Ogni anno, leggendo i testi di Sanremo pubblicati in anteprima da «Tv Sorrisi e canzoni», mi chiedo: così, Vita spericolata nel febbraio 1983 l’avrei riconosciuta? avrei capito che si trattava di un pezzo destinato a diventare un inno generazionale? che stavo leggendo in anticipo un pezzo di storia della canzone italiana? I testi, si sa, per essere giudicati adeguatamente andrebbero sentiti insieme alla musica. Nondimeno, sottoposta alla prova della degustazione muta (i sommeliers la fanno cieca ...), questa edizione del festival risulta – per la lingua – una delle più piatte degli ultimi anni. Al punto da giustificare, più di altre volte, l’enfatico titolo che pochi anni fa il linguista Massimo Arcangeli scelse per un suo saggio sull’argomento: Va’ dove ti porta Sanremo: la tomba della lingua.
Testi domopak
La prima impressione è che quest’anno manchi proprio l’acuto (tanto per usare una metafora squisitamente musicale), quel pezzo forte che anche le edizioni più deboli dell’ultimo decennio avevano sempre garantito. Dalla formidabile Italia sì, Italia no di Elio e le Storie tese a Salirò di Daniele Silvestri, dal Timido ubriaco di Max Gazzè a Dimmi che non vuoi morire scritta da Vasco Rossi per Patty Pravo, tanto per limitarsi a qualche esempio. La sensazione netta è, che stavolta più che mai, si tratti in gran parte di testi scritti all’unico scopo di accompagnare la musica col suono delle parole. Testi-domopak prodotti al metro per confezionare melodie che devono scivolare via facili. Parole fatte per imprimersi subito nella memoria, adagiandosi nel calco dei tanti passaggi simili che ognuno di noi ha in mente, e poi essere dimenticate, con la stessa facilità, dopo un mese di programmazione radiofonica.
Letti tutti di séguito, i testi di questo Sanremo danno l’idea di un’unica fiction melodrammatica (Orgoglio, mettiamo) porzionata per un consumo più agevole in tante brevi puntate-spot (tipo Camera cafè). Solo che qui c’è poco da ridere: quest’anno, anzi, sembra mancare anche quel filone minoritario della canzone comico-burlesca basata sul gioco di parole e sulla critica di costume di solito presente con almeno un brano (Arbore, Salvi, Paolo Rossi & Jannacci). A meno che non si voglia far passare per tale la canzone di Cristicchi, che invece – lasciata alle spalle la parodia di Biagio Antonacci – è più vicina a certi accenti patetici di Studentessa universitaria. Il dominio assoluto spetta ai toni sentimentali, aggiornati – tutt’al più – da un po’ di giovanilismo: non sarà un caso che l’unico riferimento letterario sia riservato al romanzo culto per adolescenti Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia (in Svegliarsi la mattina degli Zero Assoluto).
Questa canzone che canto per te
Le 29 canzoni (quella di Anna Oxa per ora resta segreta, tranne per pochi versi resi noti dall’ANSA) si snodano in un monotono monologo. O meglio in un dialogo a senso unico con un convitato di pietra, visto che quasi tutte si rivolgono a un tu poetico facilmente identificabile con l’amata/o (più spesso l’ex, a dire il vero): «come questa canzone che canto per te», Spagna. Tra le rarissime eccezioni, il brano di Mario Venuti (Un altro posto nel mondo), in cui è lei a rivolgersi a lui in discorso diretto «quando lei mi disse “sono innamorata di te”». In attesa di leggere per intero il testo scritto per la Oxa da Pasquale Panella (senz’altro il più geniale paroliere della canzone italiana degli ultimi trent’anni), quello di Venuti appare il testo dal profilo più originale. Lontano dalla consueta struttura che ruota intorno a un ritornello o a un verso puntello ripetuto a oltranza (esempio da manuale: Dolcenera), spicca – oltre che per lo spunto raffinato – per la completa assenza degli stucchevoli ingredienti tradizionali altrove attinti a piene mani. Il che accade con particolare passività nei testi delle giovani proposte, ancora più conservatori – se è possibile – di quelli portati dai cosiddetti “big”.
La ricetta della nonna: perché Sanremo è saremo
Ma quali sono gli ingredienti di questa – ormai un po’ indigesta – ricetta della nonna? Oltre al tu “poetico”, l’uso dei tempi al futuro piuttosto che al passato: «un accentuato lirismo intride questi versi», scriveva l’Accademia degli Scrausi nel capitolo su Sanremo del volume Versi rock (1996), «in cui è importante dire più che raccontare». Il “futuribilismo”, chiamiamolo così, emerge già nei titoli (Sparirò, Luca Dirisio; Capirò crescerai, Antonello), ma si scatena soprattutto in fine di verso («è una promessa che non mancherò / e poi, ancora un altro giorno nascerà» Nomadi). Perché Sanremo è saremo, verrebbe da dire, e invece il motivo è un altro: l’esigenza – per ragioni ritmiche – di usare a fine verso parole accentate sull’ultima sillaba. La stessa esigenza che fa ricorrere ai pochi monosillabi della lingua italiana in sequenze come: «dà via quel che ha / le, lui, la città / sul fondo c’è già / un’alba che dà» (Nicky Nicolai), a volte con vere e proprie “zeppe” («l’ho urlato forte al cielo, sai» Virginio). Ed è sempre questa regola implicita che porta a inversioni come nei sogni miei (Simona Bencini), dentro agli occhi miei (Ron), io pugnalato sarei (Cristicchi) o agli stantii troncamenti del tipo di comincino a cambiar (L’Aura), che non so capir (Ameba4, sempre che non sia ironico: è un testo strano). A Sanremo, d’altronde, la rima è ancora un obbligo trasgredito da pochi: gradite, anzi, le rime spudoratamente baciate: attenti : ardenti, attendi : discendi, farfalla : palla nel testo di Mogol per Anna Tatangelo.
Il conformismo consiglia anche un certo rispetto per la grammatica: sempre il congiuntivo nelle completive, per dirne una (credevo che in molte cose fossimo uguali Sugarfree). I timidi tentativi di imitare il parlato non vanno oltre ben noti clichés: il che “polivalente” di Dolcenera, ad esempio (che qui non è facile) e persino la sua parolaccia (andare affanculo), che di parolacce a Sanremo se ne sentono da diverso tempo (notte fottuta Zarrillo 1992, incazzata come prima Bertè 1994). Così come suonano vecchi – tra gli illustri precedenti festivalieri basterebbero i nomi di Zucchero e Finardi – gli inserti in inglese piazzati qua e là nei brani dei Deasonika o di Grignani.
I buoni e i cattivi
E più in generale, il brano di Grignani appare un po’ deludente e un po’ troppo simil-Vasco, con quel Ci sono quelli in apertura che ricorda C’è qualcuno che non sa (C’è chi dice no), quel noi in rima con eroi (come in Siamo solo noi) e quel Liberi di nel ritornello che fa tanto Liberi liberi. Ma mettersi a elencare tutti i casi di citazione occulta o di memoria involontaria sarebbe troppo facile, e anche un po’ ozioso (basti Riccardo Maffoni che cammina a piedi nudi, sopra dei vetri rotti parafrasando la meravigliosa Pezzi di vetro di De Gregori). Né vale la pena di dedicarsi al riprovevole passatempo del tiro al piccione, mettendosi a infierire su tutte le abusatissime metafore e similitudini a cui la gran parte di queste canzoni non sa rinunciare: il mare, la luna, le stelle (cadenti), gli angeli e l’inferno. In questo quadro un po’ desolante, merita una menzione d’onore – a proposito di piccioni – anche un altro brano: quello di Povia, che in Vorrei avere il becco riprende bene il tono naïf e minimalista della fanciullesca I bambini fanno oh. E poi il futuro c’è, ma a inizio verso (camminerò come un piccione), mentre alla fine si trovano spesso i più ricercati accenti sdruccioli (briciole, nuvole, muoiono, pericolo), senza andare sempre alla ricerca della rima e senza aver paura di qualche costrutto colloquiale (mica come le persone; chi guida crede che mi mette sotto).
Resta il fatto, tuttavia, che questo Sanremo – almeno quanto ai testi – fornisce un’immagine fuorviante dell’attuale panorama della canzone italiana, in cui ormai da una decina d’anni si nota la tensione verso una scrittura più complessa, molto attenta alla qualità del testo e alla sua fattura linguistica, anche al di fuori della classica canzone d’autore (penso a Carmen Consoli e al rock di Subsonica e Bluvertigo, ma anche al pop di Tricarico o al rap di Caparezza).