APPUNTI

 

DI

 

ANTROPOLOGIA TEOLOGICA

 

 (Elaborazione dei miei appunti integrati da sunto e riflessioni sulle dispense dell'insegnante)

PARTE BIBLICA

 

 


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Premessa

 

 

L'antropologia teologica sviluppa un discorso cristiano sull'uomo, colto fin dalle sue origini e, via via, lungo la storia, fino alla sua fine. Tra la protologia, quindi, che affronta l'uomo nelle sue origini, e l'escatologia, che lo coglie nelle sue realtà ultime, si  pone di mezzo l'uomo visto e pensato in una prospettiva squisitamente cristiana.

 

La storia del pensiero umano ha proposto varie visioni della vita dell'uomo, percepita talvolta come "un'avventura che si chiude tragicamente", "una partita a carte che si cerca di giocare al meglio con ciò che si ha"; e ancora: "L'uomo è ciò che mangia", "L'uomo è un animale ragionevole", ecc. Ogni epoca, dunque, ha cercato di dare una definizione, un'interpretazione dell'uomo secondo una propria visione culturale e storica del momento.

 

In tutto questo grande gioco di comprensioni sull'uomo, che cosa ha da dirci Dio e la sua Parola? Proprio perché noi affrontiamo lo studio dell'uomo da un punto di vista cristiano, è giocoforza riferirci alla Bibbia e, qui, all'inno cristologico tratto dalla lettera di Paolo agli Efesini.

 

 

L'inno cristologico di Ef. 1,3-12

 

 

Il testo di questo inno cristologico, ma che si muove su di uno sfondo chiaramente trinitario, si aggancia al genere letterario delle "berakah" della tradizione giudaica il cui contesto, soprattutto nel periodo postesilico, è liturgico.

 

L'attore principale di tutto l'inno è Dio, che viene qualificato come il "Padre del Signore nostro Gesù Cristo". Significativa è quest'ultima espressione in cui la figura di Gesù viene associata ai titoli di Cristo, che lo colloca nella prospettiva messianica , e di Signore, titolo che proietta Gesù nella dimensione di esaltazione postpasquale.

 

L'azione del Padre, poi, si sviluppa tutta lungo il corso dell'intero inno attraverso il solo Cristo: per ben 10 volte si dice "in lui", "nel quale", "in Cristo", "per opera di Gesù Cristo", significando che il Padre è il motore dell'intera salvezza, ma che questa è interamente attuata in e per Cristo, qualificato come suo Figlio.

 

Sull'intera opera del Padre attuata dal Figlio viene posto il sigillo dello Spirito, che diviene caparra, cioè anticipo impegnativo da parte di Dio delle realtà future in cui i credenti sono già inseriti, anche se non ancora pienamente.

 

Infine, l'inno possiede in sé un dinamismo: l'azione del Padre espressa nel Figlio ha delle finalità che vengono testimoniate da quei sette "affinché, perché, per". L'operare del Padre, quindi ha un obiettivo: ricondurre la storia nel proprio ciclo vitale per mezzo di Cristo che viene costituito, in conformità al disegno salvifico, centro ricapitolatore dell'intera creazione e dell'intera azione salvifica del Padre nello Spirito. Questo significa che l'umanità e la sua storia non sono state abbandonate a loro stesse. Per questo i cristiani sanno di avere delle buone ragioni per ringraziare Dio e ricolmarlo con quella benedizione con cui sono stati loro stessi, per primi, benedetti.

 

L'inno è una "euloghia" che ha carattere comunitario (frequente, infatti, è l'uso del pronome "noi": 8 volte) ed è strutturata in tre parti:

 

a) Un'introduzione (v.3) in cui Dio è oggetto e soggetto di benedizione e in cui viene delineato fin da subito l'orizzonte trinitario in cui l'inno si muove: Dio, che è Padre di Gesù Cristo che ci benedice con ogni "benedizione spirituale", cioè per mezzo dello Spirito. Su questo schema trinitario si snoda tutto il disegno della storia della salvezza che va da una elezione pretemporale ad un orizzonte escatologico, passando attraverso la rivelazione cristologica e la dimensione ecclesiale.

 

E' un inno che racchiude in sé tutta l'antropologia cristiana, vista in un orizzonte cristologico. Infatti Cristo, qui, è posto sia all'inizio dell'avventura umana che alla sua fine, posta sotto il segno della redenzione: "in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo ... predestinandoci", "nel quale abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue e la remissione dei peccati", "il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose".

 

b) Una parte centrale (vv. 4-10) In questa parte ci vengono esposte le ragioni della benedizione:

 

- la nostra elezione ("ci ha scelti), quale primo atto creativo di Dio che si pone ancor prima della creazione stessa ed è finalizzata alla nostra santificazione, cioè alla nostra incorporazione nel ciclo vitale di Dio stesso.

 

- la nostra predestinazione ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo e il tutto avviene secondo il beneplacito della sua volontà, cioè secondo un disegno precostituito, si può dire nato insieme a Dio.

 

Già in questi primi due atti (elezione e predestinazione) rileviamo in sintesi l'intera azione salvifica di Dio, che viene operata in Cristo per mezzo dello Spirito.

 

Ed ecco che il disegno concepito da Dio al di là dello spazio e del tempo (elezione e predestinazione), si fa ora azione concreta nella storia e ci investe tutti quanti; e questo è un altro motivo di benedizione:

 

- abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia che ha abbondantemente riversata su di noi.

 

c) Nella terza parte (11-14) l'azione di benedizione-ringraziamento si dispiega in senso ecclesiologico e celebra l'impatto storico salvifico della nostra benedizione in Cristo. Essa si è riversata su due soggetti: un "noi", che sono i cristiani provenienti dal giudaismo, fatti eredi e beneficiari della predestinazione secondo il disegno divino, richiamandosi così a Israele; e un "voi", che si riferisce ai cristiani provenienti, invece, dal paganesimo e per i quali vengono ricordate le tre tappe del cammino di conversione: "l'ascolto della parola di verità", da cui è nata la fede "l'aver in essa creduto" a seguito della quale fu conferito il "suggello dello Spirito Santo", cioè il battesimo.

 

Questa terza parte si chiude con il v.14 in una prospettiva escatologica in cui è lanciata la comunità cristiana, tutta contrassegnata dalla "caparra", cioè dal dono di quello Spirito che segnerà e caratterizzerà i cieli nuovi e la terra nuova.

 

Anche la "Gaudium et Spes", nel paragrafo 22, dal significativo titolo di "Cristo, uomo nuovo", evidenzia il carattere cristologico dell'antropologia cristiana: "In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione"

 

Cristo, quindi, si pone come la chiave interpretativa dell'uomo e del suo esistere; in lui l'uomo trova il suo senso: è, infatti, nel vivere e nel morire di Cristo, che l'uomo ritrova il senso del suo vivere e del suo morire.

Essa al par. 41 riprende: "Ma soltanto Dio ... può offrire a tali problemi una risposta pienamente adeguata, e ciò per mezzo della rivelazione compiuta nel figlio suo fatto uomo. Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, si fa lui pure più uomo".

 

Cristo, dunque, è la risposta del Padre ai problemi dell'uomo. Egli si costituisce come l'uomo perfetto, poiché è l'uomo così come lo ha pensato il Padre, così come lo ha concepito nel suo disegno originale. Per questo seguire Cristo, accoglierlo nella propria vita l'umanità dell'uomo viene esaltata e trova il suo pieno compimento.

 

C'è, quindi, come si può ben vedere, uno stretto legame tra antropologia e cristologia: la prima va letta alla luce della seconda.

 

Ma anche l'AT si è interrogato sulla natura dell'uomo, del suo destino e del senso del suo vivere.

 

In tal senso si propone il Salmo 8, una delle pagine più toccanti dell'AT. Questo salmo canta la magnificenza del nome di Dio, che si rivela nei cieli e nella mirabile opera della creazione; mentre sulla terra l'uomo diventa la celebrazione stessa di Dio ed è costituito, quale immagine di Dio, signore di tutto il creato.

 

Questo salmo può essere considerato come una serena e gioiosa meditazione di Gen.1. Nato per la liturgia, è un inno di lode a Dio che viene celebrato nella sua creazione.

 

Il v.2 "O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra" forma inclusione con l'identico v.10 . Quanto ci sta di mezzo, la grandezza della creazione colta nella sua magnificenza e nel suo splendore, diventa tutto celebrazione di lode.

 

I vv.3-4 cantano della grandezza di Dio, che afferma la sua potenza contro i suoi avversari "con la bocca dei bambini e dei lattanti".

 

I vv.5-9 sono riservati all'uomo intronizzato nel creato: "Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto ai suoi piedi" (vv.6-7).

 

Il salmista, dopo aver considerato la grandezza del creato e la sua magnificenza, si interroga sull'uomo, che con il v.5 è posto significativamente al centro dell'inno di lode per dire che egli è al centro del creato: "che cos'è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?"

 

Di fronte all'immensità dello spazio popolato dalle innumerevoli stelle e avvolto nel suo profondo mistero, come si pone l'uomo? Esso in confronto è una nullità. Ma non così la pensa il salmista, che riconosce come la grandezza di Dio ha investito l'uomo, intronizzandolo nel creato e dandogli ogni potere e dignità regali. La grandezza dell'uomo, quindi, dipende soltanto da Dio, autore primo ed unico della glorificazione dell'uomo.

 

Le azioni dei verbi, infatti, "ricordi", "curi", "l'hai fatto", "l'hai coronato", "gli hai dato potere" hanno per soggetto Dio stesso ed esprimono la sua attenzione e il suo operare per l'uomo. La dignità dell'uomo, pertanto, proviene e dipende unicamente da Dio, che si prende cura e si ricorda dell'uomo; un ricordarsi che è finalizzato al fare (Zakar= ricordarsi; Paqad= prendersi cura).

 

All'azione di Dio su di lui, l'uomo è chiamato a riconoscerla, perché essa si pone all'origine della sua dignità e del senso del suo esistere. L'uomo, dunque, va visto sempre in rapporto a Dio e questo è il senso di ogni antropologia teologica.

 

Il rinnovamento dell'antropologia teologica

 

Nei vecchi manuali di teologia, l'antropologia teologica era il prodotto finale di quattro filoni confluenti: 1) La creazione; 2) il peccato originale; 3) la grazia; 4) i novissimi e si sviluppava su di una base prevalentemente ragionativa e filosofica, secondo gli schemi della neoscolastica.

 

A partire dal Vaticano II, essa ha subito un processo di rinnovamento e di sviluppo, al punto tale da diventare una scienza a parte.

 

Ciò che ha promosso tale rinnovamento furono tre elementi fondamentali: 1) un rinnovamento biblico che si stacca dalla filosofia; 2) una maggiore attenzione alla storia, percepita, ora, come un insieme di eventi da cui traspare l'azione di Dio e ne diventa il luogo privilegiato di incontro e di dialogo con l'uomo; 3) la riscoperta della centralità della figura di Cristo, che diventa la nuova chiave di lettura dell'uomo e della sua storia.

 

 

Il dato biblico

 

 

Proprio perché "teologica", l'antropologia va letta alla luce della Parola di Dio che, unica, sa svelare il mistero dell'uomo all'uomo. Vedremo la questione dal punto di vista del N.T. e più precisamente da quello dei Sinottici, di S.Paolo e della Scuola giovannea.

 

I SINOTTICI

 

Come viene visto l'uomo nei Sinottici? La chiave, attorno a cui tutto gira, è il Regno di Dio. Non a caso il vangelo di Marco si apre con l'annuncio: "Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15), mentre Luca dirà: "Il Regno di Dio è in mezzo a voi". Questo è l'annuncio entro cui leggere l'uomo. Ma come si colloca l'uomo all'interno di questo annuncio?

 

Prima di rispondere a questa domanda, bisogna capire che cos'è questo Regno. Ai discepoli di Giovanni che lo interrogavano se era lui che doveva venire o dovessero aspettare un altro, Gesù risponde: "Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista,, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella" (Lc 7,22).

 

Con questa risposta Gesù qualifica se stesso e la sua missione nei confronti dell'uomo: egli è l'inviato del Padre, "o ercomenoV" (titolo messianico), per rigenerare l'uomo alla vita stessa di Dio. Il lungo elenco che Luca fa delle varie disgrazie che affliggono l'uomo, indica lo stato di degrado in cui l'umanità, decaduta e travolta dal peccato, viveva. Gesù, dunque si manifesta come l'azione rigenerante del Padre sull'uomo.

 

Le guarigioni costituiscono il segnale del ritorno di Dio in mezzo agli uomini, la cacciata del "principe di questo mondo" (Gv 12,31) e la ricostituzione del Regno di Dio: "Se invece io caccio i demoni con il dito di Dio, è giunto dunque a voi il regno di Dio." (Lc 11,20).

 

Il Regno di Dio, dunque, è la ricostituita signoria di Dio in mezzo agli uomini e in cui l'uomo, rigenerato a Dio, è inserito nello stesso ciclo vitale di Dio.

 

Con queste guarigioni, segno del ristabilito rapporto tra Dio e gli uomini, Gesù restituisce la dignità, perduta con il peccato, all'uomo. Una dignità che affonda le sue stesse radici in Dio e da qui trae la sua linfa vitale. Gesù fa capire all'uomo, da un lato, che egli ha molti limiti impostigli dal peccato, limiti che lo mortificano e ne impediscono lo sviluppo; dall'altro, che egli è destinato ad orizzonti completamente diversi da quelli in cui è vissuto fino ad ora.

 

L'intera missione di Gesù si manifesta come una lotta dura contro questi limiti dell'uomo, simbolicamente espressi nelle sue tentazioni: qui Gesù fa capire che è possibile vincere e lui ha vinto per conto nostro e ci ha regalato la sua vittoria, ci ha inserito in essa.

 

L'uomo, pertanto, viene liberato dal male che lo mortifica e da tutti quegli aspetti che lo imprigionano: leggi, osservanze dei sabati, ecc.

 

La finalità dell'intervento di Gesù è quello di costituire l'uomo come figlio che ha come padre il Padre stesso di Gesù, che ce lo rende disponibile e lo condivide con noi e vuole che il rapporto sia di paternità-figliolanza: "Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (Gv 20, 17). Per far meglio comprendere questo speciale rapporto, che Gesù è venuto ad instaurare tra noi e suo Padre, egli ci narra la parabola del "Figliol prodigo" (Lc 15,11-32), quella dei "due figli" (Mt 21,28). Egli, inoltre, ci ha insegnato come rivolgerci al Padre nella preghiera del "Padre nostro" (Mt 6,5-13))

 

La figura dell'uomo che si prospetta all'interno di questo Regno, oltre che di figlio, è di servo. La nostra grandezza sta proprio nel metterci al servizio di Dio e che trova la sua attuazione in quello verso ai fratelli.

 

Significativo, in tal senso, è il racconto della guarigione della suocera di Pietro (Mc 1,29-31), liberata da una febbre vorace che non le dava scampo. Guarita "si mise a servirli". Essa è l'immagine dell'uomo redento da Cristo, ricostituito nei suoi rapporti con Dio e che, proprio per questo, testimonia il suo rinnovamento interiore nel mettersi al servizio dell'altro.

 

Gesù stesso, del resto, ha dichiarato di non essere venuto per essere servito, ma per servire. Un servizio che si è fatto obbedienza fino alla morte di croce (Fil 2,8).

 

Il servizio, per sua natura, chiede il mettersi da parte per lasciare spazio agli altri; è un condividere il pane della propria vita, celebrando in tal modo la propria eucaristia, in modo simile a quella di Gesù, che si è fatto pane spezzato per gli altri.

 

Altro aspetto che appare nei Sinottici è quello dell'uomo come creatura. Gesù ci illustra come il Padre si pone nei confronti della nostra creaturalità: egli è uno che si prende cura di noi: "Non affannatevi, dunque, dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? ... Il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno" (Mt 6,31). E' un Padre che pone una particolare attenzione, quasi pignolesca, verso i suoi figli: "Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono contati; non abbiate dunque timore: voli valete più di molti passeri" (Mt 10,30-31).

 

Gesù, dunque, è venuto a ridarci la nostra dignità, offesa dal peccato, come figli, come servi del Regno, come creature di Dio.

 

In Marco 12, 14-17, circa "il tributo a Cesare" c'è un passaggio importante sul concetto di uomo. Come la moneta porta impressa l'immagine di Cesare e quindi è di Cesare, così l'uomo è immagine di Dio (Gen 1,26) e, mundi, è di Dio, gli appartiene. In tal senso è significativo quanto si dice nel libro dell'Esodo: "Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli" (Es 19,5). Proprietà di Dio, dunque, è l'uomo; egli fa parte di Dio ed è sua porzione, i suoi destini sono legati a quelli di Dio, così come Dio ha legato i propri a quelli dell'uomo (Fil 2,6-11)

 

In Matteo 19,6-11 Gesù affronta la questione del divorzio e conclude con un esplicito atto di accusa: "Per la durezza del vostro cuore Mosé vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così" (Mt 19,8).

 

E', dunque, per la "durezza di cuore" che si concesse il divorzio. Ebbene, Gesù è venuto a guarire anche tale durezza.

 

Il cuore è il centro della vita, dei sentimenti e del pensiero. Il cuore si pone come un modo di stare al mondo. La durezza di cuore, pertanto, indica la nostra difficoltà di progettare la nostra vita secondo la prospettiva e le logiche di Dio.

In Matteo 10,28 Gesù afferma: "E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete, piuttosto, colui che ha il potere di fa perire l'anima e il corpo nella Geenna"

 

Contrariamente all'antropologia semitica che concepiva l'uomo come una profonda unione di carne spiritualizzata e spirito incarnato, Gesù sembra distinguere  nell'uomo una parte materiale e una spirituale. In realtà, Gesù qui non intende sposare la dicotomia platonica di anima e corpo tra loro contrapposti. Che cosa si intende, dunque, per anima? Essa è intesa come l'elemento di congiunzione tra Dio e l'uomo; colei che consente un rapporto e una comunione dell'uomo con Dio. Qui Gesù sembra voler dire che il nostro corpo passa, ma il nostro rapporto con Dio rimane, per questo va salvaguardato in assoluto.

 

Inoltre, Gesù nelle sue parabole ci presenta anche scenari terminali, escatologici in cui ci viene prefigurata la nostra condizione futura. Tutto ciò è sempre strettamente legato ad una sua "venuta", ad un suo "ritorno". Si pensi, in tal senso, alla parabola delle "Dieci vergini" (Mt 25,1ss) o a quella dei "talenti" (Mt 25,14-30). In questo frangente c'è sempre una "separazione" come nel caso delle "pecore e dei capri" (Mt 25,31-46) o delle "dieci vergini" o dei "servi operosi e quello infedele" (Mt 25,14-30).

 

Ci viene, infine, parlato del Paradiso. Al "buon ladrone" crocifisso con lui egli risponderà: "Oggi sarai con me in paradiso" (Lc 23,43). Il Paradiso, pertanto, viene a costituirsi non come un luogo, ma un "essere con Gesù". Si tratta, dunque, di una relazione.

 

S.PAOLO

 

Per ben comprendere Paolo bisogna partire dalla centralità della pasqua. Egli non ha mai avuto rapporti con il Gesù della storia, ma soltanto con il Cristo risorto. Tutto il pensiero di Paolo è, quindi, influenzato dalla risurrezione di Cristo, tutto è compreso nella sua luce.

 

Anche l'antropologia paolina è posta sotto il segno del Cristo risorto e l'uomo in esso viene completamente ricompreso. Nasce, dunque, con Paolo una nuova antropologia che conosce un'unica dimensione: quella cristologica e si muove nell'orizzonte della risurrezione.

 

L'uomo nuova creatura in Cristo

 

Paolo afferma che l'uomo può accedere ad una nuova dimensione in Cristo soltanto per mezzo della fede, quale unica risposta adeguata alla proposta salvifica di Dio manifestata in Cristo: "Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede." (Rm 1,16). Il vangelo, che qui Paolo annuncia, è il "Cristo crocifisso". In esso è stata riposta la potenza salvifica di Dio a cui si accede mediante la fede, che in quel "chiunque" acquista una dimensione universale.

 

La fede, dunque, inserisce l'uomo nel Cristo risorto e in lui diviene una nuova creatura: "Quindi, se uno è in Cristo, è una creatura nuova" (2Cor 5,17) per cui ciò che conta ora non è più l'essere o non essere circoncisi, ma l' "essere nuova creatura" in Cristo, a cui si accede soltanto mediante la fede.

 

L'uomo credente, segnato dal battesimo, viene rivestito di Cristo (Gal 3,27) e diventa, per ciò stesso, un essere nuovo: "Vi siete, infatti, spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito l'uomo nuovo" (Col 3,10).

 

Per questo, l'uomo ricreato in Cristo, in lui accorpato per mezzo del battesimo, acquisisce di diritto la figliazione divina: "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli" (Gal 4,5). Proprio perché figli "noi non abbiamo ricevuto uno spirito da schiavi, per ricadere nella paura, ma abbiamo ricevuto uno spirito di figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre" " (Rm 8,15-16).

 

Grazie a questa figliazione divina, l'uomo diventa erede delle promesse della gloria messianica. Infatti, "Se siamo figli, siamo anche eredi : eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria." (Rm 8,17).

 

Chi è "in Cristo" (e la formula "in Cristo" è emblematica di tutto l'esistere cristiano e lo caratterizza) riceve anche lo Spirito, che gli dà la liberazione interiore dal peccato e dalle prescrizioni coartanti della legge: "Poiché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte ... così che ... si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito" (Rm 8,2.4).

 

In virtù del battesimo, poi, che lo ha incorporato a Cristo, il credente forma un solo corpo,  che è lo stesso corpo di Cristo: "E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo ... così che ... ora, noi siamo corpo di Cristo e sua membra, ciascuno per la sua parte" (1Cor 12,13.27). Rivestiti, pertanto, di Cristo e in lui incorporati per mezzo del battesimo, siamo divenuti un'unica realtà. Infatti, "Non c'è più né Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal. 3,28). Per l'uomo cristificato non c'è più alcuna barriera sociale, ogni distinzione di razza, cultura e sesso viene a cadere e perde qualsiasi significato di fronte all'essere in Cristo Gesù.

 

I credenti, infine, sono già cittadini del cielo, in quanto, con-morti con Cristo, sono anche con lui con-risorti: "E' lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno di suo Figlio diletto" (Col. 1,13); essi, pertanto, hanno in prospettiva l'eredità di questo stesso regno.

 

Camminare secondo lo Spirito

 

Questo nuovo modo di essere dell'uomo non è indifferente per il suo vivere concreto, ma è gravido di conseguenze. L' "essere in e con Cristo" si traduce di fatto in un nuovo modo di operare, di pensare, di relazionarsi e di guardare alle cose e agli altri. Nuovi parametri di valutazione si impongono all'uomo rigenerato in Cristo.

 

La nuova etica, conseguente alla nuova situazione, si radica nella nuova situazione ontologica venutasi a creare con il proprio "essere in Cristo". Pertanto il cristiano deve vivere in maniera degna e conforme alla sua vocazione, per questo Paolo ci sollecita "... a comportarci in maniera degna della vocazione che abbiamo ricevuto" (Ef. 4,1).

In Cristo, inoltre, abbiamo ricevuto anche il suo Spirito, da cui traiamo la nostra nuova vita, per cui "Se riceviamo vita dallo Spirito camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gal 5,25); e che cosa significhi concretamente questo, Paolo ce lo dice nella sua lettera ai Galati: "Il frutto dello Spirito è l'amore, gaudio, pace, longanimità, benevolenza, bontà, fede, mitezza e speranza" (Gal. 5,22).

 

Se è nato allo Spirito, l'uomo rinnovato dalla risurrezione di Cristo deve ritenersi morto al peccato e condurre una vita conseguente. Infatti, se "siamo stati sepolti nella sua morte ... consideriamoci, quindi, morti al peccato ... offriamo noi stessi a Dio come viventi destati dai morti." (Rm 6,4-13).

 

Pertanto, lo Spirito Santo, che è lo Spirito del Cristo risorto, è la vera legge interiore del credente che si attua e si manifesta nella carità e, insieme a questa, la fede e la speranza. Questa triade, fede-speranza-carità, costituisce la dinamica del nuovo vivere cristiano e lo caratterizza: "Ringraziamo sempre Dio ... memori del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo" (1Ts 1,2-3).

 

Questo nuovo modo di vivere investe e informa anche i rapporti sociali creando un nuovo modo di relazionarci agli altri: tra padroni e schiavi, tra marito e moglie, tra genitori e figli, imprimendo così alle comunità cristiane un ruolo profetico che prefigura una nuova umanità e getta le basi per un nuovo ordine di cose.

 

Alcuni capisaldi della nuova antropologia paolina

 

"Grazia", "giustizia", "giustificazione", "peccato", "universalità e solidarietà", "salvezza", "fede in Cristo", "vita animata dallo Spirito" costituiscono il nuovo vocabolario paolini su cui si sviluppa la nuova antropologia, che si radica sulla novità del Cristo risorto.

 

La grazia

 

"Egli mi ha detto: <<Ti basta la mia grazia;>>" (2Cor 12,9). Così si sente rispondere Paolo da Gesù, a cui si era rivolto perché lo liberasse da una dolorosa "spina nella carne".

 

"Ti basta la mia grazia". E' questa un'affermazione fondamentale in Paolo che vede proprio nella sola "grazia" l'elemento da cui scaturisce l'intera azione salvifica di Dio in Cristo. Essa esprime la gratuità della salvezza che ci viene donata quando ancora eravamo, a causa del peccato, suoi nemici, diventando così espressione di dono d'amore, inteso come la totale apertura di Dio all'uomo, la sua totale accoglienza che si è fatta totale donazione di se stesso in Cristo Gesù, divenuto lo spazio vitale in cui il Padre ha realizzato il suo disegno di salvezza: recuperare l'uomo alla dimensione divina da cui proveniva.

 

Pura grazia, dunque, che viene testimoniata dall'amore gratuito di Dio, poiché essa ci è stata donata quando ancora eravamo peccatori: "Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. ... Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,6.8).

 

Da ciò si evince che questa grazia non è un qualcosa, bensì un "qualcuno": Cristo stesso, dono del Padre all'umanità peccatrice, perché l'uomo aderendo a lui nella fede sia salvato.

 

L'uomo, pertanto, è preceduto dalla gratuità divina, a cui non deve fare altro che aderire esistenzialmente per mezzo della fede, l'unica risposta adeguata a tanto amore gratuito e che inserisce l'uomo nel ciclo vitale di Dio.

 

La giustizia che si fa giustificazione

 

Strettamente legata alla grazia, che è Cristo stesso, dono gratuito di amore del Padre, è la "giustizia". Essa non va intesa come un "dare a ciascuno il suo". Il termine giustizia in Paolo acquisisce una duplice valenza: se riferita a Dio, essa ne esprime la fedeltà a se stesso e la sua conformità nell'operare secondo le promesse fatte ai Padri; se riferita, invece, all'uomo, significa "salvezza", che si attua nel vangelo per mezzo della fede: "Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco. E' in esso che si rivela la giustizia di Dio, di fede in fede, come sta scritto: il giusto vivrà mediante la fede." (Rm 1,16-17).

 

Questa giustizia divina, che esprime la fedeltà di Dio al suo piano di salvezza e che diventa per l'uomo salvezza, acquisita per mezzo della fede, si traduce in giustificazione.

 

La giustificazione , come dice la parola stessa "iustum facere", va intesa come l'azione di Dio finalizzata a rendere l'uomo giusto, cioè nuovamente configurato a lui e capace di intendere nuovamente il linguaggio e il pensiero di Dio, così come lo era nei primordi.

 

Tale giustificazione avviene attraverso due elementi essenziali: Gesù Cristo, in cui si manifesta e si attua la giustizia di Dio; e la fede, cioè la totale apertura e accoglienza esistenziali della proposta salvifica di Dio, operata per mezzo di Cristo, da parte dell'uomo. Solo dall'incontro di questi due elementi scaturisce la giustificazione.

Ma il rifiuto da parte dell'uomo comporta lo scatenarsi dell'ira di Dio che, però, non è mai rivolta verso l'uomo, bensì verso il peccato: "In realtà l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini, che soffocano la verità nell'ingiustizia" (Rm 1,18).

 

E' questa una costante dell'agire di Dio: egli non si scaglia mai contro l'uomo, ma soltanto contro il peccato. Come qui, così anche nella Genesi Dio maledirà il suolo da cui l'uomo trarrà il suo sostentamento, ma non l'uomo: "All'uomo disse: << ... maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre>>" (Gen. 3,17-18).

 

Ed ecco che Paolo, dopo aver proclamato solennemente nei vv. 1,16-17 che il vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; e dopo aver percorso un lungo cammino da 1,18 a 3,20, durante il quale ha dimostrato, attraverso un complesso castello ragionativo, che sia i pagani che i giudei sono tutti accomunati sotto il dominio del peccato, senza prospettive di salvezza per nessuno, Paolo riprende e sviluppa, portandolo a conclusione con i vv. 3,21-31, il proclama iniziale (1,16-17) e ne illustra le conseguenze: la giustificazione avviene per tutti per mezzo della fede in Gesù Cristo, che è stato costituito da Dio quale strumento di espiazione nel sangue (ilasthrion o Kapporet).

 

Conclude, dunque, Paolo affermando: "E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia" (Rm 3,24).

 

La giustificazione, pertanto, non avviene per merito, ma per grazia, cioè per mezzo di Gesù Cristo. Ed ecco, ora, il cuore della teologia della giustificazione di Paolo: "Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge" (Rm 3,28).

 

L'uomo come immagine di Dio

 

Mentre il tema dell'uomo, quale immagine di Dio, viene trattato a più riprese nell'A.T., in particolar modo nella Genesi, nei Proverbi e nella Sapienza, nel N.T. è solo brevemente  e vagamente accennato da Marco nel riportarci il detto di Gesù: "Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Mc 12,17).

 

Paolo, invece, si sofferma a lungo su questo tema, che recupera a piene mani da Gen. 1,26 e gli attribuisce un valore cristologico.

 

Sul tema dell'immagine Paolo sembra sviluppare una sorta di sillogismo, partendo da Cristo, immagine di Dio, per arrivare all'uomo in cui l'immagine di Dio si attua soltanto in Cristo.

 

Paolo, pertanto, parte affermando che:

 

·    La vera immagine di Dio è Cristo, egli infatti "è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura" (Col. 1,15); e ancora "... perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo che è immagine di Dio" (2Cor 4,4). Paolo, dunque, afferma che Cristo è la vera immagine di Dio.

 

·    In secondo luogo, svelando il segreto piano di Dio sull'uomo, Paolo afferma che noi siamo sempre stati pensati e voluti ad immagine di Cristo: "Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo" (Rm 8,29) e ancora: "E noi tutti ... riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore" (2Cor 3,18).

 

·   In terza battuta, Paolo conclude, di conseguenza, che solo così, cioè solo in Cristo, l'uomo può dirsi veramente immagine di Dio: "Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova ... ad immagine del suo Creatore" (Col. 3,10).

 

Con questo sintetico ragionamento, Paolo afferma che l'uomo è recuperato nuovamente come immagine di Dio, ma ciò si attua solo attraverso Cristo, nuova immagine di Dio. Non più, quindi, in maniera diretta, come lo fu nei suoi primordi, ma mediata.

 

Questo essere nuovamente immagine di Dio, per mezzo di Cristo, in quanto a lui configurati nel battesimo, comporta un risvolto etico: far corrispondere con le scelte di vita la nuova realtà impressa in noi dal battesimo. In Cristo, infatti, siamo diventati nuove creature, da lui rigenerate ad una vita nuova, che comporta un rinnovato modo di agire anche nei nostri rapporti sociali, caratterizzati dall'amore.

 

E proprio perché ormai siamo nuove creature, dobbiamo porre un continuo impegno nel nostro rinnovamento esistenziale, per adeguarci alla nuova realtà che vive in noi. In tal senso, Paolo ci sollecita ad un nuovo stile di vita, tutto sacerdotale, tutto liturgico: "Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo,ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,1-2).

 

Tale immagine di Dio, a cui siamo stati configurati in Cristo, acquisisce anche una coloritura escatologica: "E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste" (1Cor 15,49). Sarà, quindi, soltanto questo il momento in cui si compirà e apparirà pienamente il nostro essere configurati a Cristo, immagine di Dio, volto del Padre, e per questo noi pure, come nei primordi, nuovamente immagine e somiglianza di Dio, in Cristo. Solo allora si rivelerà la nostra vera natura di figli di Dio, quando saremo, assieme alla creazione, liberati definitivamente dalla corruzione (Rm 8,19-25).

 

Universalità e solidarietà nel peccato

 

"Abbiamo infatti dimostrato precedentemente che Giudei e Greci, tutti, sono sotto il dominio del peccato ... E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio" (Rm 3,9.23).

 

Paolo, dunque, è convinto che la realtà del peccato abbia contaminato l'umanità intera e che, pertanto, nessuno può dirsi fuori e lo dimostra con un lungo e complesso ragionamento, in cui sia i pagani, per un verso, sia i Giudei per un altro, sono tutti sottoposti alla legge del peccato. Gli uni, infatti, pur potendo cogliere Dio dalla creazione, hanno preferito adorare la creatura piuttosto che il Creatore (Rm 1,18-32); gli altri, pur possedendo la Legge, l'hanno ignorata, ponendosi così alla pari di quelli che non l'hanno mai conosciuta (Rm. 2,1-3,20).

 

Questo universale accomunamento sotto il peccato rende l'uomo solidale in questo peccato: "Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato." (Rm 5,12). Nel sottolineare questa universalità e solidarietà nel peccato, Paolo vuole garantire l'universalità e la solidarietà della salvezza in Cristo: nessuno può illudersi di salvarsi senza Cristo e senza la solidarietà con lui, poiché la colpa di Adamo ha raggiunto tutti.

 

Ed è a tal punto che Paolo crea un parallelismo tra Adamo e Cristo, un parallelismo che è decisamente sbilanciato a favore di Cristo, che con la sua grazia sovrasta la colpa di Adamo, che ha travolto l'intera umanità. "Molto di più la grazia di Dio", "si sono riversati in abbondanza" sono espressioni, infatti, che indicano la potenza soverchianti di Cristo sul potere del peccato.

 

Il fondamento biblico del peccato originale, pertanto, non si trova in Gen.3, ma in Rm 5,12-21, in cui viene esposta la dottrina della solidarietà nel peccato, ma, come abbiamo visto, ancor più in Cristo.

 

"Adamo è figura di colui che doveva venire" (Rm 5,14). Con questa espressione Paolo relativizza la figura di Adamo, vedendo in esso soltanto una prefigurazione di colui che doveva venire. Il primo Adamo, quindi, in funzione di Cristo, il vero Adamo, il vero punto "A - W" da cui defluisce una nuova creazione e verso cui confluisce l'intera storia, poiché questo è il disegno del Padre: "...ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra." (Ef. 1,10).

 

L'interesse di Paolo per Adamo, quindi, è strettamente legato a quello di Cristo, a cui è legato e in funzione del quale è letto il primo Adamo.

 

Questa dicotomia tra i due Adamo, l'uno fautore della caduta, l'altro rigeneratore di una nuova umanità, si ritrova anche nel quotidiano vivere dell'uomo, che vede il bene, ma, a causa della sua fragilità ereditata dal vecchio Adamo, sceglie il male. E' proprio questo il dramma di Paolo: "Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. ... Io infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. ... Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?" (Rm 7,15-24).

 

 

Il tempo si è fatto breve: un'escatologia paolina

 

 

Un'escatologia personale

 

La risurrezione di Cristo ha impresso alla storia un movimento accelerato e vorticoso verso l'eschaton finale. Questa ansia della fine imminente Paolo la esprime nella sua prima lettera ai Corinti: "Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non comprassero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo" (1Cor.7,29-31).

 

In questa prospettiva il vivere e il morire non hanno più il senso di prima. Infatti, "Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno ... Sono messo alle strette, infatti, tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; dall'altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne" (Fil.1,21-24).

 

Una frase questa che va letta nel contesto in cui Paolo la pronuncia. Egli è prigioniero ad Efeso, intorno al 56-57, e si sta decidendo sulla sua sorte, per cui egli si prepara e si dichiara pronto anche a versare il suo sangue in libagione (Fil.2,17).

 

In questa espressione del vivere e del morire va rilevato il nuovo senso cristologico che Paolo assegna a due aspetti fondamentali dell'intera esistenza dell'uomo: il vivere è, per Paolo, un "vivere per Cristo"; mentre il morire è un "essere con Cristo". E' proprio questo che dà senso al vivere e al morire dell'uomo: l'essere relazionati a Cristo. Il resto non conta.

 

Un'escatologia comunitaria

 

L'escatologia, che coinvolge il singolo credente, si estende anche sull'intera comunità, che vive intensamente l'attesa dell'avvento del Signore e che con il suo "Marana tha" ne invoca la venuta.

 

In due suoi testi Paolo esprime in modo significativo questa ansia di attesa: 1Ts 4,13-18 e 1Cor 15.

 

In 1Ts 4,13-18  Paolo, di fronte all'ignoranza e all'afflizione di alcuni, illumina l'intera comunità sul destino dei defunti e dei vivi nel momento della venuta del Signore. Che cosa abbia provocato questo intervento di Paolo non ci è dato di sapere. Probabilmente, dopo la dipartita di Paolo, che aveva annunciato l'imminente ritorno del Signore, alcuni dei Tessalonicesi sono morti prima della parusia. Questo doveva suscitare una certa inquietudine: come si ponevano questi defunti di fronte all'imminente venuta di Cristo? Questi morti erano esclusi dalla salvezza finale?

 

Paolo affronta la questione in quattro battute:

 

·    L'annuncio del tema (v.13): Paolo vuole delucidare la propria comunità sul destino di quelli che sono morti, perché non restino nell'ignoranza;

 

·    Confessione di fede, che fonda l'argomentazione di Paolo (v.14): la risurrezione di Cristo è il fondamento della nostra risurrezione. La nostra dipende dalla sua.

 

·   Spiegazione e applicazione fondate "sulla parola del Signore" (15-17): rispetto alla risurrezione, nessun vantaggio distingue i vivi dai morti. Quest'ultimi, infatti, ritorneranno in vita e noi, i vivi, assieme a loro saremo assunti in cielo con Cristo.

 

·    Invito finale (v.18): con un'espressione di tipo parenetico, Paolo esorta i Tessalonicesi a confortarsi a vicenda con queste parole, traducendo questa loro fede nel concreto vivere quotidiano e rimanendo radicati a questa fede.

 

E', dunque, un evento collettivo che coinvolge vivi e morti assieme e il cui destino li accomuna tutti in Cristo Gesù.

 

Con la sua  1Cor.15  Paolo si rivolge a dei greci, i Corinti, i quali mal sopportano l'idea della risurrezione del corpo. Infatti tra i Corinti vi sono alcuni che negano la risurrezione (v.12), qualcun altro si interroga sul come risuscitano i morti e quale corpo avranno (v.35).

In tutto ciò il punto di partenza è sempre il Cristo risorto, è lui il parametro di raffronto: "Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede ... e voi siete ancora nei vostri peccati" (1Cor. 15,13-14.16). Paolo è chiaro: la risurrezione dai morti dipende esclusivamente da quella di Cristo e, qui, il processo è matematico: negare la risurrezione dai morti equivale a negare quella di Cristo. Ma se così è, allora anche la nostra fede dovrà essere messa in discussione, poiché essa si fonda unicamente sulla risurrezione di Cristo. E' questa, infatti, che ha dato e dà valore alla figura di Cristo, che lo ha rivelato come Messia e Figlio di Dio; è questa che ha dato e da valore eterno, e per questo normante, alla sua predicazione e alla sua opera.

 

Negare, quindi, la risurrezione dei morti equivale togliere un fondamento essenziale alla nostra fede, perché essa è strettamente legata a quella di Cristo, ne è una conseguenza logica.

 

Nella sua presentazione della risurrezione dai morti, Paolo, dunque, pone a fondamento quella di Cristo: "Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dai morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo" (1Cor 15,20-22). Cristo, qui, è presentato come la "primizia", cioè la fonte e la causa di ogni risurrezione: è lui che ha acceso il fuoco e la luce di un nuovo processo storico ed esistenziale destinato a coinvolgere l'intera umanità e l'intero cosmo e a ricondurli in seno a Dio.

 

Dopo aver affermato l'essenzialità della risurrezione, fondamento non solo della nostra fede, ma anche causa scatenante della risurrezione dai morti, Paolo passa a rispondere alla seconda questione: "Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?" (1Cor.15,35).

 

Paolo spiega il "come" attraverso la metafora del "seme" e la "pianta", che nasce dal seme. Il seme è il corpo fisico, mentre la pianta rappresenta il corpo risorto. Certo, dice Paolo, c'è continuità tra seme e pianta, ma sono due realtà diverse. Così tra corpo fisico e quello risorto: l'uno è lo sviluppo dell'altro. Ma come il seme, una volta trasformato in pianta, cessa di essere seme; così il corpo fisico, una volta trasformato dalla potenza dello spirito in corpo spiritualizzato, cessa di essere fisico. Due realtà diverse, dunque, ma unica è la matrice: il corpo che tale è e tale rimane, benché ontologicamente diversa sarà la sua natura.

 

Infatti, sia Isaia che Giovanni nella sua Apocalisse parlano di celi nuovi e terra nuova, cioè di realtà che non saranno altre da quelle da noi oggi conosciute, ma soltanto diverse sul piano della natura.

 

Del resto, Gesù stesso si presenta, dopo la sua risurrezione, con il suo corpo glorioso che da un lato, nessuno più riconosce e questo sta ad indicare la radicale diversità rispetto a prima; dall'altro, è ancora segnato dalle piaghe della crocifissione, segno questo che quel corpo irriconoscibile è quello di prima, ma trasformato.

 

Un'escatologia cosmica

 

L'eschaton finale coinvolge non soltanto l'individuo e la comunità, ma anche il cosmo stesso che è strettamente collegato, per mezzo dello stato di corporeità, agli uomini. Vige, infatti, da sempre un principio di profonda solidarietà che lega l'uomo al suo habitat naturale, che da sempre ne segue le sorti.

 

E' significativo, in tal senso, quanto afferma il cap. 6 della Genesi: "Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra ... la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme alla terra" (Gen.6,12-13). La terra è qui inquinata dal male a causa dell'uomo, per questa terra e uomo sono uniti nello stesso destino.

Vige, dunque, questa profonda solidarietà tra cosmo e umanità, per cui i destini dell'uno sono intimamente legati a quelli dell'altra.

 

Paolo elaborerà questo concetto nella sua lettera ai Romani al cap. 8, 19-22. Egli esordisce affermando che "la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio" (Rm.8,19). In questa prima apertura Paolo mette in stretta relazione di dipendenza la creazione dall'uomo. Sarà la risurrezione dell'uomo, in cui egli apparirà nel suo fulgore di figlio di Dio, a dare il segnale alla risurrezione. Infatti essa è posta in uno stato di "attesa paziente" rivolta verso l'uomo.

 

Il motivo di tale attesa viene immediatamente fatto seguire da Paolo: " essa infatti è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa, e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione" (Rm 8,20-22). Viene qui affermato quel principio di solidarietà che già abbiamo trovato in Gen.6,12-13.  Il cosmo, dunque, è stato infettato dalla caducità dell'uomo, ma sarà anche riscattato dall'uomo rigenerato in Cristo.

 

Ma nell' "attesa paziente" la creazione, a pari dell'uomo, "soffre e geme fino ad oggi le doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi" (Rm 8,22-23). Viene riaffermata ancora una volta con quel "anche noi" la solidarietà tra uomo e creazione. Interessante, comunque, è quel "soffre e geme le doglie del parto". Come per l'uomo, avvolto dalle realtà spirituali in cui è immerso con il battesimo, così anche la creazione è già coinvolta nella realtà della risurrezione di Cristo. Egli, infatti, con la sua risurrezione si è posto al di là dello spazio e del tempo e abbraccia, ora, l'intera creazione che è stata in lui cristificata. Egli, il risorto, è diventato il Cristo cosmico che vive nella sua morte e nella sua risurrezione l'intero cosmo. I gemiti del parto sono i gemiti di una nuova vita che sta per nascere e che trova la sua origine nel Cristo risorto, da cui defluiranno, ma già sono presenti anche se nascostamente, celi nuovi e terra nuova.

 

Ecco, dirà Giovanni nella sua Apocalisse: "Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più" (Ap.21,1).

 

 

 

GIOVANNI

 

 

 

L'antropologia giovannea

 

Cosa pensa Giovanni dell'uomo? Chi è per lui l'uomo? Egli ce lo dice più che a parole, presentandoci l'uomo per eccellenza: "Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: <<Ecco l'uomo!>>" (Gv 19,5).

 

L'uomo inteso da Giovanni è, pertanto, Cristo stesso, non tanto il Cristo sofferente, ma il Cristo regale: egli infatti, sia pur di spine, è incoronato; un Cristo che sta per accedere alla sua glorificazione, verso quell'ora che si sta ormai compiendo e che troverà il suo epilogo nella risurrezione.

 

Giovanni, quindi, ci sta parlando di un uomo che è in divenire verso la sua glorificazione, un uomo che, proprio attraverso la sofferenza, ha innescato un procedimento evolutivo verso la sua totale affermazione e il suo totale compimento.

 

Nel fare questa affermazione "Ecco l'uomo", Giovanni usa non il termine "aner", che verrebbe ad indicare l'uomo per eccellenza, bensì l'espressione "anqrwpoj" che dice l'uomo comune, l'uomo della strada, l'uomo in senso generale. Ed è proprio questo senso di generalità che è racchiuso nel Gesù presentatoci da Pilato. In lui, infatti, è racchiusa l'intera umanità, i cui destini sono legati a questo "uomo comune". Sarà proprio Gesù che dirà: "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò  tutti a me" (Gv 12,32). In lui, dunque, è attratta e incorporata l'intera umanità, ecco perché egli è l'uomo universale; e in lui l'intera umanità è accorpata non soltanto alla sua sofferenza, ma anche alla sua glorificazione.

 

Gesù, quindi, rappresenta per Giovanni "l'uomo comune", per questo è l'uomo per eccellenza, perché Gesù è l'intera umanità e la sua azione di morte-risurrezione avvolge, permea, compenetra l'intera vita di ogni uomo e i suoi destini. In lui è indicato all'uomo il suo cammino e il suo destino. Per questo Gesù si presenterà anche come la "Via, la Verità e la Vita", per questo egli si dichiarerà "risurrezione e vita" (Gv 11,25) a cui si accede soltanto per mezzo della fede. Infatti "... chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno" (Gv 11,25-26). La fede, dunque, diventa l'unico strumento idoneo per accedere alla novità di vita, l'unico strumento perché l'uomo trovi la sua piena realizzazione e il suo compimento.

 

La vita che viene data per mezzo della fede

 

il tema della vita in Giovanni è fondamentale, basti pensare a quante volte questo termine ricorre lungo tutto il suo vangelo: ben 41 volte. Un termine che non è quasi mai da solo, ma in genere è accompagnato da verbi che indicano il credere, sancendo, in tal modo, una stretta connessione e un profondo connubio tra la vita e la fede.

 

Potremmo dire che tutto il vangelo di Giovanni è uno sviluppo di questi due temi tra loro interconnessi. Non a caso, infatti, il Vangelo si apre al v.1,4 : "In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta"; e si chiude con il v. 20,31: "Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome".

 

In entrambi i versetti si parla di vita, in entrambi si parla della diversa risposta degli uomini alla vita loro proposta: nel primo c'è il rifiuto; nel secondo l'accoglienza per mezzo della fede.

 

Essi, pertanto, formano una grande ed unica inclusione che racchiude in sé il tema della vita e il dramma della diversa risposta dell'uomo, che avrà diverse conseguenze: infatti "chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato" (Gv 3,18)

 

Ma che cos'è la vita per Giovanni? Come accedere a questa vita? Che cosa significa credere? Qual è, infine, l'oggetto di questa fede?

 

Alla prima domanda, "che cos'è la vita", Giovanni risponde: "In lui era la vita" (1,4) e "Io sono la via, la verità e la vita" (14,6). Gesù Cristo, quindi, viene indicato come la vera vita che proviene dal Padre. Una vita che zampilla acqua per la vita eterna (4,14), esprimendo in tal modo la dinamicità stessa di questa vita: essa non viene data una volta per tutte, ma è un qualcosa che continua generare vita, rinnovando sempre più l'uomo interiormente, perché tale vita scaturisce da Dio stesso e colloca l'uomo nel ciclo vitale di Dio stesso.

 

E' una vita che non soltanto disseta, ma anche sfama l'uomo, saziandolo nelle sue aspirazioni più elevate e sublimi e lo spinge sempre più verso queste: "Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete" (6,35). E', pertanto una vita che sazia e realizza pienamente l'uomo nella sua umanità, predisponendola in tal modo al suo compimento finale: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno" (6,54); si, la risurrezione vista come il compimento definitivamente compiuto dell'uomo in ogni sua dimensione.

 

Si noti, come Giovanni si esprime: "Chi mangia ... e beve ... ha la vita": i verbi qui sono al presente per indicare che questa vita si compie già fin d'ora in questo presente storico e predispone l'uomo alla vita piena e definitiva che, invece, dovrà venire, ma che in qualche modo è già presente: "... io lo risusciterò nell'ultimo giorno".

 

E' l'escatologia presenziale che percorre tutto il vangelo di Giovanni e lo caratterizza.

 

Ma come accedere a questa vita?  La risposta è semplice e chiara: "... perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna" (3,15). La fede, dunque, è l'unica risposta adeguata per poter accedere a questa vita. Una fede che va intesa come la totale apertura della propria vita Dio, un'apertura che si fa accoglienza, un'accoglienza che si fa vita quotidiana.

 

Si tratta, quindi, di una esistenzializzazione della fede, così che l'esistenza diventi un "esistere nella fede". E' quanto Paolo stesso dice di se stesso: "Questa vita che io vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio" (Gal. 2,20b); e questo porta a dire Paolo: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal.2,20a). Una fede, quindi, che pone Paolo in Cristo, il quale, a sua volta, prende possesso di Paolo. Si tratta, dunque, di una fede che crea una profonda compenetrazione, quasi un'osmosi, tra il credente e Cristo.

 

Ma da dove nasce questa fede?  Giovanni risponde: "... chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita" (5,24).

 

In questo breve versetto Giovanni esprime tutta la dinamica della salvezza: l'ascolto della parola porta inevitabilmente, quasi come conseguenza logica, al credere e il credere apre alla vita eterna e questo fa evitare, da un lato, già da subito, il giudizio di condanna; dall'altro crea all'interno del credente una profonda dinamica di evoluzione e di trasformazione, che lo coinvolge in ogni suo aspetto, riproducendo in se stesso il morire e il vivere di Cristo stesso, per cui la vita del credente è un continuo passaggio dalla morte alla vita.

 

Quando, poi, Giovanni parla di credere "in lui" usa in greco due particelle che danno un diverso significato al verbo credere: "en" e "eiV".  La prima indica stato in luogo, per cui il credere pone il credente in Cristo, lo rende partecipe della sua vita, lo incorpora a lui così che egli diventa cristificato. La seconda indica un moto al luogo, per cui il credere diventa un cammino verso Cristo, un orientarsi esistenzialmente a lui, un decidere la propria vita per lui.

 

Le due particelle, pertanto, dicono bene l'idea del credere: esso è un cammino esistenziale verso Cristo e che trova il suo pieno appagamento e la sua piena realizzazione in lui, facendo passare il credente dalla morte alla vita e collocandolo definitivamente nella vita che è Cristo; e tutto ciò già fin d'ora.

 

La fede, dunque, colloca l'uomo in Cristo e in lui gli consente di partecipare alla vita eterna. Ma in che cosa consiste questa vita eterna?, Giovanni risponde: "Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato Gesù Cristo" (Gv 17,3). Il credere immette, dunque, nella conoscenza di Dio. Ma che cosa significa "conoscere"? Per l'ebreo, dalla mentalità concreta e immediata, il conoscere, prima ancora di essere un processo intellettivo, è uno sperimentare, un fare esperienza. Conoscere Dio e Gesù Cristo, suo Figlio, significa, dunque, esperimentare Dio, avere esperienza di Lui e del suo mondo offertoci nel Cristo. E il mondo di Dio, che ci è stato rivelato nel suo Figlio, è un mondo di vita, che esprime tutto il dinamismo dell'incontro, dello scambio, dell'accoglienza e della donazione. Un mondo che è comunione proprio perché Dio è Amore, cioè espressione massima di questa comunione.

 

Coinvolti in questo mondo divino, che è squisitamente trinitario e, quindi, di comunione, siamo resi capaci di comunione, che si esprime nell'amore, nell'accoglienza, nella donazione e che viene testimoniato nella condivisione. Tutto ciò riesce a trasformare i nostri rapporti interpersonali e a costituire tra di noi quella divina comunità di amore, che è la Trinità stessa.

 

E', ancora, una vita che libera definitivamente dalla morte, poiché "Io sono la risurrezione e la vita". Gesù, dunque, si pone come "risurrezione", che esprime la rigenerazione dell'uomo alla vita stessa di Dio e lo immette nel suo mondo; una vita che per sua natura, perché divina, è continuamente rigenerante e per questo vita piena e definitiva, che ci colloca pienamente e definitivamente in Dio e ci consente di fare comunità di comunione con Lui.

 

Il peccato: contrapposizione alla vita

 

"In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; ... ma le tenebre non l'hanno accolta" (Gv 1,4). Ecco, dunque, il senso del peccato per Giovanni: il rifiuto della luce, cioè di Cristo, luce degli uomini. E' la risposta sbagliata dell'uomo all'offerta del Padre: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). L'amore del Padre è tale che si fa dono nel Figlio e l'accoglienza di tale dono, per mezzo della fede, innesta l'uomo nella stessa vita di Dio.

 

In Dio, infatti, non c'è alcun intento di condanna per l'uomo, ma tutta la sua azione mira a recuperarlo alla sua stessa vita. Dio, infatti, è totale accoglienza: "Dio infatti non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3,17)

 

Ma, benché il dono del Figlio non voglia esprime nessun giudizio sull'uomo, tuttavia spinge l'uomo a prendere posizione nei confronti di tale dono.

 

A fronte di ciò si crea una situazione di "krisij", cioè di giudizio che l'uomo stesso emette su di sé. L'esito di tale giudizio dipende tutto dalla risposta che l'uomo dà a tale dono, per cui: "chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito suo Figlio" (Gv 3,18). Il mondo, dunque, di fronte all'amore del Padre che si fa dono nel Figlio, si spacca in due: chi crede e chi non crede. Appartenere all'una o all'altra categoria non dipende da Dio, ma dalla risposta che l'uomo dà.

 

Chi non crede, però, è già stato condannato. E questo è un giudizio di condanna che si attua già nel presente ed è di condanna per ché l'uomo con la sua incredulità si pone fuori dalla vita stessa di Dio.

 

L'incredulità, dunque, è il peccato per eccellenza che preclude all'uomo ogni possibilità di salvezza. E' questo il peccato dei Giudei, che si chiudono di fronte a Gesù; è questo il peccato del mondo. Giudei e Mondo in Giovanni sono sinonimi: entrambi, infatti, assumono una valenza di chiusura e di lontananza da Dio che si fanno chiusura di rifiuto.

In questo orizzonte anche il credente è sottoposto ad un duplice peccato: un peccato che conduce alla morte e uno che non conduce alla morte (1Gv 5,16-17). Soltanto il primo è veramente mortale, perché pone fuori da Dio: è il rifiuto di Dio, il rinnegarlo nel suo Cristo.

 

Ogni altro peccato è frutto dell'iniquità, di cui è pervaso l'uomo per la sua fragilità, ma questo non conduce alla morte, perché, dirà Paolo, "Non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1).

 

L'importante, dunque, è rimanere in Cristo, è l'accoglierlo nella propria vita, benché questa sia pervasa di fragilità. L'importante è camminare sempre in Cristo, anche se per la caducità del nostro essere, talvolta si cade. Questo è il peccato che non conduce alla morte.

In tal senso, è significativo quanto dice Gesù agli scribi e ai farisei che gli conducono un'adultera, perché emetta su di lei un giudizio: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra" (Gv 8,7). Ma chi è senza peccato? Nessuno. Infatti: "... se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani, fino agli ultimi" (Gv 8,9). 

 

Questo sta a significare che la condizione di peccato è propria dell'uomo e fa parte, suo malgrado, della sua natura decaduta. Un concetto questo che verrà ripreso anche da Paolo: "E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio" (Rm 3,23).

 

Ma l'incredulità e il rifiuto di Dio esistenzializzati hanno già scritto in loro stessi la propria condanna. E questo è il peccato che conduce alla morte.

 

L'escatologia giovannea

 

In contrapposizione alle attese future del giudaismo e ad un certo atteggiamento cristiano volto prevalentemente al futuro, quasi che la salvezza piena fosse riservata alla fine dei tempi, Giovanni sviluppa in tutto il suo vangelo un'escatologia che ha radici già qui nel presente. E' ciò che viene definito come "escatologia presenziale", cioè le realtà ultime, che già hanno incominciato a rendersi presenti con la venuta di Gesù.

 

In questa escatologia presenziale, punto di partenza rimane la volontà salvifica di Dio, che "non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3,17) e Gesù riprenderà questo concetto, lo farà proprio confermandolo: "non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo" (Gv 12,47).

 

In questa prospettiva il discorso della salvezza, cioè del compimento definitivo e pieno dell'uomo, assume una connotazione marcatamente cristologica: è lui l'alfa e l'omega (Ap 22,13). Nella sua lettera agli Efesini, Paolo vedrà Cristo come il punto ricapitolatore di tutte le cose (Ef 1,10) e il centro attuatore del disegno salvifico del Padre. Per ben dieci volte, infatti, in questo inno cristologico (Ef 1,3-14) si dirà "in lui", "per opera di Gesù Cristo", "nel suo Figlio diletto", "nel quale", "in lui", "in Cristo", mettendo in netto rilevo la centralità della figura di Cristo nell'attuazione della salvezza, cioè del recupero dell'uomo alla sua dimensione primordiale.

 

Ma questa salvezza e questa condanna, due aspetti contrapposti di un'unica realtà: la vita eterna, che è la vita stessa di Dio offerta anche all'uomo, trovano la loro origine già qui nel presente: "Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato" (Gv 3,18). I verbi qui usati da Giovanni sono tutti al presente e condizionano la salvezza al "credere", cioè all'aderire esistenzialmente, ora, alla proposta di salvezza del Padre, che si è fatta dono nel Figlio.

 

La salvezza o la condanna, pertanto, l'uomo se le gioca qui in questa vita, ora, in questo presente: egli ha partita vinta se aderisce esistenzialmente, ora, al "Verbo della vita"; sarà dichiarato il suo fallimento se rigetta questo "Verbo" e si chiude esistenzialmente a Lui.

 

Paradiso, Inferno, Giudizio, mondo dello Spirito, mondo di Dio sono realtà già presenti e pesano sull'uomo come un giudizio già avvenuto. Sono realtà che si impongono all'uomo fin d'ora e già, fin d'ora, l'uomo è chiamato a prendere esistenzialmente posizione nei confronti di queste realtà. Infatti, "chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita" (Gv 5,24).

 

Se osserviamo attentamente, i verbi qui sono tutti rigorosamente al presente; ciò significa che il gioco della salvezza o della condanna si compie in questo momento e l'uomo è chiamato, ora, a decidersi esistenzialmente; e nell'istante che egli si decide per il Cristo "è passato dalla morte alla vita". Il verbo greco, qui usato, è un perfetto (metabebhken) che indica un'azione che si è già compiuta (è il momento della nostra scelta), ma che continua il suo processo di evoluzione nel presente, caratterizzando il vivere dell'uomo. Questo significa che  ciò che determina la nostra evoluzione verso la vita o verso la morte trova la sua origine in una opzione fondamentale, che qualifica l'uomo per la vita o per la morte e che delinea il suo stile di vita, già fin d'ora.

 

E' il "credere", cioè l'aderire esistenzialmente a Cristo, il decidersi per lui con la propria vita, che consente all'uomo di "conoscere", cioè di essere fin d'ora inserito nella vita divina, di condividerla e di sperimentarla.

 

Per Giovanni, dunque, non c'è da aspettare la fine del mondo e il realizzarsi pienamente delle realtà ultime, ma il giudizio è già si compie ora.

 

Ma da dove nasce questa escatologia presenziale di Giovanni?

 

Giovanni compie un semplice ragionamento, che espone all'inizio del suo vangelo: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio ... E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria" (Gv 1,1-2.14). In altre parole: il mondo di Dio, le realtà di Dio, da cui proveniamo e verso cui siamo chiamati,  si sono fatte carne e sono venute ad abitare in mezzo a noi.

 

Quindi, l'eschaton finale, verso cui l'uomo e la sua storia sono incamminati, si è già reso presente in mezzo a noi, fa parte ormai di noi, cammina in mezzo a noi. Questo eschaton finale si chiama Cristo. Non dobbiamo, pertanto, aspettare la fine dei tempi per entrare in questo eschaton poiché esso è già in mezzo a noi e con la sua presenza ci interpella e ci spinge a prendere posizione nei suoi confronti. L'ultimo giorno, pertanto, non sarà diverso da questo giorno che stiamo vivendo ora.

 

In questo "Eschaton finale" noi già siamo inseriti fin dall'eternità. In tal senso Paolo non ha dubbi: "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo" (Ef 1,4). Questa elezione è stata ora resa stabile e definitiva da Cristo: "nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia" (Ef 1,7).

 

L'uomo, pertanto, vive già, ora, in questo "Eschaton finale", per cui qualsiasi scelta che egli opererà non sarà indifferente sul suo esito definitivo, perché l'uomo si muove già nei tempi ultimi.

 

Pertanto, chi crede è già passato ora dalla morte alla vita. Vita eterna e Giudizio, quindi, sono realtà che si pongono già qui nel nostro presente. La nostra opzione fondamentale  racchiude già in sé un giudizio, che può essere o di condanna o di salvezza, a seconda della posizione che l'uomo prende nei confronti di questo "Eschaton finale": adesione esistenziale o rifiuto esistenziale, adesione o rifiuto, cioè che si compiono con il nostro vivere, lo qualificano delineando in esso un nostro stile di vita.

 

Sarà proprio questo nostro stile di vita che compirà il nostro giudizio finale, poiché noi saremo ciò che siamo stati ora. Non dobbiamo pensare che, alla fine, la misericordia di Dio ci salverà tutti, poiché, in quel momento, Dio non potrà farci più niente, perché quello che doveva fare lo ha già fatto. Proprio perché noi viviamo, ora, nell' "Eschaton finale" noi stessi ci costituiamo giudizio a noi stessi e, qui, Dio non centra proprio niente: Egli si limiterà, suo malgrado, a constatare la nostra scelta esistenziale, resa definitiva nell'Aldilà.

 

Il giudizio

 

Dio, pertanto, non giudicherà nessuno e tanto meno condannerà nessuno, perché Dio è pura accoglienza, soltanto amore e l'inferno che l'uomo si è scelto nella sua vita costituirà anche l'inferno di Dio.

"Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto" (Gv 3,16-18)

 

A differenza dei Sinottici che pongono il giudizio alla fine dei tempi con il ritorno del Signore, Giovanni anticipa questo evento e lo fa coincidere con la decisione di fede: "chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato" per la sua incredulità.

 

La scelta di fede è l'opzione fondamentale, è il decidersi esistenzialmente per Dio, è ciò che Paolo chiama "vivere per il Signore" (   ). Per questo con la sua scelta di fondo l'uomo già emette su se stesso un giudizio di salvezza o di condanna, per cui si autoesclude, fin da subito, dalla "Vita eterna".

 

Al contrario "chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita" (Gv 5,24).

 

Tutto si attua e tutto si gioca qui nel presente, anche se non manca in Giovanni la dimensione di un giudizio legato all'ultimo giorno: "Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: La parola che ho annunziato lo condannerà nell'ultimo giorno" (Gv 12,48).

 

Si noti bene come in questa espressione si giochi escatologia finale e presenziale insieme: "Chi mi respinge ... ha chi lo condanna". In altri termini, il rifiuto che si attua oggi porta in sé già la condanna: rifiuto e condanna vanno sempre di pari passo; entrambi i verbi sono al presente.

 

Nella seconda parte dell'espressione, Gesù pone la condanna nell'ultimo giorno. Non si tratta, di certo, di un'altra condanna: è sempre quella che già si attua oggi, ma che allora sarà resa definitiva: sarà per sempre, perché l' "oggi", nel suo divenire storico, si farà "ultimo giorno", quando i giochi, compiuti nell'oggi, diventeranno definitivi.

 

 

 

 

 

 

 

PARTE TEOLOGICA

 

 

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

ALLA

ANTROPOLOGIA TEOLOGICA

 

(Sunto e Riflessioni sul testo di Luis Ladaria

 Ed. Piemme - Traduzione di Giuseppe Occhipinti)

 

 

 

 

 

Introduzione

 

Si può parlare dell'uomo sotto vari punti di vista: filosofico, psicologico, medico, sociologico e, perché no, anche teologico. In quest'ultimo caso l'uomo è visto nell'orizzonte divino: l'uomo nel suo rapporto con Dio; l'uomo posto in relazione con Dio, che in Cristo ha assunto il volto del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Un uomo, quindi, che si comprende alla luce di un Dio che si è fatto uomo per rivelargli il suo mistero e la sua più profonda vocazione: quella di essere ricostituito nel ciclo vitale di Dio da cui proviene.

 

L'antropologia cristiana, cioè la visione dell'uomo e la sua ricomprensione alla luce del Cristo risorto, si fonda su quattro pilastri fondamentali:

 

·    L'uomo trova la sua origine primordiale in un semplice atto di amore creativo del Padre, da cui tutto proviene e in cui tutto trova la sua giustificazione. Egli è fatto ad immagine di questo Dio, cioè è stato reso partecipe della sua stessa vita, una vita che è totale apertura; apertura che si fa totale donazione; donazione che si fa accoglienza e che lo lega agli stessi destini di Dio.

 

·    Quest'uomo è posto in un giardino perché lo coltivi e lo custodisca. Egli è costituito in tal modo il partner di Dio nella creazione e, come ultimo atto della stessa, ne è costituito suo rappresentante, voce del creato. La sua dignità è qualificata dalla libertà, cioè dalla capacità di autodeterminarsi e di porsi davanti a Dio, divenendo, così, il suo primo interlocutore. Infatti, solo nell'incontro di due libere volontà, che si fanno reciproco dono e accoglienza, ci può essere l'incorporazione della creatura nel suo Creatore. Diversamente, c'è prevaricazione che pone Dio e l'uomo fuori dalle logiche dell'amore.

 

·    Sfortunatamente questi due aspetti del progetto divino vengono a cozzare contro un uomo decaduto e degradato dalla colpa originale, frutto di un malinteso senso della libertà, che ha spinto l'uomo non a donarsi a Dio, ma a prevaricarlo. Fu così che l'uomo si scopre nudo, privo cioè dello Spirito di Dio che lo conformava a Lui; e, tragicamente, si ritrova rivestito da una pelle di animale, segno inequivocabile della sua decadenza. Una colpa originale non soltanto perché posta all'origine della sua avventura divina, ma anche perché tale colpa è all'origine di ogni peccato, espressione concreta di quello originale. Da questo momento in poi per lui nulla è più come prima e con lui è travolta anche l'intera creazione con la quale forma un tutt'uno inscindibile.

 

·    Ma Dio non si rassegna alla perdita del suo partner e fin dall'origine gli fa capire che non lo abbandona al suo triste destino. Ha così inizio la storia della salvezza, cioè il tentativo di Dio di recuperare l'uomo alla sua dimensione primordiale. Essa troverà la sua attuazione nel Cristo risorto, l'uomo nuovo, ricreato ad immagine e somiglianza di Dio. Il nuovo Adamo da cui discende una nuova umanità, nuovamente conformata al suo Creatore. Nel Cristo risorto l'uomo e la creazione sono ricondotti, questa volta definitivamente e per sempre, nel ciclo vitale di Dio in cui vivono e si muovono. Una vita che è segnata, qui nella storia, da una profonda e dinamica relazione con il mondo di Dio, scandita dalla fede, che apre l'uomo a Dio e lo spinge a decidersi per Lui; dalla carità, testimonianza sacramentale dell'amore divino, che è costitutivo della vita stessa di Dio, di cui l'uomo fin d'ora è partecipe; dalla speranza, che è promessa certa della sua ricongiunzione piena e definitiva a quelle realtà che aveva miseramente perduto. E tutto ciò in Cristo, per Cristo e con Cristo, a cui la lode e la gloria nei secoli. Amen.

 

 

LA TEOLOGIA DELLA CREAZIONE

 

 

 

 

Premessa

 

E' inevitabile quando si parla dell'uomo fare riferimento anche alla creazione. Tra i due, infatti, vige un profondo legame di solidarietà testimoniato fin da principio. Innanzitutto, la creazione dell'uomo viene posta nel sesto giorno, quale vertice della creazione stessa alla quale l'uomo è strettamente legato non soltanto per natura, ma anche da responsabilità nei suoi confronti. Dio, infatti, gli affida il giardino perché lo coltivi e lo custodisca, ma anche perché domini sui pesci del mare e gli uccelli del cielo. E dopo la colpa "Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra ... la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra" (Gen. 6,12-13). La terra, dunque, l'intero cosmo sono profondamente vincolati in solido tra di loro. Lo ricorderà anche Paolo nella sua lettera ai Romani in cui "la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio ... e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" (Rm 8, 19-21). Il destino dell'uomo è quello della creazione, di cui l'uomo è la parte più elevata di un tutto a cui appartiene.

 

La mediazione di Cristo

 

Non si può parlare della creazione senza porla in relazione alla storia della salvezza, che trova il suo culmine in Cristo. Essa già si pone come mistero di salvezza e come primo atto rivelativo di questo mistero. In essa l'uomo può ritrovare Dio e intuire il suo disegno con la sola forza del suo intelletto. Infatti, "dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità" (Rm 1,20).

 

Sarà così anche per Israele, il quale sa leggere teologicamente la storia e vede nella sua liberazione l'intervento di Dio e gli farà capire come il Dio che lo ha eletto tra i popoli è anche il Dio di quei popoli che egli domina e si serve per condurre la sua storia. Un Dio che universalmente estende il suo dominio su tutti i popoli non può non essere anche il creatore. E sarà proprio nel ripensamento sapienziale della propria storia che Israele attribuirà la creazione dell'intero cosmo a Dio: "Certo, non aveva difficoltà la tua mano onnipotente, che aveva creato il mondo da una materia senza forma ..." (Sap. 11,17); e ancora "Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l'avessi chiamata all'esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte sono tue, Signore, amante della vita" (Sap. 11,25-26).

 

C'e, quindi, una continuità logica tra la creazione del mondo e l'azione storica di Dio, il cui fondamento è lo stesso amore di Dio, definito "amante della vita" e si manifesta nella cura quotidiana per ogni vivente: "... dà il cibo ad ogni vivente, perché eterno è il suo amore" (Sal.136,25).

 

Giunti, pertanto, alle soglie del N.T., l'origine divina della creazione e la storia come il luogo privilegiato del manifestarsi dell'azione di Dio sono un dato, ormai, già definitivamente acquisito.

 

Negli scritti neotestamentari il Dio creatore è ricompreso come "... il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui" (1Cor. 8,6). Questo Cristo, poi, è visto come " ... l'immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle dei cieli e quelle della terra ... Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in  lui. " (Col.1,15-17). A questa azione mediatrice del Cristo nella creazione corrisponde, nel disegno del Padre, in chiave escatologica, anche la sua funzione ricapitolatrice. Infatti il Padre "... ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà ... il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra" (Ef. 1,9-10).

 

Questa azione creatrice e ricapitolatrice del Padre in Cristo è vista, alla luce dell'evento pasquale, in una funzione squisitamente soteriologica e riconciliatrice. Infatti, "... piacque a Dio far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui conciliare a sé tutte le cose ... rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli" (Col.1,20). Con ciò il progetto di salvezza viene esteso a tutta la creazione e in Cristo, azione del Padre nella storia, si vede la chiave interpretativa di tutta la realtà cosmica.

 

In questa prospettiva, la creazione non è una realtà neutra, ma il presupposto per lo sviluppo dell'azione redentrice del Padre in Cristo; ciò significa che la creazione è l'inizio di questa storia di salvezza che culminerà con Cristo, in cui tutti sono attratti: "quando sarò innalzato attirerò tutti a me" (Gv 12,32).

 

Nell'ambito di tale logica il mondo, l'intera creazione è vista come un armonioso disegno di salvezza che defluisce dal Padre e si attua nel suo Cristo; per questo il mondo non è qualcosa di caotico, ma è ordinato, anzi preordinato a trovare il suo pieno compimento in Cristo, ragione e armonia dell'universo; una ragione che si estende e ingloba l'intera umanità; per questo ogni uomo nella creazione può cogliere questo progetto e questa azione di Dio, che lo coinvolge e lo interpella.

 

La fedeltà di Dio alla sua opera

 

Secondo la teoria del Bing-Bang l'universo è in continua espansione, mentre quella evoluzionistica ci insegna che il mondo è in continua evoluzione. Teilhard de Chardin ribadisce che tutto il cosmo e con lui l'intera umanità tendono alla loro pienezza verso il "Punto Omega". Da questo "Centro divino di convergenza" si emana un'energia che pervade l'intero cosmo che lo sostiene, lo stimola, lo spinge e lo attrae verso di sé e che solo gli spiriti mistici, secondo Teilhard, sono in grado di recepire; questi spiriti mistici che sono la punta più evoluta dell'intera umanità e dello stesso Universo.

 

Questa visione intuitiva di un archeologo, dalle forti spinte mistiche, si associa alla visione evoluzionistico-escatologica dell'intero cosmo e della stessa umanità offertaci da Paolo nella sua prima lettera ai Corinti: "Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dai morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno, però, nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padredopo aver ridotto al nulla ogni principato e potestà e potenza ... L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa sarà posta sotto i suoi piedi. ... E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti" (1Cor 15,20-28).

 

Alla base di questa grandiosa visione ci sta la potenza della stessa risurrezione di Cristo, principio motore di ogni evoluzionismo che spinge con forza l'intero cosmo e l'umanità verso i cieli nuovi e la terra nuova, vaticinati da Isaia e contemplati da Giovanni nella sua Apocalisse e che già si sono compiuti proprio nella risurrezione di Cristo.

 

Il Cristo risorto, che proprio in virtù della sua risurrezione è diventato il Cristo cosmico, permea l'intera creazione, la sostiene nel suo cammino evolutivo verso il mondo dello Spirito, i cui segni qualificanti sono l'amore e la comunione.

 

La creazione, pertanto, ultimata nel sesto giorno, è in cammino verso il suo settimo giorno, il tempo del compimento nello Spirito, il tempo del suo definitivo ritorno in Dio da cui è scaturita.

 

Tra la creazione iniziale e la nuova creazione si pone la "creazione continua". Dio, infatti, non finisce di agire nel mondo e nella storia e la sua azione creatrice si manifesta nel sostenere l'uomo nel suo cammino verso il compimento della storia, in cui egli assume il volto della Provvidenza, che pervade il cuore di ogni singolo uomo e lo sostiene con la forza del suo Spirito, prospettandogli sempre mete nuove e rinnovatrici.

 

Ed è proprio questa azione persistente e silenziosa di Dio, che si svolge nel cuore del mondo e nel cuore di ogni singolo uomo, che prende forma e consistenza il volto della stessa fedeltà di Dio verso l'uomo. Un uomo che non è mai abbandonato al suo destino, ma che Dio, fattosi storia, incontra nella sua storia, che si fa, in tal modo, stria della salvezza.

 

Ma l'opera di Dio presuppone anche la necessaria opera dell'uomo, anzi, è proprio attraverso l'opera dell'uomo che prende forma e concretezza quella di Dio. Non va mai dimenticato che fin dalle origini Dio, dopo il suo primo atto creativo, ha costituito l'uomo suo partner nel giardino cosmico. Da questo momento in poi Dio opera nella creazione per mezzo del suo partner, che è stato elevato alla dignità divina e costituito un essere libero, capace di offrire, ma anche di rifiutare la sua collaborazione. Ma è soltanto nel suo prestarsi a Dio che l'uomo trova il senso del proprio mistero e della propria compiutezza. Il mito della Torre di Babele si erge alto nei secoli ad ammonimento per l'intera umanità. Esso è il mito dei un'umanità che vuole costruire la propria evoluzione e il proprio progresso indipendentemente da Dio, anzi contro Dio. L'esito è fatale: la confusione delle lingue. E' l'uomo che non è più capace di intendere se stesso, di relazionarsi agli altri; un uomo che ha perso la propria identità perché ha perso la sua origine, di cui era stato costituito "immagine e somiglianza".

 

 

Dio ha creato il mondo liberamente e per la sua gloria

 

 

"In principio Dio creò il cielo e la terra" (Gen 1,1). "In principio Dio". Dio, quindi, si pone quale principio di tutto: egli è il principio emanatore di ogni creazione e da cui tutto discende e promana. Quindi la Bibbia legge Dio come puro atto creatore. Al principio, dunque, si pone soltanto Dio. E' certo, pertanto, che la sua azione creatrice fu ed è un'azione perfettamente libera dettata soltanto dall'amore, elemento costitutivo di Dio. L'amore in Dio si pone come totale apertura, totale donazione e totale accoglienza.

 

In questa prospettiva l'intera creazione diventa conseguenza di questo atto di amore che, proprio perché di amore, non può che essere libero; una libertà che si fa donazione e accoglienza nello stesso tempo. E il primo atto creativo è proprio, e non a caso, la luce. Essa non va confusa con il sole, la luna e le stelle, che vengono create successivamente nel quarto giorno. La luce, infatti, esprime l'essenza stessa di un Dio che si rivela e si manifesta nelle creature e che le illumina e le pervade con la sua presenza e infonde in loro la sua impronta.

 

Se la creazione è espressione di un atto libero che si radica nell'amore, questo amore trova la sua concretezza nel secondo atto creativo di Dio a cui il primo è finalizzato: il suo Cristo che viene, come la prima creazione, liberamente donato all'umanità, perché liberamente accogliendolo sia incorporata a Lui e in Lui definitivamente in Dio, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti.

 

Ma proprio perché l'uomo è impronta di Dio, esso è stato creato perfettamente libero; diversamente l'uomo sarebbe stato tutto fuorché partner di Dio; avrebbe fatto tutto, fuorché dialogare con Dio. Soltanto nella libertà, che si esprime nell'amore, è possibile un rapporto realizzante. Solo così Dio può riconoscersi e ritrovarsi nell'uomo e l'uomo scoprire in sé la propria divinità donata, che lo rende capace di piena realizzazione e di piena umanità.

 

Ed è proprio attraverso questa umanità, liberamente accogliente e divinizzata nel suo Cristo, che il Padre continua la sua opera creatrice nel mondo e spinge l'uomo verso una sempre più perfetta umanizzazione, che è realizzazione piena della prima creazione e che trova nel Cristo risorto il modello di una nuova e definitiva umanità, aperta a Dio e con lui collaborante.

 

Dio nel creare l'uomo libero ha, in qualche modo, rinunciato ad una propria totale e piena libertà per dare spazio a quella dell'uomo, così che l'uomo si pone nel mondo come il proseguimento della libertà di Dio. La libertà umana, quindi, altro non è che lo spazio divino che Dio ha riservato al proprio partner perché operando nella creazione la porti a compimento.

 

Ed è nella libertà, quale scintilla divina in lui posta, che l'uomo è costituito responsabile verso la creazione, di cui non solo è il rappresentante, ma anche ne è parte integrante. Questo deve far ricordare all'uomo che il destino della creazione coincide con il proprio destino e che ogni abuso che egli opera nella creazione restringe fatalmente i suoi spazi vitali.

 

La Trinità e la creazione

 

In una lettura e ricomprensione cristiana dell'atto creativo, che si pone agli inizi della Bibbia, vediamo come questo è un atto squisitamente trinitario. Dio, del resto non può che operare trinitariamente, poiché la sua natura rivelataci è trinitaria. Non esiste Dio in sé e per sé, ma  soltanto il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che sono Dio; o, se si vuole, esiste Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo.

 

Infatti, già agli inizi vediamo lo Spirito di Dio che aleggia sul caos primordiale (Gen 1,2). Ma ecco che "Dio disse: <<Sia la luce!>>. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona." (Gen 1,3).

 

Osserviamo attentamente: tra quel "Dio", cioè il Padre, e la luce si pone di mezzo quel "disse". Essa è la Parola del Padre, una Parola rivelatrice, in quanto svela la volontà del Padre; e creatrice, in quanto attua ciò che dice. Tra il rivelare e il dire non ci sono spazi intermedi, ma perfetta identità. Essa, infatti, è una Parola "viva ed efficace" (Eb 4,12), cioè è un essere vivente; ed è efficace, cioè produce ciò che dice.

 

Vediamo, quindi, come la creazione sia un'azione trinitaria. Tommaso d'Aquino stesso, del resto, vede la creazione come un prolungamento delle processioni trinitarie: la generazione del Figlio e la processione dello Spirito sono "ratio e causa" della creazione, che è collocata, quindi, nel cuore stesso della vita trinitaria, che è vita di relazione e di amore.

 

La creazione, pertanto, si pone come atto generativo di Dio. Il Padre, infatti, non è tale perché crea, ma crea proprio perché è Padre, cioè potenza generativa da cui ogni vita sgorga e defluisce. Ed è tale perché da sempre si comunica al Figlio e da sempre è a lui unito in una profonda compenetrazione ed osmosi di amore, che è lo stesso Spirito. Ebbene, è proprio questa sua capacità di amore, che rende la Trinità potenza effusiva da cui sgorga, da atto puramente libero, l'intera creazione, impronta del suo libero amore, in cui Dio si fa ritrovare dall'uomo (Rm 1,20).

 

 

 

L'UOMO IMMAGINE DI DIO

 

 

 

Premessa

 

Dopo aver contemplato la maestosa grandiosità di Dio e la sua magnificenza, il Salmista rivolge lo sguardo sull'uomo e si interroga: "... che cos'è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi?" (Sal 8,5) e vede in lui riflessa la stessa gloria di Dio e la sua potenza. L'uomo, dunque, si pone quale impronta del mistero di Dio in seno alla creazione. Un mistero che trova la sua luce in quello del Cristo risorto, nuovo Adamo che ha restituito all'uomo la sua originale immagine di Dio, rendendolo nuovamente conforme a Lui per mezzo della potenza dello Spirito.

  

 

Il tema dell'immagine nell'AT e NT

 

 

La Genesi ci tramanda una doppia creazione dell'uomo: l'una di tradizione sacerdotale (Gen 1,26-28); l'altra tradizione jawista (Gen 2,7-18). Le due tradizioni ci danno un'idea completa sull'uomo, spiegandoci in che cosa consiste il suo essere "immagine e somiglianza".

 

Nella tradizione sacerdotale, vediamo come questa "immagine e somiglianza" si costituisce, innanzitutto, con uno specifico atto deliberativo di Dio: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza". Così facendo la Bibbia pone subito l'uomo in una stretta relazione con Dio; ne fa una sorta di sua copia sulla terra e ne specifica i contenuti.

 

Tre sono gli elementi che la qualificano:

 

·   "maschio e femmina li creò": sono i due principi che se da un lato configurano l'uomo come maschio e come femmina, dall'altro ne esprimono la sua socialità. Questi due principi sono entrambi presenti in Dio e ne fanno la fonte prima della vita. Infatti, soltanto quando il maschio e la femmina diventano una sola carne generano la vita; una vita che, proprio per questo duplice aspetto, si qualifica come vita essenzialmente di comunione e soltanto in questa comunione essa può continuare ad essere vita che si autogenera.

 

·    "Dio li benedisse e disse loro: <<Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra>>". Qui l'uomo viene qualificato come benedizione di Dio, cioè come principio di fecondità che si fa fertilità, moltiplicando la vita sulla terra e riempiendola di vita. La fecondità indica la capacità generativa, mentre la fertilità esprime l'attuarsi della fecondità. Fecondità e fertilità sono anch'esse qualità proprie di Dio, dalle quali defluisce con irruenza e prepotenza la vita che riempie tutta la terra. Una terra, quindi, pervasa dalla vita è una terra permeata dalla presenza stessa di Dio.

 

·    "Soggiogatela e dominate sui pesci del mare s sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra".  E' il terzo aspetto con cui si attua l'immagine di Dio, la quale rende l'uomo a Lui somigliante; ne fa una copia fedele di Dio, rappresentativa dell'originale in terra, dove esercita, quasi per procura, la signoria universale sul creato.

 

Da questi brevi cenni vediamo come questa immagine, che rende l'uomo somigliante a Dio, non solo lo relazione al suo Creatore, ma fonda e motiva teologicamente il rapporto con il mondo, che è un rapporto di signoria, ed è fondamento e giustificazione del rapporto degli uomini tra di loro.

 

Se la tradizione sacerdotale assimila le funzioni dell'uomo a quelle di Dio, la tradizione jawista lo qualifica per altri tre aspetti:

 

·   "Il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo". Se l'uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio, qui lo jawista ci ricorda che esso è e rimane pur sempre una creatura, il cui elemento costitutivo è la "povere del suolo". Vedremo, infatti, come quando l'uomo si dimenticherà di questa sua dimensione creaturale ponendosi in diretta concorrenza con il suo Creatore, esso cadrà miseramente.

 

·    "Soffiò nelle sue nari un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente". Benché creatura costituita di polvere, l'uomo viene assimilato alla stessa vita divina ed è ciò che lo fa immagine e somiglianza di Dio. Soltanto due volte in tutta la Bibbia vediamo un Dio che soffia: qui e in Gv 20,22: "Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo ...>>." Il soffio di Dio, quindi, è lo stesso Spirito di Dio che assimila l'uomo a Dio e lo accorpa nel suo stesso ciclo vitale. E' la divinizzazione stessa dell'uomo. Questa è la sua dignità.

 

·   "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino dell'Eden perché lo coltivasse e lo custodisse". L'uomo,  fatto di polvere e incorporato nella stessa vita divina, viene qui costituito quale partner privilegiato di Dio, il quale gli affida l'intera creazione perché continui la sua opera creativa, che egli ha iniziato, e ne affida la piena responsabilità.

 

L'uomo, dunque, opera nella creazione, a cui è vincolato in solido, in nome e per conto di Dio e ne è responsabile; e in quanto interlocutore primo di Dio nel creato, è parte attiva nella storia, che il Signore ha iniziato e che vuole portare a termine con la libera collaborazione della sua creatura.

 

Non si tratta, dunque, di vedere l'immagine di Dio in questa o quella qualità che caratterizzano l'uomo, ma ci troviamo di fronte alla definizione fondamentale dell'uomo, che abbraccia tutte le sue dimensioni a motivo del germe divino che abita in lui e che tutto lo permea e lo qualifica.

 

Nel N.T. il messaggio così pregnante della Genesi è stato reinterpretato alla luce del Cristo risorto. Infatti, l'immagine di Dio è lo stesso Gesù così come ci suggerisce la 2Cor 4,4: "il glorioso vangelo di Cristo, immagine di Dio"; e la lettera ai Colossesi: "Egli è l'immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura" (Col 1,15). Di conseguenza chi accetta, accogliendolo nella fede, il Cristo è a lui accorpato, diventando, a sua volta, immagine di Cristo, l'uomo nuovo rinnovato con la potenza dello Spirito mediante la risurrezione. In lui siamo stati tutti ricreati ad immagine e somiglianza di Dio; in lui siamo stati rimessi nel circolo vitale della stessa vita di Dio; in lui siamo stati nuovamente configurati a Dio. Infatti, il Cristo risorto è il nuovo e definitivo Adamo, da cui discende una nuova umanità, rinnovata per mezzo della potenza santificatrice dello Spirito, che proprio attraverso questa sua azione ci ha nuovamente accorpati alla stessa Trinità.

 

Nel Signore risorto l'uomo decaduto ritrova la sua primordiale dimensione. Essere uomini, oggi, significa passare dalla condizione del vecchio Adamo a quella di Cristo. Si realizza, pertanto, il progetto salvifico di Dio pensato fin dall'eternità appositamente per noi: "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo" (Ef 1,4-5). Viene qui specificata una elezione "ab aeterno" che ci pone in Cristo coeterni a Dio stesso e la cui finalità è quella di essere incorporati nella stessa vita divina. Una elezione che si fa "predestinazione", cioè progetto che ci vede generati dallo stesso Padre nel suo Figlio per la potenza dello Spirito, che ha operato nella risurrezione di Gesù anche la nostra rigenerazione a Dio.

 

Cristologia e antropologia

 

Sussiste una qualche relazione tra antropologia e cristologia? Ed eventualmente, come si pone tale relazione? Se è vero che il primo Adamo è figura del secondo e che il primo è finalizzato al secondo, in cui trova la sua realizzazione e la sua ricomprensione nonché il suo riscatto, allora dobbiamo dire che il secondo Adamo è la chiave di lettura e interpretativa del primo. In questo caso non solo antropologia e cristologia sono tra loro strettamente vincolate, ma sono altresì coincidenti.

 

Nella prospettiva cristiana, pertanto, fare antropologia significa fare cristologia, cioè rileggere l'uomo alla luce del Cristo risorto, l'uomo per eccellenza, l'uomo rigenerato a Dio per la potenza dello Spirito.

 

In proposito, vediamo, ora, quattro diverse posizioni sulla relazione tra antropologia e cristologia.

 

Karl Barth

 

Barth vede in Cristo la rivelazione piena di Dio fatta all'uomo, in cui l'uomo si rilegge e si ricomprende. Infatti, chi è e che cosa è l'uomo ci viene detto dalla stessa Parola di Dio, così che nella misura in cui Gesù è la rivelazione del Padre, diventa fonte della nostra conoscenza; anzi, proprio perché lui nella risurrezione si rivela l'uomo perfetto, così come pensato e voluto da Dio, egli diventa anche la chiave di lettura e di comprensione del nostro essere uomini.

Gesù si pone nell'ambito della storia della salvezza come il prototipo dell'uomo pensato dal Padre e in lui egli ci accoglie ancora prima di esistere, ancora prima dell'atto creativo: "In lui, infatti, ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo" (Ef 1,4-5). L'uomo, pertanto, non solo è stato pensato da Dio ancor prima di essere creato, ma egli fu già prefigurato, in un certo qual modo, nel Figlio coeterno.

 

Karl Rahner

 

Secondo Rahner la cristologia è l'inizio e la fine dell'antropologia. In quanto inizio, egli afferma che non si dava umanità se il Figlio non si fosse incarnato. Così dicendo il Rahner vede in Gesù il motivo di esistere della stessa umanità. Una posizione che trova fondamento nello stesso Paolo, quando afferma che "Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono" (Col 1,16-17). Una visione questa squisitamente cristocentrica, in cui non solo tutto viene visto come ricapitolato in Cristo (Ef 1,10), ma anche il tutto trova ragione della sua sussistenza soltanto in Cristo.

 

Così si può ben dire, continua il Rahner, che il Logos creatore ha stabilito nella creazione la grammatica, le condizioni per la sua incarnazione. La definizione di uomo, pertanto, viene data e compresa soltanto alla luce dell'incarnazione del Logos creatore, poiché se tutto è stato creato "in vista di lui", è evidente che lui si pone come chiave di lettura e di decifrazione dell'uomo stesso.

 

In quanto fine dell'antropologia, la cristologia diventa il momento in cui il Logos incarnato, trasformato dalla potenza dello Spirito, diviene il punto di arrivo dell'intera umanità, così che ogni uomo è per sua natura orientato a Cristo e in lui trova la risposta ai suoi interrogativi e alle sue inquietudini.

 

W. Kasper

 

Kasper concepisce l'uomo come un'essenza aperta in cerca di una propria definizione. Il Diogene, che in pieno giorno con la sua lanterna, cerca l'uomo, è un'immagine emblematica dell'uomo che va alla ricerca della propria identità. Una ricerca che ha prodotto numerosi tentativi di comprensioni, ma tutti fatalmente incompleti e insoddisfacenti.

 

Questa indeterminatezza dell'uomo, alla ricerca della propria identità, trova il suo approdo nella figura di Cristo che, nella sua morte e risurrezione, si costituisce quale essenza stessa dell'uomo, quale sua irrinunciabile identità: l'uomo è un essere costituito da un amore che si autotrascende e si aliena perché l'altro venga affermato. Questa è la lettura che Gesù ha dato con la sua incarnazione al suo essere uomo; un uomo che, proprio perché coinvolto nella risurrezione, diviene l'uomo per eccellenza, l'uomo definitivo, il prototipo di ogni uomo e in cui l'intera umanità ritrova la sua definitiva identità.

 

Il Cristo risorto, pertanto, diviene la determinazione escatologica dell'uomo, verso cui l'uomo è aperto e orienta il suo cammino nella storia, che diventa così un cammino di senso che illumina tutto il suo esistere.

 

W. Pannenberg

 

Il Pannenberg attribuisce alla figura di Cristo un senso protologico. Non il primo Adamo si pone all'inizio della storia dell'umanità, bensì colui che storicamente, ma soltanto storicamente, viene per secondo. In lui, infatti, è avvenuta la nostra elezione ancor prima della creazione (Ef 1,4). Soltanto Cristo è per Paolo l'uomo vero, fatto ad immagine di Dio (2Cor 4,4); "irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza" (Eb 1,3).

 

Gli uomini vengono configurati a Cristo e, quindi, diventano vera immagine di Dio e a Lui somiglianti, soltanto per mezzo del battesimo, che li riveste di Cristo come di un abito nuovo, spogliandoli del loro vecchio Adamo e costituendoli, già fin d'ora, immagine di Dio, anche se non ancora pienamente (Col. 3,10).

 

L'uomo, pertanto, si ricomprende come storia orientata alla salvezza manifestata in Cristo e la sua natura originale si apre ad un diverso destino prospettato dalla stessa umanità del Cristo risorto.

 

Il passaggio, però, dal vecchio al nuovo Adamo non si fa senza la croce. E' necessario che il vecchio Adamo, segnato dal peccato, sia distrutto per lasciar spazio ad una nuova umanità rigenerata dalla potenza dello Spirito; così che fin d'ora il vecchio Adamo è sottoposto a giudizio dal nuovo Adamo.

 

 

La costituzione dell'uomo: il suo essere personale e sociale

 

 

Si tratta, ora, di vedere come nelle differenti dimensioni dell'uomo, l'uomo visto in rapporto a se stesso e agli altri, si manifesti la condizione di "immagine di Dio" e come questa sua nuova condizione integri e completi il suo essere uomo.

 

Va da sé che né l'AT né il NT hanno la pretesa di sviluppare un'antropologia, costituendosi come testimonianza di fede e lettura teologica della storia, pi che una scienza su cui speculare. Tuttavia essi presuppongono l'uomo, che viene colto come "uomo in dialogo con Dio" ed è proprio all'interno di questo dialogo che l'uomo si ricomprende, trova il senso del proprio esistere e scopre la sua vera identità.

 

L'uomo, che qui viene considerato, è l'uomo nella sua unità e integrità, così come lo incontriamo quotidianamente per la strada e lungo il cammino della nostra vita. E', in buona sostanza, l'uomo di tutti i giorni. E' l'uomo che se, da un lato, sa rifiutare Dio o gli rimane indifferente; dall'altro è capace di mostrarsi ricettivo nei confronti di Dio e aperto alla sua volontà. Ed è proprio quest'ultimo aspetto che mette in evidenza in lui l'azione dello Spirito. Pertanto, il potere di bene che l'uomo ha non gli viene dalla sua natura corrotta dal peccato, ma è lo stesso potere di Dio, cioè l'azione dello Spirito, che opera in lui e piega la sua natura, rendendola docile al suo volere, che è un volere di affermazione piena dell'uomo e non un suo asservimento.

 

Nel NT l'uomo viene visto come una continua contrapposizione dello spirito alla carne, di cui abbiamo un esempio in Mt 26,41; Mc 14,38; Gv 3,6 e 6,63; Rm 8,1-11; Gal 5,16-26 e in altri ancora. E' un uomo, pertanto, colto nella sua situazione concreta di adesione o di rifiuto di Gesù. Un uomo la cui comprensione risente del pensiero ellenistico, in particolare platonico, che propone la visione di un uomo, il cui spirito è prigioniero del corpo e con lui lotta per liberarsene. Una contrapposizione questa che verrà, poi, ampiamente recepita dal pensiero cristiano e che, certamente, deve in qualche modo aver influenzato gli stessi scritti neotestamentari. In tal senso basti pensare al loghion di Gesù propostoci da Mt 10,28: "Non vi spaventate per quelli che possono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l'anima. Temete, piuttosto, colui che ha il potere di far perire nella Geenna e l'anima e il corpo". Ma è soprattutto Paolo, personaggio dalla polivalente cultura, a risentirne maggiormente.

 

Una dicotomia e una contrapposizione sconosciuta al mondo ebraico che concepisce l'uomo come una unità di anima e corpo che si compenetrano profondamente, così che l'uomo è concepito come una carne spiritualizzata e uno spirito incarnato.

 

Secondo i parametri della moderna antropologia, l'uomo è visto non come un possessore di un'anima e di un corpo, ma egli è anima e corpo, visti quali elementi costitutivi del suo essere nella dimensione spazio temporale.

 

In quanto corpo, egli è parte di questo cosmo e va verso la distruzione finale, che coincide con la sua morte, quale momento culminante di un morire che si protrae lungo tutta la sua vita, così che il suo vivere è in realtà un lento e progressivo morire; e ciò che egli chiama "divenire" è in realtà un "morire" che inizia già dal suo concepimento.

In quanto anima, l'uomo trascende i condizionamenti di questo mondo e si apre ad un futuro che da senso al suo "vivere-morire", lo apre alla speranza, che assume il sapore dell'immortalità e lo fa "essere per Dio" in cui riscatta il suo morire.

 

Solo così ha senso la concezione dell'uomo quale "immagine di Dio", chiamato alla comunione con Dio, già attuata nel suo essere configurato al Cristo risorto, anche se non ancora pienamente compiuta. Ed è proprio questo suo "già, ma non ancora" che lo pone, fin d'ora, in una forte tensione escatologica, che illumina il suo presente come un cammino verso il pieno compimento di questa immagine divina, garantitagli dallo Spirito, che gli è stato donato come caparra di quelle realtà future e definitive verso cui si sta dirigendo e che si qualifica come la sua personale risposta alla chiamata dello Spirito.

 

Infatti, l'uomo è fin dall'inizio un essere chiamato dallo Spirito, una chiamata che si identifica con la sua parte spirituale e che lo spinge a trascendersi continuamente e a non rimanere vittima della sua stessa corporeità. Questa chiamata si realizza storicamente con il suo "stare con Cristo" e con il suo "vivere per il Signore", sicché fin d'ora egli realizza, anche se non ancora compiutamente, la sua comunione con Dio nello Spirito.

 

E' proprio questo suo "stare con Cristo" e "vivere per il Signore" che lo colloca nella prospettiva della risurrezione, che è rivelazione e testimonianza ultima del suo essere vissuto come  configurato a Cristo.

 

La chiamata dell'uomo a configurarsi a Cristo è una chiamata strettamente personale, in cui l'uomo trova il senso del suo vivere e del suo morire, rendendolo un essere unico e irrepetibile tra tutti gli uomini. Questa chiamata unica e irrepetibile, individuale e personale, propria di ogni singolo uomo, si attua con il suo essere chiamato all'esistenza, un'esistenza che si fa storia personale di salvezza. Non esiste, infatti, una salvezza in senso generale, ma essa è strettamente personalizzata e si individua nel "mio concreto vivere quotidiano", che è segnato dalla libertà. Essa, qui, non si qualifica come la possibilità che l'uomo ha di scegliere una cosa piuttosto che un'altra, bensì come capacità che l'uomo ha di scegliere su se stesso, cioè se configurarsi o no a Cristo nel suo concreto vivere quotidiano. In questa prospettiva, la libertà diventa risposta alla chiamata che Dio gli rivolge in ogni istante della sua vita, così che con le nostre libere decisioni forgiamo il nostro essere e ci qualifichiamo davanti a Dio.

 

Questa libertà, dal sapore squisitamente teologico, trova il suo modello nella libertà di Gesù che si è consegnato alla morte per amore di tutti gli uomini. Si tratta, dunque, di una libertà sacrificale, che, radicandosi nell'amore, ci aiuta a liberarci da noi stessi per affermare l'altro. Del resto questa è la stessa libertà originaria di Dio, da cui è defluita la creazione, che testimonia l'uscire di Dio da se stesso per donarsi alle creature, un atto di amore che diventa una sorta di alienazione di Dio.

 

Ed è proprio questo libero porsi dell'uomo per l'altro che testimonia il suo aspetto sociale, insito nella sua stessa natura bipolare di maschio e femmina. Essa trova la sua matrice originaria nel nostro relazionarci con Dio e che, sacramentalmente, assume una configurazione ecclesiale e comunionale. Ed è proprio in questo superare noi stessi per andare verso l'altro, che incontriamo nell'altro lo stesso Cristo, la cui presenza ci è stata da lui garantita: "In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatta a me" (Mt 25,40).

 

La questione soprannaturale

 

Parlare di soprannaturalità dell'uomo ci richiama alle medievali disquisizioni della scolastica, che oggi, in un mondo pregno di materialismo e improntato ad un utilitaristico pragmatismo esistenziale, ci sembrano del tutto fuori moda. Tuttavia, la questione non è semplicemente speculativa o artificiale.

 

Infatti, già l'aver parlato dell'uomo quale immagine di Dio e a Lui somigliante, ci pone di fronte a delle questioni che vanno ben al di là della sua semplice creaturalità. Abbiamo visto come l'uomo è collocato in uno stretto rapporto con il suo Creatore e con Lui è chiamato ad un costante dialogo esistenziale, che lo spinge a superarsi continuamente oltre il limite del proprio orizzontale.

 

Ed è proprio la natura di questo dialogo e gli effetti che esso produce che apre l'uomo ad una dimensione squisitamente trascendentale. E' Paolo stesso che ci sollecita in tal senso: "Se, dunque, siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo ...; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra" (Col. 3,1-2).

 

Il principio della nostra soprannaturalità viene qui riposto da Paolo nella risurrezione stessa: "se siete risorti con Cristo". Essa presuppone, a sua volta, la nostra configurazione a Cristo per mezzo del battesimo: "Per mezzo del battesimo siamo stati dunque sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti ... così anche noi possiamo camminare in una nuova vita. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione" (Rm 6,4-5). Il battesimo, quindi, ci configura intimamente a Cristo al punto tale, afferma sempre Paolo, che "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20).

 

Vediamo, dunque, come il veterotestamentario concetto dell'uomo immagine di Dio, trova la sua piena attuazione nella configurazione di ciascuno di noi a Cristo, al punto tale che siamo cristificati, così che il nostro vivere e il nostro operare è lo stesso vivere e operare di Cristo in noi.

 

Tutto ciò ci pone in una stretta e intima comunione con il Padre, che ci accoglie e si dona a noi per mezzo di suo Figlio nello Spirito Santo. Pertanto, grazie a Cristo e alla potenza dello Spirito, siamo inseriti nello stesso ciclo vitale trinitario.

 

Questi sono aspetti che vanno ben al di là del nostro essere semplici creature e che hanno un'incidenza sul nostro stesso modo di essere e di vivere, così che pur essendo cittadini della terra possediamo già una nostra configurazione celeste.

 

 

 

L'UOMO PECCATORE

IL PECCATO ORIGINALE

 

 

 

 

Premessa

 

Dopo aver parlato dell'uomo quale immagine di Dio, a Lui somigliante; dopo averlo contemplato come libera creatura che instaura con il suo Creatore un dialogo di vita; dopo averlo meditato come figlio costituito nella comunione con Dio, suo Padre, per mezzo di Cristo, lo considereremo, ora, nel tragico uso che egli fece della propria libertà, mettendosi in una fallimentare concorrenza con Dio.

 

Si, parliamo di quell'uomo che, permeato del Soffio di Dio, che lo aveva assimilato alla stessa vita divina, rendendolo lui stesso divino, viene ora rivestito di semplici pelli di animali, testimonianza della sua decadenza, che decreta la sua cacciata dal paradiso terrestre, cioè la sua uscita dalla dimensione di Dio.

 

Tra il prima e il dopo ci sta di mezzo quello che la tradizione cattolica definisce come "peccato originale". Esso è definito impropriamente "peccato". Infatti, il termine "peccato" richiama sempre una colpa morale, che rende personalmente responsabile l'uomo di fronte a Dio e agli altri. Saremmo stati, dunque, vittime di una grave iniquità se questa colpa morale, da noi non commessa, ci fosse stata, comunque, addebitata da Dio. Ma questo "peccato" non esprime, in realtà, una colpa morale, bensì uno stato di vita, una condizione di essere decaduto e che caratterizza il nostro essere di uomini e il nostro vivere quotidiano.

 

Perché, dunque, "peccato originale"? Il termine "peccato", nella sua accezione originale greca, amartia, indica uno sbaglio, un errore; il verbo, amartanw, da cui il sostantivo deriva, lo specifica ancor meglio. Esso indica il deviare, il non cogliere, il fallire, il non raggiungere, il perdere, l'essere privato, l'allontanarsi dalla verità, dal giusto, da ciò che è onesto.

 

Sono tutte specificazioni che testimoniano le varie sfaccettature di questo "peccato", anche se in modo incompleto, ma sufficiente per darci una sia pur pallida idea di ciò che può essere capitato ai nostri progenitori.

 

Questa "colpa" viene definita, poi, come originale, non soltanto perché è posta all'origine dell'umanità, ma anche perché essa è all'origine di ogni nostro peccato personale, di ogni nostra sofferenza, di ogni nostra difficoltà. Essa ci qualifica e ci marchia come "esseri decaduti".

 

Sarà la venuta di Cristo che ci darà un'idea pi precisa di quanto ci è rovinato addosso e lo stato penoso e umiliante in cui siamo costretti a trascinare la nostra vita ancor oggi. La croce posta sulle sue spalle di Gesù ci dice che cosa è stato posto sulle nostre spalle; mentre la sua passione, che lo ha reso un essere che provoca ribrezzo, rovinato e privo di ogni dignità, ci indica lo stato e la condizione in cui noi viviamo da allora.

 

L'insegnamento biblico

 

La dottrina sul "peccato originale" non si deduce certo dai cap. 2-3 della Genesi, ma dall'interpretazione che il N.T. ha dato di questi, in particolar modo su quanto Paolo dice nella sua lettera ai Romani ai vv. 5,12-21, il brano neotestamentario senz'altro il pi importante.

 

E', tuttavia, interessante seguire da vicino lo sviluppo dottrinale che l'A.T. ci offre proprio sul concetto di peccato e del suo sviluppo nella storia, quale conseguenza di quello "originale". Pertanto, il racconto di Gen. 2-3 non va preso isolatamente, ma collocato nell'insieme delle idee di peccato e della sua universalità nell'A.T.

 

Esso ci testimonia innanzitutto l'universalità del peccato, che non lascia scampo a nessun vivente e lo rende iniquo e ingiustificabile davanti a Dio:

 

·  "Ecco nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre" (Sal. 51,7);

·  "Non chiamare in giudizio il tuo servo, nessun vivente davanti a te è giusto" (Sal.143,2);

·  "Può il mortale essere giusto davanti a Dio o innocente l'uomo davanti al suo creatore?" (Gb 4,17).

 

I profeti, poi, denunciano come questo peccato viene trasmesso nella storia: dai padri ai figli, che seguono il cammino di peccato tracciato dai loro genitori:

 

·    "Quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri per allontanarsi da me? Essi seguirono ciò che è vano, diventarono loro stessi vanità. ... Per questo intenterò ancora un processo contro di voi ... e farò causa ai vostri nipoti" (Ger.2,5.9);

 

·    "Mi disse: <<Figlio dell'uomo, io ti mando agli Israeliti, a un popolo di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri hanno peccato contro di me fino ad oggi>>" (Ez. 2,3);

 

·    "Così dice il Signore: <<Per tre misfatti d'Israele e per quattro non revocherò il mio decreto, perché hanno disprezzato la legge del Signore e non ne hanno osservato i decreti; si sono lasciati traviare dai loro idoli che i loro padri avevano seguito>>" (Am 2,4);

 

·   "Abbiamo peccato come i nostri padri, abbiamo fatto il male, siamo stati empi" (Sal.106,6).

 

E' un peccato che non sottrae l'uomo alla sua responsabilità personale, anche quando la colpa ha una dimensione sociale:

 

·   "In quei giorni non si dirà più: i padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati! Ma ognuno morirà per la sua propria iniquità;..." (Ger. 31,29-30);

 

·    "Perché andate ripetendo questo proverbio sul paese d'Israele: i padri hanno mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati? ... la vita del padre e quella de figlio è mia: chi pecca morirà" (Ez. 18,2.4)

 

Di fronte al dilagare del male lo jawista cerca una spiegazione eziologica di questo male, risalendo alle origini dell'umanità; e scopre come un atto peccaminoso, un atto di ribellione a Dio ha determinato una inarrestabile cascata di peccati che sta travolgendo l'intera umanità. Il male, dunque, non viene da Dio, ma dall'uomo che si è posto in concorrenza con Dio, ha tentato contro di Lui una sorta di colpo di stato, si è dichiarato autosufficiente e autonomo da Dio, non lo ha più voluto riconoscere come suo partner. Come dire: ognuno per la sua strada.

 

L'uomo, privo dello Spirito di Dio, rivestito delle sole pelli di animali, si ritrova perduto e disorientato nel suo nuovo stato di vita di essere decaduto, il cui vivere è un continuo generare peccato, che inquina e travolge l'intera umanità e con lei l'intera creazione. Le lunghe genealogie, fornitici dai primi capitoli della Genesi, ci stanno ad indicare come il peccato rimbalza di generazione in generazione, dilagando, ormai inarrestabilmente, nella storia, che diventa una storia di peccato.

 

Vige, quindi, un principio di solidarietà che lega i destini dell'uomo e del suo habitat, di cui la Genesi ci dà testimonianza: "Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noé: <<E' venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra>> (Gen. 6,12-13).

 

Questa lunga riflessione sull'origine del peccato e delle sue tragiche conseguenze sull'umanità e la creazione, propostaci dall'A.T., viene ripresa nel N.T. da Paolo nella già citata lettera ai Romani, 5,12-21.

 

Qui, Paolo pone a confronto due economie, tra loro parallele, ma dagli esiti decisamente opposti: quella del peccato e quella della grazia. Il confronto tra Adamo e Cristo non viene posto su di un piano paritario, ma di contrapposizione per far emergere come "se per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in virtù di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini".

 

Adamo, poi, l'uomo del peccato, non acquista in Paolo molta importanza, poiché esso è solo visto come "figura di colui che doveva venire". Adamo, quindi, è in funzione di Cristo, ma ciò che conta è soltanto Cristo. Una economia della grazia, quindi, che è squisitamente cristocentrica: tutto converge in Cristo, anche il peccato che verrà distrutto sulla croce e, definitivamente, dalla risurrezione.

 

Espressioni che si ripetono numerose in questi pochi versetti, quali "molto di più la grazia", "si sono riversati in abbondanza", "molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia" stanno ad indicare la netta e indiscutibile superiorità dell'azione e della figura di Cristo su Adamo, che di Cristo era soltanto una pallida ombra.

 

Viene, anche qui, riconfermata l'universalità e la solidarietà degli uomini nella colpa: "la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato"; "per la caduta di uno solo morirono tutti"; ma proprio grazie a questa solidarietà e universalità, la grazia di Dio ha nuovamente pervaso l'intera umanità: "molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in virtù di un solo uomo, Gesù Crsito, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini"

 

Lo sviluppo storico della dottrina

 

Nella storia della dottrina del "peccato originale" due sono i punti fondamentali: quello prospettato da S.Agostino (354-430) nella lotta contro i pelagiani e quello del Concilio di Trento (1545-1563).

 

I pelagiani erano sostanzialmente degli ottimisti e ritenevano che l'uomo fosse in grado di soddisfare la volontà di Dio con le sue sole forze. In questa prospettiva Adamo e Cristo erano due figure valide soltanto sul piano della esemplarità: l'uno ci ha dato il cattivo esempio, da evitare; mentre l'altro ci porta a conoscenza della volontà di Dio che noi, con la nostra buona volontà e determinazione, siamo in grado di soddisfare.

 

Viene, in tal modo svuotato il contenuto salvifico delle due figure, poiché ciò che conta è solo l'impegno della volontà a realizzare le esigenze di Dio.

 

Agostino, di controbattuta, afferma che se Cristo ci ha salvati con la sua morte e risurrezione, ciò sta a significare la nostra incapacità di autosalvarci con la nostra sola buona volontà. Se così non fosse, infatti, noi potremmo dire con Paolo che "se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano" (Gal. 2,21).

 

Pertanto, Agostino conclude che senza grazia noi non possiamo salvarci, anche se rimane vero che l'uomo senza la sua disponibilità alla grazia non si salva. Infatti, quel "Dio, affermerà Agostino, che ci ha creati senza di noi non ci salva senza di noi"; pertanto, "grazia di Dio e libertà dell'uomo si sostengono a vicenda".

 

Quindi, grazia di Dio e libertà dell'uomo sono produttrici di salvezza quando l'uomo, incontrandosi con Dio, si apre liberamente a Lui.  In questo quadro, Agostino si muove nell'ambito della grazia, mentre Pelagio in quello della natura.

 

La vicenda del pelagianesimo si conclude con un sinodo tenuto da papa Zosimo nel 418 a Roma, in cui si ribadiscono contro il pelagianesimo tre punti fondamentali:

 

·   La morte non è un fatto naturale per l'uomo, ma è conseguenza del peccato; si tratta della morte così come l'uomo la sperimenta;

 

·    Il battesimo è necessario per la salvezza; mentre Pelagio affermava che i sacramenti erano semplici atti di pietà verso Dio;

 

·    La Grazia di Dio è assolutamente necessaria per salvarsi.

 

 

Accanto alla posizione agostiniana, che insiste molto sulla concupiscenza e il disordine interno portato dal peccato originale, si affianca anche quella di S.Anselmo che vede l'essenza del peccato originale nella privazione della giustizia originaria. S.Tommaso realizzerà la sintesi di entrambe le posizioni, facendo consistere il peccato originale formalmente nella privazione della giustizia originaria e materialmente nella concupiscenza.

 

L'altro momento importante nella storia dottrinale del peccato originale è il Concilio di Trento. La situazione in cui viene a trovarsi il Concilio è esattamente all'opposto di quella pelagiana. Infatti, se questi mostravano una ottimistica fiducia nella natura umana, in grado da sola ad accedere alla salvezza, Lutero nutriva, per contro, una totale pessimistica sfiducia nella stessa, considerandola totalmente corrotta a partire dalla colpa originale.

 

Il Concilio dovrà, pertanto, affermare che sebbene la natura umana sia ferita dal peccato essa, con l'aiuto insostituibile e determinante della grazia, è capace di aderire alla salvezza, in quanto che l'uomo investito dalla grazia è interiormente trasformato. Pertanto, il peccato originale non può essere identificato con la concupiscenza, che rimane comunque nel battezzato, ma che non nuoce a chi combatte contro di essa con l'aiuto della grazia (can.5).

 

L'intera dottrina tridentina sul peccato originale può riassumersi in quattro livelli:

 

·  Cristologico, in cui si afferma che non c'è salvezza per gli uomini se non per mezzo di Gesù Cristo;

 

·  Ecclesiologico-sacramentale, in cui si afferma che la salvezza di cristo si realizza per e nella Chiesa a cui si accede attraverso il battesimo, che ci inserisce in Cristo;

 

·  Antropologico, con cui si riconosce che l'umanità non incorporata a Cristo è isolata da Dio, vive in uno stato di peccato, di privazione di santità e di giustizia, in cui Dio, invece, aveva inizialmente creato l'uomo;

 

·  Etiologico, con cui si tratta della causa dello stato di miseria in cui l'umanità si trova. Si riconosce che ciò è dovuto ad un'azione peccaminosa dell'uomo, che si pone all'origine della storia e che non ha danneggiato soltanto Adamo, ma tutti gli uomini, i quali, per questo fatto, sono diventati tutti, indistintamente, peccatori.

 

La dottrina del peccato originale non viene formulata per se stessa, ma per mettere in evidenza l'azione salvifica e santificatrice di Gesù Cristo.

 

I problemi attuali

 

L'espressione "peccato originale" ha creato in passato notevole confusione e tutt'ora la crea tra la gente comune. Va precisato subito che questo è chiamato "peccato" solo analogicamente rispetto al peccato personale, ma va ben distinto da quest'ultimo. Infatti, il peccato personale è un atto che si pone all'interno di un certo codice morale che viene violato, per l'appunto, da questo atto.

 

Quello originale, invece, ha segnato in modo irrevocabile e definitivo la comunione dell'uomo con Dio, intaccando la stessa natura dell'uomo, modificandola irrimediabilmente. Quel "si accorsero di essere nudi", di cui ci parla la Genesi al cap.3,7 sta a significare che la natura iniziale dell'uomo, rivestita e permeata di Spirito Santo, che associava l'uomo alla vita stessa di Dio, in una profonda comunione di vita, è andata perduta. La prima reazione, che ciò ha prodotto, è stato il "nascondersi dal Signore Dio" (Gen.3,8). Qui Dio non è più percepito come un amico con cui si condivideva la stessa vita, ma come un estraneo da cui fuggire, come una minaccia. Il mutamento della natura originale dell'uomo viene espressa, poi, da Dio che vestì di pelli di animale l'uomo e la donna (Gen. 3,21) e dalla loro cacciata dal paradiso terrestre, cioè dalla loro fuoriuscita dalla dimensione stessa di Dio, a cui, ormai, non appartenevano più.

 

Come si può ben vedere, i due concetti di peccato, personale e originale, si differenziano notevolmente nella loro stessa sostanza.

 

In proposito, la teologia tradizionale, parlando di "peccato originale", distingue tra il "peccato originale originante" e il "peccato originale originato". Il primo è il peccato commesso all'origine della storia, che ha originato il male in cui noi, ora, viviamo e sperimentiamo; il secondo sono proprio queste conseguenze negative in noi che ci condizionano dolorosamente nel nostro vivere quotidiano; la nostra condizione di isolamento da Dio, che ha nel ha nel primo la sua causa e ha decretato il nostro fallimento.

 

L'interesse, pertanto, per il "peccato originale originante" non ha altro senso che quello di chiarire la nostra attuale situazione, cioè perché siamo ridotti in queste condizioni di separazione da Dio, con tutto ciò che ne consegue anche da un punto di vista esistenziale. Infatti, è importante capire da che cosa Gesù ci ha salvati e che senso ha la sua venuta tra di noi, dato che questo tipo di peccato non è soltanto la trasgressione di una legge del Creatore, ma il radicale e connaturato nostro rifiuto dell'amore offertoci da Dio. In buona sostanza, l'interesse per il "peccato originale", per noi cristiani, è essenzialmente cristologico.

 

Se per Israele la consapevolezza del proprio peccato è stata acquisita attraverso l'alleanza e la Legge, che ha evidenziato la pochezza e la fragilità congenita della natura umana; per il cristiano tale consapevolezza appare soltanto alla luce della croce di Gesù, che ci dice tutta la dimensione e la gravità del peccato umano.

 

La redenzione di Cristo e il battesimo, che ci incorpora a Lui e alla Chiesa, vanno letti in questo orizzonte; mentre la solidarietà e l'universalità della colpa e della sua redenzione trovano la loro spiegazione e il loro fondamento nel Cristo crocifisso: egli, infatti, incarnandosi ha assunto su di sé l'intera umanità peccatrice, l'ha integralmente ricapitolata nella sua umanità, l'ha definitivamente "morta" sulla croce, rigenerandola nella risurrezione. E' Gesù stesso che ce ne da testimonianza nel vangelo di Giovanni: "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32). L'elevazione di Gesù da terra acquista in Giovanni il doppio senso di "elevato sulla croce" e "elevato dalla morte", cioè risorto. Gesù, pertanto, diviene il punto di attrazione e convergenza della vecchia umanità, segnata dal peccato e distrutta sulla croce, e il principio unico rigenerante da cui defluisce una nuova umanità rigenerata con la potenza dello Spirito e riconciliata definitivamente con il Padre.

 

Possiamo comprendere, quindi, la condizione di peccaminosità solo alla luce del Cristo morto-risorto e da ciò che essa nega ed ostacola: l'unione degli uomini in Cristo e di questi fra di loro. Le schizofrenie personali e sociali, con tutto ciò che ne consegue, sono per l'appunto la negazione e il rifiuto della riconciliazione offertaci dal Padre nel Cristo per mezzo dello Spirito. E questa è la condizione in cui vive ogni uomo per il solo fatto di venire al mondo. Una condizione di peccato che, se da un lato intacca la nostra natura rendendola decaduta e fragile, dall'altro ce ne rende responsabili ogniqualvolta che liberamente ci conformiamo nel nostro vivere a questa situazione. In tal modo il peccato originale diventa il nostro peccato personale, che testimonia il nostro orientamento esistenziale sbagliato.

 

Non va, poi, sottovalutato l'aspetto sociale e universale del peccato. Infatti come la grazia e il bene defluiscono da Dio attraverso tutti gli uomini, creando un flusso di bene che di uomo in uomo, di società in società si estende all'intera umanità creando un clima positivo di orientamento verso Dio, così il peccato e le strutture sociali di peccato interrompono questo flusso, favorendo lo scollamento tra Dio e gli uomini e di questi tra di loro.

In tal senso, non va dimenticato il mito della Torre di Babele che narra la storia del progresso dell'uomo rivolto contro Dio. L'esito letale fu la confusione delle lingue, cioè l'uomo che non riesce più capire se stesso, che non capisce più, per questo, neppure gli altri e che lo ha portato alla schizofrenia personale e sociale; è l'uomo che ha perso la propria identità perché ha perso la sua comunione con Dio.

 

La condizione di peccato non è un qualcosa che si pone al di fuori dell'uomo, ma si annida in lui profondamente e si riversa al suo esterno, prendendo corpo nelle istituzioni, nei costumi, nelle mode, nel modo di ragionare e di pensare, rendendolo incapace di vedere il male, che viene scambiato per il bene (v. le leggi sull'aborto, sul divorzio, il riconoscimento delle coppie di fatto, dei matrimoni gay, le guerre, ecc.).

 

Queste situazioni sono provocate dalla somma di tutti i peccati degli uomini, che determinano lo stato di peccaminosità in cui vive l'intera umanità e che trova la sua matrice originaria nella prima colpa originante, cioè da quel primo scollamento tra Dio e l'uomo. Ogni nostro peccato personale è un contributo alla formazione di questo peccato del mondo.

 

In questa visione sconsolante della triste condizione dell'uomo colpito dal peccato e generatore, a sua volta, di peccato non va mai dimenticato che il potere di Cristo è più forte di ogni peccato. Paolo ci viene incontro e ci apre il cuore alla speranza: "Non c'è, dunque, più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (Rm. 8,1-2).

 

 

Gli effetti del peccato originale

 

La narrazione biblica del paradiso terrestre ci presenta un uomo creato si con la polvere del suolo, ma questa viene pervasa interamente dal Soffio divino che attrae l'uomo nella dimensione di Dio e lo rende partecipe della sua stessa vita, condividendo con lui tutte le sue qualità divine compatibili con lo stato di creaturalità proprio dell'uomo.

 

Queste "qualità divine" in teologia sono state definite come i "beni preternaturali" che l'uomo avrebbe continuato a possedere se non fosse decaduto e che non gli sono stati ridati con la grazia di Cristo.

 

Nel magistero della Chiesa troviamo soprattutto riferimenti a due di questi beni perduti: l'assenza di concupiscenza e l'immortalità.

 

Tradizionalmente, quando si parla di concupiscenza si intende l'insubordinazione delle tendenze inferiori dell'uomo a quelle superiori o razionali; mentre l'integrità è la perfetta sottomissione delle tendenze inferiori a quelle superiori.

 

Da un punto di vista teologico la concupiscenza va intesa come una diminuita capacità dell'uomo a compiere il bene, dovuta ad una notevole limitazione della libertà dell'uomo, che lo appesantisce e gli rende difficile il vivere correttamente e a livelli spirituali superiori; inoltre, essa costituisce una barriera agli impulsi dello Spirito. Potrebbe essere, in buona sostanza, identificata con la nostra stessa connaturata fragilità.

 

Quanto allo stato di immortalità, il collegamento tra il peccato e la morte è chiaro sia nelle Scritture che nel magistero della Chiesa, anche se nella Bibbia il concetto di morte non è sempre univoco. Talvolta è inteso come morte biologica, altre ancora come separazione da Dio. Forse le cose vanno congiunte, nel senso che è proprio la separazione da Dio che provoca la morte biologica. Del resto la despiritualizzazione dell'uomo, di cui si parla nel cap. 3,7 della Genesi ("si accorsero di essere nudi") ha avuto come conseguenza una serie di guai che la Bibbia non lesina nell'elencare: la maledizione del serpente e di tutto il bestiame, l'inimicizia tra il serpente e la donna, la moltiplicazione dei dolori in genere e di quelli del parto per la donna, il sentirsi questa succube del suo uomo, non c'è più, dunque, un rapporto di amore; la maledizione del suolo che produrrà spine e cardi, il dolore per procurarsi il cibo e la dura fatica di un lavoro che delude e uccide. E alla fine di tutto ecco il destino di una carne despiritualizzata: "polvere tu sei e in polvere ritornerai!".

 

Questa immortalità di vita con tutto ciò che ne consegue, ora, ci è stata garantita dalla risurrezione di Cristo, primizia di coloro che risorgeranno.

 

 

 

L'UOMO NELLA GRAZIA DI CRISTO

 

 

 

Premessa

 

Sotto questo titolo si vuol riflettere sull'uomo nella sua relazione con Dio. Già dagli inizi della sua storia, l'uomo era posto in una stretta comunione con Dio, garantita dal Soffio Dio, e con lui condivideva la stessa vita, compatibilmente con il suo stato di creatura, e ne era diventato il partner nella gestione della creazione, che gli era stata affidata e di cui  fu reso responsabile. Era divenuto immagine stessa di Dio e a Lui somigliante.

 

Tutto ciò fu dono e grazia. Il dono di cui si parla è Dio stesso, che si è fatto dono per quest'uomo.

 

E Dio, nonostante le delusioni creategli dalla sua creatura, non smise mai di esserle dono, sicché lungo la storia questo dono divenne promessa, si concretizzò in elezione, si fece alleanza, divenne parola dimorante in mezzo al suo popolo, apparve come luce di celi nuovi e terra nuova nel buio dell'esilio, finché "il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Gv. 1,14a).

 

Tutto ciò è grazia!

 

Dio non si è mai rassegnato alla perdita della sua immagine, del suo partner e fin dall'inizio lo ha cercato e chiamato: "Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: <<Dove sei?>>" (Gen. 3,9). Per questo Egli "pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,6-8).

 

E tutto ciò è grazia!

 

Parliamo, dunque, di un Dio che si comunica all'uomo nel suo amore infinito.

 

Questa grazia ha assunto nel corso della storia della salvezza il volto di Gesù Cristo. Stare nella grazia, quindi, significa stare in Cristo in cui siamo stati incorporati, cristificati e in cui abbiamo la redenzione, che si fa riconciliazione e perdono, accoglienza e trasformazione. In Lui, con Lui e per Lui siamo stati reinmessi nel ciclo vitale stesso di Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo.

 

La volontà salvifica universale di Dio

 

Un aspetto della grazia, fattasi dono in Cristo, è la volontà salvifica di Dio che investe universalmente l'intera umanità. La Bibbia presenta una numerosa testimonianza di tale volontà, che qui ci limitiamo a citare in qualche passo per ovvie ragioni di brevità:

 

·   "Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16)

 

·   "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32)

 

·   "... Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati" (1Tm 2,4)

 

·   "Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per chiunque crede" (Rm 1,16).

 

La Chiesa stessa nel suo dogma di fede proclama che egli "è disceso dal cielo per noi uomini e per la nostra salvezza".

 

Questa offerta di grazia in Cristo, seppur gratuita, chiede all'uomo una risposta, lo spinge a prendere una posizione: "Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15). Nessuno, pertanto, può rimanere indifferente, poiché la stessa indifferenza è giudicata come rifiuto: "Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo ... Ma poiché sei tiepido, non sei né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca" (Ap 3,16).

 

Proprio perché la salvezza manifestatasi in Cristo è universale, il suo ambito trascende la Chiesa visibile stessa e si lascia trovare ovunque l'uomo la cerchi con cuore sincero: "Pietro prese la parola e disse: <<In verità mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenza di persone, ma chiunque lo teme e pratichi la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto>>." (At. 10,34-35).

 

Un principio questo ormai ampiamente accolto anche nel magistero della Chiesa in cui si afferma che anche "quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, in vari modi sono ordinati al popolo di Dio" (LG 16a); e ancora "Dio non è neppure lontano dagli altri che cercano il dio ignoto nei fantasmi e negli idoli ... infatti, quelli che senza colpa ignorano Cristo e la sua Chiesa, e che tuttavia cercano sinceramente Dio ... possono conseguire la salute eterna" (LG 16b).

 

La salvezza, quindi, non appartiene soltanto all'uomo cristiano, ma alla stessa nozione cristiana dell'uomo.

 

Nella storia della teologia, la volontà di salvezza universale di Dio si è imbattuta con il problema della predestinazione. Esso, a mio avviso, è sempre stato male interpretato quando si è pensato, in qualche modo, che Dio avesse già deciso tutto indipendentemente dall'uomo; per cui l'uomo, faccia bene o faccia male, il suo destino era, comunque, già segnato. Questo è fatalismo, non predestinazione.

 

Il concetto di predestinazione nel N.T. racchiude in sé un'idea ben diversa da come comunemente la intendiamo noi nel nostro comune linguaggio umano. Il NT usa il termine di predestinazione quale sinonimo di disegno salvifico di Dio posto a favore dell'uomo e non quale giudizio emesso a priori sull'uomo. In tal senso si veda Rm 8,29; 1Cor 2,7; Ef. 1,5.11.  E che questo progetto salvifico sia di natura soltanto ed esclusivamente positiva per l'uomo ne fa chiaro cenno la stessa lettera agli Efesini : "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati nella carità" (Ef 1,4). L'elezione "ab aeterno" dell'uomo in Cristo è finalizzata soltanto all' "essere santi e immacolati".

 

Questa predestinazione-disegno, pertanto, è posta solo a favore dell'uomo, ma non è coercitiva nei suoi confronti, poiché essa ha a che fare con la libertà dell'uomo, che può anche rifiutare questo progetto di salvezza riservatogli ancor prima della creazione. In tal senso S.Agostino, con un'espressione scultorea, afferma che quel "Dio che ci ha creati senza di noi, non può salvarci senza di noi".

 

Il primato della grazia nella salvezza dell'uomo.

La giustificazione del peccatore

 

Un altro aspetto della grazia è la giustificazione. Essa è il favore di Dio che viene concesso di fatto all'uomo peccatore, che per mezzo di Cristo è messo nella giusta relazione con Lui e reinserito nel ciclo vitale di Dio stesso. In ciò si manifesta l'iniziativa divina e, pertanto, il primato della grazia.

 

Nell'AT la giustificazione dell'uomo peccatore si manifesta nella fedeltà di Dio all'Alleanza nonostante le infedeltà dell'uomo. Questa giustizia di Dio, che per molti secoli ha come unico destinatario Israele, a partire dal deutero e trito Isaia diventa universale: la salvezza non sarà più la restaurazione di un'esclusiva alleanza con Israele, ma la sua estensione a tutti i popoli e nazioni (Is 42,4; 45,21; 51,5; 56,4; 62,2).

 

Nel NT sarà Paolo che porrà un'ampia e complessa trattazione sulla giustificazione dell'uomo peccatore nella sua lettera ai Romani (Rm.1,16 - 5,21).

 

Paolo apre la questione con un'affermazione perentoria, che costituisce il tema della lettera: "Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco. E' in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: il giusto vivrà per fede" (Rm 1,16-17).

 

Subito dopo, Paolo compie un'ampia digressione con cui vuole dimostrare che sia i pagani, che pur potendo conoscere Dio per mezzo della creazione, hanno preferito adorare le creature anziché il loro creatore; sia i giudei che, pur possedendo la Legge e la circoncisione, di fatto non le osservano, sono tutti posti sullo stesso piano davanti a Dio. Per cui, conclude Paolo, "... tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio" (Rm 3,19).

 

Concluso questo complesso castello ragionativo, Paolo riprenderà il tema enunciato all'inizio e affermerà "Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio ... per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. ... Noi riteniamo, infatti, che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalla opere della legge. ... Poiché non c'è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi" (Rm 3, 21-31).

 

Per Paolo il vangelo di cui non si vergogna è il Cristo crocifisso, che si trasforma in potenza salvifica e rigenerante per chiunque aderisce a lui nella fede. Ed è proprio questo "chiunque"  anonimo che dà un tono di universalità alla salvezza, raggiungibile per la sola adesione esistenziale a Cristo crocifisso. In lui, afferma Paolo, si è rivelata la giustizia di Dio, cioè la sua fedeltà nei confronti dell'uomo. Cristo diventa, pertanto, per Paolo la stessa giustizia di Dio da cui promana un'energia che giustifica e rigenera l'uomo a Dio. E tutto ciò lo ha compiuto indipendentemente dalle opere dell'uomo e quando lui era ancora peccatore.

 

La questione della giustificazione viene affrontata anche da S.Agostino nell'ambito dello scontro con i pelagiani, che affermavano la radicale bontà della creazione e, quindi, dell'uomo, capace con le sue sole forze di rifiutare il male e aderire alla volontà di Dio. Infatti, Pelagio sembra temere che se la libertà umana è sostenuta dalla grazia, non sia più libertà. L'uomo, dunque, per Pelagio è un essere eticamente perfetto e capace.

 

Di fronte a tanto ottimismo pelagiano Agostino reagirà duramente, evidenziando che l'uomo, invece, è schiavo del peccato, dal quale soltanto Cristo lo può salvare per pura grazia e senza alcun merito da parte sua. Da qui la necessità della grazia per compiere il bene. Pertanto, tutto ciò che l'uomo fa di buono, lo fa Dio in lui e per lui.

 

Quale reazione alla dottrina agostiniana sulla grazia, fortemente restrittiva per quanto riguarda la libertà e la capacità dell'uomo a compiere il bene, si sviluppò nel sud della Francia il semipelagianesimo, secondo il quale il primo movimento dell'uomo verso Dio e verso la fede non sarebbe dono della grazia, ma movimento autonomo dell'uomo stesso. Una visione questa che toglie a Dio il primato della salvezza: non è Dio che va verso l'uomo, ma questi che va verso Dio.

 

La questione della giustificazione per fede e del primato della grazia divennero questioni scottanti nella Riforma luterana.

 

Lutero parte dalla considerazione che l'uomo è un essere totalmente corrotto dal peccato originale e incapace di compiere un qualche bene e di muoversi nella libertà. Ma Gesù ci riconcilia interamente al Padre e ci rende giusti davanti a Lui. La giustificazione, pertanto, è l'opera di Gesù su di noi che ci mette nel giusto rapporto con Dio.

 

Siamo, dunque, giustificati "solus Christus", cioè soltanto grazie all'azione di Cristo su di noi; "sola fide", cioè soltanto per mezzo della fede in Cristo possiamo accedere alla salvezza; e "sola gratia", cioè attraverso la sola iniziativa di Dio.

 

Il Concilio di Trento prende posizione nei confronti di Lutero e formula l'insegnamento cattolico sulla dottrina della giustificazione.

 

Si insiste sulla universalità del peccato originale e sulla necessità che gli uomini hanno della redenzione di Cristo.  Si afferma, poi, che solamente in virtù della grazia di Dio avviene l'inizio della giustificazione, con l'esclusione radicale di ogni precedente merito da parte dell'uomo. Tuttavia si rende necessaria la collaborazione dell'uomo, che è, essa stessa, frutto della grazia. Si precisa, infine, che la giustificazione non è soltanto la remissione dei peccati, ma comporta anche la santificazione e il rinnovamento interiore dell'uomo.

 

La grazia come dono della filiazione divina

 

L'uomo per mezzo del battesimo viene configurato a Cristo, in cui si compie il disegno di Dio su di lui, cioè quello di essere accorpato, per mezzo dello stesso Cristo, alla stessa vita divina.

 

L'identità di Gesù si manifesta soprattutto nel suo essere Figlio di Dio, per cui l'uomo configurato a Cristo è chiamato a condividere la sua unica e irrepetibile relazione con il Padre, divenendo lui stesso, per partecipazione, figlio di Dio.

 

Parimenti a molte religioni, anche l'AT considera l'uomo quale figlio di Dio, non per creazione, ma in rapporto alla sua elezione a popolo di Dio, benché Malachia leghi la figliolanza dell'uomo al suo essere creato da Dio: "Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio?" (Mal. 3,10). Il re, inoltre, è considerato al momento della sua intronizzazione figlio di Dio, in quanto da lui generato: "Annunzierò il decreto del Signore. Egli mi ha detto: <<Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato>>" (Sal.2,7). Nei Libri sapienziali, infine, si parla di Dio come padre del giusto, che in alcune occasioni viene anche invocato come tale.

 

Ma sarà nel NT che ci viene rivelata la novità che Gesù ha per Padre Dio stesso e non in senso metaforico, ma reale. Egli è l'unigenito che esce dal senso del Padre, per cui si può permettere di chiamare Dio con l'appellativo di "Abba" (Mc 14,36), lasciandoci intravedere un'intimità e una profonda relazione con Dio, da cui proviene.

 

Ma è soprattutto nel Quarto Vangelo che troviamo specificata la vera natura di questa relazione tra Gesù e Dio e che ci viene detto in che cosa consiste il suo essere figlio di Dio. Tra lui e il Padre c'è una profonda comunione, una sorta di compenetrazione reciproca così che chi vede lui vede il Padre, poiché lui e il Padre sono una cosa sola, mentre le cose che lui dice è il Padre che le dice e le compie in lui; e ciò è possibile perché "Tu Padre sei in me e io sono in te". Gesù, in tal modo viene ad essere il volto del Padre nella storia, la sua identità.

 

Ma se Gesù si è dichiarato Figlio di Dio, chiamando Dio con il nome di "Abba", denunciandone così il profondo e intimo rapporto che lo lega a Lui, questo Padre ci viene offerto da Gesù stesso come Padre nostro e ci invita a chiamarlo proprio così "Padre nostro", insegnandoci come rivolgersi a Lui (Mt 6,9) . Ma è Gesù stesso, poi, che parlando di suo Padre lo chiama anche "Padre vostro" (Mt 5,48; Mc11,25).

 

Anche Paolo conosce il tema della filiazione divina di colui che crede in Gesù e definisce ripetutamente Dio come "Padre nostro" (1Ts 3,11-13; 2Ts 1,1 e 2,16; 2Cor 1,2; Gal 1,3).

 

In tal senso si rivela particolarmente importante la lettera ai Galati al cap.4,4-7: "Ma quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abba, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio" . Lo stesso tema, ripetuto quasi con le stesse parole, viene trattato in Rm 8, 14-17.

 

E', dunque, il Figlio che ci fa figli, partecipando alla sua filiazione per mezzo dello Spirito. Infatti, è lo Spirito il frutto della relazione tra Padre e Figlio; è lui la comunione tra Padre e Figlio. Pertanto, l'essere inabitati dallo Spirito, ci costituisce immediatamente figli dello comune Padre che condividiamo con Gesù e ci inserisce nella profonda relazione che intercorre tra il Padre e il suo unigenito Figlio. Per questo l'invocazione a Dio con l'appellativo di "Abba" può essere fatta solo in virtù dello Spirito, che ci costituisce anche eredi dei beni propri del Figlio. Lo Spirito, quindi, è colui che ci rende possibile la filiazione divina, come partecipazione a quella relazione unica e irrepetibile che Gesù ha con il Padre, per questo non è possibile viverla senza la comunione con Gesù e senza essere a lui configurati.

 

La nostra filiazione divina in Gesù, acquista una connotazione concreta nell'ambito del nostro vivere quotidiano. Essa si esprime, innanzitutto, come sequela ed è segnata dal vivere, morire e risorgere con Cristo e nel permanere in lui, nel suo amore.

 

Un aspetto di questa nostra filiazione è l'inabitazione di Dio in noi, di cui Giovanni ci dà testimonianza nel suo vangelo: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14,23). Dio, quindi, secondo il NT abita in noi e ci elegge a sua dimora. Mentre Paolo ci pensa come "tempio dello Spirito Santo" : “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1Cor 3,16).

 

La grazia come trasformazione interiore dell'uomo.

La nuova creazione

 

La redenzione, operata da Cristo con la sua morte e risurrezione, apre nuove prospettive ad una nuova antropologia, in cui l'uomo è ricompreso alla luce del Cristo morto-risorto.

 

Il fondamento di questa nuova antropologia è, dunque, il Cristo morto e risorto. 

 

Come ciò sia possibile e quali conseguenze ciò abbia prodotto sull'uomo ci viene prospettato dallo stesso Paolo nella sua lettera ai Romani: "O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. ... Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù" (Rm.6,3-4.11).

 

Punto di partenza del rinnovamento dell'uomo è l'essere inserito in Cristo per mezzo del battesimo. Esso opera una duplice azione nell'uomo: da un lato lo rende morto al peccato e alle sue logiche, cioè non vi appartiene più, anche se per la sua fragilità, che con il battesimo non gli è stata tolta, continua a frequentarlo.

Un effetto questo che fu prodotto dalla morte di Gesù in croce, sulla quale fu distrutto il vecchio corpo adamitico e in questo tutti noi, che sulla croce di Gesù siamo stati da lui attirati e uniti, in modo misterioso, ma reale (Gv 12,32). Paolo stesso ce lo conferma: "Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato" (Rm 6,6). Dall'altro, siamo risuscitati con lui, cioè siamo stati inseriti in una nuova realtà che ci chiede un nuovo stile di vita, un nuovo modo di pensare, un nuovo modo di porci nella storia e nei rapporti sociali.

 

In altre parole, il battesimo ci ha uniti così profondamente a Cristo da renderci anche partecipi al suo mistero di redenzione. Ebbene gli effetti di questa redenzione si producono nella nostra capacità di camminare in una vita nuova, secondo le logiche di Dio, nel nostro interesse per le sue cose al punto tale da essere capaci di consacrargli completamente e concretamente la nostra vita; al punto tale da darci una nuova chiave di lettura non solo delle nostre vite, ma della stessa storia e creazione.

 

Con Cristo e in Cristo niente è più come prima.

 

Quando Paolo afferma: "perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre ...", noi ci saremmo aspettati come conseguenza logica "così anche noi possiamo risorgere". Invece, no. Paolo completa: "così anche noi possiamo camminare in una vita nuova". Ciò sta a significare che se la morte di Gesù in croce ci ha resi estranei al mondo del peccato, la sua risurrezione ci consente di camminare e di vivere secondo nuove logiche. In altri termini siamo stati resi nuove creature in Cristo. Infatti, "... se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono sorte di nuove" (2Cor 6,17).

 

La nostra vita ha subito un nuovo e radicale orientamento: dal peccato al mondo di Dio: "Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù" (Rm 6,11).  Questo ci impone di non comportarci più "come pagani nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio" (Ef 4,17-18), ma dobbiamo, invece, "rinnovarci nello spirito della nostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera" (Ef 4,23).

 

Questo nuovo modo di essere dell'uomo si traduce spontaneamente in un nuovo modo di operare che scaturisce dalle radici dell'essere rinnovato. Non a caso tutta l'etica di Paolo è consequenziale alla nuova situazione ontologica in cui si pone l'uomo in Cristo. Per questo il cristiano deve vivere in maniera degna e conforme alla vocazione a cui è stato chiamato (Ef 4,1; Col 1,10; 1Ts 2,12), poiché "... se riceviamo vita dallo Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gal 5,25). Lo Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo, è, dunque, la vera e nuova legge interiore del cristiano.

 

L'azione dello Spirito, poi, spinge l'uomo nuovo, ricreato in Cristo, a vivere la propria vita nella carità, che è testimonianza e sacramento dell'amore stesso di Dio, nel cui ciclo vitale siamo stati reinmessi. Ma insieme alla carità, la fede e la speranza formano la grande triade distintiva del vivere cristiano, così che ne viene modificato lo stile di azione e vengono creati nuovi rapporti sociali, imprimendo in tal modo alle comunità cristiane e ad ogni suo singolo membro un ruolo profetico, prefigurazione di una nuova umanità e di un nuovo ordine di cose.

 

 

 

 

 

ESCATOLOGIA

COMPIMENTO DELL'OPERA DI DIO

PIENEZZA DELL'UOMO

 

 

(Sunto e riflessioni su "L'orizzonte speranza" di Giacomo Panteghini Ed. Messaggero Padova)

 

 

 

 

Premessa

 

Il termine "escatologia" fu coniato dal teologo luterano Abraham Calov, morto bel 1686. Esso è composto da due parole greche: "escata" e "logos", cioè studio delle cose ultime. L'escatologia, dunque, è lo studio delle ultime realtà che chiuderanno l'intera vita dell'umanità. Viene anche comunemente intesa nella mentalità cristiana come lo studio dell'aldilà; mentre nella teologia dogmatica è indicato con il termine latino "novissima".

 

Nei manuali scolastici l'escatologia viene divisa in due parti fondamentali: l'escatologia individuale, che studia le ultime realtà riguardanti la fine di ogni singola persona (morte, giudizio particolare, paradiso, inferno e purgatorio) e l'escatologia universale o cosmica, che studia la fine dell'intera umanità e del cosmo, comprendente la parusia o ritorno di Cristo, la risurrezione della carne, il giudizio universale e la fine-rinnovamento del mondo.

 

L'escatologia personale è detta anche "intermedia" in quanto si occupa del tempo che intercorre tra la morte della singola persona e la venuta finale di Cristo. (da "Nuovo dizionario di teologia - voce: Escatologia - Parte I - Introduzione - pag.389 - Ed. Paoline- Milano - 1988)

 

L'escatologia trova il suo fondamento nell'interrogarsi dell'uomo sul senso del proprio esistere e sul suo futuro. Un futuro che non è indifferente al presente, ma che già in esso vive sotto forma di interrogativi, di preoccupazioni, di ansie, di sogni, di aspettative e di speranze, che spingono l'uomo a superare gli angusti spazi del suo presente e a proiettarsi in avanti. Un futuro, quindi, che è capace di influenzare e condizionare l'oggi dell'uomo, di modificare i suoi attuali comportamenti e ad orientarlo in un modo diverso e completamente nuovo rispetto all'eredità del suo passato.

 

Il futuro, quindi, si costituisce come un potente motore che da senso al vivere dell'uomo e lo polarizza verso nuovi spazi di speranza. Ed è proprio lo "spazio speranza", in cui si inserisce la promessa di Dio di "cieli nuovi e terra nuova", che spinge l'uomo a trovare in questi spazi, inaugurati dalla risurrezione di Cristo, il proprio compimento finale.

 

Una speranza per l'intera creazione

 

La tradizione cristiana, che ha risentito notevolmente della dicotomia platonica, ci insegna che l'uomo è un essere composto di anima e corpo. Ci insegna, inoltre, che l'anima è immortale e che sopravvive al disfacimento del corpo e, per questo, acquista un valore enorme rispetto al corpo che, invece, va perduto con la morte.

 

In una simile prospettiva il corpo, influenzati anche da duemila anni di platonismo, viene sostanzialmente deprezzato e percepito, talvolta, come un nemico dell'anima. Ci si dimentica che l'uomo è tale proprio perché è anche corpo e che la salvezza inaugurata da Cristo riguarda l'uomo nella sua integralità. Favorire, quindi, un aspetto dell'uomo sull'altro significa, in buona sostanza, negare l'uomo stesso.

 

Una diversa prospettiva, invece, ci viene offerta dall'antropologia ebraica che considera l'uomo non un composto di anima e corpo, bensì una carne spiritualizzata e uno spirito incarnato. Questa profonda compenetrazione osmotica, che non distingue l'anima dal corpo, ma ne fa un'unica realtà, consente anche di vedere l'uomo strettamente legato e integrato, grazie al suo aspetto corporeo, all'intera creazione di cui egli è la punta emergente.

 

Vige, infatti, una profonda solidarietà tra l'uomo e l'intero creato, la quale li lega in un unico destino. Un aspetto fondamentale questo dell'intera economia della salvezza, che ci viene testimoniato sia dall' A.T. che nel N.T.

 

Afferma, infatti, Genesi 6,12-13: "Dio guardò la terra ed essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. ... la terra per causa loro è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra".

 

Le fa eco Paolo nella sua lettera ai Romani. "La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" (Rm. 8,19-21).

 

Non v'è dubbio, dunque, che i destini del creato sono strettamente coincidenti con quelli dell'uomo.

 

Stabilita questa profonda solidarietà, sorge la domanda: quale influenza l'operare dell'uomo ha sulla salvezza del creato? Quale spazio ha l'uomo nel concorrere ai cieli nuovi e alla terra nuova?

 

C'è chi ritiene che l'avvento del regno di Dio non sia influenzato dall'operare dell'uomo, ma soltanto dalla sua predisposizione interiore, cioè nel coltivare i valori che lo favoriscono. Una simile posizione non sembra tener conto che Dio ha condannato alla distruzione la terra perché corrotta dall'operare dell'uomo. Ciò significa che l'azione dell'uomo nel suo operare storico non è ininfluente sui destini della creazione stessa. E' da pensare, pertanto, che ciò che l'uomo fa per l'umanizzazione delle strutture terrestri e per la costruzione di un mondo migliore contribuisce concretamente e oggettivamente alla realizzazione del progetto di Dio. In altri termini, il mondo nuovo che Dio prepara, lo costruisce anche con la nostra collaborazione. Infatti, l'uomo è visto, fin dal suo sorgere, come il partner privilegiato di Dio: "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino dell'Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse" (Gen. 2,15). L'uomo, quindi, è visto come il prosecutore dell'atto creativo di Dio ed è capace di tale responsabilità perché costituito ad immagine e somiglianza di Dio e tale è stato ricostituito nel Cristo risorto.

 

Ma quale destino è dato all'uomo e alla creazione? C'è una continuità tra la loro condizione attuale e il loro assetto finale?

 

La Bibbia parla di "cieli nuovi e terra nuova", parla cioè di realtà che sono da noi conosciute e rientrano nella nostra quotidiana esperienza. Pertanto, non si tratta di spazi sconosciuti all'uomo, ma a lui familiari. Certo questi non sono posti nelle identiche condizioni che noi oggi conosciamo, poiché si tratta di realtà "nuove", ma questa novità non è contraria all'identità.

 

Credo che per capire bene tale concetto sia opportuno riferirsi alla risurrezione di Cristo, con cui questi "celi nuovi e terra nuova" hanno a che fare. Quando Gesù fu risorto per la potenza dello Spirito non gli fu dato un altro corpo, lasciando quello precedente a marcire nella tomba; ma fu proprio quest'ultimo ad essere recuperato dal Padre e restituito al Figlio. La prova di questo fu, da un lato, la tomba vuota, dall'altro, Gesù stesso che si presentò a Tommaso con un corpo piagato dalla crocifissione ... e tutti lo hanno riconosciuto come quello di prima e Gesù stesso ha coscienza di essere quello di prima e non un'altra persona: "Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?Guardate le mie mani e i piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate" (Lc 24, 38-39).

 

E' da pensare che, parimenti, Dio non getterà nel cestino la prima creazione, ma sarà proprio questa ad essere recuperata e trasformata per mezzo della potenza dello Spirito, così come è avvenuto per lo stesso Gesù, che è stato costituito nella risurrezione primizia di coloro che risorgeranno (1Cor 15,23). Si tratterà, quindi, di una trasformazione che consisterà in una rispiritualizzazione di questa carne e di questa materia despiritualizzate con la colpa originale. In tal senso parla la Lettera ai Filippesi: "La nostra patria, invece, è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose" (Fil. 4,20-21). Questa trasformazione verrà da Paolo maggiormente specificata nella sua prima lettera ai Corinti: "Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale" (1Cor. 15,42-44). E', quindi, lo stesso corpo che verrà trasformato e trasfigurato.

 

La fine dei tempi

 

Ma quando verranno tutte queste cose? Secondo la Bibbia, il futuro promesso da Dio si dispiegherà totalmente alla fine dei tempi per la stessa iniziativa di Dio. Ciò implica la fine della storia presente. Come ciò avvenga, se in modo catastrofico sullo stile apocalittico o di rinnovamento secondo quello profetico, ha un'importanza del tutto marginale. Entrambe le immagini, infatti, sono portatrici del medesimo messaggio: ciò che c'era prima, dopo non ci sarà più per lasciare spazio alla nuova creazione, che già e stata posta nel Cristo risorto e che in lui ha già avuto inizio. Si può ben dire, quindi, che gli ultimi tempi sono, di fatto, già incominciati e che la salvezza, per quanto operi già nella storia, irromperà in modo definitiva dall'alto, anche se ciò non esclude, anzi, postula la cooperazione dell'uomo. E questo dà un senso all'impegno del credente per la trasformazione del mondo in direzione del regno.

 

Le immagini catastrofiche, offerteci dalle Scritture che risentono del clima apocalittico e delle situazioni storiche del loro tempo, vogliono soltanto dirci non il come avverrà, ma la necessità che questa realtà venga a cessare. E forse questo non sarà del tutto indolore, se consideriamo la passione e morte di Gesù, che ha preceduto la sua risurrezione, come un elemento profetico . La morte non è mai stata vista dall'uomo come una cosa piacevole e augurabile, e il morire è sempre accompagnato dalla sofferenza e da uno spasmodico attaccamento alla vita, per quanto misera questa possa essere. Del resto lo stesso Paolo ci parla di una creazione che soffre e geme le doglie del parto (Rm 8,22).

 

La parusia di Cristo alla fine dei tempi

 

L'ultimo libro del NT termina con un'invocazione rivolta a Cristo: "Marana tha" (Ap 22,20) che raccoglie in sé le attese delle primi comunità cristiane, tutte tese verso la venuta finale di Cristo e la fine della storia. Esse, infatti, avevano intuito che con la risurrezione di Gesù non solo il Padre aveva compiuto il suo disegno di salvezza: reinserire l'uomo nel ciclo vitale di Dio, ma che la stessa risurrezione di Gesù aveva inaugurato "i cieli nuovi e la terra nuova" di cui, ora, ci si aspettava la piena e definitiva affermazione.

 

Quel "Marana tha", quindi, risuonava come un sollecito a Dio a manifestare pienamente e definitivamente quello che già aveva compiuto nella persona di suo Figlio. Del resto lo stesso Gesù aveva invitato i suoi discepoli a pregare il Padre in tal senso: "Padre nostro, ... venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra ..." (Mt 6,10).

 

La venuta di Gesù, più che un vero e proprio ritorno, era sentito come una manifestazione delle realtà compiute nel Cristo risorto e, pertanto, l'affermazione della definitiva signoria di Dio nella storia.

 

Questa diffusa attesa della definitiva affermazione di Cristo, la cui manifestazione avrebbe posto fine alla storia e a tutte le sue logiche, ci viene illustrata, con una pennellata veramente suggestiva dal sapore cosmico, dallo stesso Paolo nella sua prima lettera ai Corinti, in cui ci vengono presentati, con una scansione quasi ritmica, il compiersi graduale degli eventi finali, secondo un prestabilito progetto divino: "Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. ... Ciascuno, però, nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. Bisogna, infatti, che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato  sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. ... E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti." (1Cor 15, 23-26.28).

 

In questa stupenda visione escatologica le prime comunità cristiane vedevano l'affermarsi della stessa signoria di Dio sugli uomini e sull'intero cosmo, ricondotti in seno al Padre, come il dispiegarsi della potenza della risurrezione di Cristo.

 

Eschaton finale o eschaton che si compie?

 

L'ascensione al cielo di Gesù, più che una vera e propria dipartita, ci vuole indicare che il tempo della permanenza fisica di Gesù nella storia e l'esperienza storica di Gesù da parte dei suoi discepoli è terminato per lasciar posto, da ora in poi, al tempo della fede (Lc 24,51). Infatti, Gesù rassicura i suoi discepoli che lui non li abbandonerà mai: "Ecco, io sono con voi tutti i giorno, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20).

 

Gesù, quindi, non è svanito nel nulla, ma garantisce e assicura la sua presenza in mezzo ai suoi discepoli, non più fisicamente, ma sacramentalmente, ma per questo in un modo non meno vero e meno efficace. Significativo, in tal senso è l'episodio dei discepoli di Emmaus che narrano lo sconcerto della chiesa nascente di fronte alla morte di Gesù, ma che ritrovano lungo il cammino della storia sotto forma di parola e di pane, attorno a cui si riaggrega nuovamente la chiesa (Lc 24,13-35).

 

L'eschaton finale, pertanto, sarà soltanto il nuovo manifestarsi di una realtà che è già presente. L'eschaton finale è soltanto una modalità di porsi di Cristo nella storia e nei nostri confronti. In verità, questo "eschaton finale" è una realtà già presente che interpella continuamente gli uomini attraverso il sacramento della Chiesa, la quale si attua nei sacramenti e nell'annuncio della Parola. Infatti, questo "eschaton finale" è Cristo stesso, che è "finale" non solo perché si porrà in termini percepibili e chiari a tutti alla fine dei tempi, ma anche perché in lui si è compiuto definitivamente il disegno del Padre e in lui il Padre ci ha detto tutto quello che ci doveva dire e ha compiuto tutto ciò che doveva compiere. Per questo Cristo è l'eschaton finale.

 

L' "eschaton finale", però, conosce una dilazione nella storia, una sua evoluzione all'interno della stessa.  Questa si esplicita in una lenta e graduale incarnazione di questo eschaton nella storia stessa, finché l'intera umanità, la sua storia e la creazione non saranno riassorbite in lui. Solo allora l' "eschaton finale" sarà veramente finale, quando "Dio sarà nuovamente tutto in tutti". Ma nel frattempo, è un "eschaton" che è affidato a ciascuno di noi e la cui incarnazione nella storia e nel cosmo dipende anche da noi. Ogni suo seguace si pone come "eschaton" nella storia e nel mondo, imprimendo in essi una forte tensione e una forte spinta evolutiva.

 

Il presente, pertanto, è già di per sé escatologico e compito di ogni credente e di ogni uomo di buona volontà, di ogni latitudine e di ogni epoca, è scoprire i segni della sua presenza e lasciarsi configurare alla nuova realtà che in lui è annunciata.

 

Il giudizio finale: la verità svelata

 

Dalle immagini bibliche, rafforzate da terrificanti visioni medievali , abbiamo acquisito nel nostro immaginario religioso il giudizio finale e quello personale in termini squisitamente forensi.

 

Ma in che cosa consisterà, in realtà, questo giudizio? E chi sarà, poi, il nostro giudice?

 

Va subito detto che il giudizio non va compreso secondo i nostri schemi umani: un tribunale con un imputato, un giudice, avvocato difensore, pubblica accusa, sentenza di assoluzione o condanna.

 

Esso si pone, innanzitutto, come un momento di svelamento del nostro essere, costituito dal nostro modo di pensare, di operare, da tutto ciò che, in ultima analisi, costituisce il nostro orientamento esistenziale. Questo si manifesterà di fronte alla luce divina. Sarà, quindi, un momento di verità, in cui noi appariremo per quello che realmente siamo nei confronti di Dio e della sua proposta salvifica, offertaci nel suo Cristo. Apparirà chiaro tutto il peso del nostro essere vissuti per Cristo o contro di Lui.

 

In tal senso Paolo, nella sua prima lettera, rimproverando i Corinti afferma: "Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio." (1Cor. 4,5)

 

Sarà, dunque, questo il momento in cui Dio farà conoscere il suo pensiero (questo è il giudizio) su tutto il corso della creazione, svelerà compiutamente il suo progetto sulla storia e sul cosmo. E su questo l'intera umanità dovrà raffrontarsi e misurarsi. Non si tratterà, comunque, di un qualcosa di completamente nuovo, per cui noi possiamo dire "ma noi non sapevamo".  Ci sarà data soltanto una piena e definitiva comprensione di ciò che il Padre ci ha già detto definitivamente nel suo Cristo, a fronte del quale noi abbiamo compiuto la nostra scelta.

 

Nella parusia, pertanto, ci sarà un giudizio sulla storia, ma visto soltanto come una illuminazione del suo intero tragitto, talvolta rimasto oscuro e incomprensibile. Allora Dio uscirà dal suo "nascondimento" e tutto apparirà chiaro.

 

Come si può ben vedere, il giudizio non è un fatto forense, ma è lo svelamento della dinamica interna di questa storia che si regge su due elementi fondamentali: l'offerta di salvezza da parte di Dio e l'accoglienza o il rifiuto della stessa.

 

Dall'insieme di quanto si è fin qui detto, già si intuisce come l'uomo si costituisce giudice di se stesso.

 

Non dobbiamo pensare a un Dio giudice che condanna. Dio non si costituisce giudice di nessuno e tanto meno condanna qualcuno. Egli è totale apertura, totale accoglienza e non può essere diversamente, poiché questa è la sua natura. Dio è Amore. Ma è il modo di porsi dell'uomo nei confronti di Dio, giusto o sbagliato, che determinerà la sua figura di salvato o meno.

 

In tal senso si esprime chiaramente Giovanni nel suo vangelo: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato." (Gv 3,16-18).

 

Il giudizio, quindi, è una questione di fede, cioè di accoglienza o rifiuto di Dio nella propria vita. Non dipende  da Dio, ma da noi, dalla nostra risposta alla sua proposta di salvezza offertaci nel suo Cristo.

 

In definitiva, l'uomo diventa giudice di se stesso, ma Cristo non condanna. Ciò che condanna l'uomo è il rifiuto di Cristo nei suoi fratelli.

 

E' significativo, a mio avviso, quanto Matteo ci racconta sul giudizio: "... saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri" (Mt 25,32). Si noti bene che l'azione di giudizio si limita a separare le pecore dai capri, ma non stabilisce chi è pecora o capro; non c'è una sentenza che stabilisce che questi sono pecore e quelli, invece, capri. Ma sono le stesse genti che si presentano già come "pecore" o "capri", a Dio non resta che prenderne atto, suo malgrado. E ciò che ci fa pecore o capri è il nostro orientamento esistenziale che si pone verso o contro Dio; un orientamento che si va a costituire lungo il corso di tutta la nostra vita e che diviene definitivo soltanto nell'aldilà. In altri termini, la salvezza ce la giochiamo tutta qui nella storia e, purtroppo, non ci sono tempi supplementari.

 

Ma se la sorte dei singoli già si è decisa al momento della morte, che senso può avere un giudizio universale?

 

Nel giudizio universale ogni uomo sarà visto nel suo vincolo profondo che lo ha legato a tutti gli altri uomini. Nessun uomo, infatti, è un'isola, ma è in stretta comunione, nel bene o nel male, con gli altri uomini e apparirà in ciò il peso della sua responsabilità nella storia, per quella parte di storia che gli era stata affidata. Pertanto, dobbiamo vedere il nostro giudizio personale in una stretta relazione dinamica con il giudizio finale.

 

La risurrezione alla fine dei tempi

 

La risurrezione è il nucleo centrale della fede cristiana, senza la quale la stessa fede sarebbe priva di ogni contenuto. In proposito Paolo è esplicito e non lascia dubbi: "Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede ... e voi siete ancora nei vostri peccati" (1Cor 15, 14.17). La risurrezione si pone, dunque, come elemento essenziale non solo della nostra fede, ma anche della nostra salvezza, poiché senza risurrezione noi saremmo ancora nei nostri peccati.

 

La risurrezione è un evento da mettere in conto alla venuta stessa di Gesù: egli è venuto per rigenerare l'uomo a Dio e restituirlo alla vita divina. Questo è il senso della risurrezione.

 

Infatti, ai discepoli di Giovanni che erano venuti a chiedergli se era lui che doveva venire o se dovevano aspettare un altro, Gesù risponde loro: "<<Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella>>" (Lc 7,22).

 

Da questo passo vediamo come la risurrezione è posta tra le attività proprie di Gesù e costituisce l'elemento rigenerante di un'umanità colpita dal peccato e simboleggiata da ciechi, zoppi, lebbrosi sordi e morti. Tutti sono guariti e restituiti alla vita, quale segno di una nuova vita che Gesù è venuto a portare con il suo annuncio: "... ai poveri è annunziata la buona novella", cioè a questa umanità, variamente colpita dal peccato e definita come "povera", viene annunciata la parola rigenerante di Gesù, una "parola viva ed efficace" (Eb 4,12) che produce ciò che dice. La guarigione fisica di questa povera umanità è segno e testimonianza di un'altra guarigione spirituale, diversamente non percepibile, che si concretizza nella riconciliazione dell'uomo con Dio.

 

Significativo in tal senso è il racconto del paralitico (Mt 9,1-8). Esso gli viene presentato perché lo guarisse e Gesù gli dice: "... ti sono rimessi i tuoi peccati". Il primo atto di guarigione che Gesù compie su quell'uomo è la remissione dei peccati, cioè la sua riconciliazione con Dio. Subito dopo, a testimonianza dell'avvenuta rigenerazione in quell'uomo e della sua giustificazione, Gesù lo guarisce anche fisicamente.

 

L'intera attività di Gesù, parole ed opere, è un'attività squisitamente rigenerativa dell'umanità, che preannuncia la sua risurrezione e il nuovo stato di vita in cui l'uomo verrà a trovarsi. Egli, infatti, si definisce come la risurrezione e la vita a cui si può accedere soltanto per mezzo della fede: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno" (Gv 11,25)

 

Già fin dagli inizi della sua attività, pertanto, Gesù incomincia a spiegare il senso della sua risurrezione, in cui sarà coinvolta l'intera umanità che si apre a Dio per mezzo della fede: si tratta di una rigenerazione dell'uomo alla stessa vita di Dio, in cui l'uomo verrà reso nuovamente capace di un giusto e corretto rapporto con Dio. Una risurrezione che è capace di attrarre l'intera persona, anche con il suo corpo, nella sfera di Dio. La guarigione di quei corpi erano una testimonianza della nuova vita in cui l'uomo è stato inserito. L'intero uomo, pertanto, in ogni sua espressione e dimensione, verrà rigenerato a Dio e condividerà la sua vita.

 

La risurrezione dell'uomo è conseguente a quella di Gesù, è una sua partecipazione. In tal senso Matteo ci riferisce che i morti "... uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti" (Mt 27, 53). Dopo, dunque la sua risurrezione, quale conseguenza logica di quella di Gesù, quale partecipazione alla sua risurrezione.

 

La risurrezione di Gesù, pertanto, precede la nostra e la preannuncia: "E' risuscitato dai morti e ora vi precede in Galileia" (Mt 28,7). E' il risorto che con la sua risurrezione ci precede. In tal senso Paolo nella sua prima lettera ai Corinti afferma che "Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti." (1Cor 15,20).

 

Cristo risorto, pertanto, si pone come primizia, cioè come il principio rigenerante dell'intera umanità; una rigenerazione che già è incominciata, come abbiamo visto, con la sua venuta e che ha come elemento essenziale la fede, cioè l'aprirsi esistenzialmente, e che continua nel tempo. La risurrezione, infatti, non è soltanto una realtà che si pone esclusivamente alla fine dei tempi, ma essa è già presente in noi e ad essa noi siamo stati associati in virtù del battesimo: "Per mezzo del battesimo siamo stati dunque sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. ... non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi, tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio" (Rm 6,4.13).

 

Il primo effetto della risurrezione di Cristo, alla quale noi siamo resi partecipi fin d'ora, è un radicale mutamento interiore che ci consente di "... camminare in una vita nuova" e ci spinge a "non offrire le nostre membra quali strumenti di ingiustizia al peccato", ma ci fa esseri viventi, "tornati dai morti", e capaci di "offrire noi stessi a Dio".

 

Continua Paolo su questo tema: "Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù ... pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi, infatti, siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria" (Col. 3,1-4). La risurrezione, dunque, è una realtà già presente, a cui siamo stati assimilati in virtù del battesimo, e ci condiziona nel nostro vivere, nelle nostre scelte, nel nostro orientamento esistenziale. E' una realtà che ci interpella e con cui dobbiamo fare quotidianamente i conti. Infatti, "Dio, ricco di misericordia, ... da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere in Cristo. ... Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù ..." (Ef.2,4-6).

 

La risurrezione, pertanto, ci ha inseriti in una nuova realtà per mezzo di Cristo e che Paolo definisce come "cieli" che sono la nostra vera dimora; infatti, si parla di "sedere nei cieli". Di conseguenza dobbiamo conformare la nostra vita.

 

Paolo, però, precisa che soltanto quando si manifesterà Cristo, alla sua venuta, anche il nostro stato di risorti si manifesterà pienamente con una risurrezione simile alla sua (Rm 6,5). Ora risorti lo siamo soltanto nella speranza.

 

Si viene, pertanto, a costituire per il cristiano un forte stato di tensione tra il "già" e il "non ancora". Tra questi due poli si pone l'intera dinamica della vita cristiana, che pur legata alle realtà presente, subisce, tuttavia, una forte spinta in avanti che le fa trascendere, poiché il senso della risurrezione, a giochi finiti, è l'intimità definitiva con il Signore: "... per andare incontro al Signore ... e così saremo sempre con il Signore" (1Ts 4,17). Il nostro attuale stato di risorti è, pertanto, un camminare incontro al Signore per essere, poi, definitivamente con lui.

 

 Con quale corpo risorgeremo?

 

Alla domanda "Come risuscitano i morti? Con quale corpo vengono?" (1Cor 15,35) Paolo affronta la questione del "come" avviene la risurrezione. Egli, infatti, sta parlando a dei greci che mal sopportano la risurrezione del corpo. Infatti, la dicotomia e contrapposizione platonica di anima e corpo, e il concetto negativo di corpo, quale prigione dell'anima, spingono il greco a rifiutare la risurrezione del corpo. Ma vi è, inoltre, un'altra questione da affrontare: il concetto giudaico di risurrezione. Infatti,la credenza giudaica si rappresentava la risurrezione come la continuità di questa vita terrena. E' significativo, in tal senso, la questione che i sadducei, che per altro non credevano affatto alla risurrezione, posero a Gesù: "Alla risurrezione, di quale dei sette essa sarà moglie? Poiché tutti l'hanno avuta" (Mt 22, 28).

 

La questione, pertanto, è duplice: da un lato, dimostrare che il corpo sarà recuperato nella risurrezione; dall'altro, affermare lo stacco netto tra il corpo mortale e il corpo risorto.

 

Paolo ha come base di partenza la risurrezione di Gesù. Per Paolo, infatti, il corpo di Gesù è stato trasformato per la potenza dello Spirito, così che da corpo materiale divenne corpo spirituale: "... riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio  con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dei morti" (Rm1,3-4). Gesù, dunque, nato nella carne, viene santificato per mezzo dello Spirito mediante la risurrezione dai morti. L'espressione "santificazione" significa "sanctum facere", cioè assimilare a Dio e alla sua vita grazie all'azione dello Spirito. E' lo Spirito, quindi, che trasforma il Gesù di carne in Gesù rivestito e compenetrato dallo Spirito, accorpandolo alla vita stessa di Dio e inserendolo nel suo stesso ciclo vitale, tant'è che Paolo sottolinea che proprio nella risurrezione Gesù è "costituito Figlio di Dio", cioè viene manifestato e rivelato per quello che egli è veramente: Figlio di Dio, da lui generato. Il Gesù della storia, pertanto, è confluito interamente nel Cristo risorto.

 

Tutto ciò Paolo lo spiega con il paragone del chicco: esso, dice, non è la pianta, ma per diventare tale deve prima morire. Tra il chicco e la pianta, quindi, si pone di mezzo la morte la cui finalità è distruggere il chicco per lasciare spazio ad una nuova realtà, che non è più quella di prima. Pertanto, egli continua, così avviene anche nella risurrezione: "si semina un corpo corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso; si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale" (1Cor 15,43-44)

 

Si tratta, come si vede, di una vera e propria trasformazione che dà uno stacco netto alla realtà precedente.

 

Ma anche i vangeli ci dicono qualcosa su ciò che è avvenuto nel corpo risorto di Gesù:

 

·   Gesù, dopo la sua risurrezione, non è riconosciuto da nessuno;

·   Entra in un luogo completamente chiuso dove si trovavano i discepoli;

·   Risorge a Gerusalemme e precede i discepoli in Galileia, che dista a circa 150 Km da Gerusalemme.

 

Da tutto ciò si evince che il corpo di Gesù è stato trasformato al punto tale da non essere più riconosciuto come quello di prima. Possiede, quindi, dei tratti somatici nuovi che non lo rendono più riconoscibile. Questo sta ad indicare che il nuovo corpo di Gesù, pur essendo quello di prima (a Tommaso, infatti, mostrerà le piaghe della crocifissione) possiede caratteristiche del tutto nuove che non sono riscontrabili nel suo corpo precedente. Si crea, quindi, una scissura netta tra il prima e il dopo.

 

Inoltre, ci viene presentato un corpo che non obbedisce più alle leggi spazio-temporali.

 

Si può concludere, dunque, che il concetto fondamentale di risurrezione si identifica con quello di trasformazione, che rende radicalmente e sostanzialmente nuova la realtà precedente al punto tale da poter parla di una nuova generazione, di una nuova creazione, che avviene per mezzo della potenza dello Spirito.

 

Corpo mortale, corpo risuscitato: quale identità?

 

Si pone, ora, la questione dell'identità tra il corpo mortale e il corpo risuscitato. In proposito la teologia parla di una triplice identità: identità materiale, identità formale, identità personale.

 

L'identità materiale

 

Questa teoria ritiene che il corpo risuscitato sia costituito della stessa materia del corpo materiale. Una posizione, questa, difficilmente sostenibile, poiché se così fosse non si potrebbe più parlare di trasformazione, ma di semplice recupero del precedente corpo mortale, posto che ciò sia possibile visto che questo si dissolve nel tempo. E con il recupero del corpo mortale si porrebbero gli identici problemi precedenti: la corruttibilità, la morte, il dolore, la sofferenza, la dissoluzione. La risurrezione, qui, sarebbe una risuscitazione di cadavere, sempre che sia possibile recuperare il cadavere.

 

Sostenere una tesi simile significa vanificare il senso stesso della risurrezione che diventerebbe qualcosa di molto simile alla reincarnazione.

 

L'identità formale

 

Una svolta importante avviene con l'antropologia tomista che concepisce l'anima come la forma del corpo. L'anima, pertanto, in quanto forma del corpo mantiene uno stretto legame con il corpo stesso, in quanto ne è la sua forma. L'identità del corpo, quindi, viene data esclusivamente dalla sua forma, che è l'anima. E' per questo che il corpo mantiene sempre viva la sua identità nonostante il variare dei suoi elementi.

 

Vista in questa prospettiva la questione, non assume più alcun valore la trasformazione a cui è soggetto un cadavere, poiché ciò che ne garantirà la riconoscibilità sarà l'anima, che ne è la sua forma.

 

L'identità personale

 

Se l'anima garantisce è la forma del corpo e ne garantisce nel tempo l'identità, tuttavia questa teoria non spiega l'identità del corpo materiale con quello spirituale e, soprattutto, non spiega quale relazione c'è tra il primo e il secondo.

 

Se da un lato va detto che l'anima rimane coordinata al corpo, garantendone la forma, dall'altra non si deve pensare che l'identità del corpo significhi necessariamente identità materiale. L'identità del corpo risorto non va, pertanto, ricercata nella identità di quello materiale, bensì nella identità personale.

 

Personalmente ritengo, sulla base della risurrezione di Gesù e sulla scorta dei dati forniti dai Vangeli, che il corpo risorto altro non sia che il precedente corpo materiale che ha subito una trasformazione per opera dello Spirito. Gesù risorto, infatti, mostra a Tommaso il suo corpo glorioso piagato dalle ferite della passione. Inoltre, Gesù ha la perfetta coscienza di essere sempre lui, quello di prima. E' il Gesù della storia che è, in buona sostanza, confluito nel Cristo risorto. Infatti, in tal senso, Luca ci racconta che "Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: <<Pace a voi>>. Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: <<Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne ed ossa come vedete che io ho>>." (Lc 24,36-39).

 

Ancora una volta, il Gesù risorto viene presentato con il corpo segnato dalla croce, cioè il corpo di prima, mentre Gesù dice un qualcosa di importante da un punto di vista psicologico: "Sono proprio io!". Questa affermazione indica che Gesù ha la perfetta coscienza di essere quello di prima e mostra il suo corpo piagato, come prova della sua identità. C'è, dunque, identità e continuità tra il prima e il dopo sia su di un piano di corporeità che di coscienza.

 

Del resto sia Isaia (Is 65,17.22) che Giovanni nella sua Apocalisse (Ap 21,1) parlano di "cieli nuovi e terra nuova", cioè di una realtà che è nuova si, ma non diversa da quella che noi sperimentiamo quotidianamente.

 

Una risurrezione nella morte?

 

Che cosa avviene tra la morte e la risurrezione finale? L'antropologia platonizzante risolveva la questione con l'immortalità dell'anima, ma a caro prezzo, riducendo l'uomo ad anima e svalutando radicalmente la sua dimensione corporea. Con questa dottrina, di fatto, veniva eliminata la risurrezione dato che tutto veniva risolto con il ritorno definitivo dell'anima nell'iperuranio da dove proveniva.

 

Dall'altra parte, Tommaso con la sua anima "forma corporis" poneva l'anima in uno stato di continua tensione verso il corpo, a cui si sarebbe ricongiunta nella risurrezione finale, ma nel contempo non si poteva parlare di una condizione escatologica pienamente realizzata. L'anima veniva così posta in uno stato di sospensione e di attesa.

 

Per risolvere la questione, alcuni autori moderni (Barth, Rahner, Boff,ecc.) definirono che la speranza escatologica consiste nell' "essere in Cristo", stato questo che si raggiunge pienamente nella morte. Ipotizzarono, quindi, una "risurrezione nella morte". Per sostenere tale tesi si rese necessario abbandonare le varie antropologie platoniche e aristoteliche e abbracciare quella biblica, che concepisce l'uomo come un insieme unitario di "corpo, anima e spirito", che lo rende capace di relazionarsi con Dio, il prossimo e il cosmo.

 

In questa prospettiva, la morte non è più concepita come un momento puntuale nel tempo, ma come un divenire continuo, posto sotto il segno della caducità. Il vivere dell'uomo, pertanto, è, in realtà, un continuo morire, un continuo evolversi di una morte graduale che è insita nella stessa caducità dell'uomo, fin dalla sua nascita, e troverà il suo momento culminante e definitivo nella morte fisica.

 

Tale momento culminante del suo morire viene concepito assimilato ad una nuova nascita: come il nascere in questo mondo comporta il distaccarsi dal rassicurante seno materno, e ciò avviene non senza un profondo trauma, così questa seconda nascita comporta il distacco da un mondo che abbiamo assimilato lungo il corso di tutta la nostra vita, ma ci introduce in una realtà totalmente nuova e accogliente in cui ogni limitazione spazio-temporale, conosciuta in questa nostra dimensione, sarà definitivamente tolta, così che possiamo esprimerci pienamente e liberamente in una totalità pienamente realizzante di rapporti con Dio, gli altri e il cosmo.

 

La vita terrena, pertanto, viene concepita come un periodo di gestazione verso un Aldilà pienamente realizzante e in cui la morte è assimilata al momento del parto.

 

Con la morte, pertanto, è tutto l'uomo che entra nella sua condizione definitiva dove non ha più senso l'attesa di una fine del mondo. In questa prospettiva, ovviamente, l'identità del corpo non significa più identità materiale, ma soltanto personale.

 

 

 

 

ESCATOLOGIA  INDIVIDUALE

 

LA MORTE E LA VITA

OLTRE LA MORTE

 

 

 

 

 

Premessa

 

"Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi." (1Pt 3,15).

 

Il credente è chiamato a dare ragione, cioè a spiegare le motivazioni su cui egli fonda la propria speranza, che per sua natura apre l'uomo a nuovi orizzonti, proiettandolo al di là dei limiti e delle sconfitte quotidianamente sperimentate. Tra tutti, limite insuperabile, vi è la morte che, in realtà, sembra spegnere ogni speranza. Ma la speranza cristiana, proprio perché tale, si fonda sul Cristo risorto e sulla certezza che "se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione." (Rm 6,5). La morte per il cristiano, dunque, va letta come compartecipazione a quella di Gesù, una morte che non termina nella tomba, ma apre alla luce della risurrezione.

 

La morte come problema perenne

 

La morte è insita in ogni cosa, nasce congenita con l'uomo: dal momento si nasce, si incomincia anche a morire. E' inevitabile: tutto ha un inizio e tutto una fine; fa parte della normale logica delle cose. La morte, pertanto, mette tutta la realtà esistente sotto il segno della precarietà.

 

Assoggettato a questo grave limite, l'uomo cerca in qualche modo di lottare e là, dove possibile, di aggirarlo con qualche strategia di difesa: rimuovendola dai propri pensieri e stordendosi nella fragilità del vivere quotidiano; idealizzandola o semplicemente accettandola come realtà inevitabile e ineluttabile.

 

Oggi, nella nostra società positivistica e materialistica, il pensiero della morte non trova spazi. Essa viene chiusa in un ospedale, spettacolarizzata, rimossa ed esorcizzata da una vita frenetica, che spesso fa le sue vittime. Comunque sia, la morte viene privata del suo aspetto metafisico, al quale una società saldamente radicata in una materialità ubriacante non sa dare risposta. Ma negare la morte significa disconoscere un aspetto fondamentale della vita.

 

Anche la filosofia cerca in qualche modo di dominare questo inevitabile problema che convive con l'uomo. Pensiamo a Platone che concepiva l'uomo come uno spirito immortale tenuto prigioniero da un corpo corruttibile. In questa prospettiva la morte era vista come una realtà liberante che apriva l'uomo alla sua piena realizzazione.

Così pure lo stoicismo: vede nella morte lo strumento attraverso cui la particella divina, che vive nascosta e prigioniera del corpo, viene liberata così che  essa si ricongiunge al Tutto da cui proviene.

Non vanno, poi, sottaciute le religioni orientali che vedono la morte come il definitivo momento di quel distacco praticato lungo tutta la vita.

 

Rimossa o idealizzata, la morte rimane, comunque, sempre un fatto drammatico nella vita dell'uomo, che mette in discussione il senso stesso del vivere e operare dell'uomo.

 

Heidegger, in aperto contrasto con questa frenetica rimozione della morte, sollecita a vedere la morte come la chiave interpretativa di tutto il vivere e non soltanto come la sua parte terminale: il morire fa parte del vivere dell'uomo, così che il suo vivere, in realtà, è un lento e progressivo morire, che trova il suo apice definitivo nella morte fisica; un morire che inizia con il concepimento stesso dell'uomo. Il divenire delle cose e della vita è espressione concretamente percepibile del morire. Tutto ciò deve spingere l'uomo a vivere con saggezza la propria vita.

 

Anche le scienze antropologiche oggi tentano di spiegare la morte e, in qualche modo, di possederla e dominarla. Si pensi allo studio sul moribondo effettuato dalla Kubler-Ross: esso passa dallo choc, che genera incredulità, rabbia, ribellione, all'accettazione del suo morire.

 

Uno squarcio, di non poco conto, sul mistero del morire ci è stato aperto dal medico americano Raymond Moody che, per la prima volta nella storia dell'umanità, presenta 150 casi clinici di premorte in cui vengono narrate le esperienze di chi, in qualche modo, è riuscito a superare la prima barriera spazio-temporale, ma non in modo definitivo poiché egli riesce, poi, a ritornare. E' una conferma di quanto le più antiche religioni, cristianesimo in testa, ci stanno dicendo da almeno duemila anni a questa parte: esiste una vita oltre la vita. L'uomo non si spegne nella tomba. E ciò da un nuovo senso al proprio vivere.

 

La morte nel pensiero teologico attuale

 

La riflessione teologica trae il suo contenuto dalla morte di Gesù, che ne ha cambiato il volto, caricandola di un nuovo significato soteriologico e facendone l'alba di una nuova vita. Una morte che si fa pasqua, passaggio ad una nuova dimensione divina. Così che questa morte diventa il riscatto dell'intero vivere umano e gli attribuisce un nuovo valore e significato.

 

La teologia tradizionale incentrava il suo interesse sulla morte considerandola prevalentemente come il frutto del peccato, la fine di una prova, per la quale ora si poteva accedere alla propria ricompensa. Era semplicemente concepita come il distacco dell'anima dal corpo e il morire come un momento passaggio nell'aldilà. L'attenzione, invece, era incentrata sul dopo morte, cioè sull'Aldilà.

 

Pur non rinnegando nulla della teologia tradizionale, la nuova teologia sposta la sua attenzione sul morire dell'uomo e del senso del suo vivere in rapporto alla morte, che diventa oggetto di riflessioni teologiche e viene posta in stretta relazione alla morte redentiva di Cristo. Una morte che, ora, viene pensata alla luce della risurrezione di Cristo. L'attuale teologia apre nuove prospettive sulla morte e spinge a viverla attivamente come evento escatologico personale di salvezza, proprio perché il vivere e il morire del cristiano è un con-vivere e un con-morire con Cristo.

 

L'ipotesi dell'opzione finale

 

Questa idea di "vivere attivamente la morte" ha portato alcuni pensatori a vedere la morte, non senza una certa idealizzazione della stessa, come il momento della decisione finale, della illuminazione e dell'offerta di sé.

 

Secondo il Glorieux l'uomo nel momento del suo trapasso si troverebbe in un nuovo stato di vita, caratterizzato da una libertà di tipo angelico. Qui, illuminato dalla grazia di Dio farebbe la sua scelta definitiva, che è, comunque, influenzata dall'orientamento esistenziale dell'uomo, per cui è molto improbabile che l'anima opti per una direzione diversa.

 

Personalmente non mi sento di condividere questa tesi. Ritengo che non vi sia nessuna opzione fondamentale posta nell'Aldilà, ma che, al contrario, questa si ponga nel nostro vivere quotidiano, nel nostro "Aldiquà". E' il nostro orientamento esistenziale, che ha caratterizzato tutto il nostro vivere, che, una volta superata la barriera spazio-temporale, diventa definitivo nell'Aldilà; per cui noi saremo nell'Aldilà ciò che abbiamo deciso e siamo sempre stati qui sulla terra. L'Aldilà ratificherà soltanto ciò che noi siamo stati nell'Aldiquà. In altri termini, la salvezza ce la giochiamo tutta qui: nell'Aldilà non ci sono i tempi supplementari.

 

In una visione platonizzante, il Troisfontaines ritiene che l'anima, liberata dalla prigione del corpo, venga a trovarsi in una nuova realtà in cui, priva di ogni ostacolo e illuminante, possa esercitare la sua scelta fondamentale, in cui le opzioni terrene assumono un valore educativo e propedeutico che incideranno sull'opzione finale,posta nell'Aldilà.

 

Il punto debole di queste teorie teologiche sta proprio nell'opzione fondamentale, operata nel momento in cui l'anima si libera dal gravame del corpo; un'opzione che è influenzata, in qualche modo, dalle scelte terrene, viste come propedeutiche a quella finale. Infatti, o la decisione finale rappresenta la conclusione coerente di un'opzione fondamentale precedente, in tal caso risulterebbe inutile; od offre una scelta nuova e indipendente da quelle precedenti, in tal caso diventa l'unico momento veramente decisivo, relegando la vita ad un semplice esercizio preparatorio.

 

La vita oltre la morte nell'A.T.

 

Il pensiero sulla morte nell'AT ha subito un'evoluzione piuttosto complessa che va dalla credenza nello sheol alla fede nella risurrezione e nell'immortalità.

 

Per l'ebreo il vivere è esistere in pienezza, per cui tutto ciò che limita questa pienezza (malattie, disgrazie, ecc.)  sconfina nel regno della non-vita. Dio è concepito come pienezza di vita, pertanto l'uomo vive nella misura in cui è in comunione con Dio, fonte della vita. L'uomo vive perché ha ricevuto lo spirito di Dio (ruah) e quando questo gli è sottratto da Dio, l'uomo muore e torna alla polvere. La vita, pertanto, è strettamente dipendente da Dio. Da qui la stretta connessione della morte con il peccato. Quest'ultimo, infatti, è opposizione e allontanamento da Dio. La morte fisica in sé, quindi, non fa paura perché viene percepita come un fatto ineluttabile che fa parte della vita.

 

La vita affidata alla fedeltà di Dio

 

Anche in Israele la morte non ha l'ultima parola. La fede nello sheol, questo grande contenitore, riempito di spiriti spenti (rephaim) che vivono una vita grigia e larvale all'insegna dell'oblio dei viventi e lontani da Dio, garantisce in qualche modo la sopravvivenza dopo la morte.

 

Ammettere una sopravvivenza, sia pur larvale e triste, alla morte consentiva lo sviluppo di una riflessione successiva: può forse Dio essere vinto dallo Sheol? Forse che la morte è più forte di Dio, che è l'autore e la fonte della vita? Lo Sheol è davvero un limite all'onnipotenza di Dio?

 

Si rendeva necessario, quindi, una successiva riflessione che porta a vedere in Jhwh, fonte della vita, come colui che può vincere lo Sheol, nemico dell'uomo. Un pensiero questo che già incomincia affiorare nei salmi 16 e 73: Dio è fedele e ricompensa il giusto, che non condividerà la sorte dei malvagi per la sua fedeltà a Dio. Il giusto non vedrà la sua vita abbandonata nel sepolcro, né vedrà la sua corruzione; ma camminerà per il sentiero della vita, che il Signore gli ha indicato, gioia piena alla sua presenza.

 

Questo porta a pensare alla morte come ad un momento di purificazione e di trasformazione per il giusto, che vivrà alla presenza di Dio.

 

L'evidente divario tra i giusti e i malvagi qui sulla terra, sottolineato dal Sal. 73, porta, da un lato, al pessimismo e scetticismo di Qoelet, che vede la vita come un inutile affaticarsi; dall'altro, alla fede riconfermata di Giobbe: Dio sa quel che fa ed opera per il bene dell'uomo.

Questa tormentata riflessione apre sia ad una interiorizzazione della vita, per cui l'amore per Dio vale più di ogni bene di questo mondo, che all'attesa di una ricompensa che Dio certamente riserverà, dopo la morte, al giusto e in cui verranno pienamente compiute le promesse e l'alleanza.

 

Un po' alla volta si fa sempre più strada la convinzione che la profonda comunione, che lega il giusto a Dio e che egli esperimenta anche nella sofferenza, non verrà spezzata neppure dopo la morte. Ma sarà nel periodo della persecuzione di Antioco IV Epifane (periodo maccabaico del 167-164 a.C) che andrà facendosi strada, in modo più chiaro ed esplicito, il  concetto di risurrezione, intesa come quello spazio di vita che Dio si riserva a favore del giusto che gli è rimasto fedele fino al sacrificio della propria vita: "Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia" A tal punto, proprio verso la fine del periodo veterotestamentario, faranno il loro ingresso ufficiale i due capisaldi dell'escatologia: la risurrezione e l'immortalità. Non si tratta qui di un'immortalità naturale, connessa alla condizione dell'anima secondo i parametri della filosofia greca, bensì di un'immortalità donata da Dio. In buona sostanza, qui, risurrezione e immortalità vogliono indicare il perdurare della vita oltre la morte per effetto della fedeltà di Dio alla sua opera e alla sua promessa.

 

Questi concetti, arditamente espressi in modo così esplicito e per la prima volta nei Libri dei Maccabei, vengono ripresi dal Libro della Sapienza, databile intorno al 50 a.C., quindi a ridosso del N.T.

 

Significativi ed emblematici di tale pensiero, ormai definito, sono i seguenti passi:

 

·    "Si, Dio ha creato l'uomo per l'immortalità; lo fece ad immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono." (Sap. 2,23-24)

 

·    "Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà" (Sap. 3,1)

 

·    "I giusti al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è il Signore e l'Altissimo ha cura di loro" (Sap. 5,15)

 

Questa nuova prospettiva di una vita oltre la morte fa sì che ai giusti non appaiano più incomprensibili la sofferenza e gli eventi negativi di questo mondo.

 

Accanto a questa nuova prospettiva sorge, quasi naturalmente, l'idea del giudizio divino che si esprimerà dopo la morte e che aprirà, secondo il giudaismo rabbinico, due vie: la prima conduce all'Eden o al "seno di Abramo", l'altra alla Geenna.

 

Si conclude così il plurisecolare e complesso cammino veterotestamentario verso la speranza, che preparerà il terreno ai nuovi concetti neotestamentari di "regno di Dio". Esso costituirà la discriminante di giudizio posta sull'intera umanità, chiamata, ora, a prendere posizione di fronte a questo annuncio: "Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15). Nessuna indifferenza è ammessa, poiché essa è già una risposta negativa (Ap. 3,15-16)

 

Il "vivere con Cristo" oltre la morte nel NT

 

Mentre Platone vede nella morte la liberazione dell'anima verso spazi infiniti di libertà e perfezione; la Bibbia, una discesa agli Inferi; il cristianesimo allegorizza la sete di vivere dell'uomo e vede in essa la sete di Dio, quale pienezza e fonte di vita piena e perfetta.

 

Nel cristianesimo la morte, vista dalla prospettiva della croce, è concepita come un momento drammatico che l'uomo è chiamato a vivere, ma che nel contempo lo apre a infinti spazi di luce e di vita.

 

Tutta la vita di Gesù è un cammino verso la croce: incompreso da sua madre, dai suoi parenti, dai suoi discepoli che lo abbandonano, perseguitato e tradito finirà sulla croce, umiliato da una morte che era riservata a ribelli e delinquenti. Anche in questo momento estremo, che vivrà in modo drammatico nel Getsemani (Lc 22,42-44), egli si vedrà abbandonato dai suoi fedelissimi e nel momento supremo anche dal Padre. Una morte, quindi, vissuta nella più drammatica solitudine e che sembra sancire il fallimento della sua missione. Ma proprio in questo momento così drammatico, la sua morte si fa dono di amore e di perdono, si fa atto di riconciliazione: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34).

 

La vita dopo la morte: l'essere con Cristo

 

Mentre l'A.T. prospettava dopo la morte un periodo intermedio provvisorio di un'attesa non ben definita del futuro escatologico, il N.T. introduce un fatto nuovo: il Cristo risorto, che con la sua risurrezione anticipa le realtà escatologiche, rendendole già presenti nell'oggi; realtà che già qui interpellano l'uomo e lo spingono a dare una risposta a livello esistenziale.

Tale aspetto viene ripreso da Giovanni quando afferma che "chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato" (Gv 3,18). E' l'escatologia presenziale, secondo la quale le realtà future sono già state rese presenti con la risurrezione di Cristo. Già fin d'ora, pertanto, l'uomo è chiamato a prendere posizione nei confronti di Dio, poiché già nell'oggi è stato emesso il giudizio su di lui.

 

Il passaggio nell'Aldilà, operato per mezzo della morte, diventa pertanto una continuazione logica e definitiva di ciò che siamo stati nell'Aldiquà. Se siamo stati con Cristo e in Cristo, lo saremo anche dopo in termini di pienezza e completezza; diversamente subiremo in pieno e in modo definitivo il giudizio di condanna già emesso su di noi: "chi non crede è già stato condannato" e continuerà ad esserlo.

 

Ma che cosa succederà, dunque, dopo la morte e fino alla risurrezione finale?

 

Luca e Paolo tentano di dare una risposta e aprono il dibattito. Da parte sua Luca prospetta due soluzioni: la prima, sulla scorta della logica della ricompensa, nella parabola di Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,19-31): nell'aldilà le sorti si capovolgeranno da subito, per cui i primi saranno ultimi e gli ultimi primi. La seconda, più interessante e innovativa, ce la offre nel dialogo di Gesù e il "buon ladrone" (Lc 23, 39-43): "E aggiunse: << Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno>>. Gesù gli rispose: <<In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). La domanda del "buon ladrone" pone la sua salvezza nel futuro escatologico, quando Dio avrà realizzato pienamente il suo regno in mezzo agli uomini e ricostituita la sua signoria. La risposta che Gesù gli dà ricolloca questa realtà escatologica nell' "oggi": la sua morte e risurrezione anticipano quelle realtà e convocano già nel presente l'uomo a giudizio. A quell' "oggi" Gesù fa seguire "con me" indicando che il regno di Dio si concretizza nell' "essere con Cristo", mentre il termine "paradiso" esprime lo stato definitivo di beatitudine in Dio e che Giovanni chiama "vita eterna".

 

Questa breve analisi di alcuni passi di Luca non sembra porre una situazione intermedia provvisoria dopo la morte, ma sottolineano, al contrario, uno stato definitivo di cose.

 

Ma anche Paolo prospetta la realtà dopo la morte come l' "essere con Cristo": "Sono messo alle strette, infatti, tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio;" (Fil.1,23). Questo suo "essere con Cristo" sembra essere in Paolo invincibile: "... sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati,  né presente né avvenire ... potrà mai separarci dall'amore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore" (Rm 8,38-39); e ancora: "Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore" (2Cor 5,8).

 

Immortalità e risurrezione nella tradizione cristiana

 

Se guardiamo attentamente al kerigma iniziale, notiamo come in esso non si parli mai di immortalità dell'anima, ma soltanto di fede nella risurrezione dei morti. E' questa, infatti, che esprime la vittoria sulla morte. L'immortalità, pertanto, diventa una conseguenza di tale vittoria, ne è il frutto naturale. "L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte" (1Cor 15,26): questa è la premessa dell'immortalità. "La morte è stata ingoiata per la vittoria." (1Cor 15,54): questa vittoria è l'immortalità, è l'essere per sempre in Cristo e con Cristo.

 

La risurrezione, pertanto, apre le porte all'immortalità. Essa opera direttamente sull'uomo, concepito come un'unità di corpo, anima e spirito. E' proprio quest'ultima dimensione spirituale, quella che apre e regge il rapporto dell'uomo con Dio, che impregna definitivamente la dimensione psichica (stato di coscienza personale, la soggettività) e corporea, consente il rapporto con gli altri e il cosmo. L'uomo, pertanto, risorge come "corpo spirituale", che non va inteso come contrapposto a quello materiale, ma esprime il modo di essere compiuto e definitivo del corpo stesso.

 

Il corpo spirituale dà definitiva compiutezza al vivere dell'uomo, liberandolo da ogni limitazione precedente, a cui era soggetto in quanto vincolato ad un corpo corruttibile. In tal senso l'uomo risuscita non alla vita biologica, bensì alla vita eterna, cioè ad una vita stabilmente duratura, in quanto è la stessa vita di Dio che permea l'uomo, ormai totalmente e definitivamente assimilato a Dio.

 

L'elemento che determina ogni risurrezione e innesca ogni trasformazione verso il compimento e il perfezionamento dell'essere dell'uomo, è la risurrezione stessa di Cristo, che anticipa fin d'ora le realtà future, spingendo verso queste l'uomo nel su cammino lungo la storia.

 

 

 

IL PARADISO COME COMPIMENTO

DEL REGNO E DELL'UOMO

 

 

 

 

Il paradiso come compimento dell'uomo

 

Paradiso, cielo, vita eterna sono dei sinonimi per indicare un definitivo stato di pieno compimento dell'uomo, pienamente e definitivamente realizzato in Cristo, in ogni sua dimensione, poiché il compimento dell'uomo non può che essere una piena realizzazione di tutte le sue dimensioni: personale, sociale, cosmica. E' l'uomo che ha ritrovato totalmente se stesso nel suo "essere in Cristo"; ha raggiunto la sua piena identità, ormai completamente libero da vincoli terrestri che gliela avevano oscurata e talvolta deturpata, rendendogliela di difficile individuazione e realizzazione. Ed è ciò che ha portato ad esclamare Paolo. "c'è in me il desiderio di bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. ... Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!" (Rm 7, 18-19.24). Paolo trova, dunque, la sua piena realizzazione liberante in Cristo con cui già si identificava: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal.2,20). Il paradiso per Paolo, cioè il suo "essere con Cristo", già era incominciato qui sulla terra; infatti, continua: "Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal.2,20). Il cielo, quindi, comincia già sulla terra nella misura in cui il mio vivere è un con-vivere e un con-morire con Cristo e in Cristo.

 

Si pone, dunque, già fin d'ora una stretta connessione tra le vicende terrene dell'uomo e la vita eterna, così che quest'ultima si pone come una naturale evoluzione di quelle. L'elemento determinante di congiunzione è il Cristo risorto, in cui già nel presente siamo immersi e di cui siamo rivestiti come di un abito nuovo. In lui già viviamo o forse è meglio dire che lui già ci vive tutti, perché tutti in lui siamo stati cristificati, in virtù del battesimo.

 

Il paradiso nella Bibbia

 

I primi passi verso una realtà definitivamente stabile, in cui ogni promessa di Dio sia pienamente realizzata e dove l'alleanza, espressione di un ritrovato rapporto con Dio, sia finalmente compiuta e posseduta, fanno la loro prima comparsa nella storia di Israele. Per molto tempo la speranza di Israele fu una speranza legata alla storia. L'immagine del paradiso terrestre (Gen.2-3) esprime la nostalgia di un passato e l'attesa di un futuro storico segnato dalla benedizione divina e costituisce lo stimolo interiore, che spinge sempre oltre alle difficoltà del presente e a sperare nella restaurazione di questo sogno edenico nel "giorno di Jhwh", quando "il lupo dimorerà insieme all'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà ... perché la saggezza del Signore riempirà il paese come le acque ricoprono il mare" (Is. 11,6.9).

 

Nell'ambito di questa cornice incomincia a delinearsi la figura di un messia, di discendenza davidica, che dovrà liberare Israele dai suoi nemici e ricostituire le antiche glorie del regno di Salomone. Ma le delusioni non mancano: la distruzione del regno di Israele ad opera di Sargon II nel 722 a.C. e di quello di Giuda poi, ad opera di Nabucodonosor nel 597, spengono ogni speranza.

 

Ma nel lungo ed amaro esilio babilonese Israele, sospinto dalla predicazione di Ezechiele, comincia a intravedere un futuro che trascende i limiti della storia: "Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; ... vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti ... voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio" (Ez.36,24-28); e ancora: "Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese di Israele ... Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete" (Ez.37,12.14).

 

Ed ecco apparire all'orizzonte una Gerusalemme completamente nuova, verso cui affluiranno tutti i popoli a lodare il nome del Signore.

 

Ma non è tutto, le continue afflizioni a cui i giusti sono sottoposti di continuo, mentre i malvagi ingrassano e prosperano, spingono Israele a riconsiderare il principio della giusta retribuzione. I libri sapienziali di Qoelet e Giobbe e quelli storici dei Maccabaei segnano un passaggio importante: la felicità e la ricompensa del giusto non consiste in una abbondanza di beni qui sulla terra, ma nell'essere per sempre con il Signore, che viene pensato anche oltre la morte.

 

Il paradiso come l' "essere con Cristo"

 

L'evento "Cristo risorto" dà una sterzata definitiva: i beni terrene come realizzazione di un sogno pieno di speranza e felicità, vengono sostituiti dall' "essere con Cristo". Lui è la terra promessa, lui è la realizzazione di ogni promessa, lui la nuova ed eterna alleanza che ha definitivamente ricongiunto l'uomo con Dio e lo ha inserito nel suo ciclo vitale, così che le cose passate sono considerate soltanto un'ombra di quelle future, poiché la realtà da esse preannunciate è Cristo stesso (Col.2,17).

 

Si apre, quindi, un nuovo futuro che ha come centro vivificante Gesù Cristo, ricapitolatore di tutte le cose (Ef.1,10). Sarà lui che, alla fine, dopo aver assoggettato tutto a sé, riconsegnerà tutto il creato rinnovato al Padre, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti (1Cor. 15,28).

 

La nuova creazione generata dal Cristo risorto viene individuata con le metafore più caratteristiche della felicità umana sia individuale che collettiva: festa nuziale, banchetto, dimora eterna, vita eterna, città nuova, nuova Gerusalemme.

 

Giovanni vede il realizzarsi della vita eterna nel conoscere il Padre e colui che il Padre ha mandato (Gv. 17,3), in cui l'espressione "conoscere" sta per "sperimentare, vivere, essere in"; mentre "vita eterna" indica una vita ormai resa stabile e duratura in Dio, perché essa è la stessa vita di Dio in cui, per mezzo di Cristo, il credente è inserito, vi partecipa e condivide.

 

Paolo, poi, vede l' "essere con Cristo" non come una felicità individualistica, che chiude l'uomo in se stesso, ma come un'esperienza comunitaria e comunionale in cui la comunione si fa condivisione, accoglienza e diaconia (v. colletta: 2Cor. 8-9). E non può essere diversamente considerato che la vita di Dio, in cui il credente è inserito, è squisitamente comunitaria e comunionale, in cui un flusso di amore pervade tutto e tutti.

 

Ma in questo processo di trasformazione e rigenerazione, scatenato dalla risurrezione di Cristo, non è coinvolto soltanto l'uomo, ma l'intera creazione che "soffre e geme nelle doglie del parto ... essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli." (Rm 8,22-23). Anch'essa "attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio" (Rm 8,19).

 

Questa visione di salvezza cosmica e collettiva viene espressa dallo stesso concetto di "Regno di Dio", visto come la ristabilita signoria di Dio su tutti gli uomini, che Gesù è venuto a convocare in un grande movimento di raccolta escatologica per reindirizzarli nuovamente a Dio (Mt 23,37).

 

Ma è certamente l'espressione "essere in Cristo" che meglio indica la concezione cristocentrica della vita presente e futura. E' lui che forma da trait-d'union tra il presente e il futuro e da ad essi continuità e concretezza.

 

Già fin d'ora, infatti, il credere in Gesù, ascoltare la sua parola, mangiare la sua carne significa avere la "vita eterna", cioè essere pienamente inseriti nella vita stessa di Dio al punto tale di diventare dimora stessa della Trinità e suo possesso. Una vita eterna che, però, non prende il posto della vita terrena, ma inizia già in essa. Non è un sostituto della vita attuale, ma il suo compimento.

 

Tutto ciò viene espresso da Paolo come  un laconico "abitare presso il Signore" (2Cor 5,8). Questo modo di concepire l' "essere con Cristo" come realtà futura posta già nell'oggi, proprio di Paolo, pone nella vita del cristiano una forte tensione escatologica, in cui il "già" contende le realtà future del "non ancora.

 

Non è da meno Luca che ci presenta un Gesù rivolto al "buon ladrone" con parole piene di consolazione e speranza: "Oggi sarai con me in paradiso" (Lc.23,43) in cui "essere con" interpreta il mito del "paradiso terrestre" e ne indica il concreto contenuto.

 

La beatitudine in Cristo

 

La condizione paradisiaca o "beatitudine in Cristo" interessa l'uomo nella sua interezza e in ogni sua dimensione: personale, sociale e cosmica. Tale "beatitudine" veniva considerata spesso come una visione di tipo intellettuale, contemplativo che poneva in diretto rapporto l'uomo con Dio, per cui anche la presenza di Cristo poteva diventare scomoda o ingombrante.

 

Una simile concezione è alquanto limitata e si basa su una visione distorta dell'Aldilà e del concetto di Dio.

 

Va detto subito che Dio, in sé e per sé, non esiste. Esso, pertanto, non va considerato come una realtà che sorpassa ogni altra realtà celeste, compresa Cristo e lo Spirito. Ripeto: Dio non esiste, ma esistono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che sono Dio o, se vogliamo, esiste Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Sono le tre Persone che formano la Triade divina in cui noi siamo inseriti grazie a Cristo. E' grazie a lui che noi siamo accorpati non a Dio, ma alla Trinità e partecipi, già fin d'ora, della sua vita e del suo dinamismo di amore.

 

Dio, pertanto, non è un'entità a se stante, indipendente dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo; ma è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che per semplicità chiamiamo Dio, e lo sono veramente.

 

Pertanto, il nostro paradiso non consisterà in una eremitica o conventuale contemplazione della suprema entità divina, tra profumi d'incensi e suoni d'organo o di arpa, canti e lodi a tutte le ore e questo per l'eternità. Una mattonata simile disincentiva subito il pensare al paradiso, né credo che Dio abbia inviato il suo Figlio per introdurci in un simile stato di vita.

 

Non si tratterà di contemplazione, bensì di partecipazione della natura e, pertanto, della vita stessa di Dio in Cristo. Non è pensabile, infatti, concepire un fai da te con il Padre, escludendo Cristo o lo Spirito, divenute realtà inutili alla nostra salvezza, ormai raggiunta. Anzi, al contrario, la nostra salvezza e la nostra partecipazione alla vita stessa di Dio, il nostro accorpamento alla vita trinitaria e alla sua dinamica di amore, vanno pensati soltanto ed esclusivamente in quanto siamo stati incorporati a Cristo. E' soltanto lui che ci consente di essere riconosciuti come figli e, pertanto, sentiti dalla Trinità come da Lei generati alla sua vita e riconoscere come nelle nostre vene scorra la sua linfa vitale.

 

In tal senso, la lettera agli Efesini è chiara: "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo" (Ef.1,4). Tutto, dunque, è avvenuto e avviene in Cristo, che Paolo ci presenta come il ricapitolatore di tutte le cose (Ef.1,10). Noi, pertanto, non possiamo essere partecipi della vita trinitaria indipendentemente da Cristo, ma proprio perché siamo in lui e, soltanto, nella misura in cui noi siamo e rimaniamo in lui possiamo considerarci salvi e salvati e, di conseguenza, partecipi della vita stessa della Trinità.

Non è da pensare che la Trinità si stringa un po' per fare posto anche a noi, che formiamo il quarto incomodo. Noi, invece, vivremo e parteciperemo alla sua stessa vita, saremo inclusi nel suo ciclo vitale di amore proprio perché siamo inseriti e incorporati a Cristo.

 

Non si può parlare, quindi, nell'Aldilà di una vita contemplativa, tra musiche, canti di lode e fumi d'incensi, vivremo una vita piena perché pieni della stessa vita Trinitaria, che è una vorticosa vita di amore e di luce, in cui siamo immersi non indipendentemente da Cristo, ma proprio grazie a Lui.

 

Infatti, la comunione personale con Cristo è simultaneamente relazione immediata con il Padre e con lo Spirito, dal momento che il Figlio è tale solo in relazione con il Padre e lo Spirito. Soltanto, quindi, con il nostro "essere in Cristo" possiamo Dio così come egli è: Padre, Figlio e Spirito Santo, in cui noi viviamo e di cui viviamo.

 

Visione e divinizzazione

 

Quando parliamo di incorporazione a Cristo e alla Trinità, grazie a Cristo, bisogna fare attenzione al pericolo di concepire tale accorpamento come una assimilazione a Dio al punto tale da perdere la nostra identità. Se così fosse, la vita eterna non sarebbe l'affermazione e il compimento pieno dell'uomo e del suo universo, bensì la sua negazione e la sua distruzione; sarebbe una sorta di Nirvana, in cui l'uomo sfocia nel nulla eterno.

 

La vita divina, al contrario, va concepita come dono che afferma la mia individualità, portandola a pieno compimento, e non come evento alienante. Se così fosse, Dio avrebbe reso inutile tutto il suo progetto di salvezza e si troverebbe, ora, tra le mani un giocattolo rotto.

 

L'amore è per l'affermazione dell'altro, non per il suo annientamento. Saremo, pertanto divinizzati, ma non annullati nella nostra identità.

 

Dimensione sociale e cosmica dell'uomo

 

Abbiamo detto sopra che la nostra vita in Cristo sarà una vita pervasa dal quella della Trinità, in cui pulsa una perfetta vita di amore, inteso come totale e reciproca apertura dell'uno agli altri due; come totale e reciproca donazione dell'uno agli altri due; come totale e reciproca accoglienza dei due in se stesso. Questo tipo di vita divina si esprime in una perfetta comunione, che si fa reciproca compenetrazione dell'uno negli altri due e viceversa, quasi un'osmosi divina.

 

Se tale è la vita divina che scorre nelle vene del nostro essere e lo permea fin nel profondo, noi non potremmo esistere se non in tal modo. La nostra socialità umana viene qui esaltata e trova la sua piena realizzazione, il suo pieno compimento. Per questo la salvezza non è mai un fatto individuale, anche se interessa la singola persona, ma ci abbraccia collettivamente.

 

Tale collegialità comunionale trova la sua origine e la sua giustificazione in Cristo per cui, afferma Paolo, "Non c'è più né giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero;non c'è più uomo né donna, poiché voi tutti siete uno in Cristo" (Gal. 3,28). Ogni barriera sociale, culturale, razziale e sessuale viene a cadere o, quanto meno, perde completamente di valore di fronte all'unica cosa che conta l' "essere in Cristo".

 

Questo "essere in Cristo" non abbraccia, tuttavia solo i "trapassati", ma l'intera realtà creata, così che tutti e tutto formano un tutt'uno in Cristo; tutti e tutto sono posti, grazie a Cristo, in comunione di vita. In tal senso la chiesa è una vera "ekklesia", cioè una vera assemblea di comunione in cui ogni barriera culturale, sociale, storica e spazio-temporale è venuta a cadere. Grazie a Cristo e al nostro essere in lui possiamo parla di una vera "comunione dei santi" nel cui ambito esistono diversi modi di vivere l'unica vera vita.

 

In tale vita comunionale non può non essere presente il cosmo a cui noi apparteniamo per nascita e di cui facciamo parte e a cui noi siamo legati attraverso la nostra corporeità redenta.

Proprio grazie a questa corporeità redenta, anche il cosmo, l'intera creazione sarà recuperata alla dimensione divina. Infatti, afferma Paolo, "la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio ... e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio." (Rm 8,20-21).

 

La rivelazione, infatti, ci parla non solo di una risurrezione del corpo, ma anche, in diretta connessione, di una "nuova creazione", di "cieli nuovi e terra nuova" in cui l'uomo risorto, nuovamente ricreato ad immagine e somiglianza di Dio, verrà posto come nell'antico giardino e in cui vivrà il suo compimento definitivo (Gen. 2,15).

 

Paradiso e vita terrena

 

Considerato, pertanto, il legame indissolubile tra uomo-creazione e salvezza-compimento non è più possibile pensare ad un paradiso come una realtà totalmente altra dalla realtà storica e da essa totalmente svincolata. Infatti, nella concezione biblica la vita eterna è il compimento della vicenda terrena segnata, in modo indelebile e irreversibile, dalla grazia.

 

Immagine, testimonianza e anticipazione di tale profondo vincolo tra vita terrena e paradiso è l'evento Cristo stesso. Egli, infatti, dalla sua dimensione storica passò a quella di risorto. Il Gesù della storia è confluito nel Cristo risorto, in lui totalmente e definitivamente assorbito. L'intera vita terrena di Gesù, vissuta totalmente e pienamente per la causa del Padre, trova nel momento della risurrezione la sua piena attuazione e realizzazione, per cui la salvezza annunciata nella storia si fa, ora, salvezza attuata.

 

Pertanto, il paradiso o l'inferno incominciano già fin d'ora nella dimensione storia e troveranno la loro piena e definitiva attuazione nel nostro confluire nell'Aldilà, in cui saremo pienamente e definitivamente ciò che siamo stati nell'Aldiquà. La salvezza, dunque, ce la giochiamo tutta in questa dimensione spazio-temporale.

 

In tale prospettiva l'Aldilà incomincia già nell'Aldiquà e il paradiso non si pone più come una meta trascendente, ma comincia a prendere forma là dove riusciamo cogliere Cristo negli uomini; là dove gli uomini vivono gli uni per gli altri, dove ci si impegna per la giustizia, per la liberazione dell'uomo, per la pace, in una parola per la costruzione di un mondo corrispondente al piano divino.

 

Si viene a costituire, pertanto, una "escatologia presenziale", che caratterizza l'intera opera giovannea: la realtà ultima è in qualche modo anticipata nell'oggi della storia e già, sia pure in modo imperfetto, è presente. Così che "Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato" (Gv. 3,18).

 

Paradiso e Inferno, pertanto, si vanno formando già fin d'ora. La vita eterna non prende il posto della vita terrena, ma già comincia in essa e ne costituisce una sua naturale evoluzione, ne diviene il suo naturale compimento.

 

 

 

 

L’INFERNO COME POSSIBILITà

del fallimento eterno dell’uomo

 

 

 

 

Interrogativi inquietanti

 

 

Dio, per sua natura, è totale apertura e accoglienza nei confronti dell'uomo. Ma l'uomo può anche rifiutare la proposta di comunione di Dio e questo segna il fallimento della sua esistenza. L'inferno, pertanto, è lì a testimoniarci la possibilità di questo fallimento dell'esistenza umana.

 

Vien da porci subito alcuni interrogativi su questa realtà inquietante: come può Dio buono e misericordioso, lento all'ira e grande nell'amore, tollerare che le sue creature, per le quali ha profuso in abbondanza il sangue di suo Figlio, siano definitivamente e per sempre condannate all'infelicità e al fallimento eterno? Come potrebbe Dio creare uomini di cui prevede la dannazione eterna? Come potrebbe un Dio che si è rivelato come amore, perdono e accoglienza del peccatore consentire che questo, per sua fragilità, si perda per sempre?

 

A tal punto ci si può chiedere se esistano veramente degli uomini dannati o se questi, invece, siano comunque perdonati e accolti nel seno di Dio.

 

Gli interrogativi fin qui posti, per salvaguardare l'immenso amore e la grande misericordia di Dio, ci spingerebbero a dire che l'inferno non esiste o se esiste non ha il carattere di eternità.

 

Eppure Gesù parla dell'inferno come reale possibilità del fallimento eterno dell'uomo, che liberamente e in piena coscienza rifiuta la proposta di quell'imperativo di salvezza: "convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15). In tal senso, S.Agostino ammonisce che "quel Dio che ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te".

 

Il concorso dell'uomo, quindi, è un elemento essenziale nel gioco della salvezza. Dio in Cristo ha reso accessibile la salvezza all'uomo, ma spetta a questi aderirvi o meno.

 

Esistendo, pertanto, il libero arbitrio nell'uomo, esiste anche la concreta possibilità che l'uomo fallisca l'obiettivo principale: la sua piena realizzazione che si attua nella comunione con Dio in Cristo.

 

Ciò che fa eterno tale fallimento è la totale caduta delle categorie spazio-temporali nell'Aldilà. Infatti, sono queste che rendono relative le scelte dell'uomo e garantiscono il divenire nell'Aldiquà. Toglierle significa rendere definitiva ogni nostra scelta. Ed è ciò che accade nel momento in cui noi superiamo, con la nostra morte, la barriera spazio-temprale.

 

La dottrina biblica

 

Per poter comprendere bene il concetto di inferno bisogna collocarlo nell'ambito dell'annuncio della salvezza. In essa è posto come alternativa inevitabile per chi non vi aderisce.

 

Va detto subito che è indiscutibile la volontà salvifica di Dio. La Bibbia ce ne dà ampia testimonianza.

 

Il primo atto rivelativo di Dio è la stessa creazione, in cui Dio riconosce la bontà della creatura: "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona" (Gen 1,31). E' Dio che si riconosce nella bontà della sua creatura, fatta a sua immagine e somiglianza.

 

Ci viene presentato ancora un Dio che è per la vita e non per la morte: " ... perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli, infatti, ha creato tutto per l'esistenza" (Sap 1,13-14). Infatti, egli ama "tutte le cose esistenti e nulla disprezza di quanto ha creato; se avesse odiato qualche cosa non l'avrebbe neppure creata" (Sap.11,24).

 

Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si salvi: "Forse che io ho il piacere della morte del malvagio ... e non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?" (Ez. 18,23).

 

In modo più esplicito il N.T. definisce Dio come amore (1Gv 4,8) e gli attribuisce la volontà di salvare tutti gli uomini: "... Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità" (1Tm 2,4). Un principio questo che viene sancito anche dal nostro simbolo di fede: "egli discese dal cielo per noi uomini e per la nostra salvezza".

 

Una volontà salvifica che viene rimarcata da Gesù stesso: "Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui." (Gv 3,17).

 

Purtroppo, tutto ciò non esclude la possibilità di un rifiuto della salvezza da parte dell'uomo. Si tratta di una possibilità strettamente connessa con la stessa libertà dell'uomo e con il fatto che la salvezza non è una fatalità imposta all'uomo, ma un'offerta. In tal senso, Giovanni è esplicito: "Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio suo" (Gv 3,18).

 

Da qui la questione dell'inferno.

 

Le immagini e il pensiero dell'inferno nella Bibbia

 

Il nome "inferno", che indica un luogo sotterraneo o inferiore, traduce il termine greco "Aidhj" (Ade, soggiorno dei morti) che a sua volta traduce l'espressione ebraica "sheol".

 

Lo sheol era concepito come il luogo della raccolta delle anime dei defunti, nel quale esse vivevano in uno stato larvale. Ancora non era stato concepito un premio e un castigo nell'Aldilà, come conseguenza di una vita buona o malvagia.

 

Premio e castigo sono agganciati al concetto di retribuzione, che trova la sua attuazione nella vita presente, per cui i buoni prosperano e i malvagi deperiscono sotto l'ira di Dio.

 

L'esperienza quotidiana, tuttavia, si incarica di smentire questa concezione troppo terrena e diretta. Questo spinge ad una evoluzione del concetto di sheol, non più visto come un luogo anonimo in cui le anime, ormai private di ogni spranza, sono giunte alla loro destinazione definitiva e vengono, per così dire, archiviate. Lo sheol viene, ora, concepito come il luogo della ricompensa ultraterrena, che differenzia i buoni dai cattivi. Ma i termini sono ancora vaghi.

 

Bisognerà aspettare verso la fine dell'AT perché il premio o il castigo escatologico venga posto chiaramente oltre la vita terrena e in stretta connessione alla risurrezione, per cui: "Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e all'infamia eterna." (Dn. 12,2).

 

Ma già ai tempi di Gesù l'idea di una punizione o di un premio nell'altra vita era diffusa, come ci è testimoniato anche dalla parabola di "Lazzaro e il ricco epulone" (Lc 16,19-31). Inoltre Gesù stesso ci parla di un "fuoco inestinguibile, di una fornace, di pianto e stridore di denti, tenebre e tormenti, verme che corrode". Concetti questi che vengono rimarcati dalla stessa Apocalisse che parla, a modo suo, di un "lago di fuoco e zolfo" (Ap 14,10; 19,20; 20,10). La stessa prima lettera di Pietro ci parla di un "carcere tetro".

 

Paolo e Giovanni ci parlano, invece, in modo meno figurato e più concettuale, di "impenitenza, perdizione, morte seconda o definitiva, consegna alla collera divina".

 

Comunque sia, immagini o concetti, il senso non cambia: c'è una concreta possibilità per l'uomo di perdersi per sempre. Questo determina il fallimento definitivo ed ultimo dell'esistenza umana.

 

Una particolare attenzione va rivolta all'immagine prevalente del "fuoco eterno", un fuoco che si è concepito come un qualcosa di reale. Un'immagine dell'inferno, questa, che non va presa alla lettera, ma va collocata all'interno del linguaggio biblico.

 

Secondo tale linguaggio, il fuoco esprime la consumazione eterna di un qualcosa che è diventato del tutto inutile e inservibile, in quanto che ha fallito il proprio obiettivo, frustrando il senso stesso del proprio esistere. Esso, pertanto, diviene l'immagine efficace di una vita sprecata, condannata alla sterilità e alla solitudine eterna, esclusa definitivamente dalla comunione con Dio.

 

In tal senso, si pensi, ad esempio, alle parole del Battista, secondo cui l'albero che non dà frutto sarà gettato nel fuoco (Mt 3,10), così come avverrà per la pula, una volta separata dal grano, "brucerà con un fuoco inestinguibile" (Mt 3,12). Anche Gesù si esprime similmente: "Ogni albero che non dà buon frutto sarà gettato nel fuoco" (Mt 7,19). Lo stesso avverrà per la zizzania (Mt 13,30-42). Sono tutte immagini ed espressioni che indicano soltanto una cosa: l'uomo che conduce una vita sterile, priva cioè di frutti buoni, sarà tolto dalla comunione con Dio e brucerà nella sterilità del suo fallimento.

 

La vera natura del castigo

 

Il N.T. per spiegare la condizione del dannato ricorre soprattutto al concetto di esclusione.

In tal senso, si pensi alle espressioni come la "porta chiusa" nella parabola delle dieci vergini (Mt 25,10); o ancora "lontano da me maledetti" (Mt 25,41); o a quel "gettatelo fuori" nella parabola dei talenti (Mt 25,30). Così, lo stesso Paolo, nella sua prima lettera  ai Corinti, parla di "essere squalificati" (1Cor 9,27).

 

La perdizione consiste, dunque, nello "star fuori", nell' "essere esclusi" dalla comunione con Dio. E ciò significa frustrazione e fallimento esistenziali radicali e definitivi. Infatti, se è vero che l'uomo trovando Dio trova se stesso; vero è anche che perdendo Dio perde totalmente se stesso.

 

E ciò è la logica conseguenza dell'indirizzo che l'uomo ha dato alla propria vita: verso le creature anziché verso a Dio. S.Agostino definisce bene questo concetto, che sta alla radice del peccato, con l'espressione: "aversio a Deo et conversio ad creaturas", per cui chi vota la sua vita alla terrestrità, destinata alla consumazione e alla caducità, sarà associato fatalmente al suo destino.

 

Collocato in quest'ambito di relazione mancata con Dio, l'inferno non va più concepito come un luogo. Esso è essenzialmente una relazione pervertita con Dio, con i suoi simili e con l'intera creazione; significa fallimento totale dell'essere umano, la cui sanzione è intrinseca al modo di vivere stesso, per cui il vivere in un certo modo diventa, di per se stesso, un luogo di perdizione.

Posto in questa prospettiva, l'inferno non diventa più la retribuzione escatologica di una vita spesa nell'inutilità, ma si colloca nel libero e cosciente vivere dell'uomo, che diventa un vivere di peccato, non più orientato a Dio, ma alle cose. In tal senso, la vita dell'uomo diventa un vivere l'inferno già fin d'ora e troverà la sua codificazione definitiva e piena nell'Aldilà.

 

Stridenti situazioni di ingiustizia, legalizzata o meno, violenze, guerre, sopprusi, stragi, faide, vendette, odii familiari, rancori sono espressioni vive ed autentiche di un vivere fallimentare, che pone l'uomo già, fin d'ora, in una condizione di vita sbagliata, cioè di inferno.

 

Inferno e speranza cristiana

 

Paolo, dopo un lungo e deprimente ragionamento sull'inefficacia della legge ai fini della salvezza protratto per tutto il capitolo 7 della sua lettera ai Romani, apre il capitolo 8 con un messaggio di grande speranza: "Non c'è, dunque, più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (Rm 8,1-2); e ancora: "Dio, infatti, ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia" (Rm 11,32).

 

Sono affermazioni che aprono il cuore alla speranza e ci vengono direttamente dalla stessa Parola di Dio, che ci conferma, ancora una volta di più che là "dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia" (Rm 5,20). Il vangelo è un lieto annuncio di salvezza e non di condanna.

 

Tale abbondante offerta di salvezza, se da un lato ci rincuora, dall'altro, non esclude la drammatica possibilità del rifiuto. Dio, infatti, non impone all'uomo la salvezza, ma la offre lasciandolo libero nella sua scelta, pur assistendolo in essa con il suo Spirito e con la sua grazia.

 

La possibilità del rifiuto e del conseguente fallimento esistenziale non vogliono essere dei deterrenti terrorizzanti, ma un invito a prendere in seria considerazione la nostra responsabilità di fronte alla chiamata di Dio e, quindi, l'urgenza della conversione.

 

Di conseguenza, l'inferno non è una punizione che Dio infligge all'uomo, ma una possibilità interna dell'uomo, insita nella sua stessa fragile libertà. Una possibilità che l'uomo può sperimentare in questo mondo, quando vive chiuso nel suo egoismo, che genera divisioni, guerre, oppressioni, ingiustizie, emarginazioni, isolamento. Espressioni tutte queste di una vita condotta senza amore e priva di un'autentica comunicazione.

 

 

IL PURGATORIO

INCONTRO PURIFICATORE CON DIO

 

 

 

Il fondamento biblico del purgatorio

 

La negazione luterana di un fondamento biblico circa l'esistenza del purgatorio, portò la parte cattolica ad una ricerca di prove bibliche in tal senso. Ma spesso i testi rilevati erano sostanzialmente delle forzature; erano, inoltre, isolati e staccati dal loro reale contesto.

 

Due sono sostanzialmente i passi biblici che, in qualche modo, possono sostenere l'esistenza del purgatorio: 2Mac 12,43-46 e 1Cor 3,10-17. Vediamoli più da vicino.

 

Il senso di 2Mac 12,43-46

 

Siamo in un contesto di fine battaglia. Dei soldati raccolgono i loro caduti e scoprono sotto le loro vesti degli idoli trafugati da Iamnia. Allora, comprendono la loro morte non più come accidentale, ma come un castigo di Dio. Ricorrono, pertanto, alla preghiera, supplicando che il gravissimo peccato commesso fosse loro perdonato. Poi fu inviata a Gerusalemme una colletta perché fosse offerto un sacrificio espiatorio per il peccato di questi caduti. E questo è suggerito dal pensiero della risurrezione.

 

La preghiera e la colletta per il sacrificio espiatorio presuppongono la certezza che i vivi possano, in qualche modo, operare favorevolmente per i defunti. Tali azioni sembrano, comunque, considerate come un'intercessione che avrà il suo peso nella risurrezione.

 

C'è, pertanto, la convinzione che un'azione cultuale può aiutare i credenti che sono morti on una condizione oggettivamente di peccato.

 

Il senso di 1Cor 3,10-17

 

Paolo, parlando qui dei predicatori che edificano la chiesa, afferma che le loro opere saranno sottoposte alla prova del fuoco che proverà la qualità dell'opera stessa. Se l'opera supererà tale prova, egli sarà premiato, diversamente punito: "tuttavia, egli si salverà, però come attraverso il fuoco". Tuttavia, questa affermazione Paolo la pone in un contesto escatologico, quando tutto sarà definitivamente compiuto. Non sembra, pertanto, possibile sostenere l'esistenza del purgatorio con tale passo, che pare voglia esprimere, più che altro, la condanna a cui sono sottoposti i predicatori poco zelanti.

 

Questi testi, nel loro insieme, sembrano costituire degli indizi sul purgatorio, non certamente delle prove chiare e certe.

 

Dio come purificatore

 

Una migliore contestualizzazione biblica del purgatorio potrebbe essere meglio individuata più che sui singoli passi, alquanto discutibili, nell'insieme dell'esperienza biblica di Dio quale "fuoco divorante", che mette in questione l'uomo nel confronto finale individuale. In tale posizione di confronto con la Luce suprema è illuminato nella sua fragilità e nella sua peccaminosità.

 

Nel confronto con la santità e l'amore di Dio, libero dai legami inibitori e limitanti del corpo, l'uomo coglie perfettamente, con consapevolezza la propria malvagità e la propria miseria.

 

Sarà proprio tale confronto della propria miseria con lo splendore divino che costituirà il purgatorio, cioè una sofferenza purificatrice che distrugge in noi ogni sovrastruttura che ci impedisce di beneficiare del pieno rapporto di comunione con Dio.

 

L'uomo, nel suo vivere questa dimensione terrestre, facilmente si conforma anche spiritualmente a questa terrestrità, di cui, a seconda delle esperienze vissute e del proprio modo di vivere, difficilmente se ne libera pienamente. Essa costituisce in tal modo una sorta di palla al piede che non gli consente di librarsi alto e liberamente in Dio e di goderne la piena comunione di vita.

 

Si rende, pertanto, necessaria una purificazione, la quale più che un atto unico e immediato, costituisce una sorta di cammino di evoluzione spirituale dalle cose, di cui ancora è invischiato, alla piena luce divina. Si tratta, dunque, di riorientare pienamente la propria vita a Dio e in Dio, liberandosi degli ultimi orpelli che impediscono o, quanto meno, rendono difficoltoso il libero e pieno librarsi verso Dio.

 

Il ritorno all'essenziale

 

Abbiamo visto come sia l'incontro con Dio e nell'ambito di questo che l'uomo si scopre ancora prigioniero della propria terrestrità, di cui deve definitivamente liberarsi e ciò avviene in uno stretto rapporto con Dio che lo accompagna nel cammino verso di Lui.

 

Tale cammino, squisitamente spirituale, coinvolge l'uomo, sia pur in modi diversi, già in questa vita. Essa, pertanto, può essere vissuta in tal senso, come un processo di purificazione ed evoluzione spirituali. Non vi è, infatti, un netto scollamento tra la vita nell'Aldiquà e quella nell'Aldilà, ma vi è un continuo logico, sia pur se diverse siano le modalità nel porsi nelle due posizioni. Tale "continuo logico differenziato" viene testimoniato, in qualche modo, dalla stessa liturgia dei defunti quando afferma che "vita mutatur non tollitur"; in altri termini viene cambiato soltanto il modo di vivere, senza che ciò comporti una qualche frattura. Questo ci consente di dire che già nel nostro vivere terreno si dà inizio non soltanto a ciò che saremo definitivamente nell'altra dimensione, ma anche a quella evoluzione spirituale e di avvicinamento a Dio che caratterizza lo stato di purgatorio.

 

In quest'orizzonte, il purgatorio diventa ad essere il momento finale di un cammino di crescita e di evoluzione spirituale già iniziato qui sulla terra. Le sofferenze, di ogni specie e dimensione, sono elementi importanti in questo processo evolutivo di purificazione esistenziale verso Dio, purché esse siano vissute e accolte nella coscienza di questo cammino purificatore e di evoluzione spirituale rivolto a Dio. Diversamente sono soltanto sofferenze.

 

Il purgatorio non è un inferno a termine

 

Spesso il purgatorio veniva presentato come una sorta di "inferno a termine". Nulla di più aberrante. Infatti, se l'inferno sancisce il fallimento del compimento dell'uomo, totalmente fuori dalla comunione con Dio che si fa avversione e odio nei suoi confronti, nel purgatorio non vi è nulla di tutto questo.

 

Nel purgatorio c'è la comunione con Dio anche se questa, per essere definitivamente, piena deve liberarsi dalla pesantezza della terrestrità che ancora, in qualche modo, inquina il nostro spirito. Si tratta, pertanto, di una comunione non ancora perfetta, ma perfettibile. Qui l'orientamento esistenziale è rivolto decisamente a Dio, anche se con qualche, più o meno accentuata, incertezza, dettataci dal nostro livello di legame con la terrestrità.

 

Come si vede, non si può parlare di "inferno a termine". Siamo su due dimensioni decisamente opposte. Tuttavia, non va dimenticato l'elemento sofferenza, sempre presente nel ciclo della purificazione. Si tratta, infatti, di scardinare dal nostro spirito, in modo definitivo, i nostri legami con la terrestrità che ancora permea, in qualche modo, il nostro spirito.

 

Tale sofferenza già si pone nella presa di coscienza nel momento del confronto con la Luce divina, in cui vengono messe in rilievo tutta la nostra fragilità e imperfezione. Ad essa va aggiunta, inoltre, quella che si produce nel cammino di perfezionamento spirituale, durante il quale il fuoco vivo della nostra comunione con Dio brucia la nostra terrestrità residua. Si tratta di compiere definitivamente e pienamente un parto rimasto incompleto.

 

Non c'è, pertanto, bisogno di aggiungere ulteriori pene. Il purgatorio non è un luogo di sadismo dove Dio si diverte a tormentare chi non lo ha amato pienamente, una sorta di resa di conti e di vendetta servita a freddo. Un simile Dio risulterebbe soltanto ripugnante e odioso.

 

Il purgatorio: gioiosa purificazione dell'amore

 

Ciò che caratterizza il purgatorio è la condizione di speranza ormai già raggiunta, ma non ancora pienamente realizzata. In tale prospettiva la purificazione si pone nell'ottica dell'amore verso cui si è attratti e non del castigo. Se di fiamme proprio si vuol parlare, queste sono di nostalgia e di un amore indicibile.

 

In questo cammino di evoluzione spirituale lo spirito del defunto non è mai abbandonato a se stesso, ma viene accompagnato dalle preghiere della Chiesa la quale, benché ancora pellegrinante sulla terra, sa abbracciare ancora il suo figlio trasmigrato verso Dio e gli infonde forza spirituale perché questo cammino si compia il più rapidamente possibile.

 

Infatti, l'incontro dell'uomo con Dio nel momento della morte non va visto come un affare privato, ma come un evento che si svolge nella chiesa, la quale, benché suddivisa in chiesa pellegrinante, purgante e celeste, di fatto forma un'unica realtà in Cristo, grazie al quale trae origine quella che viene definita la comunione dei santi.

 

Purgatorio e giudizio particolare

 

Il purgatorio, concepito come incontro purificatore con Dio e cammino di evoluzione spirituale verso una piena comunione con Lui, costituisce lo stato di vita conseguente ad un avvenuto giudizio individuale. Esso, sostanzialmente, si identifica con questo ed esprime anche il livello di rapporto con Dio, che segna il progresso e il ritmo di questo cammino evolutivo.

 

In tale prospettiva, la purificazione non è più una questione di tempo, bensì di grado di intensità di rapporto con Dio.