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Daria Bignardi

Ha concluso la scorsa stagione con un direttore di rete, Antonio Marano e ora se ne ritrova un altro, Massimo Liofredi. Mutamenti in vista, magari d’atmosfera?
«Liofredi l’ho visto una volta sola per dieci minuti e davvero non ho elementi per giudicare. Parto tranquilla e concentrata sul lavoro che mi aspetta. Non credo che sia il caso di fare drammi: se sorgerà un problema lo affronteremo, ma davvero non mi pare che ne sussistano le premesse».

Con Santoro sono già stati fuochi d’artificio.
«Già, ma anche questa non mi sembra una novità. Sapesse quante volte sono andata in onda io senza contratti! Piuttosto, mi sembra essenziale non farsi travolgere da un senso di accerchiamento o d’insicurezza. Non siamo né in Cina né a Cuba». 

Rimpianti per aver lasciato La7?
«No. Il cambiamento fa sempre bene. Certo quello era un piccolo gruppo molto maneggevole. Essere alla Rai comporta altri numeri nell’ascolto e un diverso grado di responsabilità perché sei nel servizio pubblico. E sono gli spettatori, prima di tutto, a importelo».

Cambia qualcosa nella struttura del programma?
«È tutto più scorrevole. Abbiamo adottato lo schema sperimentato nell’ultima puntata: un’intervista all’inizio, una alla fine, in mezzo un confronto fra due personaggi che apparentemente non c’entrano niente l’uno con l’altro ma che, se vengono fatti dialogare e reagire a vicenda, rivelano risvolti interessanti. Si comincia con Andrea De Carlo e Stefano “Edda” Rampoldi dei Ritmo tribale, figura di culto della Milano anni Ottanta che ha passato un periodo in comunità e ora fa l’operaio ponteggista, uno venerato da gente come Mauro Pagani o Vinicio Capossela ma che fa di tutto per non essere famoso. Ci ha incuriosito il fatto che, di un romanzo di De Carlo, avrebbe benissimo potuto essere un personaggio».

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