Naturalmente la Casa Bianca lo smentisce e Bush senior dichiara addirittura — tramite il portavoce — di appoggiare il figlio «al cento per cento». Ma il Libano ha messo a nudo il divario tra l'attuale politica mediorientale di George W. Bush e quella di suo padre 15 anni fa, come osserva il New York Times in un articolo pubblicato ieri. Che ha causato velati dissensi in famiglia e scontri aperti tra i consiglieri dei due uomini. Un ex di Bush padre, Richard Haas, già responsabile del Medio Oriente alla Casa Bianca, ha accusato Bush figlio di «avere scartato la diplomazia nella speranza che i regimi ostili cadano», rimproverandogli di «non guidare la crisi verso una soluzione». Anche il presidente Usa ha criticato il padre, pur senza nominarlo, quando ha rinfacciato ai predecessori di avere perseguito per decenni «uno statiis quo che consentì alla tirannia e al terrorismo di fiorire». Aaron Miller, anche lui nello staff di Bush senior, gli ha risposto: «L'identificazione da parte di Bush jr degli Stati Uniti con Israele è pericolosa; suo padre e l'allora segretario di Stato, James Baker, non l'avrebbero mai permessa». La genesi della divergenza tra i due Bush è chiara. Il padre, esponente della scuola realista della diplomazia americana, in buoni rapporti con il mondo arabo e pronto a dialogare con awersari come Siria e Iran sulla stabilità del Medio Oriente, si considerò un arbitro neutrale. E quando il premier israeliano Shamir aumentò gli insediamenti nei territori occupati, gli negò un prestito di dieci miliardi di dollari e lo costrinse ad aprirsi al leader palestinese Arafat. George W. Bush prese invece le parti di Israele fin dalla sua prima e unica visita nel '98, quando era ancora governatore del Texas. Nel marzo 2001, disse al premier Sharon, ospite a Washington, che «in caso di necessità lo avrebbe difeso con le armi». E dopo i tragici fatti del settembre 2001 ne fece un partner irrinunciabile nella lotta al terrorismo.