OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB |
NUMERO 3/2004 |
demoni e dei di Roberto Stocchetti
la 'battaglia' di TUZLA di Marco Leofrigio
piccole considerazioni Sulla guerra di Marco Panichelli
VIAGGIO IN ARGENTINA: LE FORMICHE DI EL POCHO di Maria Vittoria Sbordoni
COSA VOGLIONO I TERRORISTI ISLAMICI? di Giovanni Castellani Pastoris
di Roberto Stocchetti
attualità |
E molti altri eroi, che per me son pronti a rinunciare alla vita,
che sanno combattere con armi di vario genere,
tutti esperti nel guerreggiare
Bhagavad Gita I, 9
Dunque a Odisseo parlò Atena occhio azzurro:
“Divino Laerziade, ingegnoso Odisseo,
fermati smetti il massacro della guerra crudele
che non s’adiri il Cronide Zeus vasto tuono”.
Così disse Atena, egli obbediva e gioiva nel cuore.
Omero “Odissea” libro XXIV “I patti di pace” 541/5
E’ tuttavia difficile sentire il polso del dio della guerra
Dov’è il campo di battaglia?... Ovunque
Qiao Liang Wang Xiangsui “Guerra senza limiti”
La strage degli innocenti in Ossezia, il mattatoio irakeno, la strage dei profughi in Darfur; tre anni ci separano dall’undici settembre 2001 e ci chiediamo quanto orrore avremo ancora da vedere, quanto distante è l’uscita del tunnel.
Per comprendere le guerre del nostro tempo basta vedere un film: “Apocalypse now”.
Contiene tutto l’orrore delle guerre moderne ed è, si badi, non un film di guerra, non un film sul Vietnam, ma un film sul rapporto tra l’uomo e il Dio della guerra; qualcosa di difficile comprensione per noi uomini del XXI secolo, che richiede di tornare indietro nel tempo al periodo della storia romana.
Doveva essere veramente multiforme il pantheon delle divinità greche o romane, di cui alla cognizione dei più rimangono scarni brandelli.
Quanti conoscono l’antica dea Bellona? Pochi certamente.
“…La Bellona delle origini apparve come una divinità estremamente razionale che interveniva nelle fasi più difficili e concitate dello scontro armato donando ai Romani il coraggio e la lucidità necessarie per uscirne con il minor danno possibile… In epoca imperiale la composta e razionale Bellona delle origini, che ispirava nei combattimenti l’ardore guerriero e donava la vittoria alle legioni di Roma, venne ampliamente riplasmata. Il sincretismo religioso ne determinò gradatamente la sostituzione con una divinità sfrenata e selvaggia che Virgilio descrisse armata di un flagello insanguinato…” (Cristian Guzzo, “Note storiche sul culto della dea Bellona in Roma antica” Arthos nuova serie anno V vol. II n. 9)
Il mondo romano delle origini comprendeva quindi perfettamente come il Dio della guerra (Ares) dovesse essere dominato, ricevere una controparte, significativamente femminile, che lo guidasse ed infondesse ai guerrieri non solo coraggio ma soprattutto saggezza.
Un grande militare e storico inglese, il Capitano Liddell Hart n’offre testimonianza nella stupenda biografia di Scipione l’Africano; che vince ma non umilia lo sconfitto, che guida i suoi soldati da comandante ma non da satrapo, che riesce a conquistare una vittoria che porterà ad una pace duratura. Segno di una saggezza ormai perduta.
Il nostro tempo ha conosciuto guerre che giustamente sono state definite da chi vi ha preso parte “tempeste d’acciaio”, un erompere incontrollabile di forze, al pari di un’eruzione vulcanica, un tornado, un maremoto, un sisma.
Ed il film di Coppola n’è eloquente testimonianza; in un viaggio non immemore dalle cadenze omeriche o dantesche si scende in un mondo di valori sconvolti. Ci si occupa di surf mentre si distrugge un villaggio, ci si angoscia per la fine di un cucciolo dopo aver spezzato la vita di civili innocenti.
E’ qualcosa di più di una “guerra senza limiti” è una dimensione ove qualsiasi freno è caduto e si continua ad uccidere con il gusto dell’animale aduso al sapore del sangue, perché come dice un soldato “non c’è nessun comandante”, in altre parole non vi è più un principio dominante purchessia.
Ed anche il colonnello Kurz, non sfugge a questa realtà. E’ divenuto dio della guerra, ma non ha acquistato da ciò alcuna saggezza, più che dio è demone circondato da uomini adoranti e cadaveri in putrefazione… Chi l’ucciderà, trasferirà su di sé parte di quello spirito demoniaco, ed è dubbio che riuscirà a trasformarlo a ricondurlo ad una dimensione umana.
Ed ancora una volta le immagini dei templi cambogiani ci riportano all’antico mondo romano: “Nell’anno 92 a.C. il generale che aveva piegato il re del Ponto Mitridate, era penetrato in una regione della Cappadocia denominata Comano. Qui trovò un piccolo Stato interamente votato al culto orgiastico ed estatico di una dea selvaggia di nome Ma, nel cui tempio prestavano servizio circa seimila persone. I soldati romani restarono profondamente colpiti e suggestionati dalle cruente cerimonie in onore della divinità asiatica, la quale apparve in sogno allo stesso Silla vaticinandogli una grande vittoria contro i suoi nemici in patria. Sbarcato in Italia nell’83, egli sconfisse nell’82 gli eserciti della Repubblica a Sacriponto ed occupò Roma. Iniziò così un periodo di terrore e di spietate repressioni contro i partigiani di Mario e gli Italici ostili, del quale le fonti ci hanno tramandato episodi raccapriccianti, come l’esecuzione sommaria dei prigionieri sanniti davanti al tempio di Bellona. Il culto della Ma di Cappadocia, introdotto dai legionari sillani, venne in qualche modo così recepito in Roma.” (Cristian Guzzo, cit.)
Una guerra si vince non con la semplice supremazia militare, non solo perché si hanno più soldati, cannoni, carri armati ed aerei. Chi vince con simili presupposti basa il fondamento della sua conquista sulla sabbia.
Le torture del carcere d’Abu Ghraib rivelano non solo una miseria morale sconfinata ma anche e soprattutto come gli Usa non abbiano gia perso la guerra, ma non siano più in grado di vincerla.
L’amministrazione Bush ha avuto la capacità fenomenale di andare in autogol pressoché ad ogni fase della guerra e di dissipare l’enorme credito politico dell’11 settembre.
Ma sarebbe ingiusto, infine, far ricadere ogni responsabilità sull’attuale abitante della Casa Bianca. Quelli che gli Usa, e con loro tutto l’Occidente, stanno raccogliendo sono i frutti dei trascorsi decenni della politica estera americana.
Una semplice riflessione può farci comprendere quale autentico demone sia stato incubato dagli Usa; per il mondo arabo il XX Secolo ha rappresentato, a dir poco, un periodo storico tumultuoso: guerra Italo - Turca nel 1911, definitivo crollo dell’Impero Ottomano nel 1918, creazione dello stato d’Israele nel 1948 e conseguente diaspora palestinese, guerre arabe israeliane, crisi di Suez del 1956, indipendenza Algerina. Orbene questi eventi storici epocali (Citati, si badi, senza pretesa di completezza), che avrebbero rappresentato anche presi singolarmente una linea di faglia storica di prima grandezza, non hanno rappresentato un catalizzatore per il composito mondo islamico.
Senza addentrarci in ogni singola congiuntura fra quelle elencate basti pensare che in nessuna di circostanze vi fu un’autorità islamica in grado di chiamare, alla guerra santa (Jihad).
Il crollo dell’impero ottomano vide la creazione della Turchia moderna, laica e rivolta verso l’occidente, la diaspora palestinese era sostenuta dalla laicissima OLP e divenne bandiera della sinistra, la crisi di Suez vide la proiezione su scala mondiale di Nasser come leader dei paesi del terzo mondo, la rivoluzione algerina fu una guerra anticoloniale che venne eternata nelle stupende immagini del film “La battaglia d’Algeri” di Gillo Pontecorvo.
Per sentir parlare di fondamentalismo islamico e Guerra Santa dobbiamo aspettare il 1979 e la guerra afgana. In quella circostanza non solo migliaia di estremisti vennero raccolti da tutto il mondo islamico e portati sulle montagne dell’Asia centrale, per combattere contro i Sovietici. L’aspetto più deleterio non è certo d’avergli offerto armi ed addestramento ma, piuttosto, d’avergli fornito un catalizzatore ideologico, quello della Guerra Santa, che riposava da centinaia d’anni e che nessuno nel mondo islamico neppure pensava di risvegliare. Da aggiungere che terminata la guerra in Afghanistan, i Mujaheddin, tornati nei loro paesi d’origine hanno provveduto a portare la Jihad in Algeria, Bosnia, Cecenia, nazioni che continuano tuttora ad essere,al meglio, zone di instabilità se non d’aperto conflitto.
Questa è la lungimiranza delle classi dirigenti della nazione che pretende l’egemonia su scala planetaria, complimenti.
Il vero, grande argomento del pacifismo dovrebbe essere proprio quello che attivata una guerra nessun freno è più opponibile, essa diviene inevitabilmente una tempesta distruttrice, dagli effetti devastatori. Non vi è più il Dio della Guerra esso è divenuto demone e tutto vorrebbe ingoiare e distruggere.
Simona Torretta e Simona Pari non si sono pilatescamente “lavate le mani” dinanzi al mattatoio irakeno, si sono rimboccate le maniche per dimostrare che si può promuovere la solidarietà, costruire un futuro, aiutare chi soffre anche mentre si continua ottusamente ad uccidere e distruggere.
Un esempio non piccolo per dimostrare che il demone della guerra si può, si deve vincere.
Appendice
Il giorno successivo a quello nel quale abbiamo terminato la scrittura delle precedenti note ci è pervenuto a cognizione un interessante volumetto redatto nel 1912 dal Capitano Bourbon del Monte Santa Maria intitolato “L’Islamismo e la Confraternita dei Senussi” (Città di Castello Tipografia dell’Unione Arti Grafiche, quarto migliaio).
Si tratta, per evidenza, di una pubblicazione ad uso degli ufficiali inviati in Libia per la guerra Italo-Turca del 1911, reca infatti l’intestazione “Comando del Corpo di Stato Maggiore (Ufficio Coloniale)”.
Inizia con una disamina del mondo arabo e dei suoi costumi, della religione islamica e dei suoi esercizi di fede, si esaminano quindi la formazione dei califfati e dell’ordine dei Senussi di cui vengono esaminati nel dettaglio costumi, società, economia, genealogia.
Di particolare interesse per il ragionamento fatto sulla Jihad crediamo risulti il terzultimo capitolo “Presumibili obiettivi politici del Senussismo e pericoli che ne potrebbero derivare per le potenze coloniali europee nell’Africa settentrionale e centrale” in esso, infatti, leggiamo: “E’ fuor di dubbio che la confraternita dei Senussi rappresenta oggi nelle colonie dell’Africa meridionale e centrale, il più attivo propugnatore dell’idea panislamica – la quale, secondo la sua intima essenza, associa la podestà religiosa alla politica – ed è certo che il proselitismo senussita sin dai suoi esordi in Africa ha avuto per iscopo di mettere la religione al servizio di propositi di conquista su quei paesi del bacino del Ciad ricchi di svariati articoli di esportazione…
Ognun sa come la confraternita abbia obiettivi commerciali, e come i suoi stessi primi atti abbiano avuto di mira di ristabilire – come difatti riuscì a fare – le antiche vie di comunicazione che i ladroni del deserto avevano fatto disertare alle carovane…
E pertanto sembra ragionevole ritenere che quand’anche un eccesso di fanatismo producesse un fatto così importante come quello dell’unanime consenso degli indigeni ad una guerra, questa adesione si manifesterebbe piuttosto nell’attaccare il nemico ovunque esso si presentasse, ma non indurrebbe mai le tribù a disertare in massa le proprie terre per radunarsi in una determinata direzione.
Cosicché il pericolo che dalle sette islamiche può derivare alle potenze coloniali, mi sembra non possa avere altro carattere all’infuori di quello di una resistenza più o meno attiva o prolungata, di una rivolta affatto locale: mai quello di una “guerra santa”.
Nessun commento ulteriore, ritorneremo sull’argomento quanto prima.
Bosnia Orientale - Aprile 1995: la 'battaglia' di Tuzla: una diversa interpretazione delle regole di ingaggio
di Marco Leofrigio
Ex-Jugoslavia |
Nella notte del 29-30 aprile 1995 lo squadrone carri danese aggregato al Nordbat 2 risponde al fuoco delle truppe serbo-bosniache.
In seguito la commissione di inchiesta ONU incaricata di verificare sugli eventi di Tuzla domandò al comandante danese, il Tenente-Colonnello Lars Moller, il perché avessero sparato 72 colpi di cannone, ottenendo per tutta risposta:
"perché avevo finito le munizioni!". Ovviamente fu redarguito e rimandato a casa.
Questo lavoro si propone una ricostruzione della vicenda.
La UNPROFOR
Per cercare di aiutare, nella ex-Jugoslavia, la popolazione musulmana colpita dalla pulizia etnica, nel febbraio 1992 su proposta del Segretario Generale viene varata dal Consiglio di Sicurezza la creazione di una forza armata per proteggere le enclave musulmane: la "United Nations Protection Force - UNPROFOR. Nell'ambito di questa forza di protezione anche alcuni paesi scandinavi inviano una propria unità militare di circa 1500 uomini, appoggiati da 11 carri armati e 22 veicoli blindati (APCs).
Il Nordic battalion 2 (NORDBAT), con base a Tuzla nella Bosnia orientale, venne dunque composto da:
· Battaglione di fanteria (Svezia)
· Battaglione logistico (Norvegia)
· Ospedale da campo (Norvegia)
· Reparto del genio (Norvegia)
· Gruppo elicotteri (Norvegia)
· Squadrone Carri Leopard 1A5 (Danimarca)
Fin dal loro arrivo nel 1993 le forze UNPROFOR vennero prese di mira decine e decine di volte dal fuoco di cannoni, mortai e cecchini quasi sempre di origine serba, oltre a subire umiliazioni di vario tipo. La risposta dei comandi militari Onu si limitava alla protesta verbale o al massimo per iscritto.
La reazione del reparto danese è un po' l'emblema della gestione ONU delle operazioni di peacekeeping durante gli anni delle guerre balcaniche: anni di frustrazioni e umiliazioni cocenti che culmineranno con il massacro degli oltre 7000 musulmani a Srebrenica, compiuto sotto la pressoché totale inattività del contingente olandese ivi presente.
Marzo 1994. L'arrivo a Tuzla
I Leopard fin dal loro annunciato arrivo, furono sgraditi ai serbo-bosniaci, dato che erano l'unico armamento pesante della UNPROFOR: il Danish Tank Squadron giunto in Croazia a metà 1993 riesce a raggiungere l'area di assegnazione dopo estenuanti trattative con i serbi, infatti solo nel marzo '94 si disloca nell'enclave musulmana di Tuzla, nell'area di competenza del NORDBAT: il settore nord-est della Bosnia.
Da allora divennero, come ricorda il vice comandante dello squadrone il Maggiore Rasmussen, il bersaglio preferito dei serbo-bosniaci e questo provocò presto qualche scontro di rilievo, in aprile un Leopard sotto attacco distrugge un bunker e un cannone da 40mm.
Ciononostante il reparto danese, composto per la gran parte da soldati di leva, riesce in una certa misura ad instaurare un buon rapporto di fiducia sia con la parte serba costruendo una strada per permettere ai bambini serbi del villaggio di Pelemsi di andare a scuola senza rischiare di incappare nei cecchini musulmani, e sia fornendo aiuti umanitari alla popolazione musulmana.
Per il NORDBAT la difesa dell'enclave musulmana della provincia di Tuzla non è certo un compito facile, infatti dopo poche settimane dallo schieramento i serbi riescono a mettere fuori combattimento 4 APC e solo la cattiva mira evita perdite umane.
Ma benché gli attacchi si intensifichino il vertice politico Onu a Zagabria, diretta dal rappresentate speciale del Segretario Generale Yasushi Akashi (che ha l'ultima parola sulla complicata e burocratica procedura di intervento degli aerei NATO, prevista sulla carta per supportare le modeste forze di terra) rifiuta il 'close air support' varie volte.
Per esempio: il 18 marzo, a nord di Gradacac, armi anticarro serbe distruggono un APC svedese e vengono colpiti, ma senza gravi danni, alcuni carri danesi, il Tenente-Colonnello Lars Moller relaziona al suo comando l'incidente ma i vertici a Zagabria oppongono la giustificazione che la provenienza del fuoco 'was unknown'.
Il 14 aprile per ben quattro ore l'artiglieria serba bombarda l'aereoporto di Tuzla, in palese violazione della risoluzione Onu che ne impone il libero utilizzo 'pena' l'intervento aereo NATO, che ovviamente non arriverà e la pista resterà inagibile fino alla fine del bombardamento.
La 'battaglia' di Tuzla
Il 29 aprile 1994, a partire dalle ore 22, i serbo-bosniaci, ben appostati sulle pendici del monte Vis a sud di Tuzla, bombardano per due volte in pochi minuti Tango 2 un'isolato posto di osservazione presidiato dai peacekeepers svedesi.
Il posto Tango 2, a circa 4 km dall' abitato di Tuzla, fin dall' ottobre dell'anno precedente era stato colpito ben 28 volte ed erano stati contati circa 96 proiettili.
Nella notte viene inviato lo squadrone carri a sostegno degli svedesi: il Tenente-Colonnello Moller ordina ai suoi visibilissimi Leopard, perché dipinti di bianco come tutti i mezzi dei caschi blu nei Balcani, di rispondere al fuoco delle artiglierie serbe: dalla fine del secondo conflitto mondiale è la prima volta che le forze armate danesi tornano a intraprendere un'azione di combattimento.
Moller con 6 carri Leopard e due APC si dirige al villaggio di Saraci in vista dei cannoni serbi, ferma i suoi mezzi ed in accordo con le regole di ingaggio illumina i suoi mezzi con i fari per mostrare ai serbi dove si sono schierati, ma la luce dei fari attira di nuovo il fuoco sui mezzi danesi ed allora Moller li fa spegnere e si prepara all'ingaggio con regole di altro tipo…
Dispone l'invio del maggiore Rasmussen con 4 carri e un trasporto truppe al villaggio di Kalesija nei pressi di Tango 2. Nel frattempo i serbi illuminano la notte continuando a sparare sui carri danesi.
Il reparto di Rasmussen appena giunto nel villaggio sposta due carri verso il martoriato posto di osservazione e schiera gli altri due dietro alcune case del villaggio. Fino a quel momento i danesi già da 30 minuti sotto il fuoco di artiglieria e mortai si vedono inquadrare anche da razzi anticarro portatili Rpg.
Moller, che era rimasto presso il villaggio di Saraci, ordina di sparare quattro colpi di avvertimento, ma i serbi non accennano a interrompere ed allora, 'interpretando' le regole di ingaggio, ordina ai suoi carristi di rispondere al fuoco:
una prima serie di colpi mette fuori uso un cannone da 40mm, la seconda distrugge un posto di osservazione e la terza danneggia gravemente un bunker.
Moller, d'accordo con Rasmussen decide a quel punto di sospendere l'azione per verificare se fosse cessato lo stillicidio di proiettili su Tango 2, ma dopo circa mezz'ora in cui sembrava finalmente tornata la quiete e proprio mentre i Leopard del maggiore Rasmussen iniziano a tornare al villaggio di Saraci, i serbi ricominciano a sparare.
Allora Moller ordina nuovamente di rispondere al fuoco e lo scontro dura altri 15 minuti: verrà distrutto un deposito di munizioni dei serbo-bosniaci e verranno colpiti tre carri T-55, i quali come rilevato dagli strumenti a bordo dei Leopard si stavano preparando a fare fuoco.
In quest'ultimo caso le rigide regole di ingaggio delle forze ONU prevedevano invece solo la reazione contro obiettivi che già avevano aperto il fuoco contro i caschi blu, colpendo solo la 'smoking gun'.
I serbo-bosniaci perdono nove uomini e cinque sono feriti.
Dopo la piccola battaglia di Tuzla Moller e Rasmussen affermarono che secondo loro era stata organizzata una trappola, difatti non senza humor Moller disse "doveva essere un' imboscata, Tango 2 era il formaggio e noi il topo. Solo che questa volta il topo si è mangiato il gatto!" E secondo lui: "la psicologia della guerra in corso era solo un continuo braccio di ferro tra chi piegava la testa facendosi stritolare e chi invece teneva duro e si mostrava forte."
L'episodio, l'unico come entità del suo tipo da parte delle forze della UNPROFOR, è stato analizzato come case study nell'uso della forza in operazioni di peacekeeping, cioè un intervento di auto-difesa ritenuto necessario, ma senza per questo causare una escalation del conflitto in corso.
Lo studio evidenzia alcuni punti rilevanti:
1. l'uso della forza solo come 'self-defense'
i danesi hanno dato chiari avvertimenti, appunto illuminando i carri armati e solo dopo essere stati ciononostante nuovamente bersagliati, hanno deciso di rispondere in modo mirato sulle posizioni serbe da cui provenivano i colpi, agendo con estrema precisione e senza fare nessuna richiesta di intervento del 'close air support' NATO;
2. è stata fornita prova di imparzialità
prima dello scontro hanno dato prova di imparzialità fornendo sia aiuti umanitari ai musulmani e sia nel contempo fornendo protezione ai serbi;
3. vi è stata chiarezza nella comunicazione della causa dello scontro
subito dopo lo scontro il comandante danese si mise in contatto con il comando serbo motivando la reazione dei carri armati con la rottura dell'impegno di non attaccare i caschi blu. Il comando serbo accettò la motivazione nonostante che la robusta reazione danese avesse causato vittime tra i serbo-bosniaci. Lo scontro non ebbe conseguenze ulteriori e i serbi non cercarono nemmeno 'vendette'.
Dunque l'uso della forza nelle operazioni di peacekeeping può essere considerato un possibile strumento di 'de-escalation' di situazioni difficili, nell'ambito delle opzioni per l'auto-difesa e nel rispetto di un comportamento nei limiti del possibile imparziale.
Ma in conclusione nella generale debolezza militare e rigidità politica delle regole di ingaggio durante le operazioni dei caschi blu nei Balcani, si può affermare che i danesi furono degli 'ossi duri' per gli uomini del generale Mladic. Infatti a ottobre dello stesso anno, a Gradacac, i Leopard distrussero un pezzo di artiglieria e danneggiarono un T-55.
Bibliografia e sitografia
T. Gazzini - NATO Coercive Military Activities in the Yugoslav Crisis (1992-1999)
Dipartimento studi internazionali - Università di Padova, 2001
P.Iuso, A.Pepe e M.Simoncelli - La comunità internazionale e la questione balcanica
Rubettino Editore, 2002
W.N. Anderson - Peace with Honor: Enduring Truths, Lessons Learned and Implication for a Durable Peace in Bosnia - The Institute of Land Warfare
Association of the United States Army,1999
Thomas Bernauer, Jürg M. Gabriel, Kurt Spillmann, Andreas Wenger - Peace
Support Operations: Lessons Learned and Future Perspectives
Center for Security Studies, ETH ZürichStudies - Berna, Peter Lang 2001
Honig, J.Willem and N.Both, "'Mission Impossible': Designing a Safe-Area
Policy," from Srebrenica: Record of a War Crime, New York: Penguin Books,1997
David Rohde - Endgame: The Betrayal and Fall of Srebrenica, Europe's Worst Massacre Since World War II - published by
Farrar, Straus and Giroux, 1997
http://army.ca/forums
http://carlisle-www.army.mil/usacsl/divisions/pki/Humanitarian/human.htm
http://www.haaland.info/denmark/tank/
http://news.bbc.co.uk/
http://hem.passagen.se/bankel/nordbat.htm
http://www.hrw.org/campaigns/bosnia/
http://www.milhist.dk/andre/timetab/timetab.html
http://www.nato.int
http://www.norwaves.com/norwaves/Volume2_1994/v2nw11.html
http://odin.dep.no/ud/norsk/publ/veiledninger/032091-990214/hov003-bu.html
http://www.onu.org
http://www.wrmea.com/backissues/0794/9407104.htm
http://194.134.65.21/srebrenica/
(Netherlands Institute for War
Documentation, April 2002)
piccole considerazioni sulla guerra
di Marco Panichelli
appunti |
Perchè le guerre odierne non si vincono mai.
Capisco la situazione drammatica in cui si dibatte un paese civile quando ci sono ostaggi, o civili in mano a bande più o meno irregolari, guerriglieri fanatici, gruppi eversivi.
Capisco i sentimenti di una nazione che si divide fra chi si ostina a dire che non si tratta con i terroristi, linea dura, e chi chiede di far fagotto in quattro e quattr' otto e lasciare il paese "linea morbida"; e via di questo passo tutte le inutili litanie che vengono spese in questi giorni drammatici per gli ostaggi.
Quello che non capisco è purché ci ostiniamo noi occidentali e in particolare gli anglo americani a credere di essere gli unici latori di democrazia libertà, uguaglianza etc.
Mi meraviglia che ci sia qualche sciocco che ancora crede che una guerra termini quando uno dei belligeranti dice che è finita.
La storia insegna che l'occupazione militare di un paese vinto dura per anni e la pacificazione è molto dolorosa.
Gli americani per esempio "occupano" ancora il Giappone, al quale hanno proibito per anni il riarmo, e a cui per anni hanno proibito di avere una politica estera indipendente. Hanno più volte costretto il Giappone ad elargire finanziamenti per le operazioni militari nel Golfo Persico o in altre zone del pianeta. Eppure credo che il Giappone in fatto di democrazia e rispetto dei valori umani non abbia nulla di meno che ne so di una Italia o di una Germania a loro volta occupate militarmente e poi passate sotto tutela dagli americani.
VIAGGIO IN ARGENTINA: LE FORMICHE DI EL POCHO
di Maria Vittoria Sbordoni*
argentina |
Luglio 2004
A uno dei tanti semafori dell'avenida Nueve de Julio, Luís si improvvisa giocoliere insieme ai suoi amici per raccattare qualche spicciolo. Sembra più piccolo dei suoi 15 anni, forse per l'origine india. Gli chiedo dove vive e con voce adolescente e un ampio gesto mi nomina una zona lontana della città, nella Gran Buenos Aires, dove sta con la famiglia. Fanno tutti i cartoneros, raccolgono carta dai rifiuti. Ce ne sono a ogni angolo di strada, carichi di fagotti accatastati su vecchi carrelli da supermercato, li vedi rincorrere i camion della spazzatura per recuperare carta, stracci o avanzi di cibo.
A questo lavoro partecipano tutti, adulti e bambini d'ogni età, i piccoli si soffermano curiosi a guardare le figure sulle scatole che poi piegano diligentemente, per ridurne l'ingombro. Nel freddo pungente di questo inverno argentino hanno le guance rosse e la pelle scurita, nessun passante si ferma a guardare, loro fanno parte del paesaggio urbano, da una parte e dall'altra tutti rassegnati all'evidenza del fatto.
All'incrocio dell'avenida con la calle Corrientes suona la fisarmonica un anziano, distinto nel suo doppiopetto scuro, mentre sua moglie canta a occhi bassi fissando il cestino per raccogliere qualche moneta.
Il malessere sociale non sembra fare distinzioni di classe e di età, in questa bella città adagiata sulle sponde del Rio de la Plata, con i boulevards ombreggiati dalle jacarande e i palazzi con i balconi di ferro battuto stile déco che ricordano le capitali europee.
Ma sono giornate di protesta in Argentina: i piqueteros, i disoccupati, stanno bloccando strade e autostrade, occupano edifici e terre. Protestano contro la povertà e l'esclusione, contro i rincari delle tariffe, contro la mancanza di lavoro e di opportunità d'inserimento sociale, contro l'impossibilità di accedere ai servizi sanitari e all'istruzione.
Poco distante da qui, nei giardini di Plaza de Mayo stanno accampati i reduci della guerra delle Malvinas, protestano contro il loro abbandono da parte delle istituzioni, chiedono una pensione per il risarcimento dei danni subiti.
Oggi è giovedi e intorno all'obelisco della Plaza davanti alla Casa Rosada, luogo simbolo di tutte le manifestazioni storiche, stanno girando, come ogni settimana ormai da quasi trent'anni, le madri, con la testa coperta dai fazzoletti bianchi e le immagini dei loro figli e nipoti scomparsi sotto la dittatura di Videla.
Protesta ogni giorno in cortei sporadici la gente comune contro l'aumento della criminalità e la diffusione dei rapimenti e dei sequestri lampo, chiedono più sicurezza e l'adozione di misure contro l'ondata di violenza che sta sconvolgendo la provincia di Buenos Aires. Una petizione popolare chiede che sia abbassata l'età minima per l'incriminazione dei minori, dai 16 ai 14 anni. Dopo la disoccupazione, l'insicurezza è ciò che più preoccupa gli argentini.
Alla base di tutto c'è la crisi socioeconomica in cui versa il Paese dal 2001. Le politiche neoliberiste dei precedenti governi, con l'avallo del Fondo Monetario Internazionale, hanno portato a selvagge privatizzazioni. Ora le principali risorse argentine sono in mani straniere, le telecomunicazioni, le fonti d'acqua dolce, il petrolio; persino le pampas sono svendute a multinazionali o a gruppi privati, come quello che fa capo a Benetton, che hanno soldi da investire.
A dare il colpo di grazia è stata la parità del peso con il dollaro, contro l'iperinflazione, che ha reso poco competitive le esportazioni argentine, in un Paese con una struttura economica impostata verso l'esterno.
La situazione è destinata a peggiorare, visto che l'Argentina ha accettato di pagare parte del debito contratto con il Fondo Monetario Internazionale. Il debito complessivo di Buenos Aires ammonta a 170 miliardi di dollari, che rappresentano tra il 120 e il 130 per cento del Pil (Prodotto interno lordo) nazionale. Se si continuasse ad onorare il debito, l'Argentina dovrebbe pagare circa 12 miliardi di dollari l'anno di interessi, ossia la metà del bilancio di spesa del governo.
Oltre alla questione del debito estero, esistono anche responsabilità locali. In questi giorni i quotidiani denunciano che sta aumentando il denaro detenuto dagli argentini all'estero: sono 104 miliardi di dollari, con un aumento di circa 8 miliardi di dollari in un anno.
La ricchezza degli argentini all'estero, sostiene il Clarin, senza contare gli investimenti esterni delle imprese locali, equivale al 75 per cento del volume dell'economia del Paese. In altre parole, rispetto a quanto produce l'Argentina in un anno, l'equivalente di nove mesi è messo fuori del circuito economico locale.
Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: un paese con oltre il 50 per cento di poveri e di emarginati e con oltre il 30 per cento di disoccupati. Oggi in Argentina ci sono 20 milioni di poveri, quasi la metà della popolazione, e le prospettive, nonostante il buon lavoro del governo di Kirchner, non sono ottimistiche.
Le prime vittime di questo fenomeno sono, come sempre, i bambini, anche se sta rientrando l'emergenza della denutrizione infantile, che due anni fa fece scoprire all'Argentina l'orrore della morte per fame. Solo nelle province settentrionali del Paese, Tucuman e Misiones, si registrarono 27 mila casi di bambini denutriti e il maggior numero di decessi. A San Miguel de Tucuman vedo una mostra fotografica che fa memoria di questa tragedia, con immagini da olocausto.
Un Paese che fatica a nutrire la sua gente, eppure è il terzo produttore di soia dopo Stati Uniti e Brasile, ed è uno dei più grandi produttori al mondo di carne bovina. Nonostante il prezzo limitato, meno di 5 euro al chilo, il livello medio dei salari, intorno ai 250 euro al mese, rende impossibile alla maggior parte della gente comprare carne.
Per nutrirsi ci si organizza come si può; nelle periferie delle grandi città i comedores, gestiti dalla stessa popolazione con aiuti privati e scarsi fondi governativi, assicurano almeno un pasto al giorno. Fin dal mattino lunghe file di persone con le ceste vuote aspettano pazientemente il loro turno. "E' un modo per salvare l'unità della famiglia", mi spiega Lucía, una delle responsabili di un comedor alla periferia di Rosario, "preferiamo che la gente prenda il cibo e vada a mangiarlo a casa, insieme ai propri cari".
A Rosario uno dei comedores più affollati è quello di Padre Edgardo Montaldo, un coraggioso salesiano che fin dai tempi della dittatura ha scelto di vivere tra la povera gente. A mezzogiorno inizia il primo dei tre turni, ogni volta oltre quattrocento bambini, prima o dopo la scuola a seconda dell'orario delle lezioni, entrano compostamente con i loro zainetti e le buste di plastica con il piatto di metallo, il cucchiaio e il bicchiere. E' incredibile l'ordine e il silenzio che regna in questo ampio capannone, rotto solo dalla voce di Padre Edgardo, che, aggirandosi tra i tavoli con un microfono per sovrastare il brusio, augura buon appetito e ha parole affettuose per tutti.
E' in questi ambienti di periferia che si avverte che qualcosa sta cambiando, che sta tornando in Argentina la speranza di futuro. Si percepisce nell'impegno e nella militanza di tante persone alla ricerca di vie alternative alla povertà, per sottrarsi alla logica del fatalismo e dell'impotenza, con la filosofia dei piccoli passi.
E la speranza qui ha un nome, quello di Claudio Lepratti, detto El Pocho. Dopo gli studi lascia la famiglia per andare a vivere in una delle villas miserias nella periferia di Rosario, si guadagna da vivere facendo il cuoco in una scuola elementare. Anima la gente e soprattutto i giovani, li forma alla non violenza e al rispetto dei diritti umani. Dice loro che siamo come le formiche, unendoci possiamo cambiare il mondo.
Era il dicembre 2001, uno dei periodi peggiori della storia argentina: la gente, affamata e impaurita dalla crescente povertà, assalta negozi e supermercati. Di fronte alla violenza della repressione armata, El Pocho urla alla gendarmeria di abbassare le armi "perché qui ci sono bambini che stanno mangiando". Un proiettile gli trapassa la gola. E' divenuto un simbolo: le formiche di El Pocho sono disegnate su tutti i muri della città, memoria e monito d'impegno quotidiano.
*Maria Vittoria Sbordoni opera nel Settore Progetti della ONG VIS - Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, per l'America Latina
COSA VOGLIONO I TERRORISTI ISLAMICI?
di Giovanni Castellani Pastoris
Terrorismo |
Per chi vuol fare delle vicende mediorientali un’analisi, onestamente asettica, perché così deve essere se la si vuole fondata ed utile a tirarne conseguenze, opinioni ed indirizzi sul come procedere, questi sì in base al proprio credo, ideologia o semplice appartenenza, suggerirei di tenere fermamente presente alcuni, pochi ma indiscutibili, dati di fatto.
Anzitutto, che il terrorismo non è un’ideologia, ma un semplice strumento o modus operandi. E' già stato ripetutamente usato, anche in Europa. Il XIX secolo ce ne fornisce innumerevoli episodi. Le diverse dimensioni di quanto sta accadendo non dimostrano una diversità di natura: chi determina gli indirizzi politici è ora, più o meno, l’opinione pubblica (e non più un numero limitato di persone): è quindi il gran numero che il terrorista deve colpire, o fisicamente o nel suo immaginario, ed i mezzi a sua disposizione gliene danno la possibilità.
Poi, che l’Islam, quello vero, mediorientale (diverso quello africano o dell'Asia centro-orientale, importato e miscelato ad abitudini e tradizioni autoctone) non è una religione nel senso in cui l’intendiamo noi. E’ qualcosa di molto più complesso che investe l’intero quotidiano dell’individuo e della società. Se cambia, muore. Libera Chiesa in libero Stato o separazione fra spirituale e temporale non sono concepibili in una società arabo-islamica.
Infine, il Libro degli americani, quello che potete trovare in tutte, o quasi, le camere d’albergo degli States, è la Bibbia. La Bibbia non i Vangeli. E il Dio del Vecchio Testamento è quello dell’occhio per occhio, dente per dente.
Ora il processo di globalizzazione, che non è solo un fatto economico, ma assai più socio-culturale, ha inciso profondamente nella carne viva della o delle società arabo islamiche innescando mutamenti che tali società sentono, non a torto, poter essere fatali al loro permanere. Qualsiasi mezzo è quindi buono per sopravvivere.
Gli americani, colpiti per la prima volta in casa, hanno reagito e continueranno a reagire sulla base della legge del taglione, che fa parte del loro DNA, rafforzati da mentalità missionaria, anch'essa parte del loro DNA, e dalla più materiale coscienza del carattere strategico della regione.
E così si arriva a quello che viene, con molta approssimazione, chiamato scontro di civiltà. In Afghanistan ed Iraq, situazioni che non differiscono nella sostanza, ma solo nelle dimensioni, assistiamo ad un ennesimo episodio di questo scontro.
Diverso il caso del Caucaso dove, invece, si svolge una fase di assestamento dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, cioè del più vasto e variegato stato multinazionale, multietnico e multiculturale della storia. In questo senso ha ragione Putin quando dice che quella cecena è questione interna della Russia, intesa come successore dell’Unione Sovietica e discendente diretto dell’Impero Zarista. Anche le componenti di terrorismo islamico hanno, per ora almeno, più che altro sapore d’infiltrazione congiunturale.
A ciascuno ora di trarre le conclusioni a seconda del proprio credo, convinzioni o apartenenza. Personalmente ritengo che le società o civiltà che non posseggono capacità di adattamento, sono destinate a lasciare il posto a quelle che ne sono dotate. Prima o dopo, poi, tutte scompaiono, quantomeno trasformandosi.