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C'è stato un tempo in cui i giovani più ambiziosi del Pds, dei Ds e persino quelli del Pd si contendevano l’etichetta di ‘dalemiano’: facevano le poste a D’Alema, pendevano dalle labbra di D’Alema, sognavano che la mano di D’Alema si poggiasse sulla loro spalla e, al pari di Folena e tanti altri, di D’Alema imitavano persino l’inconfondibile eloquio. Con effetti grotteschi, certo, ma inconsapevoli. Ecco, quei tempi sono finiti.
«Nessuno glielo dirà mai, anche perché lo fa a fin di bene, ma è chiaro che se continua a occupare le televisioni attaccando Renzi ci danneggia», ammette un ex giovane ed ex dalemiano oggi schieratissimo a favore di Gianni Cuperlo. E persino nello staff del candidato, ex dalemiano anch’egli, non si nega che il problema esista.
Lo riassumono così: avere Massimo D’Alema come principale e battagliero sponsor in epoca di rinnovamento ad oltranza, di giovanilismo imperante e soprattutto dovendosela vedere con Renzi e la sua retorica della rottamazione non è un vantaggio ma un handicap.
«Posto che sponsor imbarazzanti li ha anche Renzi, ammetto che la presenza di D’Alema è oggettivamente ingombrante»: così parla Cesare Damiano, in questi giorni pancia a terra al fianco di Cuperlo. E lo stesso Cuperlo non fa nulla per smentire la tesi del D’Alema renziano involontario. Anzi. Ieri il direttore (renziano volontario) di ‘Europa’, Stefano Menichini, ha fatto due tweet a quadruplo taglio: «La cosa antipatica di D’Alema — ha scritto — è descrivere i voti per Gianni Cuperlo come voti ‘di resistenza’. È immeritato, riduttivo, minoritario»; «Insisto, Gianni Cuperlo non merita tutto ciò, lui non c’entra con questa ossessione crepuscolare».
Risposta, laconica e rassegnata, di Cuperlo: «Sono d’accordo».
Chiesto, «per carità umana», l’anonimato, un ex lothar (quel manipolo di brillanti e pelati spin doctor che lo spalleggiarono ai tempi gloriosi di palazzo Chigi) ieri ha seguito il gagliardo intervento di D’Alema ad ‘Agorà’ e non si capacita della «china grottesca, pietosa e autolesionista imboccata» dal lìder Massimo.
Anche Peppino Caldarola, l’ex direttore dalemiano dell’Unità che con D’Alema ha recentemente scritto un libro, non si capacita. «È incredibile — dice mosso da reale stupore — vedere un politico accorto come lui rifiutare la realtà. Non percepisce la spinta al cambiamento, infatti era convinto che Cuperlo avrebbe vinto tra i militanti. E dando di ‘democristiano’ sia a Letta sia a Renzi disconosce il governo e rinnega lo spirito per cui il Pd nacque, chiudendosi in una trincea minoritaria in nome della diversità antropologica della sinistra». Un suicidio, insomma. Secondo Damiano, che dalemiano non è mai stato, lo fa «spinto da un istinto primario tipico dei veri politici: quello al combattimento».
E, conoscendo D’Alema, pare un’ottima chiave di lettura. Ma Caldarola la nega, ed è proprio questo che lo sconcerta.
«Non c’è nulla di politico nel suo comportamento e non c’è nulla della sua storia personale: il D’Alema di successo era quello che trattava anche col diavolo. Ma il D’Alema realista, e perciò togliattiano, è improvvisamente scomparso. Non lo riconosco più: D’Alema non assomiglia più a D’Alema, assomiglia a Bertinotti».
C’è stato un tempo in cui avere Massimo D’Alema come sponsor portava dritti al successo. Era il tempo in cui la Politica — le sue regole, il suo linguaggio — aveva ancora una certa forza e un barlume di dignità. Ma quel tempo è passato e farsene una ragione, evidentemente, non è facile.

Qn, 19.11.13 Pag. 2

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