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Antonio Di Pietro

Di Pietro, sta finendo o no il quindicennio berlusconiano?
«Le elezioni amministrative sono state indubbiamente anche un referendum sulle politiche del governo e soprattutto sulla credibilità del presidente del consiglio e della sua maggioranza. L'impressione che ho avuto io girando per il territorio in campagna elettorale è che la gente ormai si senta presa in giro da Berlusconi. E' come se avessero tutti capito di essere stati fatti fessi: come le vittime di Vanna Marchi che si accorgono di essere state truffate. Bene: oggi siamo alla richiesta di risarcimento danni».
Quindi è più la destra ad aver perso che non la sinistra ad aver vinto?
«Purtroppo sì. Le elezioni hanno dimostrato due cose: primo, che la credibilità della maggioranza è crollata, Lega compresa. Secondo: che un'alternativa può esserci, se passa attraverso un'area strutturata di centrosinistra. Area che può nascere in modi diversi: come a Torino, dove una buona amministrazione del Pd è stata sufficiente per far vincere la coalizione; come a Milano, dove invece era necessario individuare attraverso le primarie un candidato che potesse mettere insieme l'alleanza con la sua credibilità; o come a Napoli, dove era necessaria una forte discontinuità. Però...».
Però?
«Però questa coalizione non ha ancora dimostrato di essere una vera alternativa di governo. Il centrosinistra deve ancora meritarsi quel voto che oggi ha avuto non per quello che sa fare, ma per quello che non hanno saputo fare gli altri. Quindi, se fossi un insegnante, oggi boccerei senz'altro il centrodestra, ma darei un 'non classificato' al centrosinistra».
E dunque cosa deve fare adesso l'attuale opposizione?
«Tre cose. Primo, strutturare un programma sintetico in due pagine - non le 230 dei tempi di Prodi - con gli obiettivi primari attorno a cui si può realizzare la coalizione: energia, politica estera, liberalizzazioni, giustizia sociale, questione meridionale etc. Secondo, indicare da subito quali sono i partiti che ci stanno a realizzare questi obiettivi primari: io in giro sento ancora fare tanti calcoli di sommatoria delle sigle, ma non è mettendo insieme cani e gatti che si scannano tra di loro che si può governare. Terzo, individuare la premiership, perché c'è bisogno di avere un punto di riferimento. E, dico io, serve non solo il nome del leader, ma anche quello di chi occuperà i posti più importanti: Economia, Interni, Esteri, Giustizia e Difesa. Da dire agli elettori prima del voto, naturalmente».
Il tutto con le primarie di coalizione o senza?
«Le primarie a volte funzionano, come a Milano, a volte no, come a Napoli. Se, una volta individuata la coalizione, si ritiene di fare le primarie, noi non ci sottrarremo di certo e magari indicheremo anche un nostro candidato. Se invece gli altri non le vogliono fare, noi non ci metteremo di traverso, siamo disposti ad accettare il nome che indica il Pd, che nella coalizione è maggioranza relativa. Quello che conta, però è un'altra cosa».
E cioè?
«Fare in fretta. Domattina rischia di essere troppo tardi. I tempi bruciano: invito Bersani, Vendola e gli altri che ci stanno a scrivere insieme questo programma. Invece di perdere mesi a chiedersi se vogliamo anche l'Udc o no...».
Ehm, mi scusi: ma vogliamo anche l'Udc o no?
«Io non ho nulla in contrario alla sigla Udc. Ma bisogna confrontarsi sui contenuti: biotestamento, politica estera, nucleare e così via. Insomma dobbiamo fare prima il programma, poi se l'Udc decide di stare con noi e aderisce a quel programma, bene. Sintetizzando, per rispondere a D'Alema: una Macerata non fa primavera. Sui referendum del 12 e 13 giugno, per esempio, l'Udc sta dalla parte opposta rispetto alla nostra...».

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