£keimai” (Mt 26,20; Mc 14,18), che significa stare sdraiati, giacere a mensa, appoggiarsi. Quest'ultimo significato potrebbe alludere allo stare sdraiati, appoggiando il gomito sinistro sul cuscino.

101Il piatto di cui qui si parla è probabilmente il Ke’arà, cioè il piatto o vassoio del Seder, che contiene, divisi tra loro e ben disposti nel piatto, gli elementi essenziali per la celebrazione della Pasqua. Si tratta di tre focacce di pane non lievitato sovrapposte (Matzòt), che richiamano l tre classi di cui era composto Israele: i sacerdoti, i leviti e il popolo; delle erbe amare (Maror); una zampa di agnello arrostita sul fuoco (Zeroà); un uovo sodo (Betzà); della verdura, prezzemolo o gambi di sedano (Karpas); un impasto di frutta, in ricordo della malta adoperata dagli schiavi in Egitto per fare i mattoni. Il tutto è cosparso di cannella e cinnamomo in ricordo della paglia usata per produrre i mattoni (Charosset);

102Luca qui va per conto suo e fa una narrazione leggermente diversa e, a mio avviso, più precisa. Egli, infatti, non parla di mangiare, bensì di un calice su cui viene detta una benedizione di ringraziamento (Lc 22,17). Si tratta, probabilmente del primo calice di vino con cui si apre il rituale della cena, di cui al punto 1) del Seder. Parlerà, poi, di una seconda coppa, presa dopo aver cenato (Lc 22,20), che corrisponde al punto 12) del Seder. Ed è questa la coppa di cui si parla anche in Mt e Mc.

103Cfr. Is 65,17.22; 2Pt 3,13; Ap 21,1;

104Cfr. Rm 1,16; 1Cor 1,18.24; 2,5.

105Cfr. Gal 2,20; 6,15; 2Cor 5,17

106Cfr. Mt 11,14; 16,14; 17,10-12

107Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, pagg. 406-407. op. cit.

108Cfr. nota 1 del cap.21 della presente opera.

109Per il significato di questo gesto cfr. il punto 4) del confronto tra Ultima Cena e Seder.

110Nella cultura giudaica il corpo non dice soltanto la parte fisica e visibile dell'uomo, contrapposto all'anima, parte invisibile, ma indica l'interezza della persona nel suo relazionarsi con gli altri e con il mondo. Per l'ebreo, infatti, l'uomo è un corpo spiritualizzato e uno spirito incarnato. Corpo, quindi, è sinonimo di persona.

111Sul tema cfr. Franz-Josef Nocke, Dottrina dei Sacramenti, Editrice Queriniana, Brescia, 2000; e G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, III edizione, Roma 2001.

112Per il significato di questo gesto cfr. il punto 5) del confronto tra Ultima Cena e Seder.

113Cfr. Gen 15,5; 22,17; 26,4; 32,13.

114Il termine ƒlast»rion indicava il coperchio d'oro dell'arca dell'alleanza, su cui erano posti due cherubini (Es 25,17-20). Su questo coperchio, definito propiziatorio e luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo (Lv 16,2), veniva asperso del sangue nella festa annuale dell'espiazione (Lv 16,1-16). Nel corso di questa cerimonia i peccati di Israele venivano perdonati. Paolo, dunque, vede nel sacrificio di Cristo lo strumento di espiazione per i peccati dell'uomo, grazie al quale l'uomo è stato messo nuovamente nella giusta relazione con Dio.

115Cfr. Lc 22,19b; 1 Cor 11,25c.-

116Nel linguaggio semitico del termine il “per molti” ha il significato di “insieme degli uomini”. Similmente cfr. Is 53,12. Si è, tuttavia, qui preferito precisare come la redenzione, pur nel suo carattere di universalità, ha tuttavia il suo effetto soltanto su chi l'accoglie nella sincerità del cuore, dando qui all'espressione “per molti” un significato restrittivo e condizionale.

117Cfr. Lc 22,20b; 1Cor 11,25b

118Cfr. Eb 9,12; 10,10.12; 1Pt 3,18.

119Significativa, in tal senso, è la proclamazione di fede che l'assemblea compie a conclusione del rito della consacrazione: “Annunciamo, Signore, la tua morte; proclamiamo la tua risurrezione nell'attesa della tua venuta”.

120Cfr. il commento al punto 13 del Seder e ai punti 6 e 7 del raffronto Seder-Ultima Cena.

121Cfr. Lc 21,37; 22,39; Gv 18,2

122Cfr. Annie Jaubert, assistente alla Sorbona, nel suo libro La Date de la Cène, Editions Gabalda, Paris 1957

123Cfr. Mt 26,17; Mc 14,12; Lc 22,7

124Cfr. Mt 26,20; Mc 14,17.

125Il termine Seder significa ordinamento ed dettava l'ordine con cui si svolgeva la cena pasquale, che era scandita in 14 momenti.

126Cfr. Mt 26,20; Mc 14,12.18

127Cfr. Mt 26,47-68; Mc 14,43-65; Lc 22,47-64

128Cfr. Mt 27,1-31; Mc 15,1-20; Lc 22,66-23,25.

129Cfr. Mt 27,32-60; Mc 15,21-46; Lc 23,26-55.

130Cfr. Mt 27,62-66.

131Cfr. Es 12,16.

132Cfr. Es 10,9; 12,14; Lv 23,2-8.37.44;

133Cfr. Mt 27,62-66

134Similmente cfr. anche At 8,32; 1Pt 1,19.

135Ho preferito dire “parziale discordanza”, poiché tutti quattro gli evangelisti concordano che Gesù morì alle tre del pomeriggio di venerdì, giorno della parasceve o preparazione al sabato. Cfr. Mt 27,45-46.62; Mc 15,33-34.42; Lc 23,44-46.54; Gv 19,14.31.-

136Circa le tentazioni di Gesù nel deserto cfr. il commento ai capp. 3-5 della presente opera, vv. 4,1-11.

137Cfr. Mt 5,10-12; 10,16-25

138L'espressione che qui Paolo usa per indicare la spogliazione di Dio è “˜autÕn ™kšnwsen” (eautón ekénosen), che significa “svuotò se stesso”.

139Cfr. Rm 13,11-14; 1Cor 16,13; Gal 6,1; Ef 5,15; 6,18; Col 4,2; 1Ts 5,6; 1Tm4,16; 2Tm 4,5; Eb 12,12-16; 1Pt 1,13; Ap 3,2; 16,15. - Cfr. anche la voce “Vigilare, Vegliare” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

140Cfr. il commento al cap. 9 della presente opera.

141L'avverbio compare in 26,45.46.47.51

142Soltanto Luca, anch'egli abile narratore che vede nell'oggi della storia l'attuarsi della salvezza, si avvicina a Matteo, usando l'avverbio “„doÝ” per 55 volte. Marco si limita a 7 volte e Giovanni non supera le 4 volte.

143Sull'artificiosità della costruzione delle tre scene cfr. R. Fabris, Matteo, pag. 550.

144Sulla figura di Giuda cfr. il commento al cap.10 della presente opera, pagg. 14-15.

145Cfr. R. Fabris, Matteo, pagg 551-552. - op.cit.

146Sulla questione della legge de taglione cfr. il commento ai vv.5,38-48 della presente opera.

147Cfr. Mt 9,8; 11,27; 28,18.

148Cfr. At 1,16; 17,2-3;

149Da un'attenta lettura dei quattro vangeli si ricava la sensazione che quello condotto davanti al Sinedrio più che di un vero e proprio processo in piena regola, la quale cosa presterebbe il fianco a numerose critiche, si tratti di una sorta di indagine preliminare, finalizzata a ricercare e a formulare delle accuse ragionevolmente plausibili da muovere contro Gesù, non solo per giustificarne l'arresto, ma anche per formulare un'accusa credibile da portare davanti a Pilato. Accusare Gesù di essere il Cristo, cioè il Messia, significava, di fatto, accusarlo di sedizione e di ribellione. Infatti, per gli ebrei il Messia non era, come per noi, un concetto meramente spirituale e teologico, ma era atteso come capo del popolo, come re, di discendenza davidica, come colui che avrebbe cacciato l'invasore romano e avrebbe ricostituito il regno di Israele nella sua sovranità, riconducendolo agli splendori e alla potenza del regno davidico e salomonico. Il concetto di messia, quindi, implicava anche aspetti politici e sociali, oltre che religiosi, in quanto che il messia aveva anche il compito di riformare il culto divino. Il concetto di messianismo era, come si vede, piuttosto complesso e investiva vari aspetti della vita nazionale. Per questo il dichiararsi messia da parte di Gesù equivaleva a dichiararsi re e sacerdote sommo. Da questo concetto di messia le autorità giudaiche possono, quindi formulare davanti a Pilato l'accusa di pretese di regalità da parte di Gesù e, quindi, di sedizione e di rivolta contro Roma. Gli ottimi rapporti, poi, che dovevano intercorrere tra Pilato e Caifa, hanno fatto il resto, rendendo più morbido Pilato davanti alle insistenti richieste delle autorità giudaiche, di cui Caifa era il capo nella sua qualità di sommo sacerdote. Gli ottimi rapporti tra Pilato e Caifa sono testimoniati dal lungo periodo nel quale Caifa ricoperse la carica di sommo sacerdote, ben 18 anni e fu il più lungo pontificato degli ultimi cento anni, dalla salita al trono di Erode il Grande (34 a.C.) alla distruzione di Gerusalemme nella guerra giudaica (70 d.C.). Basti pensare che in questo periodo le cariche duravano mediamente un anno talvolta due; ma vi furono anche numerosi casi in cui durarono soltanto pochi mesi; in qualche raro caso si è arrivati a quattro o sei/sette anni. Solo Anano ben Seth toccò i nove anni di carica (6-15 d.C.). A testimoniare lo stretto legame tra i due sta il fatto che rimosso Pilato dal suo incarico (36 d.C.) anche Caifa venne contemporaneamente deposto.

150Per una migliore comprensione di questi titoli cfr. il commento al cap.21 della presente opera.

151Questo gesto molto plateale per sottolineare il proprio stato d'animo era molto diffuso presso il popolo ebraico ed è testimoniato una cinquantina di volte nell'A.T.

152Il termine italiano bestemmia o bestemmiare deriva dal verbo greco blasfhmšw, che significa dire parole empie o irriverenti contro qualcuno, diffamare, screditare, biasimare, oltraggiare. Esso traduce varie espressioni ebraiche di significato simile tra loro: nā' a, ḥāraf, giddēf, nāqab, qillēl, illēl. La bestemmia, proibita da Es 22,27, è un parlare o un agire contro Dio o contro la Torah. Anche la rivolta o la disobbedienza a Dio o ai suoi ministri è colta come bestemmia (Nm 14,11; 16,30-31); così come l'allontanamento da Dio (Is 1,4-5), l'idolatria e la rottura dell'alleanza (Dt 31,20; Ez 20,27-28). Anche ciò che in apparenza non sembra bestemmia, invece lo è, come l'oppressione del popolo di Dio, perché esso è proprietà di Dio (Is 52,5) o del povero, che è sotto la tutela di Dio (Prv 14,31); anche l'intimidazione di Sennacherib contro il re Ezechia si configura come (Is 37,23-24). Essa è ciò che caratterizza il modo empio di vivere (Sal 10,24.25.34; ) ed è punita con la lapidazione, secondo un rituale particolare (Lv 24,14-16; 1Re 21,10.13). Durante il giudaismo rabbinico si conoscevano tre tipi di bestemmia: la bestemmia contro Dio in senso ampio e quella in senso più specifico, cioè l'insulto contro il nome Santo di Jhwh; così anche parole eccessive o sfrontate contro la Torah costituivano bestemmia; ed, infine, l'idolatria. Anche Gesù è accusato di bestemmia per il suo agire che lo pone alla pari di Dio, come nel caso del perdono dei peccati concesso al paralitico (Mt 9,3; Mc 2,7; Lc 5,21); così il suo pretendere di essere come Dio è considerato bestemmia (Gv 8,58-59; 10,33.36; Mt 26,64-65). Anche Stefano è accusato di bestemmia per aver pronunciato parole contro Mosè (At 6,11-14). La bestemmia contro lo Spirito Santo, quella che non verrà perdonata (Mt 12,31-32; Mc 3,28-29; Lc 12,10), delinea più delle parole offensive un atteggiamento di chiusura nei confronti di Dio, di rifiuto della fede. L'incredulità, dunque, è considerata una bestemmia imperdonabile non tanto per la severità di Dio nei confronti dell'incredulo, ma per il suo atteggiamento di chiusura e di rifiuto a qualsiasi appello e proposta di salvezza.

153Sul simbolismo dei numeri cfr. le voci “Numeri” e “Tre” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli Biblici, op. cit.