La Libraria di Arcano
Letteratura italiana dalle origini al XIX Secolo
Gli Opuscoli
A cura di Bibliofilo Arcano
27 Poesie di Prudenza Gabrielli Capizucchi Prudenza Capizucchi (1654-1709 il cui nome può trovarsi anche come Capizucchi, Prudenza Gabrielli; Elettra Citeria; Citeria, Elettra) è nata e morta a Roma LOMBARDI 1832-1833 tomo V: Libro III, par. XL, p. 109: Protesse le buone lettere Prudenza Capizucchi Gabrielli nobile romana, nata nel 1654 e defunta nel 1709, la quale introdusse nel suo palazzo in Roma una scelta conversazione, che radunavasi una volta ogni settimana, e a cui intervenivano il Leonio, il Zappi con altri poeti; e divi si leggevano e censuravano a vicenda i componimenti poetici, fra i quali quelli ancora della Gabrielli, che ne inserì molti, e di questi alcuni assai pregevoli, nel tomo III delle Rime degli Arcadi al ceto dei quali era essa ascritta. (2: "Notizie degli Arcadi, t. III, pag. 14, ediz. di Roma, 1721"). In RA3, nell'indice (p. 404 non num.) si legge: "ELETTRA CITERIA. Questo nome il portava in Arcadia la Signora Contessa Prudenza Gabbrielli Capizucchi Romana, defunta in Roma a' 13. di Dicembre l'anno 1710, e sepolta in S. Maria in Campitelli" da Roma, contessa. Tratto dal sito Donne in Arcadia. Tutte le sue poesie, tranne una, sono su “Rime degli Arcadi”, Volume 3°, Roma, per Antonio Rossi alla Piazza di Ceri, 1716, ove sono riportate le seguenti note:
Questo nome il portava in Arcadia la Signora Contessa Prudenza Gabbrielli Capizucchi, Romana, defunta in Roma a' 13 di Dicembre l'anno 1710 e sepolta in S. Maria in Campitelli.
Crudo pensiero,
intorno al duol mortale <pag.> 108
In morte della Sig.
Maddalena Falconieri Gabbrielli, mia Madre.
Dacché mi
tolse a i sette colli alteri <pag.> 117
Deh perché
mie del Gange ora non sono <pag.> 109
A Papa Innocenzo XII
mentre andando a Castel Gandolfo passa per Torre di Mezzavia
d'Albano, mia Tenuta.
Dell'età prisca o
dell'età presente <pag.> 113
Per la morte del Conte
mio Marito.
Di duolo in duolo e d'una in altra pena <pag.>
121
È breve, o Figlio, il viver nostro, e l'ore <pag.>
109
Al Sig. Conte Mario Capizucchi, mio figlio, esortandolo a
seguir l'esempio di Biagio e di Camillo Capizucchi, suoi
Antenati.
Già torna Aprile, e i congelati umori <pag.>
120
L'almo mio Sol quando alla mia costanza <pag.>
111
Lassa, che un mar cinto di sirti io varco <pag.> 116
Per
la morte del Conte Capizucchi mio Marito.
Non t'adornar di molle
piuma, o Figlio <pag.> 108
Al Sig. Conte Sforza Marescotti,
mio Figlio.
Note, sì vi ravviso, e un rio dolore <pag.>
114
Pien di morte il pensier sì forte ingombra <pag.>
120
Per varj Arcadi, che han fatti Componimenti in morte del Conte
Alessandro Capizucchi, mio marito.
Quando più tormentoso il
duol m'ingombra <pag.> 116
Quella sopita alma virtù
natia <pag.> 110
Quel magnanimo spirto eccelso e forte
<pag.> 113
Per la morte del Conte mio Marito.
Ragion, tu
porgi alla confusa mente <pag.> 112
Se fia mai ch'io
sovrasti alla mia morte <pag.> 107
Selve incognite al Sol,
torbide fonti <pag.> 121
Elegia.
Se vedi il suol nella
stagion novella <pag.> 118
Signor, se irata contra te
risorge <pag.> 112
Al Sig. Conte Alessandro Capizucchi, mio
Marito.
S'io penso al tuo leggiadro almo sembiante <pag.>
115
S'oscura il Sol, ché langue il suo Fattore <pag.>
119
Talor di mia magion la più romita <pag.> 115
In
morte del Co. Alessandro Capizucchi, mio Marito.
In questo Son.
per la "Donna immortale" s'intende Vittoria Colonna, che
compose varie Rime in morte del Marito.
Tutto morte crudel turba e
dilegua <pag.> 119
Vago Augellino, che di ramo in ramo
<pag.> 111
Vergine eccelsa, che nel più fiorito
<pag.> 110
Alla V. Serva di Dio Suor Giacinta Marescotti,
mia Zia.
Volta a un forte pensier, fido compagno <pag.>
114
Per la morte del Conte Capizucchi mio Marito.
Indice sonetti in Rime degli Arcadi: Crudo pensiero, intorno al duol mortale Dacchè mi tolse a i sette colli alteri Deh perche mie del Gange ora non sono Dell'età prisca, o dell'età presente Di duolo in duolo, e d'una in altra pena È breve, o Figlio, il viver nostro; e l'ore
Era l' anima mia d' affanni sgombra
Già torna Aprile; e i congelati umori L'almo mio Sol quando alla mia costanza Lassa, che un mar cinto di sirti io varco; Non t'adornar di molle piuma, o Figlio Note, sì vi ravviso; e un rio dolore Pien di morte il pensier sì forte ingombra Quando più tormentoso il duol m'ingombra Quel magnanimo spirto eccelso, e forte Quella sopita alma virtù natìa Ragion, tu porgi alla confusa mente S'io penso al tuo leggiadro almo sembiante S'oscura il Sol, che langue il suo Fattore Se fia mai, ch'io sovrasti alla mia morte Se vedi il suol nella stagion novella Selve incognite al Sol torbide fonti Signor, se irata contra te risorge Talor di mia magion la più romita Tutto morte crudel turba, e dilegua Vago Augellino, che di ramo, in ramo Vergine eccelsa, che nel più fiorito Volta a un forte pensier fido compagno
Indice sonetti in Gobbi, Agostino, ed., Scelta di sonetti, e canzoni de' più eccellenti rimatori d' ogni secolo, Quarta ed., con nuova aggiunta (Venezia: Lorenzo Baseggio, 1739), pt. 3, p. 512 e seguenti: Se fia mai, ch'io sovrasti alla mia morte Crudo pensiero, intorno al duol mortale Non t'adornar di molle piuma, o Figlio
L' almo mio Sol quando alla mia costanza
Signor, se irata contra te risorge
Quel magnanimo spirto eccelso, e forte
Volta a un forte pensier fido compagno
Note, sì vi ravviso; e un rio dolore
Talor di mia magion la più romita
Lassa, che un mar cinto di sirti io varco;
Già torna Aprile; e i congelati umori
Indice sonetti in altre fonti: Ragion, tu porgi alla confusa mente Signor, se irata contra te risorge Di duolo in duolo, e d' una in altra pena Zappi, Giovanni Battista, Rime dell' avvocato Giovam Battista Felice Zappi, e di Faustina Maratti, sua consorte. (Venezia: F. Storti, 1752), vol. 2, p. 107. Selve incognite al Sol, torbide fonti Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d' ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 2, pp. 171-173; and Zappi, Giovanni Battista, Rime dell' avvocato Giovam Battista Felice Zappi, e di Faustina Maratti, sua consorte. (Venezia: F. Storti, 1752), vol. 2, pp. 109-110.
Era l' anima mia d' affanni sgombra Crescimbeni, Giovanni Mario, L' istoria della volgar poesia (Venezia: Lorenzo Basegio, 1731), vol. 2, p. 543. Indice canzoni Chi avesse nel capo la pazzia, (2) Giamma d' amore è Dio, fiamma d' amore (5)
Or che sereno è il Cielo oltre l' usato, (1)
Possente Amor, che ne' gatteschi petti (3) Poichè non veggo a qual di voi mi affidi, (4) Rime in lode di Prudenza Gabrielli Capuzucchi Sonetti
Se fia mai ch'io sovrasti alla mia morte
Ed il mio nome al cieco obblio si tolga,
Sicché per opra di benigna sorte
Vi sia chi alle mie rime il ciglio volga,
Strano parrà che, nel vigor men forte
Sol de' miei spirti, i primi canti io sciolga,
Se è ver che verde età per vie più corte
Sormonti in Pindo e i più bei fior' ne colga.
Ma pur de' miei sudori al debil frutto,
Ch'ora paleso e che celar dovrei,
Spenta non sia vostra pietade in tutto,
E dica almen: "De' vaghi colli Ascrei
L'erto non giunse a superar, ma tutto,
Se bastava l'ardir, l'ebbe costei."
Crudo pensiero, intorno al duol mortale
Che l'alma ingombra, omai che più t'aggiri?
Togliti dalla fredda urna fatale,
Urna, che tutti chiude i miei sospiri.
Colei, donde trass'io la spoglia frale,
Mercé di lui, che regge i sommi giri,
Siede già nel suo seggio alto immortale,
Cinta il crin di piropi e di zaffiri.
Vedila pur come ne' giri eterni,
In mezzo alle virtù, che le fur scorta,
Lieta nel divin Sol tutta s'interni.
Or tu, il cener lasciando, a lei ti porta,
Che pur dal Cielo a me con moti interni
Parla, e, qual già solea, m'ama e conforta.
Non t'adornar di molle piuma, o Figlio,
Il biondo crin, né d'aureo nastro il seno,
Ma impugna il brando con senil consiglio
E a Numida destrier governa il freno.
Per mercar gloria non temer periglio,
E i pensieri a grand'opre intenti sieno:
Sull'Atlantiche carte avido il ciglio
Volgi al Baltico mar, volgi al Tirreno.
Sia modesto lo sguardo, il parlar saggio;
D'alma fronda Febea cingi la chioma;
Rendi al Principe e a Dio l'intero omaggio.
Vinci te stesso: i vani affetti doma,
Sicché nell'opre tue, nel tuo coraggio
Gli Orazj e i Marj suoi rivegga Roma.
È breve, o Figlio, il viver nostro, e l'ore
Non v'è chi arresti degl'incerti giorni,
Né avvien che intero in noi piacer soggiorni,
Ché ratto fugge, e sparso è di dolore.
Se vuoi vita immortal, segui d'onore
L'alto sentier, ch'indi il tuo nome adorni;
Io spero già che nel tuo cor ritorni
L'eccelso a folgorar prisco valore.
Stuol, che sparge alla Fede empio veleno,
Estinto dal tuo ferro omai sen cada,
E gli Aviti Trofei rivegga il Reno.
Già par ch'il piede alla battaglia or vada:
Già vinci, e posi a bella gloria in seno,
Se gl'illustri Avi tuoi t'aprir' la strada.
Deh perché mie del Gange ora non sono
Le ricche sponde folgoranti d'oro,
Ché eguale alla mia voglia offrir tesoro
Vorrei, divota all'immortal tuo trono!
Ma folle or io che bramo, e che ragiono,
Se 'l mar, la Terra, e quanto è chiuso in loro,
Padre, già tutto è tuo? qual fia decoro
Le ricchezze, che abborri, offrirti in dono?
Or se donarti ogn'altra cosa è vano,
Il desire, che è mio, t'offro, ed umile
Rivolta al Ciel m'ascolti il Vaticano.
Per te lo stame d'or la Parca file
Tanto che con tua santa invitta mano
Tutte guidi le Gregge a un solo Ovile.
Quella sopita alma virtù natia,
Che dal Ciel venne ed è nell'alma impressa,
Tempo è che omai si desti, e che me stessa
Io tragga e 'l piè dalla non dritta via.
Troppo mi tenne Amore in sua balìa;
Scuoto ora il giogo, onde già vissi oppressa,
Benché il crudo Signor vie più s'appressa
Per ricondurmi alla prigion di pria.
Se scampa incauto Augel da rete od armi,
Ratto da valli perigliose ed ime
Sen vola in alto, e lieto scioglie i carmi.
Tal io, fuggendo Amor, n'andrò sublime
Sovra i vanni di gloria a ricovrarmi
Dell'eccelso Parnaso in sulle cime.
Vergine eccelsa, che nel più fiorito
April degli anni tuoi spregiar sapesti
Lo splendor di tua cuna, ed apprendesti
Che nuoce più ciò che n'è più gradito;
Vergine saggia, ch'al divino invito
Pronta per aspro calle il piè movesti,
Onde fra chiare or godi alme celesti
Un bene incomprensibile infinito;
Mentre il beato folgorante ciglio
Fermi nel Sole eterno, e tutto intendi
In quell'uno, ch'è Spirto e Padre e Figlio,
Deh se te stessa di pietade accendi
In mirar chi t'invoca in gran periglio,
Noi, germi del tuo Tronco, omai difendi.
Vago Augellino, che di ramo in ramo
Dolce cantando vai sul mirto e l'orno,
E godi, o nasca o pur tramonti il giorno,
La cara libertà, che tanto io bramo,
Tu quando Amor ti punge, e dici: "Io amo",
Di lai spargendo il tuo verde soggiorno,
Ascolti pur la tua fedel ch'intorno,
Non men calda d'amor, dice: "Riamo."
Io lasso, amo beltà, che 'l cor mi strugge
Col più barbaro orgoglio, e cruda e altera,
Quanto la seguo più, tanto più fugge.
Deh se ti serbi il Ciel la gioia intera,
Or tu costei, che 'l cor mi rode e sugge,
Almen col canto tuo rendi men fiera.
L'almo mio Sol quando alla mia costanza
Oppon l'orgoglio, e d'ira il volto accende,
Con sovrumana luce allor più splende
Degli occhi il lampo e la real sembianza.
Così in me fede, in lei beltà s'avanza;
E quanto il suo rigore a me contende
Giusta pietà, tanto più chiaro ei rende
Il grave incendio mio fuor di speranza.
Or se più non impetra amando il core,
Vagheggerò lo sdegno in quei bei rai:
Sdegno, pompa fatal del mio dolore.
E spero ch'altri di noi dica omai:
"Ha Clori infra le belle il primo onore,
Ma la fe' di costui più bella è assai."
Ragion, tu porgi alla confusa mente
Della tua luce un raggio almo e sereno,
E mostri a quanti error' discioglia il freno
Un cor, che a vil, caduco Amor consente.
Onde del bel, che a lagrimar sovente
N'astringe, io fuggo il rapido baleno;
Che non sì tosto il vedi, egli vien meno,
E breve età tutte sue forze ha spente.
Faccia pur altri a sé meta fatale
Lo splendor d'un bel volto, ed in poch'ore
Abbia il bello e l'amor la sorte eguale.
Io, che nobil racchiudo in petto ardore,
Non fo pago il pensier d'oggetto frale,
Perché eternar bramo nell'alma Amore.
Signor, se irata contra te risorge
Con nuovi assalti suoi l'istabil sorte,
Non già t'opprime, anzi teatro or porge
A tua invitta costanza, al petto forte.
Un nobil core infra i martir' si scorge,
E i perigli alla gloria apron le porte.
Io già ti veggio appo l'età che sorge
Signor degli anni e vincitor di morte.
So ben ch'invidia rea solo a' tuoi danni
Tutti muove gli abissi a mortal guerra,
Ma non val contra te forza d'inganni.
Così quand'Eolo il freddo antro disserra,
Di sue frondi non men carca che d'anni,
Scuote quercia talor, ma non l'atterra.
Quel magnanimo spirto eccelso e forte,
Ch'entro il bel vel del mio Signor s'avvolse,
Innanzi sera al suo mortal già tolse
Ahi troppo cruda inesorabil morte.
Spenti ha quei lumi, che fedeli scorte
Furo alle genti, ove valor s'accolse;
Chiusa ha la man, che a' bei favor' si sciolse,
E a pietà più non vista aprio le porte.
Tolto ha il sincero core altrui sì grato
E co' saggi pensier' l'alte parole:
Tolto ha in un colpo il mio tranquillo stato.
Morte, tu almen, pria che più giri il Sole,
Mi ricongiungi al dolce Sposo amato:
Ché la perdita sua troppo mi duole.
Dell'età prisca o dell'età presente
Quanto pregio e valor la Fama spande,
Quanto chiuder si puote in saggia mente
D'eccelso, di magnanimo, e di grande,
Tutto nel mio Signore alteramente
Splendea fra mille di virtù ghirlande,
Sicch'era al fior della Romulea gente
Specchio, e stupore appo l'estranie bande.
Quindi morte, lo sguardo in lui rivolto,
Arse d'invidia, e col fatal suo gelo
Corse veloce a scolorirgli il volto.
Ma fuor dell'ombra del mortal suo velo
Tal fiammeggiò lo spirto in sé raccolto,
Che tutto empié di meraviglia il Cielo.
Volta a un forte pensier, fido compagno
Di quell'aspro dolor, che chiudo in seno,
Sempre d'amaro pianto il volto bagno,
Chi fea membrando il viver mio sereno.
E se per gli occhi fuor talor non piagno,
È per sciorre a i sospir' più largo il freno.
O sorga o cada il dì, col dì mi lagno,
Ch'ultimo a' miei martir' non riede almeno.
Così men vivo, e al variar degli anni
Giammai non cangio l'ostinata doglia:
Ché non può speme ristorar miei danni.
Deh vieni, o morte, e del mio fral mi spoglia:
Tronchi un tuo colpo in me cotanti affanni,
E due salme divise un marmo accoglia.
Note, sì vi ravviso, e un rio dolore
Mi ritorna al pensier l'andate cose.
Come finor foste a' miei lumi ascose,
Né pur mel disse in sua favella il core.
O del mio caro e sventurato Amore
Soavi rimembranze e tormentose,
Perché in voi rimirar chi vi compose
Non posso, e rattemprar l'intenso ardore?
Ma invece d'addolcir l'antico affanno,
M'inasprite la piaga, e il duol s'avanza
Con far più vivo alla memoria il danno.
Fuorché il morir, qual ho da voi speranza?
Pur con crudele inusitato inganno
In vita mi sostien la mia costanza.
Talor di mia magion la più romita
Parte mi scelgo; ivi pensosa e sola,
Misuro il mio dolor, che a me m'invola,
Coll'altrui duolo, e la già stanca vita.
L'alto sentier, che col suo stil m'addita
Donna immortale, in parte il cor consola,
Ma invan per le chiar' orme indi sen vola
Il mio pensier, ch'a seguir lei m'invita.
Ella l'estinto suo bel Sole a morte
Tolse col canto, e alle future genti
Il dipinse qual visse, eccelso e forte;
Ma non fia già che in rime aspre e dolenti
Io nuova vita al mio Signore apporte,
E mostri i pregi suoi, che morte ha spenti.
S'io penso al tuo leggiadro almo sembiante,
Al vivo spirto, al vago sen di neve,
Qualche conforto il cor mesto riceve,
Perché sì rare amo bellezze e tante.
Ma, se nimico Amor mi reca avante
L'orgoglio e l'onte, e il tuo cor vario e lieve,
Tal poi velen l'alma per gli occhi beve,
Che quasi esce dal sen lo spirto amante.
Dappoi che il male è in me sempre maggiore,
E dell'inganno suo l'alma s'avvede,
Fuggirò del tuo bello il reo splendore.
E se mai l'alma in libertà sen riede,
Io griderò: sol tormentoso è Amore,
Ché unite non van mai bellezza e fede.
Quando più tormentoso il duol m'ingombra,
E fredda cura mi s'aggira in seno,
Sicché il riposo a gli occhi ed il sereno
Manca al volto, e di morte orror m'adombra,
M'appare allor di lieta speme un'ombra,
Che additando a sinistra aureo baleno,
M'affida, e dice: "Amor cortese appieno
Dal tuo core i nimici ecco disgombra."
Così cara al mio sen la gioia torna,
Cede e s'arretra ogni più rio martire,
E 'l dolce sonno a gli occhi miei ritorna.
Prenda pur norma dal mio bel soffrire,
Né si sgomenti or chi nel duol soggiorna:
Ch'indiviso ha il confin pena e gioire.
Lassa, che un mar cinto di sirti io varco,
E l'aer grave e 'l vento intorno freme:
Veggio di mostri un fiero stuolo e insieme
Irato il Cielo e di tempeste carco.
In sì strano periglio ov'è chi il varco
M'additi, e sgombri il duol, che l'alma preme,
Se l'usata mia scorta e fida speme
Ha già deposto il suo mortale incarco?
D'or in or cresce il mio gravoso affanno:
La morte mi s'appressa, e mi fa guerra
Vie più la tema dell'eterno danno.
Ma tu, Signor, qual già solevi in terra
Scorger miei passi, or traggi fuor d'inganno
La nave mia, che dubbia scorre ed erra.
Dacché mi tolse a i sette colli alteri
Solo a' miei danni l'empia sorte intenta,
Tanti all'afflitto sen dardi m'avventa,
Quanti ad ogn'ora in me nascon pensieri.
E perché d'ogni speme ancor disperi,
E a false larve il mesto cor consenta,
Mi dipinge la fede in voi già spenta,
Onde traggo i miei dì torbidi e neri.
Dal vostro aspetto sol lo spirto oppresso
Chiede ristoro: indi capir potrete
Ciò che non sa ridirvi il labbro istesso.
Da gli occhi miei, che lagrimar vedrete,
Dal volto, ov'è l'orror di morte impresso,
Qual pena è lontananza allor saprete.
Se vedi il suol nella stagion novella
Senza la verde sua fiorita spoglia,
O se vedi del Sol l'alma sorella,
Che sul carro del giorno il corso scioglia,
Puoi dirmi allora, o crudel Donna e bella,
Ch'altro desio quest'alma amante invoglia.
T'amo pur or, qual sulla patria stella:
Ché per loco cangiar non cangiai voglia.
Dunque serena il torbido pensiero;
E se nol credi alla mia fede, il credi
Alla virtù del tuo bel ciglio arciero.
E se l'ardor, che vincendevol chiedi,
Conoscer vuoi, fissa lo sguardo altero
Negli occhi miei, specchi del core, e 'l vedi.
S'oscura il Sol, ché langue il suo Fattore,
E vacillando il suol s'apre ogni pietra:
Ma stilla di pietade ancor non spetra
Il rubello dell'Uomo alpestre core.
Carco di nostre colpe ei langue e muore,
Né già dall'Uom pure un sospiro impetra;
Anzi da sue bell'orme il passo arretra,
E corre ove il trasporta il proprio errore;
Ch'or desio di tesor la mente ingombra,
Or per odio od Amor tanto delira,
Ch'il senso alla ragione i lumi adombra.
Traviata così l'alma s'aggira
Lungi dal centro suo seguendo un'ombra,
E sta in mezzo al periglio, e pur nol mira.
Tutto morte crudel turba e dilegua
Rapidamente al trapassar degli anni;
Pur benché stanca ad invocarla io segua,
Già non mi toglie a' miei crudeli affanni.
Par che m'odj la sorte e mi persegua,
E terra e abisso in un goda a' miei danni;
Se lenta è sì morte, che il tutto adegua,
Chi mi toglie del Mondo agli empj inganni?
Ché troppo, ahi troppo in paragon dispiace
A malvagio pensiero, a indegna froda
Retto sincero cor, labbro verace.
Vergin, deh fa' che il tuo gran Figlio or m'oda,
E mostri l'altrui dir falso e mendace,
Tal che del giusto il mentitor non goda.
Già torna Aprile, e i congelati umori
Mormorando infra l'erbe il rio discioglie;
Cantan gli Augei delle lor calde voglie,
E scherzan lieti i pargoletti Amori.
Insuperbisce il suol tra molli odori
Ricco di nuovi fiori e nuove foglie,
E la vaghezza, che nel seno accoglie,
Par che prenda dal Ciel forme e colori.
Ove un limpido fonte il terren bagna,
Siedon Ninfe e Pastori, e 'l suo desio
Ciascun palesa alla fedel compagna.
In sì lieta stagion dico al cor mio:
"Perché il duolo or da te non si scompagna?"
Ed egli: "Ahi nol consente il destin rio."
Pien di morte il pensier sì forte ingombra
Di rei fantasmi il core oppresso e l'alma,
Che dalla mia gravosa afflitta salma
Bramo anzi tempo omai vedermi sgombra.
Ma pur de' lauri vostri alla chiar'ombra,
Cigni immortali, inaspettata calma
In me risorge, e luce altera ed alma
Gli atri nembi del duol fuga e disgombra,
Ché il mio Signor dell'empia morte a scorno
Sol per virtù de' vostri carmi industri
Vivo riveggio e di bei fregi adorno;
Né più tem'io che al variar de' lustri
Ombra Letea giri a' miei versi intorno,
Perché il vostro alto stil gli ha resi illustri.
Di duolo in duolo e d'una in altra pena
Vago del mio martir mi tragge Amore,
E il grave incarco, ond'è sì oppresso il core,
È tal che tempo né distanza affrena.
E di tai tempre ei mi formò catena,
Che disper'io di trarre il piè mai fuore:
Tanto può in me l'inusitato ardore,
Ch'omai me stesso io più ravviso appena.
Il rio timor, la gelosia m'attrista,
La falsa speme, il dispietato sdegno,
La brevissima gioia al dolor mista.
Sol tra gli affanni arsi d'amor nel regno.
Che fia non so, s'ei maggior forza acquista:
So che ad ogni suo stral son fatto segno.
Selve incognite al Sol, torbide fonti,
Limosi stagni, antri profondi, oscuri,
Fiere balze, erme rupi, alpestri monti,
Fidi ricetti sol d'angui, e sicuri
Nidi di belve, in voi mi poso, e spero
Che in breve il giorno agli occhi miei s'oscuri.
Più non alberghi in me lieto pensiero
Di lusinghiera, ingannatrice spene,
Ma larve, che il mio duol faccian più fiero,
Ché d'Ision, di Tantalo le pene
Son ombra in paragon di fe' tradita
E d'un alma che perda il caro bene.
Miglior sorte mi fora uscir di vita,
Che vivendo ad ogn'or sentirmi al core
D'Amor, di Gelosia doppia ferita.
Ma né pur morte può tormi al dolore:
Ché nel doppio sentier l'alma confusa
Non sa donde dal seno uscirsen fuore.
Lasso! al dolce parlar mia fe' delusa
Rimase ed al celeste almo sembiante:
Ché una Dea non credeva a tradir usa.
Ben fu pietà d'Amor farla incostante:
Ché se tanto n'avvampo, e m'è rubella,
Qual saria l'ardor mio, se fosse amante!
Pur t'incolpo, o tenor d'iniqua stella:
Perché farla gentil, quand'è sì ingrata?
Perché farla infedel, quand'è sì bella?
Ma pari al suo fallir la dispietata
Pruova martir: ché se nega il gioire
A me, che l'amo, altrui ama ingannata.
E mentre empia ella gode al mio martire,
Schernita si riman la sua incostanza:
Ché pena è il fallo stesso al suo fallire.
Amor, se sei tu giusto, a mia costanza
Or devi il premio; e se non puoi far Clori
Fida, togli al mio cor la sua sembianza.
Ah no: solo al mio duol pene maggiori
Aggiugni, e fiamme all'avvampato petto.
Ella lieta sen viva a i nuovi amori,
Poiché dal mio penar gradito effetto
Almen trarrò, s'alla tiranna mia
È ministro il mio duol del suo diletto.
Forse avverrà che un dì, resa più pia,
Fedel ritorni, e sgombri dal mio seno
Col Sol degli occhi il gel di Gelosia,
Onde sanato dal mortal veleno
Famelico e digiun lo sguardo torni
Il cibo a tòr del volto suo sereno.
Allor... Ma, speme vana, ancor soggiorni
Nel petto e lusingar tenti il cor mio,
Perché bersaglio all'onte sue ritorni?
Andranno i monti, e starà il fiume e 'l rio,
Pria ch'io miri quel volto. Ah troppo omai,
Troppo intesi e soffrii, troppo vid'io.
Anzi, occhi miei, se v'incontraste mai
In quella menzognera, e al rio splendore
Pur vi fisaste de' suoi crudi rai,
Vi ricuopra in quel punto eterno orrore.
Era l' anima mia d' affanni
sgombra,
Quando una Furia, ed un Fanciullo armato,
Mentre di
verde Allor posavo all' ombra,
Mi feriro a vicenda il manco lato.
Quindi strano timor, lasso, m' ingombra,
Ch' or diletta, or
tormenta il cor piagato;
E sì speme or di se m' empie, or
mi sgombra,
Ch' ardo nel giel, son nell' ardor gelato.
In sì
dubbio tenore or dolce, or rio
Servaggio io soffro: ma sovente
eccede
La lieve gioia il fier tormento mio.
Poichè al
mio fido amore ella non crede,
Che, chiudendo nel cor vario
desio,
Come non ha, sì non conosce fede.
Crescimbeni, Giovanni Mario, L' istoria della volgar poesia (Venezia: Lorenzo Basegio, 1731), vol. 2, p. 543.
Poesie in lode di Prudenza Gabrielli Capizucchi
D'un gran nome alto immortale
RA1, pp. 334-39
Canzonetta in lode della Signora Contessa Prudenza Cabrielli Capizucchi, Dama già nota per le sue rime impresse in varie raccolte; e spezialmente in quelle di Lucca, e di Bologna; e per l'Opere del Sig. Crescimbeni.
Destinataria di una Canzonetta di Uranio Tegeo [=Abate Vincenzo Leonio da Spoleti Accademico Umorista, fondatore Arc., procustode e più volte nel Collegio]
Inclita, saggia, valorosa, e forte
RA4, pp. 139
Destinataria di un sonetto di Griseldo Toledermio [=Conte Ercole Aldovrandi bolognese] "Alla Sig.a Contessa Prudenza Gabrielli Capizucchi".
Passò al Cielo Alessandro il saggio, il prode
RA1, p. 201
Alla Sig. Contessa Prudenza Capizucchi Dama virtuosissima, per la morte del Sign. Conte Alessandro Capizucchi suo Consorte
Destinataria di un sonetto di Ila Orestasio [=Abate Angelo Antonio Somai da Rocca Antica in Sabina, dimorante in Roma]. Sonetto per la morte del marito
Qual fiumicel, che se tra verdi sponde
RA1, p. 312
Decisione d'un problema disputato nel Bosco Parrasio l'anno 1708. tra la Sig. Contessa Prudenza Gabrielli Capizucchi, e la Signora Marchesa Petronilla Paolini de' Massimi, se l'amore sia cosa degna di lode o di biasimo.
Destinataria di un sonetto di Uranio Tegeo [=Abate Vincenzo Leonio da Spoleti Accademico Umorista, fondatore Arc., procustode e più volte nel Collegio]
Sovente in ascoltar quel, che spargea
RA2, p. 279
Destinataria di un sonetto a lei dedicato da Montano Falanzio [= Abate Pompeo Figari, genovese, fondatore d'Arcadia].
42 (372)
D'un gran nome alto immortale
Sovra l'ale
Vago un dì d'alzar miei versi,
Volsi a voi, Donna sublime,
Le mie rime,
Ed al canto i labbri apersi.
Ma in mirar poi tanti e tanti
Chiari vanti,
Ch'in voi largo il Cielo unio,
Già confuso al primo aspetto
L'intelletto
Contendea col bel desio.
Visto alfin tropp'alto segno
Al mio ingegno
Esser tutti i vostri rai,
Tra l'ardente immenso stuolo
In un solo
Di fissar l'occhio pensai.
Mentre intanto il guardo giro,
Ed ammiro
Tutti i pregi in voi diffusi,
E qual sia di maggior merto
Pendo incerto,
Stanco il ciglio al sonno io chiusi.
Sogno amico allor mi tragge
Sulle spiagge
Dond'Alfeo l'Arcadia inonda:
M'offre qui verga gentile,
E d'umile
Molle lana il sen circonda.
Porge al crin serto d'alloro,
Sparsa d'oro
Alla mano eburnea canna;
E una greggia dammi in cura,
Bianca e pura,
Che uscia fuor d'una capanna.
Lentamente al vicin prato,
Ch'era ornato
D'erbe e fior', pronto la guido;
E a temprar del Sole il raggio
D'alto faggio
Alla dolce ombra m'affido.
Quando scorgo di repente
Più lucente
Lampeggiare il cielo e il giorno,
E più lieti i pingui agnelli
D'aurei velli
Fiammeggiar tutti d'intorno.
Volte allor per meraviglia
Su le ciglia,
Ove più la fiamma ardea,
Tra le nubi in varie guise
Veggo assise
Giuno, Palla, e Citerea.
Col bel piè l'erbosa arena
Tocca appena,
Che ciascuna a me si volse,
E con voce irata altera
La primiera
In tai detti il labbro sciolse:
“Nobil sangue, ampj tesori,
Sommi onori
D'armi e d'ostri io diedi a lei.
Tu mal cauto in lance or poni
Gli altrui doni,
Gli altrui doni, e i doni miei?
Anzi stando ancor sospeso
Di lor peso,
Fia che me sprezzar ti vante?
Me del Ciel Diva sovrana,
Me germana,
Me consorte del Tonante?
Infelice, e se tua guida
Farai d'Ida
Il Pastor vano e leggero?
Non sai forse quai ruine
N'ebbe alfine
D'Asia tutto il vasto Impero?”
Sì d'orror tutto ripieno
Il mio seno,
La superba in aria alzossi,
E in sembianza disdegnosa,
Minacciosa
Tra le nubi dileguossi.
Ma di Pafo la felice
Regnatrice,
Tutta vezzi e tutta riso,
Di mia tema allora accorta
Mi conforta
Con gli accenti, e più col viso:
“S'aurea cuna ed auree fasce
Ha chi nasce,
Dono è sol degli Avi sui.
Quella, ch'ora a te fai scopo,
Non ha d'uopo
Mendicare i fregi altrui.
Tu ben sai che nel suo volto
Era accolto
Ogni fior di mia bellezza.
Qual avrai più vago oggetto,
Se 'l suo aspetto
Da tue rime or si disprezza?”
“Ben l'avrai, mie voci ascolta”,
In me volta
Palla allor pronta riprende,
“Ben l'avrai nel puro interno
Bello eterno,
Onde ancor l'Alma risplende.
Chiara mente, alti concetti,
Saggi detti,
Gentil tratto, aureo costume,
E virtù mill'altre, e mille,
Quai faville,
Tralucean di sì gran lume.
Egli fu ch'al nobil piede
L'ali diede,
Quando lieve in Pindo ascese.
Sua mercede dall'Argive
Dotte Dive
Così dolce il canto apprese.
Questo è il bel, di cui fornita
Avrà vita
Immortale in ogni etade.
Loda or tu quello del viso,
Ch'improvviso
In un giorno e langue e cade.”
Disse, e sparve. Allor mi desto
Tutto mesto,
E del vano ardir mi pento,
Ché i tuoi pregi a narrar mosso
Or non posso
Lodar tutti, e un sol pavento.
Veggo ancor Giunone altera
Tal qual era,
Quando irata in aria alzossi,
E in sembianza disdegnosa,
Minacciosa
Tra le nubi dileguossi.
Abate Vincenzo Leonio da Spoleto (Uranio Tegeo, Accademico Umorista)
12 (229)
Inclita, saggia, valorosa, e forte
Donna, che basse cure avete a sdegno,
Ed aprendo a' dolor giusto le porte,
Salite ove più raro è d'orma segno;
E a lei, cui fece il grave danno morte
Sul bel Sebeto, e il pianse, onde a voi degno
La feste esempio, come a par di sorte,
Così le gite di valor, d'ingegno;
L'alte virtù, che fur sì chiare in ella,
E il sono ancora, io vedo e altrui le mostro
Sorte in voi, qual da seme erba novella.
Quella diè vita al morto sposo, e il vostro
Per voi respira aura di gloria: quella
Del suo secolo onore, e voi del nostro.
Ercole Aldovrandi (Griseldo Toledermio, Conte bolognese)
14 (171)
Passò al Cielo Alessandro il saggio, il prode;
Ed or ravvisa nel divino oggetto
I tuoi pensier' sublimi, e 'l casto affetto;
E vede il tuo bel pianto, e pur ne gode.
Vedeti ascesa a maggior grido, ed ode
L'armonia del tuo stil candido e schietto;
Indi allo stuol de' suoi grand'Avi eletto
Te mostra, e l'opre tue, che son sua lode.
Vede ancor tardo di tua vita il fine,
E la dimora a lui sembra molesta
D'aspettarti fra tante altre Eroine;
Ma al tuo valore il bel desio s'arresta:
Ché per norma alle chiare Alme Latine,
Se tu affretti il partir, quaggiù chi resta?
Angelo Antonio Somai (Ila Orestasio, Abate da Rocca Antica in Sabina)
1 (331)
Qual Fiumicel, che se tra verdi sponde
Nudre erbe e fior', di vago prato in seno,
Limpido è sì che specchio al Ciel sereno,
Alle Ninfe e a i Pastor' forma coll'onde;
Ma se per valli paludose immonde
Rivolge il corso, o in arido terreno,
Coll'atro limo, onde il lor fondo è pieno,
La chiarezza natia mesce e confonde;
Tal il fuoco d'Amor chiaro risplende,
Ardendo in cuor gentil, ma in rozzi petti
Perde il suo lume, e oscuro e vil si rende.
Amor dunque non è che i nostri affetti
Al bene o al mal diversamente accende,
Ma o buoni o rei prende da noi gli effetti.
Abate Vincenzo Leonio da Spoleto (Uranio Tegeo, Accademico Umorista)
289
Sovente in ascoltar quel, che spargea
Fama di tue virtù, grido sì altero,
Perdona, o saggia Elettra, io mel fingea
Non falso già, ma assai maggior del vero.
Ma non sì tosto udii quante chiudea
Grazie il tuo canto, ch'io cangiai pensiero,
E dissi: "O Fama, in questo sol sei rea,
Che di lei non narrasti il merto intero."
"No", rispos'ella, "no, ch'io rea non sono,
Ché di lei sola all'ammirabil vanto
Tutto sacrai delle mie trombe il suono.
Ma, se col fiato mio non giungo a tanto
Che agguagli i pregj suoi, merto perdono,
Ch'ella sol di sé stessa ha degno il canto."
Pompeo Figari (Montano Falanzio, Abate genovese, fondatore d'Arcadia)