"La televisione”, scherzò una volta Alfred Hitchcock, “ha rimesso l’omicidio al suo posto: in casa”. Questa battuta macabra si è dimostrata particolarmente attuale la scorsa settimana.
Abbiamo assistito per giorni a una caccia all’uomo: cercavano Vito Cosco, un tale che ha ucciso quattro persone, tra cui una bambina, in seguito a un litigio per il pagamento di qualche etto di hascisc. Poi, a Palmi, un adolescente ha accoltellato e ucciso l’amante della madre. La televisione adora queste storie; si potrebbe persino dire che è grata a queste tragedie. Creano pathos e tensione e, naturalmente, audience.
Perché tutti guardiamo il tg, desiderosi di nuove informazioni sull’omicidio e sul relativo presunto esecutore, allo stesso modo in cui rallentiamo per vedere cosa è successo quando c’è un incidente stradale. E così la perdita della vita – e i funerali che la commemorano – diventano spettacolo. In questo senso, la nostra televisione è molto americana: si nutre della violenza innata della società, arriva quasi a desiderare altri massacri, e allo stesso tempo s’indigna ogni volta che si verificano. La conseguenza è che queste tragedie diventano normali perché le vediamo in televisione ogni settimana.
C’è sempre una nuova sparatoria o un nuovo accoltellamento da raccontare, c’è sempre una nuova, triste ragione per accostare il microfono al citofono. E così paesi e piccole città qualunque, per lo più sconosciuti in circostanze normali, diventano famosi all’improvviso : Novi Ligure o Cogne saranno per sempre associate al delitto.
È questa, in fin dei conti, la tragedia del “gioco delle celebrità” televisivo: si appare sul radar solo quando qualcuno perde la vita.