“La verità è bellezza”. È stata questa la massima filosofica e morale che ha ispirato l’intera puntata di “Che tempo che fa”. Una serata speciale con un ospite d’eccezione: Roberto Saviano. L’uomo che ha sfidato a viso scoperto la Camorra per una sera si è calato nei panni del cantore di storie potenti e importanti. Di storie e vicende che provengono da altri mondi, diverse tra loro ma capaci di fondersi in un unico comune denominatore: la potenza della parola. Le parole sono capaci di cambiare il flusso degli avvenimenti; le parole sono capaci di mobilitare centinaia e migliaia di persone; le parole sono portatrici di verità potenti capaci di scardinare la labile crosta che ricopre la superficie di determinate realtà sociali e politiche, dove non c’è spazio per essa. La parola è pertanto denuncia, resistenza e verità. La parola è forza e bellezza insieme. Un binomio questo inscindibile, ma spesso costretto a vivere prigioniero nell’oscurità di un mondo, dove gli esseri umani portano le catene e sono privati della libertà di vivere la parola in maniera piena. Questo è l’Inferno. Eppure, anche all’inferno, sottolinea Saviano, si possono trovare tracce di una bellezza eterna, destinata a non scomparire mai. Una bellezza che assume le forme e le sembianze di due giovani donne, di origine iraniana, vittime della furia e della violenza del regime iraniano, guidato e controllato da Ahmadinejad: Neda e Taraneh, che in lingua iraniana significano “voce” e “canzone”.
Nomi e destini che s’incrociano sulle strade di Teheran, questa ultima sconvolta dalle proteste spontanee dei giovani dissidenti, scesi in piazza lo scorso 20 giugno contro il regime. Tra la folla di manifestanti c’è anche Neda armata di cellulare e di una gran voglia di cambiare la situazione. Non sa che le rimangono pochi istanti di vita. Istanti che vengono poi catturati da quello stesso cellulare che lei stessa teneva in mano, poco prima di cadere sull’asfalto colpita a morte da una pallottola. I fotogrammi che hanno immortalato la giovane vita spegnersi hanno poi fatto il giro del mondo, contribuendo a fissare nella memoria collettiva non solo il suo viso ricoperto di sangue, ma soprattutto il senso del sacrificio compiuto. “Neda voleva solo vivere. Voleva conoscere la felicità”. Ma la sua morte ha brillato nell’oscurità dell’inferno iraniano, in quanto ha contribuito a cambiare la percezione dei giovani dissidenti iraniani, restii ad arrendersi al regime. Neda non è morta da sola. Sulle anonime strade della capitale iraniana, un’altra giovane donna ha perso la vita per mano del regime. Taraneh Moussavi. Anche lei manifestava contro Ahmadinejad. Fu arrestata dalle guardie di regime che la condussero all’interno di un edificio isolato. Qui, per dieci giorni e dieci notti, Taraneh venne ripetutamente stuprata dai miliziani, tanto da provocarle un’emorragia. Le infermiere che la soccorsero, replica Saviano, riferirono alcuni retroscena inquietanti: “La giovane era giunta in ospedale con l’ano sfondato e l’utero completamente lacerato”. Una morte atroce attese Taraneh al varco. Infatti, come se non bastasse, al fine di cancellare ogni possibile traccia di stupro, i miliziani si preoccuparono di bruciare il suo corpo martoriato dalla vita in giù. Questo cosa significa si domanda Saviano: “Volevano stuprare non solo il suo corpo, ma soprattutto la sua bellezza. Volevano infierire contro ciò che faceva più paura al regime. Per questo si sono accaniti con ferocia contro di lei” Neda, Taraneh e tanti altri come loro rappresentano, con la loro bellezza morale, i semi della democrazia e della libertà, che hanno tentato in ogni modo di attecchire su un terreno privo di linfa, come appunto l’Iran.
“La verità è bellezza”, ma in alcuni casi “può condannare a morte”, come è appunto successo al protagonista della seconda storia raccontata in studio dall’autore di Gomorra. Ken Saro-Wiwa, scrittore nigeriano e autore di un libro dal titolo “Sozaboy”, combatté duramente contro il governo nigeriano e le multinazionali che sfruttavano "la sua terra" già martoriata da una guerra civile cruenta. Le armi a sua disposizione non furono né i fucili né i carri armati, ma solo la parola. Parole che potevano sconfinare andando così a colpire le coscienze che abitavano al di là del continente africano. E ciò avvenne. Ma per questa ragione, Ken Saro-Wiwa pagò con la vita il suo desiderio di cambiare la realtà dei fatti. Fu impiccato. “Una morte cruenta – racconta Saviano – poiché dovettero impiccarlo per ben quattro volte. Alla quinta, il boia incapace di fare un nodo scorsoio efficace, riuscì nel suo intento”. Il governo nigeriano e la multinazionale Shell, chiamata in causa nei libri e nelle immagini di Ken Saro-Wiwa quel 10 novembre 1995 ottennero una vittoria, eliminando fisicamente il loro nemico. Una vittoria senza dubbio effimera, se si riflette sul fatto che ancora oggi, a 14 anni di distanza, Ken Saro-Wiwa e il suo coraggio hanno rivissuto nelle parole di Roberto Saviano, dando a tutti noi spettatori la sensazione che la sua potenza letteraria sia rimasta inalterata e confinata nel paradiso della bellezza.