Il sistema politico ideale è il Capitalismo Laissez-Faire, un sistema in cui gli uomini si rapportano gli uni con gli altri non come vittime e carnefici, non come padroni e schiavi, ma come mercanti, attraverso lo scambio volontario per il mutuo beneficio
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Le campagne oggettiviste
a cura di Stefano Magni



CAMPAGNA CONTRO L'ECOLOGISMO

Attualmente il peggior nemico della civiltà è da identificarsi nell'ecologismo. L'ecologismo è un'ideologia nata dalla modernità, ma mirante a scopi estremamente reazionari, antimoderni e sicuramente anti-liberali.
Mantenere pulito l'ambiente è una tendenza che è presente naturalmente in tutti gli individui: chiunque apprezza il vivere in un ambiente pulito e sano piuttosto che in mezzo a una discarica altamente inquinata. Se l'ecologismo fosse un movimento teso a raggiungere l'obiettivo di un ambiente più pulito, allora non dovrebbe nemmeno esistere come movimento: è ovvio che tutti vogliono un ambiente più pulito.
Il fatto che l'ecologismo esista come movimento e come ideologia, è motivato dal fatto che il suo obiettivo è ben diverso e ben più di ampio respiro: l'ecologismo è quell'ideologia che assume l'esistenza di diritti inviolabili della natura, partendo dal presupposto che l'opera di adattamento della natura da parte dell'uomo (effettuata per meglio vivere nell'ambiente circostante), non sia parte della natura. Di fatto l'ecologismo nega o limita fortemente la legittimità morale di qualsiasi forma di progresso umano, qualsiasi cosa che miri a trasformare l'ambiente a vantaggio delle condizioni di vita umane. Si tratta, perciò, di un'ideologia fortemente reazionaria che si concretizza, nella pratica politica, con una forte tendenza al proibizionismo in varie sue forme. Proibizione degli “eccessi” del libero commercio mondiale, per far sì che i Paesi del Terzo Mondo non godano dello sviluppo portato dall'industria e dai servizi delle multinazionali occidentali e continuino a vivere nella miseria e nell'arretratezza agricola e tribale. Proibizione della ricerca biotecnologica, per far sì che carestie, epidemie e batteri distruggano l'agricoltura e tornino a far morire la gente di fame, pur di non modificare geneticamente frutta e verdura commestibile per renderla più resistente. Proibizione di qualsiasi agente chimico che alcune statistiche, interpretate apposta in modo molto riduttivo e distorto, condannano come “inquinante”, indipendentemente dalla sua utilità per l'uomo. Proibizione dell'accesso e dello sfruttamento di alcune aree anche molto ricche di risorse, così da impedire ad interi paesi di poter vivere decentemente, per non turbare certi “ecosistemi”. Solo mettendo assieme tutte queste proibizioni (che sono le più evidenti, ma ce ne sarebbero altre), si ha uno scenario da Stato totalitario verde, in tutto e per tutto simile a uno Stato integralista islamico: antimoderno e repressivo in tutti gli aspetti della vita associata.
Non basta: l'ecologismo non si limita a difendere “diritti della natura” dall'uomo (che evidentemente, per loro, non è parte della natura). No. L'ecologismo si sta trasformando in un'ideologia completa contro il capitalismo, pronta a sostituire un marxismo ormai fuori moda e sempre meno giustificabile. Per gli ecologisti il peggior nemico è il sistema capitalista di libero mercato ed è quello che deve essere abbattuto, utilizzando i mezzi della politica. Non è un imprenditore che inquina: per l'ecologista medio è il sistema capitalista che costringe l'imprenditore a inquinare e quindi è tutto il sistema che deve essere soppresso. Politicamente: quindi con l'uso della forza. Scienziati e intellettuali di corte sono subito pronti a legittimare il nuovo sistema: l'economista ecologista Rifkin dimostra matematicamente la “fine del lavoro” causata dall'avanzamento tecnologico, anche se si dimentica di spiegare il perché della piena occupazione nei tecnologizzati Stati Uniti. La giornalista ecologista Naomi Klein ha già stilato, con “No Logo”, il nuovo Manifesto del XXI secolo per abbattere il capitalismo e la civiltà occidentale. Rovesciando il significato di diritti umani, si incomincia a coniugare ecologismo e azione politica: il diritto di un uomo a vivere senza essere aggredito da nessuno e a conservare la sua proprietà è scavalcato dal diritto di vivere in un ambiente “ecosostenibile”, che per le popolazioni sottosviluppate vuol dire continuare a vivere nella propria tribù sottosviluppata e per le popolazioni industriali vuol dire tornare a vivere nell'autarchia agricola del peggior medioevo.
Non basta ancora: l'ecologismo politically correct indossa le vesti del “salutismo”, quella brutta moda in voga fra i legislatori americani ed europei in base alla quale non solo è proibito fumare in alcuni luoghi pubblici, ma è anche proibito fumare a casa propria… per le possibili proteste del vicino. In base alla quale non si può mangiare una sana bistecca alla fiorentina perché l'osso può essere di “mucca pazza” e annientare in dieci anni il cervello di chi la mangia. E così via, con standard di sicurezza sempre più asfissianti che mirerebbero all'utopistico “rischio zero” in tutto. Il salutismo sta prendendo una piega sempre più aggressiva ed è sempre più importante per divulgare l'ecologismo alle masse. Se pochi hanno voglia di leggere i deliri di Rifkin o della Klein, molti sono convinti che la loro vita sia messa seriamente a repentaglio dai cibi transgenici o dalle mucche che mangiano farine animali. Per poi dare prontamente la colpa (abilmente veicolati dai media) al libero mercato, al sistema capitalista delle multinazionali, al cinismo degli imprenditori, ecc…
La risposta appropriata all'ecologismo deve essere sia culturale che politica. Da un punto di vista culturale si deve finalmente dire la verità sullo sviluppo industriale, ricordando come si viveva prima della rivoluzione industriale: la miseria, la ricchezza concentrata in pochissime mani di privilegiati, l'esposizione a carestie e alle epidemie, la fatica stessa di vivere senza tecnologia, senza luce artificiale, senza mezzi di trasporto a motore. Occorre incominciare a rovesciare storicamente tutti i luoghi comuni sulla rivoluzione industriale vista come l'inizio dell'alienazione e dello sfruttamento del proletariato: la rivoluzione industriale ci ha, di fatto, liberato dalla fame e dal bisogno delle cose che oggi ci appaiono più elementari. Solo la continuazione di un libero sviluppo industriale nel capitalismo può effettivamente aumentare il nostro benessere, liberare il nostro tempo e risparmiarci sempre più fatiche: basta vedere i passi avanti in questa direzione che si sono fatti nelle nazioni capitaliste in America e in Europa occidentale dal XVIII secolo ad oggi.
L'altro paradigma culturale da rovesciare è quello in base al quale il capitalismo inquina. E' vero che le emissioni sono generalmente aumentate, ma in rapporto alle nuove condizioni atmosferiche, chi contribuisce in modo drasticamente superiore all'inquinamento sono i Paesi con maggiore statalismo: il regime sovietico è risultato il peggior inquinatore del pianeta in tutto il XX secolo, il regime cinese continua ad esserlo, così come i regimi socialisti e comunisti del Terzo Mondo, soprattutto quelli ad alta densità di popolazione. Fosse per gli standard di inquinamento europei occidentali e americani, a quest'ora respireremmo un'aria molto più pulita di quella che abbiamo. La differenza è ben visibile: non si tratta di una regolamentazione migliore, si tratta di minore o maggiore libertà della popolazione. Dove maggiore libertà implica il far valere maggiormente i propri diritti da parte di tutti, anche da parte di chi l'inquinamento lo subisce. In Italia si ottiene qualcosa quando si protesta, a livello privato o comunale, contro gli scarichi tossici di un'azienda. In Cina non si può. Negli Stati Uniti e in Europa la libera ricerca industriale, privata, trova sempre soluzioni meno inquinanti. Nei regimi totalitari e autoritari extraeuropei, il burocrate di turno non si cura troppo del livello di inquinamento che produce la fabbrica assegnatagli. E' il capitalismo che preserva la natura, oltre a garantire il progresso tecnologico e culturale. Più libero è il mercato di un Paese, migliore è la manutenzione dell'ambiente di quello stesso Paese. Lo statalismo, invocato ideologicamente dagli ecologisti, non farebbe che ottenere il contrario di quello che essi stessi vogliono. Su un piano più modesto, occorre capire che lo Stato non è il miglior protettore della salute degli individui e che le statistiche in base alle quali vengono proibiti cibi, usi e sostanze inquinanti, sono statistiche che possono celare interessi particolari nella loro interpretazione: esse sono uno strumento informativo di cui si può e si deve prendere atto, ma non degli strumenti coercitivi. Il consumatore è il miglior giudice della sua salute, non altri. Sul piano pratico, dunque, non si può procedere che con un drastico smantellamento di tutte quelle norme “a tutela dell'ambiente e della salute” che non fanno che imbrigliare il dinamismo di una società. La campagna, dunque, si concretizza in una vasta sensibilizzazione culturale dell'opinione pubblica, accompagnata da una serie di campagne politiche per abrogare tutti i vincoli ecologici imposti all'industria e ai privati cittadini.

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CAMPAGNA CONTRO IL MULTICULTURALISMO

Il multiculturalismo è una parola che è sempre di più sulla bocca di tutti, ma poche volte si dice che cos'è realmente: razzismo alla rovescia o razzismo tout court.
La base filosofica del multiculturalismo è il relativismo morale, il ritenere che tutte le visioni della morale prodotte dall'uomo siano da considerarsi soggettive, relative a un particolare contesto storico e culturale e, di fatto, moralmente equivalenti. Questa visione della morale è rintracciabile sia nel nichilismo dei filosofi di sinistra (approdati alla predica del nulla dopo che le loro ideologie dogmatiche si sono disintegrate con il collasso dei regimi comunisti), sia nel comunitarismo dei filosofi di destra, in base al quale è la comunità tradizionale e le sue regole che formano interamente l'individuo, non lasciando a quest'ultimo alcuna speranza di autonomia decisionale e di indipendenza. In un'ottica relativista completa, una legge morale che sancisce la difesa dei diritti individuali e una legge morale che sancisce la superiorità assoluta dell'uomo sulla donna, o il sacrificio agli Dei del miglior maschio della tribù, sono da mettersi esattamente sullo stesso piano.
Nella pratica il multiculturalismo si concretizza con la segregazione dei gruppi etnici e culturali: fortemente compatti, chiusi al loro interno e separati dal resto della società. Non solo i gruppi si dividono in base alla loro identità etnica e religiosa, ma anche in base a nuove forme di identità “sessiste” come quella femminista e quella omosessuale: come se la donna o l'omosessuale appartenessero a un ceppo etnico, religioso, culturale, differente rispetto al resto della società in cui sono sempre vissuti.
Per chi vive all'interno di un gruppo che si è autosegregato, il destino inevitabile è quello di perdere la propria indipendenza individuale, di dover obbedire a regole dettate dal proprio gruppo e di non avere più possibilità di avere contatti con individui liberi o appartenenti ad altri gruppi. Per chi vive all'esterno di un gruppo segregato il rischio è quello di entrare in conflitto con esso, dato che il gruppo che si autosegrega si considera quasi sempre in guerra, più o meno dichiarata, con il resto della società. Per questo il multiculturalismo si può definire come una forma pura di razzismo, sostituendo interamente l'identità individuale con l'appartenenza culturale, religiosa, razziale a un gruppo considerato diverso dagli altri o anche superiore agli altri.
Finché il multiculturalismo rimane un problema culturale, pazienza. Il problema è che si sta trasformando in problema politico sempre più grave. Questo perché i gruppi etnici, religiosi e sessuali incominciano, dopo essersi identificati e organizzati, a chiedere leggi speciali e diverse per loro, sussidi e privilegi dallo Stato e poi limitazioni imposte ai gruppi considerati rivali.
L'ottenimento di leggi speciali che rispettino le tradizioni, gli usi e i costumi di un gruppo non è che la legittimazione del potere assoluto dei loro leader, se ci si pensa bene. Un imam musulmano che riesca a ottenere dallo Stato il venerdì come giorno di vacanza obbligatoria per tutti, in rispetto alla religione islamica, che riesca a farsi costruire moschee miliardarie con soldi pubblici, che riesca a convincere lo Stato a riservare reparti della sanità pubblica all'infibulazione delle ragazze della propria comunità, a far togliere i crocefissi dalle scuole in rispetto alla sensibilità della propria comunità, a riservare almeno il 30% delle assunzioni nelle aziende ad appartenenti alla religione musulmana, a fare pressione sulla politica estera cos' che questa appoggi la causa araba ovunque nel mondo e infine, magari, a ottenere la depenalizzazione dell'omicidio a danni di terzi che sono usciti dall'Islam o che sono colpevoli di bestemmia, è diventato una specie di leader di uno Stato islamico. Il suo potere sarebbe enormemente accresciuto all'interno della sua comunità, il dissenso interno alla sua comunità sarebbe annullato e non avrebbe più speranze di trovare appoggio all'esterno della stessa, dato che tutta la società esterna al gruppo risulterebbe molto più islamizzata. Faccio l'esempio di una comunità islamica, perché si tratta del caso più evidente in Italia in questo periodo, ma questo discorso vale, dal poco al tanto, per tutti i gruppi che tendono ad autosegregarsi: perché è chiaro che un gruppo che tende a isolarsi, a considerarsi come cosa a parte rispetto alla società, è mosso sempre da una certa idea sulla propria superiorità e dal poco al tanto tenderà ad imporre la propria volontà e la propria cultura su tutti gli altri. Questo non può che portare a due effetti: in caso di una società altamente multietnica può portare solo a un conflitto fra i gruppi in cerca di egemonia; in caso di società con poche etnie presenti, il rischio è quello di un dominio di un gruppo nello Stato e la costituzione di un nuovo totalitarismo.
La battaglia da condurre contro il multiculturalismo è soprattutto culturale. E' inutile e dannoso aggrapparsi alle istanze dei conservatori che difendono la religione e la tradizione cristiana. Non si tratta della difesa di un religione o di un gruppo sopra gli altri: si farebbe lo stesso errore di chi si vuole combattere, con esiti analoghi di guerra di religione e imposizione di restrizioni alla libertà di tutti. E' anche inutile e dannosa la battaglia contro l'immigrazione (soprattutto inutile, dato che è praticamente impossibile fermare i flussi migratori), dato che si sta parlando di scontri culturali e non è affatto detto che un individuo proveniente da una certa cultura voglia restarvi aggrappato in modo dogmatico o tenti di imporla ad altri.
Non si deve fare altro che predicare una nuova, vera, forma di libertà: quella dell'individuo dal suo gruppo, dalla sua famiglia, dalle convenzioni tradizionali e dal conformismo. Questa è la vera libertà, non quella che si dovrebbe realizzare con il sentirsi parte di una tribù. E' l'indipendenza dell'individuo contrapposta e irriconciliabile in nessun modo con l'indipendenza del gruppo. Per questo tutti i gruppi giovani, laici e progressisti che attualmente vedono di buon occhio o appoggiano direttamente il multiculturalismo, dovrebbero invece rigettarlo come peggior forma di reazione sociale alla libertà e abbracciare la battaglia oggettivista. In concreto una battaglia politica contro il multiculturalismo si può condurre solo chiedendo l'abolizione integrale di qualsiasi legislazione e regolamento che porti in sé riflessi di una qualsiasi discriminazione religiosa, culturale, razziale. Gli imprenditori siano liberi di assumere, accogliere, discriminare chiunque essi vogliano, senza condizionamenti legislativi. Le famiglie si costituiscano e si sciolgano a seconda delle preferenze dei loro membri costituenti, al di là di qualsiasi differenza fra coppia legale, di fatto, monogamiche, poligamiche, eterosessuale, omosessuale, single adottante o altro: non esistano regole per la famiglia che non siano decise da chi ne fa parte. Non siano più costruite chiese o templi con soldi pubblici: ogni comunità religiosa si costruisca le proprie, o si trovi a pregare in luoghi privati. E lo stesso dicasi per le scuole o per qualsiasi altra struttura pubblica.

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CAMPAGNA CONTRO L'ANTITRUST

L'antitrust è considerato da tutti come una funzione “liberale” del governo, ma spesso non ci si rende conto che si tratta di una delle più odiose e subdole forme di repressione condotte dallo Stato sulla società civile.
Non è mai stato chiarito, a livello legale, che cosa si intenda per “trust” o per “monopolio naturale” o per “concorrenza sleale” o per qualsiasi altro fenomeno imprenditoriale che le commissioni antitrust si sono incaricate di reprimere. Anzitutto per una mancata comprensione delle dinamiche del mercato. Un mercato non è che un luogo di scambio di beni, servizi, informazioni, nel quale ciascun individuo esprime le sue preferenze attraverso l'indicazione di un prezzo. Non potrà mai esistere una concorrenza perfetta, proprio perché le preferenze espresse da ciascun consumatore sono puramente soggettive e imprevedibili. Non bisogna, dunque, porsi nell'ottica di un consumatore la cui esistenza e felicità pende dalla scelta fra un browser della Microsoft e uno della Netscape per soddisfare interamente i suoi bisogni. Occorre piuttosto pensare realisticamente pensare a un individuo che in una giornata ha bisogno di scegliersi un computer, piuttosto che un paio di sci, piuttosto che una bicicletta usata, per soddisfare suoi bisogni del momento a seconda delle priorità che egli stesso assegna e della sua disponibilità di denaro. In un mercato realisticamente considerato, dunque, tutto è in competizione con tutto il resto. Concentrarsi su un'unica area di prodotti omogenei e stabilire da quell'unico settore del mercato l'esistenza di condizioni di concorrenza perfetta o imperfetta o di monopolio, è assolutamente aleatorio, proprio perché è impossibile dare anche solo una definizione di monopolio in campo economico. L'unico vero monopolio è quello della forza da parte dello Stato, o quello sostenuto dalla forza dello Stato (il monopolio pubblico): è un monopolio, perché chiunque tenti di competere in quel settore rischia un'aggressione violenta da parte di chi lo detiene in esclusiva. Quella effettuata dallo Stato è effettivamente l'unica forma di distorsione grave della concorrenza in un'economia di mercato, come ha effetti estremamente distorsivi anche l'azione dello Stato volta a ostacolare “monopoli” privati o “trust” fra imprenditori.
Da un altro punto di vista, psicologico ed emotivo, non si può che notare che l'unica vera base dell'antitrust è l'invidia, la non sopportazione della vista di un imprenditore che riesce a battere tutti i suoi concorrenti nel vendere i suoi prodotti al pubblico: un pubblico consenziente che vuole i suoi prodotti e che nel fare questo non viola nessuna regola morale, se non quella di essere migliore degli altri nel suo lavoro. Alcuni psicologi e filosofi mascherano questa invidia con deliranti teorie sul controllo mentale del consumatore, che sarebbe costretto dalla pubblicità o anche dalle condizioni di vendita a comprare da quell'imprenditore piuttosto che da un altro. Questi signori dimenticano che è il pubblico di consumatori che determina quali prodotti vendere, che un'azienda produce ciò che i consumatori vogliono, che la pubblicità è progettata su quello che il pubblico già vuole e non viceversa e che sono i consumatori che fissano il prezzo in base alla loro valutazione di quel prodotto. Dire che un imprenditore possa manipolare le menti e dominarle vuol semplicemente dire rovesciare la realtà. Punto e basta. Se (caso raro) tutti i consumatori vogliono che quel determinato bene venga venduto da qual determinato produttore, vuol dire solo che quella scelta va a vantaggio dell'unanimità dei consumatori, che è frutto di una loro libera scelta e che contribuisce al progresso e al benessere di tutti, non che ci si trova di fronte a una nuova forma di totalitarismo consumista.
L'azione per la conduzione di questa campagna deve partire soprattutto dagli istituti di economia politica. E' dalle nostre facoltà di economia e commercio e di scienze politiche che escono schiere di feroci statalisti, pronti a giustificare qualsiasi azione economica dello Stato (anche la più distruttiva) e a puntare il dito solo contro i monopolisti privati o quelli che “rischiano” di diventare tali, impossibilitati mentalmente a recepire qualsiasi teoria critichi i loro dogmi, pronti a dimostrare anche matematicamente che Bill Gates si appresta a diventare il nuovo pericoloso padrone del mondo, schiavizzando le nostre menti. Un primo passo per contrastare l'antitrust può consistere sicuramente nell'introdurre nei programmi universitari anche lo studio dell'economia marginalista della Scuola Austriaca e di Mises in particolar modo. Se non altro per far capire agli studenti che non esistono solo le teorie stataliste di Keynes contrapposte a quelle solo un po' meno stataliste dei monetaristi e permettere loro di aprirsi la mente sulla vera natura complessa del mercato.
Politicamente parlando l'azione contro l'antitrust deve essere molto più profonda rispetto alla mera abolizione delle authority attualmente operanti nel settore. Si tratta di riformare completamente l'economia dello Stato, privatizzando completamente (senza quote privilegiate di golden share) tutte le attività detenute dallo Stato, comprese quelle ritenute strategiche come l'energia, i trasporti, le infrastrutture, la scuola e la sanità. Contemporaneamente a ciò si deve procedere a un'integrale deregolamentazione del mercato, dall'abrogazione dello Statuto dei Lavoratori che regola il mercato del lavoro, a qualsiasi forma di limitazione della proprietà privata, fino a qualsiasi regola sulla concorrenza. E poi… che vinca il migliore!

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CAMPAGNA PER LA SCUOLA LIBERA

L'idea di un'istruzione pubblica e gratuita per tutti porta, da due secoli a questa parte, ad investire lo Stato di questo compito. L'idea trae la sua origine dallo slogan illuminista: “la carriera deve essere aperta ai talenti”. Sarebbe una vera perdita per tutti lo spreco di un minorenne, che avrebbe potuto essere un grande scienziato o un grande umanista e che, invece, è costretto a lavorare per i genitori nella fabbrica di famiglia. Questo, in parole povere, è il ragionamento che sta alla base di questo slogan. A un esame più attento, questa che sembra una certezza, può risultare come una semplificazione eccessiva della realtà. In primo luogo si presuppone una sostanziale differenza fra individui “minorenni” e “maggiorenni”, che è invece una distinzione puramente formale stabilita per esigenze militari: sopra una certa età si deve “servire la patria”. Per come stanno effettivamente le cose, un minorenne in età post-neonatale, quando sa camminare, parlare e formulare ragionamenti autonomi, è un individuo come gli altri. Dipende dalle proprietà e (in larga parte) dalla volontà dei genitori, finché non riesce a mettersi sulle proprie gambe con un salario autonomo: in quel momento diventerebbe maggiorenne. Quindi, se un minorenne lavora, ha maggiori probabilità di diventare maggiorenne in un periodo più breve; non si tratterebbe di sfruttamento. In seguito, un maggiorenne potrebbe benissimo frequentare la scuola che in precedenza non ha avuto il tempo di frequentare. Chiunque ha bisogno di apprendere, ma non si può stabilire a priori che cosa debba essere appreso. Un individuo può imparare di più lavorando che non frequentando una scuola, può essere maggiormente istruito dalla retorica “scuola della vita”, tanto citata nei film americani, che non sui banchi di un'università.
Se venisse eliminato l'obbligo della frequenza scolastica, la gran maggioranza della gente sarebbe ancora convinta dell'enorme utilità dell'istruzione per l'avvenire delle nuove generazioni. Anche in mancanza di un obbligo legale dell'istruzione pubblica, il tasso di frequenza delle scuole non potrebbe variare sensibilmente. E' una ragione sufficiente per avere un'istruzione gestita dallo Stato? No. Un'istruzione gestita dallo Stato deve essere pianificata da politici, i quali possono formulare (e già formulano) dei programmi di educazione impostati sui loro ideali. Un'istruzione pubblica, come quella che è generalmente offerta in Europa ai giorni nostri, non è che un'istruzione altamente ideologica che rasenta l'indottrinamento di massa. Una prova? Che bisogno c'era, nel 1997, di trasformare un dibattito storiografico, come quello sul significato politico della Guerra Civile Spagnola, in una vera e propria guerra civile di storici? La ferocia con cui si dibattono tutti i grandi temi politici e storici, nel nostro Paese, come in Francia e in Germania, è data dal fatto che l'istruzione è monopolio di Stato e che chi se ne impossessa può imporre i suoi valori su tutti. L'unico antidoto a rischi di questo genere è far sì che le scuole sorgano dal basso, invece che essere imposte dall'alto: privatizzare l'istruzione. Parliamo, ora, in termini di efficienza del servizio. L'istruzione pubblica, così come oggi si presenta, è un'azienda produttrice di un servizio che agisce in regime di monopolio di Stato. Anche se esistono altre scuole non statali, quelle di Stato sono enormemente avvantaggiate, dato che usufruiscono di finanziamenti pubblici. Una concorrente privata dovrebbe essere non solo migliore, ma talmente superiore da far rinunciare alla gratuità dell'istruzione pubblica. Come in ogni regime di monopolio di Stato, la scuola resta vittima dell'inefficienza del personale (la cui selezione diventa arbitraria) e della difficoltà di gestione di un gran numero di strutture da parte di un solo ente pubblico. Scuole fatiscenti dove insegnano professori impreparati (ma altamente ideologizzati!) costituiscono lo scenario abituale della pubblica istruzione italiana. Con un sistema di scuole interamente privatistico, la competizione fra scuole permetterebbe una miglior selezione di professori e metodi di insegnamento. Il settore pubblico manterrebbe, comunque, un suo importante ruolo: finanziare non le scuole, ma l'istruzione. Come fare a finanziare l'istruzione in sé? L'idea migliore è quella del “bonus”, un finanziamento uguale per tutti gli studenti (calcolato in base alla spesa pro-capite che lo Stato sosterrebbe nelle strutture pubbliche) e impiegabile, a scelta, in una scuola pubblica, privata o religiosa. Questo è l'unico modo per garantire a tutti un'istruzione pluralista, tollerante ed efficiente. L'obiezione che un sistema di questo genere penalizzerebbe i più poveri è falsa: i meno abbienti si avvantaggerebbero, dato che il bonus permetterebbe loro di scegliersi una scuola efficiente, invece che ripiegare su una fatiscente scuola pubblica.

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CAMPAGNA CONTRO LA COSCRIZIONE

La coscrizione obbligatoria è la singola maggiore violazione della libertà individuale a cui assistiamo nei nostri paesi. Essa rappresenta l'affermazione del principio dello statalismo. L'individuo appartiene al governo che può farne quanto meglio crede ed addirittura può decidere di obbligarlo a sacrificare la vita. La leva militare quindi è apertamente in conflitto con il diritto che ogni persona ha di perseguire i propri valori e la propria felicità. La prestazione militare deve essere volontaria e l'esercito di volontari è l'unica soluzione di difesa morale che un paese possa adottare. La condanna nei confronti del servizio militare obbligatorio si estende anche al servizio civile obbligatorio, che si basa sui medesimi strumenti di coercizione e si fonda sulla medesima filosofia di fondo, cioè che l'individuo ha il dovere di sacrificare la propria esistenza per il bene della collettività. Noi dobbiamo insegnare ai nostri figli ad essere liberi ed ad affermare la propria intelligenza e la propria capacità creativa, non ad essere dei sudditi o degli oggetti sacrificali.

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CAMPAGNA PER L'ABORTO

L'aborto è un diritto che è stato recentemente acquisito dalle donne italiane, in modo molto limitato e sempre messo in discussione dalle pressioni del Vaticano e dai partiti di ispirazione cattolica. Per questo una campagna per la sua difesa e la sua piena applicazione è sempre necessaria.
La difesa della vita dell'embrione si basa sulla presunzione che l'embrione debba godere degli stessi diritti di cui gode qualsiasi individuo e che un aborto sia, per questo, comparabile con un omicidio. Questa argomentazione non ha senso, se non si legge in chiave puramente religiosa. Un uomo vivo ha diritto di continuare a vivere e quindi possiede dei diritti che non possono essere violati da altri individui. Ha diritto di essere protetto dalla violenza altrui. Un embrione è un individuo potenziale, potenzialmente vivo, ma non ancora vivo. Definire un embrione un individuo potenziale, partendo dal presupposto che sicuramente lo sarà, sarebbe come considerare un uomo un potenziale cadavere. E magari agire di conseguenza! Un embrione nel feto materno non è un individuo e non ha diritti. Questo è particolarmente nel suo primo trimestre di vita, quando non ha neppure acquisito la forma di un essere umano. Ma anche dopo che è cresciuto di qualche mese, anche fino al nono mese, l'embrione continua a non essere un individuo. Un individuo è fisicamente indipendente, autonomo almeno nelle sue funzioni di base. Un embrione non lo è mai, fino a che non nasce fisicamente è totalmente dipendente dalla madre, è parte integrante del suo corpo e come tale non ha diritti, come non ha diritti un braccio o una mano, o una chioma di capelli. Come un uomo ha il pieno diritto di sbarazzarsi di una propria mano o dei propri capelli, così una donna ha il pieno diritto di sbarazzarsi dell'embrione che ha in corpo, in qualsiasi momento ella lo desideri. Non importa, da questo punto di vista, che la ragione per cui una donna abortisce, sia da considerarsi morale o meno. Una decisione di abortire è sempre molto dura e sarà pagata psicologicamente da chi la intraprende, sia che venga intrapresa per cancellare il frutto di una violenza, sia per non far nascere un mostro, sia per cancellare le prove di un flirt poco prudente. Il motivo esiste solo ed esclusivamente nella mente e nella coscienza della donna che compie questa scelta ed è destinato a rimanervi confinato. C'è anche da dire che, allevare un figlio, comporta una grande responsabilità, in fatto di tempo e di risorse economiche; molte coppie non possono letteralmente permettersi la scelta di allevare un figlio o altri figli rispetto a quelli che si hanno già. E' pura irresponsabilità costringere alla miseria una famiglia per difendere la vita di un individuo potenziale, o peggio far pesare la stessa famiglia su tutta la società con sussidi ad essa elargiti per via statale.
Per questo, sul piano politico, ci si deve battere per difendere l'attuale legislazione esistente, la legge 194, oltre che per estenderla: rendere possibile l'aborto anche nelle cliniche private ed estendere la possibilità di abortire a tutti i nove mesi di gravidanza. In considerazione del fatto che l'aborto non è un individuo, si deve poter condurre qualsiasi tipo di esperimento che faccia uso dell'embrione, come attualmente si fa già con gli animali. In particolar modo è importante rendere legale la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali, in grado di far compiere alla medicina notevoli passi avanti nella cura delle malattie neurologiche, anche quelle più gravi e attualmente incurabili.

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CAMPAGNA PER L'EUTANASIA

Se un individuo ha diritto a vivere, egli ha anche diritto a scegliere di morire. E' la scelta fondamentale dell'esistenza, che appartiene esclusivamente all'individuo e non ad altri.
Nel caso le condizioni di vita siano diventate particolarmente gravi e dolorose (anche nel senso letterale del termine) a causa di una malattia che, ragionevolmente, non lascia speranze di sopravvivenza, la scelta di interrompere la propria vita in anticipo diventa pienamente morale, oltre che comprensibile. E' vero che qualcuno può anche decidere di continuare a resistere al dolore, nella speranza di poter guarire, ma si tratta di una scelta veramente eroica che solo pochi possono permettersi di intraprendere. Istintivamente il corpo mira ad evitare la sofferenza, per cui, prima di tutto, devono essere rese legali tutte quelle forme di terapia del dolore che rendano più sopportabile la propria condizione, anche quelle che annebbiano il cervello al punto di annullare la personalità di chi le assume. Una morte dolce e incosciente può essere migliore rispetto a una morte cosciente, ma dolorosissima e il fatto che sia scelta da un malato terminale è perfettamente legittimo, dal suo punto di vista.
Nel caso il malato terminale scelga direttamente di suicidarsi, ma non sia fisicamente più in grado di farlo, può essere assistito nel suo gesto. La decisione rimane pur sempre una decisione di chi ha deciso di suicidarsi e di nessun altro. Chi assiste a un suicidio, non fa che compiere un atto che asseconda la volontà legittima altrui.
Una campagna attiva per l'eutanasia deve essere anzitutto contrastare la volontà religiosa di impossessarsi della legge civile. Un religioso può anche credere che il suo corpo appartenga a Dio e non a sé stesso e può anche, per questo, decidere di morire con un'agonia lunga e dolorosa. Tuttavia, non ha il diritto di impedire ad altri di scegliere di terminare prima le proprie sofferenze, invocando, magari, speranze ben lontane dal realizzarsi. Bisogna sperare solo nella completa secolarizzazione della società, per liberare il diritto di eutanasia da questi vincoli religiosi.

Torna all'indice delle campagne CAMPAGNA CONTRO IL TERZOMONDISMO

Il terzomondismo è una dottrina politica che si fonda su un falso senso di colpa. Ci si accusa, in quanto occidentali, di aver ridotto in miseria i due terzi del mondo, di aver sterminato grandi civiltà extraeuropee e di continuare a farlo non più con i nostri eserciti, ma con le nostre multinazionali.
Nato dalla propaganda sovietica, che ne faceva la bandiera sotto cui giustificare l'imperialismo di Mosca in Africa, Asia e America Latina, il terzomondismo si fonda esclusivamente sulla disinformazione storica e giornalistica, individua falsi problemi, svia da quelli veri e impone politiche costose e inutili. I terzomondisti, di fatto, cavalcando il senso di colpa che la loro storiografia e le loro menzogne sull'attualità sono in grado di generare, inducono a pagare risarcimenti enormi per danni che non sono mai stati inflitti. Il primo colpo inflitto dal terzomondismo alle democrazie occidentali nel periodo post-coloniale, è stato quello di far passare come legittimo il sequestro, sui due piedi e senza alcun compenso, delle multinazionali petrolifere (che operavano da decenni su giacimenti che esse stesse avevano scoperto) da parte dei regimi nazionalisti arabi. Come anche il sequestro del Canale di Suez (scavato e rimasto in proprietà della Compagnia del Canale anglo-francese) da parte di Nasser. Tali nazionalizzazioni forzate sono state giustificate come compenso a un leggendario “sfruttamento” del capitalismo occidentale, anche in quei Paesi che non erano mai stati colonie (come nel caso dell'Iran). L'apice del terzomondismo è stato finora raggiunto alla conferenza ONU di Durban. In Durban si è arrivati a condannare esplicitamente per il loro passato tutta la civiltà occidentale, a chiedere il risarcimento in denaro per il colonialismo e la tratta degli schiavi (che non era gestita dagli occidentali, ma dagli Arabi!) e si è arrivati a condannare per “razzismo” una nazione occidentale come Israele che non fa che lottare per mantenere la sua indipendenza dalla continua aggressione araba. Si tratta semplicemente dell'applicazione ideologica del marxismo agli eventi del mondo, semplicemente con l'investitura del ruolo di borghesia sfruttatrice all'Occidente e di proletariato sfruttato ai Paesi in via di sviluppo. Niente altro. Dietro questa maschera ideologica non si nasconde altro che il volto del totalitarismo o dell'autoritarismo tribale che caratterizza quasi tutti i regimi islamici e africani in via di sviluppo. Le loro popolazioni muoiono di fame a causa delle loro politiche industriali e agricole importate dall'Unione Sovietica, loro grande protettrice e dominatrice, ma la colpa viene deviata sul capitalismo dell'occidente. Le uniche strutture in grado di portare un minimo di prosperità e sicurezza in quei luoghi sono le multinazionali, ma sono le stesse ad essere indicate dai regimi locali (quelli che non se ne disfano prima con la forza del loro esercito) come causa di tutti i loro mali e immolati come capri espiatori sugli altari dell'emancipazione. Questi regimi criminali, sempre pronti a scaricare tutte le loro colpe sull'Occidente, sono i primi ad invocare l'aiuto militare e umanitario degli eserciti occidentali quando c'è un massacro da loro stessi causato o facilitato (come il genocidio dei Tutsi in Ruanda) o quando c'è una carestia da loro stessi indotta (come la carestia etiope sotto Menghistu). Ma poi sono anche i primi a condannare l'intervento stesso come “nuovo atto di imperialismo” solo pochi anni dopo, in una continua opera di rilancio del ricatto morale.
A quanto pare questi dittatori da operetta, militarmente nulli, comunicativamente goffi, sono incredibilmente ascoltati dalle nostre parti. Le concessioni strappate ai nostri governi dai terzomondisti sono ormai divenute la norma delle politiche estere di quasi tutti gli Stati occidentali: chi non mette in evidenza nella sua agenda l'aiuto ai Paesi in via di sviluppo? Quanti interventi militari di carattere puramente umanitario sono stati condotti dagli Stati Uniti e dagli eserciti europei a partire dalla campagna somala? Quanti osservatori internazionali sono in giro nel mondo, a migliaia di chilometri da casa loro? Quanti miliardi sono stati spesi in derrate alimentari e tecnologia da inviare… ai dittatori locali e alle loro gang?
Ma il peggio è osservare come il terzomondismo sia penetrato nell'opinione pubblica, al punto di generare enormi e violenti movimenti di massa (come quello dei No Global) pronti a scagliarsi contro i governi occidentali e contro il capitalismo perché non si fa abbastanza per il Terzo Mondo. Perché, schiacciati dai sensi di colpa, noi dovremmo, secondo costoro, ridistribuire l'intera nostra ricchezza a tutto il mondo povero, al mondo dove “milioni di bambini muoiono a causa delle multinazionali” o del latte in polvere che la Nestlé concede generosamente loro. O da interventi armati che i locali stessi invocano. Il tutto in una logica che annulli l'azione del mercato, in una logica di aiuti da Stato ricco a Stato povero, di appropriazione indebita di risorse da parte degli Stati poveri. L'azione di una campagna contro il terzomondismo deve essere profonda e molto attiva nel campo della controinformazione. Sul piano culturale è utilissimo rilanciare l'orgoglio dell'occidentalismo, non tanto inteso come orgoglio di razza, quanto di civiltà e sistema politico-sociale fondato sulla libertà e sul capitalismo. Bisogna letteralmente rovesciare il paradigma culturale in base al quale l'Occidente domina e sfrutta, mostrando semplicemente la realtà dei fatti, sia storici che attuali: il colonialismo è, sì, discutibile, ma i colonialisti occidentali (soprattutto gli Inglesi) hanno liberato le popolazioni locali da tirannidi molto peggiori rispetto ai governi instaurati dagli Europei. I coloni europei hanno creato dal nulla realtà economiche prospere che erano fino a quel momento inesistenti: hanno coltivato terreni che erano incolti, trapiantato industrie e nuova tecnologia e hanno contribuito all'alfabetizzazione delle popolazioni locali. Il colonialismo ha portato solo sviluppo, sotto tutti i punti di vista, proprio in forza della sua opera di occidentalizzazione. Ovunque, in Africa e in Asia, chi ha vissuto sotto i coloni europei e poi sotto i regimi nazionalisti indipendenti, può testimoniare come si vivesse molto meglio prima dell'indipendenza: maggior garanzia dei diritti, maggior benessere economico, maggiore libertà individuale, maggior avanzamento tecnologico, maggior diffusione culturale. Tuttora, le nazioni extraeuropee che presentano un maggior tasso di libertà individuale, vivacità culturale e prosperità economica, sono quelle nazioni che hanno mantenuto o adottato sistemi politici ed economici dell'Occidente: Turchia, Sud Africa, India, Corea del Sud, Taiwan. La colpa delle terribili immagini che ci arrivano dall'Africa e dall'Asia non è degli occidentali, ma solo dei regimi locali e solo di quei regimi locali che hanno fatto piazza pulita delle istituzioni occidentali.
L'azione pratica di una campagna contro il terzomondismo è molto più difficile. Si tratta di persuadere il proprio ministero degli esteri a non elargire più un solo soldo a favore di un Paese in via di sviluppo; ad abrogare tutti quei finanziamenti pubblici che vanno a vantaggio di Organizzazioni Non Governative che sviluppano progetti negli stessi Paesi e che possono (e devono) continuare a farlo con mezzi esclusivamente loro; a non intervenire militarmente per scopi umanitari e a non sacrificare vite per cause lontane e il più delle volte inutili. Un vero aiuto al Terzo Mondo non lo si può dare aiutando le dittature locali, tantomeno facendo la carità alla popolazione locale (e creando una nuova classe di parassiti aggrappati agli aiuti occidentali), ma aprendo le frontiere al libero scambio di merci, persone e capitali. Solo così si può dare l'opportunità ai mercati locali africani e asiatici di arrivare anche da noi, di rendersi competitivi e di svilupparsi. Solo aprendo completamente le frontiere al mercato extraoccidentale (cosa che soprattutto i Paesi del Terzo Mondo chiedono, contrariamente alle utopie dei No Global e alla chiusura delle cancellerie occidentali) si può permettere alle società dell'Africa e dell'Asia di aprirsi allo sviluppo e alla libertà, di seguire l'esempio che le società occidentali possono fornirgli con tre secoli di sviluppo industriale alle nostre spalle.

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CAMPAGNA PER LO SCUDO STELLARE

Lo scudo stellare è la campagna di politica estera più ovvia e nello stesso tempo più contestata degli ultimi vent'anni. Lo scudo stellare consiste in un sistema di satelliti e basi lanciamissili con base a terra e in mare, in grado di compromettere seriamente un attacco missilistico nucleare. E' ovvio che si debba costruirlo, perché il primo dovere di uno Stato è quello di difendere i suoi cittadini e poi i cittadini dei suoi alleati. Contestato, perché tale difesa potrebbe offendere i potenziali aggressori, prima i Sovietici e adesso Russi e Cinesi.
Contro lo scudo stellare, al di là della buona fede sovietica nel volere un nemico disarmato, sono sorte una serie di dottrine strategiche negli Stati Uniti stessi e soprattutto in Europa, quando quest'ultima, essendo sprovvista quasi del tutto di una difesa convenzionale e nucleare propria, dovrebbe semmai accogliere questo ombrello anti-nucleare come manna dal cielo. Negli Stati Uniti, le obiezioni sono ai limiti della comprensione. Si dice che uno scudo stellare renderebbe il suolo statunitense immune ad attacchi nucleari e questo potrebbe spingere i discendenti dei Sovietici a preoccuparsi nel constatare la loro inferiorità tecnologica, fino a spingerli a una nuova corsa agli armamenti. In primo luogo è in cattiva fede la premessa stessa di questo ragionamento: cioè il fatto che i Russi e i Cinesi debbano per forza mantenere i loro missili puntati sugli Stati Uniti e l'Europa. Il problema è che siano esistite delle potenze rivoluzionarie aggressive e nemiche della coalizione occidentali fino al punto di prepararne la devastazione nucleare. Una volta che la loro sfida è stata lanciata, una volta che non hanno condiviso la scelta statunitense di erigere un ordine pacifico multilaterale in cui solo la potenza americana sarebbe stata detentrice dell'”arma totale” e una volta che hanno voluto portare avanti la loro politica rivoluzionaria ed espansionista anche con l'aiuto di un loro deterrente nucleare, il problema per gli Occidentali è diventato il come difendersi da essi, come difendersi dall'URSS, dalla Cina popolare e dalle loro colonie. E' un problema concreto che dura tuttora, dal momento che la Cina è sempre lì e la Russia, lungi dal riformarsi e passare nel campo occidentale, si presenta come la discendente diretta dell'impero sovietico, si atteggia sempre a rivale delle democrazie occidentali e soprattutto continua a tenere i suoi missili puntati contro di noi. A maggior dimostrazione di questa, che può apparire assurda, vi è proprio l'atteggiamento di offesa e protesta diplomatica della Russia in risposta all'intenzione americana di costruirsi una difesa affidabile contro le armi nucleari: se una difesa da fastidio, vuol dire che c'è un'intenzione di offendere. E in questo caso anche con mezzi nucleari. Ad avere problemi, a questo punto, sono i Russi, non dovrebbero porsi problemi gli Americani. L'obiezione strategica americana che va per la maggiore è che gli Stati Uniti, costruendosi uno scudo stellare, possano fare quello che vogliono, anche con la minaccia di usare le armi nucleari, a questo punto senza tenere conto di un'eventuale risposta nucleare. Ma questa ambizione è perfettamente legittima! Legittima per un qualsiasi Stato che ambisce a proteggere le vite dei propri cittadini. Uno Stato deve prima di tutto difendere sé stesso e i propri interessi, meglio se è in grado di farlo senza ricorrere direttamente alla violenza delle armi, ma solo ricorrendo al deterrente della sua potenza militare. Invece di protestare, i Russi costruiscano un loro sistema anti-missile, così da rendere meno vulnerabile il loro cielo dagli eventuali ICBM nemici. Sarebbe meglio per tutti: concentrerebbero le loro risorse militari nella costruzione di un sistema difensivo, invece che investire sul loro progetto stealth e su altri programmi convenzionali offensivi. Lo stesso dicasi per la Cina.
Altra obiezione che viene mossa sia in America che in Europa, consiste nel sostenere che, una volta dotati di uno scudo stellare, gli Americani si rintanerebbero all'interno della loro nuova fortezza e non si occuperebbero più dell'opera di democratizzazione del mondo, né degli interessi dei loro alleati. In questo caso si tratterebbe solo di una questione di priorità: proteggere gli interessi dei propri cittadini, dei cittadini degli alleati o dei cittadini di future democrazie? Di sicuro, l'interesse prioritario rimane quello di difendere i propri cittadini, poi di difendere i cittadini degli alleati e poi tutto il resto. E' normale e moralmente accettabile che sia così. Oltre a tutto gli sforzi di democratizzazione della precedente amministrazione democratica americana, hanno prodotto ben pochi risultati: non essendoci alcuna potenza in grado di imporre la propria volontà, il programma di espansione della democrazia americano è dovuto passare più volte sotto il giogo dell'avvallo diplomatico europeo e russo e lì è stato più volte mutilato e distorto. Quindi meglio essere, prima di tutto, sicuri in casa propria e poi, una volta accumulata una forza di dissuasione veramente notevole, agire anche fuori dai propri interessi immediati, ma in modo unilaterale e senza compromessi perdenti.
Altra obiezione, questa volta puramente europea (e francese in particolare) consiste nel mostrare la paura di un predominio militare totale americano. La risposta è molto semplice: l'Unione Europea non ha la forza per costruirsi un proprio scudo stellare. Ha la forza di partecipare attivamente al programma americano, o di supportare un analogo programma russo. Qui si tratta di una scelta di campo: scegliere di rimanere protetti (pur nell'inferiorità) da un alleato che ci ha liberato dal giogo nazista, ci ha restituito la libertà e ci ha protetto militarmente per mezzo secolo dall'aggressione comunista; oppure scegliere di lanciarsi in una rischiosa avventura eurasiatica, cercando di controllare una Russia che non promette nulla di buono, che di sicuro stenta ad accettare anche solo le basi costituzionali e di comportamento diplomatico di una normale democrazia liberale europea e che non si sa ancora bene se costituirà un'opportunità o un pericolo per l'Europa. La scelta mi sembra facile. Se ci teniamo alla difesa dei nostri interessi vitali, la vita stessa dei cittadini europei, la scelta non può che ricadere sulla partecipazione attiva al progetto di scudo stellare statunitense. Anche questa campagna, che può apparire molto tecnica, necessita di una sua preparazione culturale. Il problema è essenzialmente morale: capire che il primo dovere di uno Stato nella politica estera è quello di proteggere la vita e la libertà dei propri cittadini, non quello di cercare compromessi con il nemico. Questa è una cosa che in Italia è molto difficile da capire: in Italia, fin dal XV secolo si preferisce perdere la libertà per evitare danni. Dall'epoca delle invasioni imperiali asburgiche e francesi, fino all'attuale politica italiana sul terrorismo, l'Italia si è sempre fatta penetrare volentieri dal nemico pur di non subire gli inevitabili sacrifici di un conflitto, anche se questo conflitto non è voluto dall'Italia. La storia recente dell'Italia nella Guerra Fredda è un continuo ripetersi di soluzioni di compromesso con l'URSS e con i suoi alleati nel Medio Oriente e in Africa, una continua serie di doppi giochi volti a ottenere subito piccoli vantaggi e a lasciare perdere la sicurezza dell'Italia. Il massimo lo abbiamo raggiunto quando la Libia ha tentato di bombardare l'isola di Lampedusa e noi non abbiamo risposto: perché erano in corso trattative con Gheddafi. Nessun accordo energetico è in grado di sorpassare per importanza la sicurezza del proprio Paese, ma evidentemente in Italia non la si pensa in questo modo, anche perché ci si vanta ancora di quel gesto e si risponde ancora con uno stizzito “non capisci niente” a chi osa obiettare. Come ci si continua a vantare e si continua a non accettare obiezioni alla decisione, nel 1984, in piena fase dura della Guerra Fredda, di stipulare un accordo energetico con l'Unione Sovietica: con una potenza nemica che manteneva i suoi missili puntati contro le città italiane e poteva lanciarli in qualsiasi momento. L'Italia è sempre stata e rimane tuttora il miglior amico del nemico dichiarato, tanto che per “interesse nazionale” si intende ormai l'arte stessa del compromesso, della trattativa con il nemico dichiarato, dell'inganno nei confronti dell'alleato che ci protegge. Se si riprendesse a ragionare in termini più lineari, cioè “il primo dovere è la difesa”, si giungerebbe facilmente alla conclusione che, non essendo in grado di fornirci da soli una difesa anti-nucleare, dobbiamo accettare quella dell'alleato che finora si è mostrato più affidabile e che soprattutto è in grado di fornircela. Niente altro.
C'è una seconda barriera culturale: quella in base alla quale gli Stati Uniti e la NATO sono visti storicamente come gli aggressori e l'Unione Sovietica come la parte lesa. Questo modo di interpretare la storia, che purtroppo va molto di moda fra i nostri professori, non è che il frutto di una sapiente disinformazione condotta dai Sovietici e dai loro compagni di strada europei in mezzo secolo di confronto armato e attualmente fornisce la base a tutti coloro che vogliono vedere l'attuale situazione internazionale come l'espansione dell'imperialismo americano senza più ostacoli. Non serve esaminare una quantità immensa di documenti storici autentici, per constatare che, dal 1917, la Russia sovietica non ha fatto altro che tentare di esportare all'estero la rivoluzione bolscevica con la forza delle armi. Basta fare un semplice confronto della potenza militare offensiva delle due superpotenze per capire quanto l'URSS fosse immensamente più potente e preparata a una guerra offensiva globale, contenuta solo dall'esile linea dei piccoli eserciti convenzionali NATO e soprattutto dall'altrettanto esile linea dell'eventualità di una rappresaglia nucleare americana. E soprattutto basta leggere le dichiarazioni ufficiali di tutti i leader sovietici, da Lenin a Gorbacev, per rendersi conto delle reali intenzioni offensive sovietiche. Oggi ci troviamo a che fare con i discendenti, non pentiti, di questi eterni aggressori e con una Cina che non ha mai rinnegato le sue dottrine apocalittiche di dominio del mondo: basta per chiedere una difesa contro i loro missili nucleari?

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CAMPAGNA PER IL BOICOTTAGGIO DEI REGIMI TOTALITARI

I regimi totalitari, cioè quei regimi caratterizzati dalla dittatura di un partito unico, dal controllo statale dell'economia, dall'eliminazione delle garanzie giuridiche e dalla soppressione di qualsiasi forma di libertà di espressione, costituiscono la peggior aberrazione del XX secolo. Si tratta di un ritorno di massa al peggio del tribalismo e dell'assolutismo della storia umana, uniti all'uso delle più raffinate tecniche sociali repressive e tecnologie di distruzione di massa. Nel XX secolo i regimi totalitari hanno causato la morte di 180 milioni di loro cittadini a sangue freddo nei lager, nei gulag, nei laogai, nei campi di rieducazione o in asfittiche carceri tropicali. Non solo essi sono fortemente mortali per i loro stessi sudditi: essi sono estremamente pericolosi per tutti i loro vicini. Uno Stato totalitario non è una forma di Stato come un'altra: si tratta di una vera e propria rivoluzione universale al potere in un solo luogo Paese, la cui aspirazione a completarsi in tutto il mondo è insaziabile. Così è stato per l'Unione Sovietica, così è stato per la Germania nazista e così è tuttora con la Cina comunista. Un regime totalitario non si limita mai a regnare sul proprio territorio e la sua esistenza dipende dalla sua vittoria internazionale: la sua economia pianificata, annullando il sistema dei prezzi con cui i consumatori indicano le loro preferenze e quindi non soddisfacendo in modo cronico la popolazione, è destinata al fallimento. Chiunque, vedendo l'esempio di economie di mercato funzionanti, diverrebbe un dissidente e alla lunga è questo che ha condotto al collasso del blocco sovietico. La lunga durata dei Paesi comunisti è spiegabile solo con il loro parassitismo esercitato sui mercati occidentali: essi hanno importato dal loro odiato occidente, idee, risorse, tecnologie, perfino derrate alimentari. Tutto ciò che serviva ad accontentare di quel tanto che bastava la loro popolazione e permettere al regime di respirare. Nello stesso tempo, la dipendenza economica dall'Occidente non impediva ai leader sovietici di continuare a pianificare l'invasione dell'Europa, la cui conquista, o anche solo la sua trasformazione in un vicino mansueto e controllabile, avrebbe costituito una grande riserva di ossigeno per il regime di Mosca. Il ruolo sovietico in settant'anni della sua esistenza è quello di un parassita che ha risucchiato nostre risorse per diventare abbastanza grande da divorarci. Il modello sovietico si può applicare anche a tutti gli altri regimi totalitari, compresi quelli tuttora esistenti: Libia, Sudan, Libano, Siria, Iraq, Iran, Laos, Vietnam, Cina, Corea del Nord, Cuba. E il fu regime talebano in Afghanistan. Sono regimi totalitari tenuti in piedi solo dall'importazione parassitaria di risorse dall'Europa e dagli Stati Uniti e che nello stesso tempo ci dichiarano continuamente tutta la loro ostilità nei nostri confronti. E tengono pronte le loro armi più affilate contro di noi.
Si tratta di una situazione assurda, che necessita di una risposta immediata: il boicottaggio, l'embargo totale a questi Paesi. Cosa che gli Stati Uniti stanno già facendo con la Libia, con l'Iraq e con Cuba, senza grandi risultati a causa delle continue violazioni dell'embargo stesso, da parte di tutti gli altri Paesi che non siano gli Stati Uniti.
Per convincere il proprio ministero degli esteri a intraprendere una politica di embargo totale nei confronti di un regime totalitario, occorre superare tre forti obiezioni mosse a livello di opinione pubblica. La prima consiste nell'opporsi a qualsiasi restrizione del commercio e del diritto di proprietà. Moralmente, la proibizione del commercio con un dittatore totalitario (che alla fine è l'unico beneficiario dello scambio) non viola i diritti di nessuno. Il diritto a possedere o vendere una pistola, per esempio, non implica il diritto a venderla a un serial killer, proprio mentre questo sta compiendo una strage e gli si è inceppata la sua pistola. Così anche il diritto a vendere beni e servizi, non implica il diritto a fornire direttamente appoggio tecnologico e materiale a un dittatore serial killer, potenzialmente pericoloso anche per la vita dello stesso venditore. Questa non si chiamerebbe più vendita, ma complicità in omicidio di massa.
La seconda obiezione consiste nel vedere nel mercato una forma di riformismo del regime dal basso, cosa che prima o poi sarebbe destinata ad erodere il regime stesso. E' questa la politica ufficialmente seguita dagli Stati Uniti per la Cina e dall'Unione Europea per Cuba e per i totalitarismi mediorientali. E' un'idea sbagliata per un semplice motivo: in nessun regime totalitario esiste una qualsiasi forma, anche limitata, di mercato. L'economia di questi Paesi è ancora interamente controllata dal partito-Stato. Semplicemente questi dittatori moderni sono stati abili nell'aprire la loro economia (di partito) al commercio con l'estero, simulando le condizioni di un mercato vero, così come aveva fatto Lenin negli anni '20 con la Nuova Politica Economica. In questo modo i regimi totalitari possono far star meglio le loro popolazioni, apparire più affidabili agli occhi delle cancellerie occidentali, placare gli animi dei loro dissidenti interni e proseguire nella loro opera di repressione all'interno e di espansione all'estero. Gli unici Stati totalitari che attualmente si possono considerare abbastanza innocui, attualmente, sono quelli che subiscono maggiormente gli effetti degli embarghi USA: Cuba, Libia e Iraq. Gli altri, soprattutto la Cina e l'Iran, rimangono pericolosissimi.
Altra obiezione, la preferita dei No Global, è che “i bambini irakeni muoiono a migliaia” per l'embargo USA. Si protesta, insomma, perché si limiterebbe il diritto al commercio delle popolazioni locali, cosa che le costringe alla fame. Sul piano strettamente morale, l'obiezione è sbagliata: chiunque ha diritto a vendere e a comprare qualsiasi bene o servizio da un altro individuo consenziente, ma nessuno ha il diritto di trovare per forza un altro individuo che scambi con lui. La restrizione al commercio si ha nei Paesi che aderiscono all'embargo, non nei Paesi che lo subiscono, dove si resta perfettamente liberi di commerciare con chiunque non abbia aderito all'embargo. La vera scelta dei sudditi/schiavi di un regime totalitario, circondato da Stati che non vogliono più avere a che fare con il loro padrone, è quella di continuare ad accettare umilmente la loro schiavitù o di liberarsi. O per lo meno, di fare di tutto per liberarsi, chiedendo magari anche una mano dall'estero. In Italia abbiamo subìto le sanzioni e poi i bombardamenti a tappeto, a causa della dittatura di Mussolini, eppure abbiamo capito che il vero nemico era lui e non le sanzioni e poi le bombe degli Anglo-Americani. E nel 1943 gli Italiani si sono orgogliosamente ribellati alla dittatura di Mussolini, non hanno continuato a combattere una guerra assurda contro i liberatori anglo-americani. Se i Cubani o gli Irakeni hanno scelto diversamente e continuano a combattere contro gli Americani, si tratta di una loro libera scelta di cui devono subire tutte le conseguenze.
Per boicottare un regime totalitario, non occorre aspettare che il proprio ministero degli esteri aderisca ufficialmente all'embargo contro di esso. Qualsiasi libero imprenditore può incominciare da subito a smettere di fornire beni e servizi a quei regimi e investirvi capitali. E' anche una scelta ragionevole: si tratta dell'investimento più rischioso che un imprenditore possa fare.

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CAMPAGNA CONTRO IL TERRORISMO

La campagna contro il terrorismo internazionale è diventata estremamente urgente e attuale dopo gli attentati dell'11 settembre. Tuttavia è da dire che il movimento oggettivista è attivo in questo senso già dai primi anni '90, da quando la fine della Guerra Fredda lasciava presagire benissimo l'evoluzione del pericoloso fenomeno internazionale. Naturalmente, oggi, si tratta della campagna principale del piccolo movimento internazionale oggettivista.
I terroristi non sono dei pazzi visionari che agiscono individualmente, non sono il prodotto di un fenomeno di impazzimento sociale, né il prodotto del più generico “disagio sociale” o di condizioni economiche particolarmente disperate. I terroristi sono dei guerriglieri e, nel caso siano dei terroristi suicidi, sono essi stessi da considerarsi un sistema d'arma altamente sofisticato. Che siano soldati o armi intelligenti, i terroristi sono sempre pilotati da qualcuno che da loro ordini e dice loro che cosa fare. Gli obiettivi e gli interessi da perseguire attraverso il loro uso sono meramente politici, strategici e ideologici. A partire dalla Guerra Fredda, un terrorismo indipendente, come quello anarchico del XIX secolo, non si è mai visto: i terroristi sono sempre stati usati dal regime sovietico e dai suoi alleati arabi per colpire l'Europa e Israele. Le Brigate Rosse e la RAF erano veri e propri corpi militari addestrati dai Sovietici per colpire duro alle spalle delle linee italiane e tedesche. I terroristi dell'OLP erano guerriglieri addestrati dalla Siria e dall'Egitto per colpire duro alle spalle delle linee israeliane. Si tratta di veri corpi militari, militarmente addestrati a infiltrare le linee del nemico per scompaginarne la società e l'economia, in modo da preparare la strada a un'invasione diretta o indurre il nemico direttamente alla resa o alla benevola trattativa.
Anche alle spalle del terrorismo islamico post-Guerra Fredda, si trovano interessi ideologici di Stati arabi che, non disponendo di una forza militare sufficiente a rendere credibile una loro minaccia diretta, usano l'arma intelligente del terrorismo per colpire segretamente il nemico. Gli Stati islamici hanno tutto l'interesse a vedere l'Occidente in crisi. La logica dell'integralismo islamico vede le società occidentali, allo stesso tempo come perverse e potenti. L'Islamico intransigente condanna la base individualista della società occidentale, considerandola immorale e disgregante, condanna il “materialismo” occidentale, il capitalismo occidentale, la libertà degli occidentali. Vede nella crescita della potenza economica e militare occidentali un cattivissimo, insopportabile, esempio negativo per i fedeli, oltre a un'opposizione troppo forte alla tendenza espansionista e universalista dell'Islam e delle sue istituzioni politiche: religione e politica sono fuse nella visione islamica. Per questo gli Stati che si rifanno direttamente all'ideologia dell'Islam radicale (sia nella sua variante sunnita, sia in quella sciita), come il Sudan, l'Arabia Saudita, lo Yemen, l'Iran e il Pakistan o gli Stati arabi ex socialisti che usano l'Islam come nuovo collante per le loro masse inquiete, come l'Egitto, l'Autorità Palestinese, la Siria (e la sua colonia libanese) e l'Iraq, sono subdolamente nemici dell'Occidente, nel senso che mantengono i loro ordinari buoni rapporti con Stati Uniti e Unione Europea (tranne l'Iraq, per ovvi motivi), ma nello stesso tempo finanziano l'espansione dell'integralismo islamico più intransigente e usano l'arma del terrorismo per colpire direttamente le società occidentali. Altri, come la Libia, si trovano a non essere dalla parte del terrorismo islamico (che li destabilizzerebbe), ma nemmeno da quella degli occidentali bersaglio dei terroristi. Il problema del terrorismo, dunque, non è un problema di terroristi, ma soprattutto un problema di Stati che li formano, li finanziano e a volte danno loro direttamente ordini. Che differenza c'è fra un terrorista addestrato in Sudan, armato con i soldi dell'Arabia Saudita e inviato a farsi saltare in aria in piena New York e un missile intercontinentale arabo, installato in una base in Sudan e da lì lanciato su New York? Nessuna. Solo che un missile è un oggetto di cui si identifica meglio la provenienza. L'uso di un terrorista permette ugualmente di lanciare il sasso, ma di nascondere meglio la mano. Ma sempre guerra resta: la sostanza non muta. Il problema del terrorismo, dunque, non si può risolvere cercando inutilmente di fermare tutti gli attacchi terroristici sul proprio territorio (sarebbe come fermare dei microbi con una rete per farfalle, per di più costosa), né smantellando le reti dei terroristi in sé. Il problema del terrorismo si può risolvere solo colpendo chi arma i terroristi, risolvendo il problema alla radice. Adesso il vero nemico non è Al Qaeda: il vero nemico sono gli Stati islamici che hanno creato Al Qaeda per combatterci. E' su di essi che devono concentrarsi le indagini e i monitoraggi dei servizi segreti occidentali, è di essi che si devono scoprire le responsabilità e la rappresaglia militare deve essere condotta contro quelli di essi di cui è stato provato il coinvolgimento.
La risposta appropriata al terrorismo internazionale, al di là del caso specifico, è dunque quella di colpire militarmente il terrorismo in casa sua, direttamente alla sua fonte. La risposta può andare dalla mera distruzione delle basi terroristiche presenti in un territorio ospitante, al rovesciamento completo del regime che le ospita. La modalità dell'intervento militare dipende dal grado di coinvolgimento del regime ospitante i terroristi: un'azione contro singole basi terroristiche è utile solo in situazioni di governo disgregato (come nel caso della Somalia) o di regime solo parzialmente collaborazionista con i terroristi (come nel caso, ad esempio, del Pakistan) e in questo caso serve a far rigare dritto quelle parti del paese o del regime che non auspicano la collaborazione con i terroristi. Nel caso il regime sia interamente collaborazionista (come nel caso del Sudan, della Siria, dell'Iraq, dell'Iran e dei talebani in Afghanistan), è il regime stesso che deve essere rovesciato militarmente per risolvere il problema. Un esempio di intervento inadeguato è il caso dell'intervento aereo americano in Sudan nel 1998, in seguito agli attentati terroristici nell'Africa Orientale: in quel caso si doveva procedere con le operazioni militari fino al rovesciamento del regime sudanese e non limitarsi a un inutile bombardamento su bersagli sbagliati. Un esempio di intervento adeguato, invece, è il massiccio intervento americano in Afghanistan che, nei mesi scorsi, ha portato all'abbattimento del regime talebano. Si spera che quel regime sia solo la prima vittima di una nuova politica antiterroristica americana.
L'obiezione più frequente a questa politica antiterroristica è la condanna dell'ingerenza nel territorio “sovrano” degli Stati che ospitano le basi terroristiche. Un regime che addestra sul proprio suolo dei terroristi che poi andranno a colpire obiettivi in Israele, in Europa o negli Stati Uniti, è un regime che ha di fatto dichiarato guerra a Israele, all'Europa o agli Stati Uniti. Come sostenuto sopra, non c'è alcuna differenza fra il mantenere basi di terroristi anti-americani sul proprio territorio o il mantenere basi per missili a lungo raggio puntati sull'America e l'uso di un terrorista equivale all'uso di un missile a lungo raggio. E' un atto di guerra e come tale merita una risposta militare. Può forse sembrare esagerato, a un'opinione pubblica edulcorata europea, rovesciare militarmente un regime complice dei terroristi, ma ricordiamoci che mezzo secolo fa, per fermare definitivamente il lancio delle V-1 e delle V-2, i bombardamenti, la guerra di corsa sottomarina e le continue aggressioni, non sono bastati i bombardamenti sulle basi militari tedesche, ma si è dovuta invadere la Germania e rovesciare il nazismo. Uno Stato ha diritto di difendersi da un regime che si dichiara ideologicamente suo nemico e per fare questo a volte deve liberarsi dello stesso regime nemico. La campagna contro il terrorismo, benché riscuota la popolarità di larga parte dell'opinione pubblica (l'88% degli Italiani era favorevole all'intervento americano in Afghanistan) non viene percepita in tutta la sua profondità. Non si percepisce il dato di fatto che l'Islam può anche essere, oltre che una religione, un'ideologia totalitaria, capace di edificare Stati totalitari e armarne la mano. E che questa nuova ideologia totalitaria ci ha esplicitamente dichiarato guerra e vuole la nostra distruzione, a partire dalla nostra disgregazione sociale e dal nostro collasso economico. Per cui si stenta a percepire che il nemico non è solo e non è tanto Al Qaeda e il suo leader Bin Laden, né il regime talebano del pittoresco mullah Omar. Il nemico vero si veste all'occidentale ed è al Cairo, a Rijad, a Damasco, a Baghdad e a Teheran. Si vede poco, si mostra nostro amico, ma arma la mano dei nostri nemici e ce li scaglia contro. Questo si deve capire per sostenere veramente la guerra al terrorismo: il problema sono i regimi islamici, soprattutto quelli più potenti, che sono alla radice del terrorismo. Il problema potrà essere risolto solo a partire dal loro rovesciamento. Il come e il quando del loro rovesciamento (chiaramente rovesciare il regime iraniano o, peggio, quello siriano, non è un'operazione facile e diplomaticamente sicura come la guerra in Afghanistan) deve essere deciso sul piano meramente strategico: l'importante è sapere che quello deve essere l'obiettivo finale.

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CAMPAGNA PER LA DIFESA DI ISRAELE

Nell'ambito della lotta al terrorismo, acquista molta importanza un'altra battaglia storica del movimento oggettivista: la difesa dello Stato di Israele dall'aggressione araba. Non è solo una questione di difendere una nazione di sei milioni e mezzo di abitanti dal suo prevedibile annientamento fisico totale, inevitabile in caso di vittoria araba. Si tratta di salvare l'unico esemplare di società mediorientale in cui i diritti individuali sono riconosciuti dallo Stato; l'unica spina nel fianco a dittature arabe socialiste o islamiche, monarchiche o militari; l'unico esempio di economia di mercato in mezzo a economie pianificate e, come tale, l'unica possibilità di esempio di sviluppo capitalista per le popolazioni arabe confinanti, sottomesse ai loro regimi. Se non si vuole perdere del tutto il Medio Oriente alla barbarie e all'oppressione dei regimi arabi, Israele deve almeno sopravvivere. Dopo aver tentato per quattro volte di invadere e annientare fisicamente lo Stato di Israele, oggi gli Stati arabi, temendo una rappresaglia nucleare, aggrediscono Israele in un altro modo: auspicando, con il consenso dell'opinione pubblica mondiale, la nascita di uno Stato palestinese al suo interno. E' da notare, prima di tutto, che la Palestina e i Palestinesi non esistono e non sono mai esistiti. La “Palestina” è stata creata artificialmente nel 1964. O meglio: nel 1964, prima che ci fossero “territori occupati”, è nata l'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e poi da lì è nata la leggenda dell'esistenza di un “popolo palestinese”. L'OLP non era che un'organizzazione di guerriglia creata e armata dal regime militare egiziano di Nasser con lo scopo di combattere una guerra segreta contro Israele con i metodi della guerriglia. In seguito l'organizzazione è stata penetrata dal Fatah, gestita dal regime militare siriano, che poi ne ha preso il controllo. L'obiettivo dell'OLP era semplice e semplicemente illegittimo: aiutare l'Egitto e la Siria a cancellare Israele dalle carte geografiche. Niente di più e niente di meno. E non è mai cambiato. Sono mutati gli interessi di chi usava l'OLP come pedina: l'Egitto si è gradualmente ritirato dal gioco, i Sovietici vi sono entrati a partire dal 1968 (armando la fazione dell'FPLP di Habbash e usando direttamente la fazione comunista FDLP) e i Siriani sono diventati i principali gestori. E lo sono tuttora. Quando gli Israeliani, respingendo l'aggressione egiziano-giordano-siriana del 1967, hanno occupato i territori del Giordano, del Golan e di Gaza, l'OLP ha costituito (imponendosi alla popolazione locale) un governo ombra degli stessi. I territori occupati sono sempre stati pezzi di Egitto, Giordania e Siria, dal 1967 amministrati ufficialmente da Israele, ma di fatto dall'OLP. Non esiste e non è mai esistita una “Palestina” occupata militarmente. La “Palestina” non è che una delle tante pedine della guerra combattuta dagli Arabi per cancellare Israele. La difesa di Israele è una difesa dei nostri stessi interessi fondamentali di Europei. L'obiettivo dei regimi arabi, soprattutto di quelli più radicali, è quello di cancellare Israele per meglio combattere l'Occidente. Nel linguaggio del radicalismo arabo, è da notare, Israele è il Piccolo Satana, mentre il Grande Satana sono gli Stati Uniti. Ed è anche da notare che il linguaggio del radicalismo islamico è replicato, dal poco al tanto, da tutti i media locali. La creazione dello Stato Palestinese difficilmente può accontentare gli appetiti islamici: quello non sarebbe che un cuneo conficcato nel cuore stesso di Israele, ma non costituirebbe la fine stessa di Israele, cosa a cui aspirano. Per cui è molto più probabile che la creazione di uno Stato palestinese, internazionalmente riconosciuto, non sia un buon modo per placare gli animi islamici, bensì un incoraggiamento a continuare più in profondità la loro guerra prima contro Israele e poi contro l'Occidente stesso. Già chiamano l'Europa “terreno di guerra”. Condurre una campagna in difesa di Israele significa rovesciare interamente il paradigma dominante in Italia, in base al quale Israele è l'aggressore e la Palestina è un territorio occupato da liberare. I nostri media parlano in continuazione di “territori occupati” da Israele e continuano a farci subire immagini di bambini arabi che tirano sassi contro carri armati israeliani, mentre nascondono le immagini di cittadini israeliani bersagliati continuamente dai cecchini arabi o gli effetti devastanti di attentati quotidiani nelle città israeliani. Occorre far vedere prima di tutto quanto gli Israeliani subiscano da questa guerra, far capire che essi sono le vittime e non i carnefici di un'aggressione che si prolunga ai loro danni da mezzo secolo. E non ci si deve mai stancare di ripetere quale abissale differenza ci sia fra il vivere in una società libera come quella israeliana, piuttosto che sotto una dittatura come quella che Arafat ha instaurato militarmente nei territori che ha “liberato” di Gaza e della Cisgiordania. Anche per gli Arabi che vivono in Israele è meglio continuare a vivere in Israele, dato che i loro diritti di individui vivi e liberi sono molto più rispettati. Solo una forte mobilitazione dell'opinione pubblica in difesa di Israele, contro la nascita di un finto Stato palestinese, nato apposta per aggredire il vicino, può forse indurre una politica estera come quella italiana (tradizionalmente vicina agli Arabi, sia per gli interessi delle nostre burocrazie economiche parastatali, sia per l'antisemitismo cattolico del Vaticano e di buona parte delle nostre forze politiche) ad essere un po' più vicina agli interessi di Israele, che sono anche i nostri interessi fondamentali di difesa.

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Libertà Oggettiva
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