Samuele Bersani è nato a Rimini il 1° ottobre 1970. L'aldiqua è il suo settimo disco. Il primo, C'hanno preso tutto, è del 1992. Il titolo gliel'ha suggerito Alessandro Bergonzoni.
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L’incipit è agghiacciante: “Ho lasciato la mancia al boia per essere sicuro che mi staccasse la testa in una volta sola”. Poi, però, Occhiali rotti si trasforma in una canzone quasi ottimista, che lascia intravedere un po’ di speranza. È dedicata a Enzo Baldoni, il giornalista sequestrato e assassinato in Iraq nel 2004. Dice Samuele Bersani: «I primi versi sono venuti di getto, poi ho scelto di fermarmi perché volevo capire meglio la figura di Baldoni. Ho letto i suoi articoli e ho capito che era un uomo che andava incontro al suo destino spinto da una curiosità paragonabile a quella di un moderno Ulisse. Quella che ci ha dato è stata una grandissima lezione di dignità. Così ho pensato che per esprimere tutto il mio ribrezzo per un atto così orribile sarebbe stato un errore addolcire quella prima strofa». Il nuovo
album di Samuele s’intitola L’aldiquae racconta storie molto terrene: la crudeltà della guerra, appunto, ma anche le incertezze di fronte alla politica (Lo scrutatore non votante) o il lavoro che non c’è (Sicuro precariato). «Il titolo me lo ha suggerito Alessandro Bergonzoni», racconta Bersani. «È venuto a trovarmi in studio mentre stavo registrando Lo scrutatore non votante e quando ha sentito quella strofa che dice “Telefonate al cartomante / che non contatta neanche l’aldiqua” ha detto: “L’aldiqua sarebbe un titolo perfetto”. Così è sembrato pure a me».
Mi dici com’è la vita reale vista con “la soggettiva del pollo arrosto”?
«Quando ho scritto quella frase mi sono immedesimato nel pollo che ho visto nella vetrina di una rosticceria pachistana di Amsterdam. Ho provato a immaginare la vita vista coi suoi occhi. Io sono così. Se scrivo di un vagabondo, mi trasformo in un vagabondo. Sono un po’ come De Niro che dimagrisce di 15 chili per entrare in un personaggio».
Come dire che la tua vita reale si sovrappone a quella dei personaggi delle tue canzoni e viceversa.
«Ogni volta che sto per incidere un disco ho l’istinto di distruggere la mia vita vera, per poi ricostruirla. Mi servono cose da scrivere: ho bisogno di vivere, altrimenti non avrei niente di nuovo da raccontare. Per chi mi sta a fianco è una provocazione continua: “uso” chi sta con me e lo faccio con pochissimo pudore. Infatti nelle mie canzoni ho sempre parlato anche della mia vita privata».
Dai più importanza al destino o all’istinto?
«Io vado molto a istinto e non sempre conto fino a dieci prima di fare qualcosa. Ma non c’è solo quello: il destino possiamo condizionarlo anche noi, decidendo da che parte mettere il piede».
Abiti a Bologna da 12 anni, ma sei sempre residente a Cattolica. Come mai?
«Sì, residente e votante a Cattolica. Forse dipende dalla pigrizia che mi assale quando non lavoro. Qualche anno fa ho preso una multa esagerata per non aver riconsegnato tre videocassette in affitto».
È vero che quando eri ancora sul seggiolone imitavi Von Karajan “dirigendo” l’orchestra con un grissino?
«Ogni domenica mattina mio babbo andava a vendere Rinascita, mamma stava in cucina a fare i passatelli e io, in sala davanti alla tv, imitavo il Maestro che dirigeva la Filarmonica di Berlino. Avrò avuto 4 o 5 anni: essendo figlio di un musicista, i miei ricordi legati alla musica si perdono nella notte dei tempi».
Quando hai deciso che da grande avresti fatto il musicista?
«Fino ai 15, 16 anni volevo fare il regista. A Cattolica c’era il Mystfest, festival del giallo e del mistero, e io davo una mano. Il cinema mi affascinava davvero, tanto che a un certo punto mia madre mi accompagnò a Roma al Centro Sperimentale di Cinematografia. Poi scrissi Il mostro e lì scaturì la scintilla con la musica».
Hai mai suonato con tuo padre?
«Anch’io ho fatto le mie stagioni di piano bar e matrimoni: ogni tanto suonavamo insieme, lui il flauto, io il piano. Babbo è un flautista diplomato, ha suonato con molte orchestre, anche alla Scala. Poi ha avuto un brutto incidente ed è passato all’insegnamento: è stato uno dei primi musicoterapeuti italiani... Comunque, se rinascesse penso vorrebbe fare l’attore. Anni fa mi chiesero un cameo in Tandem con Paolo e Luca delle Iene. Anche mio padre fece una comparsata».
Come è avvenuto il tuo primo passaggio radiofonico?
«Lucio Dalla aveva inserito la mia versione de Il mostro nel suo album Amen. Un giorno telefono a Radio Icaro di Riccione dicendo: “Ciao, sono Paolo di Pesaro, vorrei sentire Il mostro di Samuele Bersani”. E il dj mette la canzone. La sera vado al bar e gli amici mi accolgono con un coro: “Ciao, Paolo da Pesaro!”».
Hai rischiato di diventare un fenomeno da teenager, poi hai imboccato la strada del cantautorato con la “C” maiuscola...
«Le mie canzoni sono sempre state un po’ diverse dal personaggio che mi hanno costruito addosso. Scelte fatte a tavolino dai geni del marketing mi hanno portato a starmi sul cazzo da solo. Poi un bel giorno è arrivata Giudizi universali, e si sono accorti che non avevo soltanto un bel faccino. Ho deciso di sparire per un po’, ho cominciato a dire molti “no” alla mia casa discografica. Insomma, sono cresciuto. E oggi credo che la mia immagine sia legata alle cose che scrivo, non ai capelli o agli occhi verdi».
Non ti offendi quando ti definiscono cantautore. Ormai sei rimasto uno dei pochi...
«Perché dovrei? Questo termine mi piaceva quand’ero piccolo e ascoltavo De Gregori o De André, e mi piace ancora. Il problema vero è che c’è troppa gente che si dà arie da cantautore solo perché ha scritto una canzone. E mi sembra eccessivo il termine poeta che troppe volte si usa a sproposito».